Mario Campanino
Forma e percezione: alcune note sulla fruizione musicale
Conference «Understanding and Creating Music» November, 21-25 200, Università degli Studi di Napoli.
Nel corso del XX secolo la musica occidentale ha spesso percorso, in modo più o meno dichiarato, la strada della sperimentazione. La ricerca sui nuovi linguaggi, però, si è talvolta scontrata, nell’incontro col pubblico, con una sorta di indifferenza o disprezzo, con frequenti espressioni di denuncia delle difficoltà che la nuova musica imponeva all’ascolto. Se da un lato alcune scuole di pensiero hanno accusato di disimpegno il pubblico, ci si può chiedere anche quanto i compositori stessi abbiano spesso, nell’impeto £rivoluzionario» con cui volevano travolgere il linguaggio tonale, dimenticato alcune semplici £regole» legate alla fruizione musicale e a tutte quelle attività di appropriazione del mondo esterno in cui entrano in gioco le caratteristiche della percezione, della conoscenza e della memoria umane. [1]Quando ci si pone all’ascolto di un brano musicale si possono adottare, genericamente, due modelli di approccio estetico (percettivo) diversi. Il primo riguarda l’ascolto del suono in sé ed è un atteggiamento che potremmo anche definire orientale, contemplativo. In questo modo di disporsi all’ascolto non sono le relazioni formali tra gli elementi sonori (relazioni che si determinano nel tempo) ad interessare maggiormente: la musica è ascoltata istante per istante, essa stessa diventa il tempo che, in un certo senso, cessa di scorrere. È un approccio che vorrei chiamare della musica che è. [2] Il secondo modello di approccio estetico riguarda invece, in particolar modo, la costruzione musicale, e rappresenta un atteggiamento più tipicamente occidentale nei confronti della fruizione della musica. In questo tipo di approccio sono proprio le relazioni formali tra gli elementi sonori ad essere oggetto di grande attenzione: in questo senso la musica si manifesta nel tempo. È un approccio che vorrei chiamare della musica che diventa. 3]
Nel corso di questo breve scritto vorrei esporre alcune personali riflessioni [4]riguardanti la percezione e la fruizione della musica, precisamente riguardo a quella che ho chiamato musica che diventa, maggiormente legata alla cultura alla quale tutti noi uomini occidentali, volenti o nolenti, facciamo riferimento. La necessità di queste riflessioni deriva, a mio avviso, dal fatto che la musica d’oggi, tutta la musica d’oggi, non può fare a meno di inserirsi in questo contesto mentale (contesto che potremmo meglio definire culturale, storico, ecc., ma si condensa sempre in un qualcosa che risiede nella nostra mente). La musica, nel momento in cui si manifesta, deve dunque sempre affrontare un problema di fruizione, se vuole rispettare il proprio statuto di oggetto destinato comunque a farsi accogliere da alcune menti. Vi è la possibilità, per il musicista compositore, di superare questo problema producendo oggetti sonori determinati da un intento di pura sperimentazione, e conservare questi oggetti sonori per sé solo, ma poi lo stesso musicista dovrebbe essere così intellettualmente onesto da non confondere i risultati delle sperimentazioni con la produzione artistica vera e propria perché forse - me lo sto chiedendo - sono due cose diverse. Così, dunque, tutta la musica che vuole essere qualcosa di diverso da un puro esperimento, deve porsi il problema dell’atto della fruizione ad essa legato, e questo è un problema di poetica, un problema dell’artista creatore.
A partire da questa premessa vorrei tentare di delineare quelle «regole» della fruizione musicale che determinano la difficoltà di ascolto di un brano musicale: nelle riflessioni su questo tema entrano in gioco i concetti di forma, struttura, morfologia e sintassi musicali, ma innanzi tutto quel che va considerato è l’atto della percezione. A questo proposito una prima distinzione va fatta tra percezione del suono e percezione della musica. La percezione del suono interessa principalmente, per sua propria natura, l’orecchio e il cervello. La percezione della musica, potremmo dire, presuppone la percezione del suono e comporta l’attivazione di tutta una serie di processi cognitivi che hanno come oggetto il materiale sonoro ascoltato. La percezione della musica in un certo senso, dunque, non sta nell’orecchio: qualche volta può anche farne a meno (è il caso del musicista che legge una partitura). [5]
Cosa sentiamo, dunque, quando ascoltiamo musica? Un flusso sonoro, un continuum sonoro. Questo continuum è articolato (non è sempre uguale!), ha una propria struttura e una propria forma, e la sua percezione è fortemente condizionata, lo abbiamo visto, dalla nostra capacità di stabilire al suo interno delle relazioni, nel tempo, tra diversi frammenti sonori. Queste relazioni si basano su alcuni criteri fondamentali che tenterò, di seguito, di delineare.
