Marcello Walter Bruno
IL DOPPIO LEGAME AUDIOVISIVO
Linguaggi analogici e passioni digitali


Ancora non avete sentito niente!
(Il cantante di jazz, 1927)


Ricordiamo gli assiomi “sperimentali” della Scuola di Palo Alto
1:
- non si può non comunicare fra esseri umani, visto che la presenza fisica per se stessa genera reazioni emotive (flusso passionale?) aldilà dell’eventuale interazione verbale (scambio dialogico) e che, soprattutto, la naturale socievolezza delle persone implica che l’assenza di interazione negl’incontri (silenzio, indifferenza ecc.) è inevitabilmente interpretata come una forma di rapporto relazionale;
- ogni comunicazione è contemporaneamente una metacomunicazione, nel senso che la funzione referenziale (report) convive con ed è definita dalla funzione conativa (command), che per così dire stabilisce il frame interazionale all’interno del quale il messaggio è codificato appropriatamente;
- la natura di una relazione umana (serie di comunicazioni come sequenza ininterrotta di scambi) dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione, punteggiatura che può essere effettuata differentemente dai comunicanti coinvolti (con possibile inversione dei rapporti causa-effetto nei comportamenti reciproci);
- gli esseri umani comunicano sia con il modulo digitale/numerico (il linguaggio verbale, arbitrario e per ciò stesso logicamente potente) che con quello analogico (non verbale: elementi paralinguistici, posturali, cinesici, di espressione facciale e corporea, legati al contesto concreto), entrambi diversamente inadeguati a tradurre senza ambiguità la natura delle relazioni;
- tutti gli scambi comunicativi (intesi come transazioni sistemiche) riproducono uno dei due modelli di “scismogenesi” (differenziazione) descritti da Gregory Bateson in Naven, o quello “complementare” (feedback negativo = omeostasi) o quello “simmetrico” (feedback positivo = mutamento), fermo restando la possibilità di una metacomplementarietà e di una pseudosimmetria.

In questa teoria, il linguaggio analogico ha una semantica (che è quella inconscia delle passioni) ma non ha una morfologia né una sintassi. Ciò significa che la “numerizzazione” di un messaggio analogico, cioè la verbalizzazione di un comportamento, soggiace al principio della traduzione pro domo sua: sia l’emittente che il ricevente leggono il comportamento come prova a favore della propria idea riguardo la relazione interpersonale – generando dunque conferma, rifiuto o disconferma rispetto alla posizione dell’altro. In particolare, per usare il linguaggio di Bateson, il messaggio analogico è “non-indicativo” e andrebbe considerato come un evento analogo a ciò che nella comunicazione numerica è una proposta o una domanda: tutti i messaggi analogici sono invocazioni di relazione, proposte che riguardano le regole future della relazione. Non esistendo la negazione nel linguaggio analogico, l’unico modo di stabilire un frame di non aggressione è quello di mettere in scena un rituale di fiducia, come fanno gli animali.

L’elemento epistemologicamente più interessante della pragmatica di Palo Alto è che essa si basa sulla teoria dei sistemi aperti: laddove c’è una diade comunicativa, l’interazione ego/alter non dev’essere necessariamente intesa come relazione fra due individui umani, potendo coinvolgere (come nel test di Turing) un’entità semiotica caratterizzata unicamente dalla sua capacità di produzione testuale.

Dunque, nulla vieta di considerare come comunicazione anche quella erroneamente definita “di massa”, in cui un individuo umano interagisce non tanto con un medium tecnologico quanto piuttosto con l’istanza enunciativa che lo pervade e ne irradia. L’interazione fra un sistema psichico e un sistema semiotico-mediatico (inteso come black box) soggiace probabilmente alle leggi previste dalla teoria dei sistemi aperti, anche se sarebbe forse opportuno ipotizzare degli assiomi comunicativi ad hoc.

Primo: è impossibile sottrarsi alla comunicazione di massa. Questo significa che ciascuno di noi impara ad instaurare una certa forma di relazione con i vari media e i relativi messaggi, addivenendo a dei veri e propri “repertori relazionali” (abitudini fruitive, attese spettatoriali, abilità interpretative e quant’altro).

Secondo: la comunicazione di massa non soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento (fosse anche solo il passaggio semiosico da un segno al suo interpretante). Questo è evidente nella distinzione massmediologica fra audience e target, cioè tra il fruitore “reale” (che, per stare al gioco semiotico, deve accettare di recitare il ruolo previsto dal testo che intende fruire) e il fruitore “modello” (che, come ci ha insegnato Umberto Eco, è tale perché è implicitato dalle strategie del testo stesso – ed è dunque costruito dall’istanza enunciativa come funzione conativa del messaggio). La divisione in generi, che nella testualità cinematografica e televisiva è oggetto di codificazioni paratestuali esplicite, è una specifica strategia di metacomunicazione; resta il fatto che anche il singolo testo deve contenere indicatori di genere che facciano scattare il “patto comunicativo” che permette di orientare la fruizione all’interno del frame previsto dall’istanza enunciativa.

Terzo: la natura della relazione mediatica dipende dalla punteggiatura delle sequenze interazionali. I testi audiovisivi diventano sempre più violenti perché la società diventa sempre più violenta, o gl’individui sono profondamente condizionati nelle loro capacità reattive dai ritmi e dai contenuti delle immagini e dei suoni cinematografici, televisivi, videoludici ecc.? Tutti i problemi della sociologia riguardo