In primo luogo mi sembra inevitabile riconoscere l’importanza del fatto che, nell’atto della fruizione dell’opera musicale, si determinino quelle condizioni che rendono possibile la conoscibilità e riconoscibilità di qualcosa. Perché ciò accada è necessario che, all’interno del flusso sonoro, sia presente un frammento sonoro che si impone alla percezione - e quindi alla conoscenza - come un oggetto dotato di caratteristiche sue proprie, dotato, dunque di una individualità. Non appena la memoria si impossessa di questo oggetto diventa anche possibile riconoscerlo. Questo oggetto può pure consistere, in senso ampio, in una determinata «situazione» musicale, una particolare configurazione del tessuto sonoro che lo renda distinguibile dal totale del continuum.
La conoscibilità è legata strettamente con la differenziazione. Se il tessuto sonoro è troppo omogeneo, indifferenziato, non si ha la possibilità di distinguere alcun oggetto, alcuna situazione musicale. Ciò equivale a trovarsi dinanzi ad un flusso ininterrotto di segni che si confondono e si annullano reciprocamente, e nessuno dei quali risulta dotato così di un proprio potere informativo.
Da queste prime indicazioni mi sembra si possa intuire come l’atto del conoscere comporti un faticoso lavoro intellettivo. L’atto del riconoscere, invece, procura un senso di godimento, di piacere intellettivo (che potrebbe essere espresso con affermazioni come: "non ho ascoltato inutilmente", "qualcosa rimane e ritorna", "il cerchio si chiude"), di riposo ("non devo più sforzarmi di capire quali siano i protagonisti di questa storia - lavoro faticoso - ma solo riconoscerli quando compaiono"). Pensiamo a quanto sia diffusa, in musica, la pratica della ripetizione. Essa rappresenta probabilmente la via più agevole per offrire all’ascoltatore il piacere del riconoscere, perché presuppone la vicinanza temporale tra l’elemento da conoscere e quello sul quale si esercita l’azione di riconoscimento (si noti che stiamo parlando qui dello stesso elemento ripetuto due volte, sul quale si esercitano però due operazioni cognitive diverse).
Pensiamo ancora, in questo senso, a quanto sia importante per tanta musica occidentale la nozione di tema, [6] nozione estremamente affascinante e non così facile da spiegare. Innanzi tutto il tema consiste generalmente di un frammento sonoro dotato di forte individualità nel contesto generale della composizione e del continuo sonoro. Esso però, in una stessa composizione, non è sempre uguale a se stesso (pensiamo, tanto per fare un esempio esplicito, all’inizio della Quinta Sinfonia di Beethoven). Inoltre il tema può trovarsi in punti diversi di una stessa composizione, essere sempre riconoscibile ma non «appiattire» il profilo formale di un brano. Se si considera, ad esempio, l’utilizzo e la reiterazione dei temi dell’esposizione che c’è spesso negli sviluppi delle forme sonata, si può notare come essi rimandino sempre a se stessi ma non uniformino, non annullino il differente valore strutturale dei vari punti della composizione (della forma) in cui si trovano.
Vorrei evidenziare un’altra funzione importantissima del tema. Tutti possiamo facilmente riscontrare come spesso (prendiamo ancora ad esempio la forma sonata) il tema si trovi ripetuto molte volte, anche in maniera molto ravvicinata, quasi ossessiva, nel corso degli sviluppi (quindi nella parte centrale della forma). Ci si potrebbe chiedere perché i compositori abbiano spesso scelto questa soluzione compositiva, e soprattutto perché uno sviluppo in cui il tema è ripetuto, variato, girato e rigirato molte volte, alla fine «funzioni» (intendo dire funzioni alla percezione, alla fruizione). Questo - a mio avviso - si spiega considerando che lo sviluppo è generalmente, in una forma sonata, il momento di maggiore elaborazione dell’armonia, in cui si trovano progressioni a volte anche forzate, determinate da un «estro armonico» che a volte, anche nel caso di compositori di fama, diventa per l’ascoltatore una specie di «tortura» armonica. E come si potrebbe sopportare questa tortura armonica se non fosse accompagnata dalla presenza costante e, in un certo senso, tranquillizzante del conosciutissimo tema? Il tema, in questo caso, funge da elemento stabile e mette a proprio agio l’ascoltatore in balìa del mare agitato dello sviluppo. In un contesto armonico molto complesso da seguire, il tema è un elemento melodico semplice che chiede solo di essere riconosciuto (abbiamo già visto come il riconoscimento sia un lavoro agevole). Si ha quindi una complessità armonica bilanciata da una semplicità melodica: è applicato in questo caso un criterio di compensazione. È un po’ come se il compositore proponesse all’ascoltatore uno sforzo in più ma nello stesso tempo gli spianasse la strada per affrontarlo (come mettere lo zucchero nella medicina...).
Un fattore molto importante, in questo senso, è la durata di un brano o di un episodio musicale. Si può supporre che l’ascoltatore non sia disposto a sottoporsi alla «tortura» armonica di uno sviluppo per più di un certo tempo. Passato questo tempo avvertirà il bisogno di approdare da qualche parte. Ed è proprio quello che succede nella forma sonata: dopo lo sviluppo c’è una ripresa dei temi iniziali (che richiede un semplice lavoro di riconoscimento). Anche in questo caso si è in presenza di un meccanismo di compensazione. Nell’epoca in cui l’elaborazione di questi sviluppi divenne sempre più lunga e elaborata (seconda metà dell’ottocento), la forma sonata fu oggetto di un vero processo di trasformazione. Con l’accrescersi della durata dei movimenti la forma stessa risultava sempre più sfilacciata e aumentavano le difficoltà nel seguirla e comprenderla. Che fare? O tornare indietro, verso un grado di elaborazione tematica e armonica inferiore, o introdurre nuovi nessi strutturali che aiutassero la forma sonata a sostenersi. Per questo motivo, tra l’altro, molti compositori imboccarono la strada della musica a programma. In Liszt, ad esempio, spesso la forma sonata è intrecciata con un programma (una trama) letteraria che contribuisce a «puntellarne» gli elementi.
La musica che diventa ha sempre bisogno di questi sostegni quando supera un certo peso. Consideriamo le opere di Johann Sebastian Bach. Sappiamo, ad esempio, che le fughe del Clavicembalo ben temperato rappresentano uno dei punti di massima elaborazione della sintassi musicale sia dal punto di vista del contrappunto tematico sia da quello del concatenamento e dello sviluppo delle armonie. Da cosa è compensata questa complessità? Dalla durata ridotta dei brani. Molte grandi opere di Bach sono sviluppate su un numero preciso di brevi brani musicali (penso alle Passioni, o alle grandi opere di sintassi: l’Offerta musicale, le Variazioni Goldberg, l’Arte della fuga). In fondo, in altro senso, la pratica di suddividere un’opera in tanti brani di dimensioni ridotte non è altro che un modo di garantire la differenziazione all’interno del continuo globale. Diciamo che un compositore possa rendersi conto che il materiale musicale che sta utilizzando (mi riferisco qui ai livelli della morfologia e della sintassi musicali, quindi alla microstruttura del tessuto sonoro) necessita di un difficile lavoro conoscitivo da parte dell’ascoltatore. Il compositore sa che, in caso di fallimento di questo lavoro conoscitivo, quel che sta componendo rischia di essere percepito come un tutto indifferenziato. A questo punto decide di marcare e definire i confini tra le situazioni musicali che ritiene debbano essere percepite come distinte. Quindi, ad esempio nel caso di Bach, è presente un meccanismo di compensazione tra la microstruttura del tessuto musicale (morfologia e sintassi estremamente elaborate) e la macrostruttura del brano, la forma. La forma è semplice, ed è breve. Lo stesso criterio di complessità si ritrova portato alle estreme conseguenze nella musica di Anton Webern. Webern spinse al massimo (almeno in riferimento al periodo storico in cui viveva) l’applicazione della serie dodecafonica di Schönberg. Le regole della morfologia e della sintassi in Webern sono così complesse da risultare inafferrabili. Ma la forma, per compensazione, subisce un processo di implosione: i brani durano pochi minuti, in qualche caso meno di un minuto. In un certo senso essa si condensa nel momento musicale stesso, momento brevissimo; la macrostruttura si identifica con la microstruttura e non è più necessario un grande lavoro della memoria per afferrarla: è tutta lì, come in un quadro.
Più sopra ho accennato alla semplificazione fruitiva derivante dal segmentare in brevi brani un’opera di grosse dimensioni. Ma cosa sono le interruzioni tra i brani (il silenzio, gli spazi bianchi) se non segnali di cambiamento di direzione? In questo caso il segnale è: fine di qualcosa-inizio di qualcos’altro. Molta musica possiede evidenti segnali di inizio e fine (si pensi all’inizio della Terza Sinfonia di Beethoven o agli accordi reiterati che segnano i finali di molte opere), ma si trovano spesso anche segnali intermedi, all’interno del continuo sonoro, pensati per avvisare l’ascoltatore che qualcosa sta cambiando (per aiutarlo dunque, nei suoi processi di conoscenza-riconoscimento dei vari elementi dell’opera favorendo una percezione differenziata del continuo).[7]È significativo notare, inoltre, che la necessità dei segnali interni di un brano è divenuta pressante ed è stata affrontata in modo consapevole dai compositori proprio nel momento in cui le forme musicali tradizionali stavano per essere superate. Anche qui si ritrova un criterio di compensazione: il compositore che sceglie di proporre una forma desueta la correda di segnali di direzione per facilitarne la fruizione.
Tutti i criteri elencati sin qui (conoscibilità-riconoscibilità, differenziazione, ripetizione, tema, durata, segnale) sono criteri che rendono possibile, in definitiva, la ricostruzione, a livello cognitivo, del senso formale di un brano. Ogni brano musicale, anche una composizione nata come mero esercizio formale, è in qualche modo descrivibile come una storia fatta di entrate in scena di soggetti (i temi?), incontri, sviluppi, conflitti, risoluzioni, nascite di nuovi individui. Ogni brano ha una propria trama che potremmo dire formale ma anche «narrativa».
Il problema di tutta la musica - e in particolare della musica legata a determinate tecniche compositive, come la musica seriale o quella algoritmica - è passare dalla struttura (organizzazione) alla forma (composizione). Per quanto le strutture, infatti, possano essere estremamente seducenti per la mente speculativa, è sempre necessario riflettere su quanto delle strutture di un brano (mi riferisco sia ai livelli microstrutturali sia a quelli macrostrutturali) passi alla mente (attraverso la percezione) dell’ascoltatore (anche a livello semiconscio). Per meglio precisare, in certi casi potrebbe non essere importante che le strutture reggenti determinati livelli microstrutturali siano percettibili e conoscibili, ma allora diventerà indispensabile introdurre altri elementi che permettano di «disegnare» l’articolazione formale del brano (ricordo che stiamo parlando qui della musica che diventa, e qualcosa che diventa deve necessariamente passare attraverso stadi successivi del proprio divenire: quindi, non può essere che articolato). Da quanto appena affermato spero si evinca con chiarezza un concetto: non sto affermando che perché un brano risulti facilmente fruibile e conoscibile sia necessario sentire e capire tutto quel che c’è dentro. Non è indispensabile sentire tutto, ma qualcosa bisogna pure che sia percettibile e comprensibile! E se si vuole passare dalla sperimentazione (dalla ricerca) alla creazione di opere d’arte, bisogna riuscire a governare questo rapporto tra ciò che si sente e ciò che non si sente. [8]Questo rapporto dovrà essere confrontato con il contesto mentale (in senso generale ma anche personale: intendo dire, della soggettività di cui ciascun ascoltatore è dotato) a cui ci si rivolge: su questi elementi (rapporto tra udibile e non udibile, contesto mentale) dovranno poi essere calibrati i propri obiettivi di creatori, di compositori. [9]La musica non è mai per tutti, ma può essere per molti o per pochi. I compositori che fanno sperimentazione, e dunque scelgono di fare musica per pochi, non si possono poi lamentare se un basso numero di ascoltatori frequenta i loro concerti.
Potrebbe sembrare, forse, che - rispetto alle grandi teorie dell’organizzazione dei suoni, come la serialità integrale o la musica algoritmica - le argomentazioni sin qui presentate siano relative a dei «poveri» criteri, a delle scappatoie, a dei «mezzucci» che il compositore in crisi di astinenza di pubblico potrebbe adottare per farsi finalmente ascoltare, per scrivere musica che piaccia di più. Cose poco nobili: il compositore che ha paura di mettere troppo contenuto nella composizione (e ha paura di stancare) piazza lì una ripetizione e in questo modo strizza l’occhio all’ascoltatore. Certo, compositori di questo tipo ce ne saranno stati in tutte le epoche. Vorrei concludere queste riflessioni citando un compositore che non ha avuto timori di dichiarare apertamente di aver giocato d’astuzia col pubblico, utilizzando le alternanze o le sovrapposizioni di facile e difficile, di udibile e non udibile di cui si è qui parlato abbondantemente. La dichiarazione fa riferimento ad alcuni concerti per pianoforte e orchestra ed è tratta da una lettera del 1782:
I concerti sono a metà strada tra l’essere troppo facili e troppo difficili. Sono molto brillanti, piacevoli all’orecchio, naturali senza essere troppo vaghi. Ci sono passaggi da cui solo i conoscitori trarranno soddisfazione, ma in modo che i non conoscitori resteranno contenti senza sapere il perché. [10]
mario@campanino.it
Note[1] Tali "regole", come si vedrà meglio più avanti, non sembrano legate a particolari generi musicali e, in un certo senso, riguardano anche altri ambiti dell’esperienza creativa e percettiva umana (che qui è considerata limitatamente al contesto occidentale), come l’architettura e la poesia.
[2] Molta musica occidentale del Novecento si è ispirata a questa concezione, più propria delle culture orientali, della musica che è. Ci si potrebbe chiedere per quali motivi ciò sia accaduto e con quali risultati. Noi occidentali siamo capaci di porci in atteggiamento contemplativo nei confronti della musica? Perché è stata avvertita la necessità di tendere ad un comportamento così lontano dalla nostra cultura originale? Si tendeva forse a superare (forse rinunciando a tentare di risolverla) una crisi dei linguaggi artistici nella nostra cultura?
[3] Naturalmente i due tipi di approccio qui descritti (che riguardano sia l’ambito della creazione che quello della percezione dell’opera) sono spesso compresenti in una stesso brano o in parti di esso. Anche in una sinfonia occidentale si possono trovare momenti che sollecitano una pura "contemplazione" del suono e magari preludono a imponenti costruzioni di musica che diventa. È il caso, a mio avviso, dell’inizio della Prima Sinfonia di Gustav Mahler.
[4] Argomenti molto simili a quelli qui esposti si trovano in Dahlhaus, Carl, Analisi musicale e giudizio estetico, Il Mulino, Bologna, 1987 (ed. or. Analyse und Werturteil, B. Schott’s Söhne, Mainz, 1970). Nel suo lavoro Dahlhaus, pur affrontando quegli aspetti della discussione sulla forma musicale che sono trattati anche nel presente scritto, adotta una prospettiva di riflessione del tutto diversa non senza passare - a mio avviso - attraverso una serie di affermazioni non del tutto condivisibili (si veda la nota n. 9).
[5] In questo caso, forse, non si può parlare propriamente di percezione, ma di un qualcosa che comunque vi si avvicina molto.
[6] Per approfondire la nozione di tema si vedano Pierre Boulez, La notion de théme et son évolution e Athématisme, identité et variation, in Jalons. (Pour une décennie), a cura di Jean-Jacques Nattiez, con una prefazione postuma di Michel Foucault, Paris, Christian Bourgois Editeur, 1989.
[7] Mi piace scegliere, tra i mille esempi che si potrebbero proporre, i quattro colpi di timpani e grancassa che segnalano, nel secondo quadro della Sagra della primavera di Stravinskij, l’ingresso dei nuovi temi e "spaccano" così in due il brano.
[8] Sarebbe poi possibile e auspicabile sentire tutto? Non sarebbe forse troppo? Personalmente mi è spesso capitato, per vari motivi, di prestare attenzione particolare a qualche aspetto di una composizione (ad esempio l’armonia) e accorgermi, a un certo punto, di non aver colto il passaggio ad una sezione formale successiva del brano, o di non aver notato la comparsa di un nuovo tema. Si potrebbe supporre che ogni ascoltatore faccia sempre una scelta, più o meno consapevole, su cosa ascoltare in una composizione, nell’impossibilità di sentire tutto e per evitare il pericolo di perdersi.
[9] Di parere diverso è Dahlhaus, nel lavoro sopra citato, quando tratta della "recezione" della musica. Egli scrive: "l’opinione che la struttura di un’opera debba esser percepita consapevolmente per risultare efficace è un pregiudizio che può produrre errori se non viene ricondotto a limiti precisi. A livello semiconscio si possono recepire efficacemente non solo elementi emotivi, ma anche logici." Su questo si può essere d’accordo, ma non sull’esempio prodotto nel seguito del ragionamento: "nella musica dodecafonica l’ascoltatore può ben avvertire la densità dei collegamenti anche senza acquisire piena consapevolezza del sistema delle relazioni. Nessuno è così ottuso da interpretare la musica dodecafonica come improvvisazione, per quanto scabra possa apparirne la superficie: l’impressione di rigore e coerenza s’impone subito, anche senza la conoscenza dei presupposti." (cfr. Dahlhaus, Analisi musicale e giudizio estetico, op. cit., pp. 64-65). Probabilmente Dahlhaus vive in un quartiere di eletti: io potrei presentargli centinaia di persone "così ottuse" da non sentire nella musica dodecafonica che un’accozzaglia scoordinata di suoni. Credo che in queste affermazioni non si tenga conto del fondamentale rapporto che si instaura, all’atto della fruizione, tra il soggetto (l’ascoltatore) e l’oggetto (il brano musicale) in esso implicati. Illuminante, a questo proposito, mi sembra il seguente pensiero di Hindemith: "La musica, sotto qualsivoglia suono o struttura si presenti, non è altro che rumore senza significato finché non raggiunge una mente capace a riceverla." (citato in Ottó Károlyi, La grammatica della musica, Einaudi, Torino, 1969, p. 201). Ancora più azzardate, però, mi sembrano le parole scritte da Dahlhaus poco dopo: "La divergenza fra una prassi compositiva i cui risultati restano incomprensibili senza una lettura analitica della partitura e un pubblico composto in parte notevole di analfabeti musicali (...) è certo profonda, ma non implica, o almeno non implica necessariamente, l’impossibilità di un punto d’incontro. La musica, a differenza della lingua, può essere efficace anche senza venir compresa. (La categoria della "comprensione" non è del resto scevra di problemi in sede di estetica musicale.)" (cfr. Dahlhaus, Analisi musicale e giudizio estetico, op. cit., p. 65, mio il corsivo). Quanto appena riportato non ha senso se prima non si definiscono i termini di "efficacia" e "comprensione" della musica. Cos’è l’efficacia a cui Dahlhaus fa riferimento? E riguardo poi alla "comprensione": cosa vuol dire "comprendere" la musica? La precisazione cautelativa posta tra parentesi al termine del pensiero appena riportato non basta - a mio avviso - ad evitare una pesante critica a questi pensieri per la loro genericità e mancanza di rigore scientifico: ritengo, infatti, che proprio la precisazione dei problemi legati alla categoria della comprensione - ai quali si è cercato in questo scritto di fornire una embrionale, se pure umile, risposta - contraddice pesantemente la tesi di Dahlhaus.
[10] L’autore della lettera è Wolfgang Amadeus Mozart, destinatario è il padre Leopold. Si noti come l’accorto Wolfgang accenni ai "conoscitori" e ai "non conoscitori" della musica, dimostrando la grande importanza da lui attribuita a quel rapporto tra oggetto artistico e soggetto fruitore a cui si è accennato più volte nel corso di questo intervento.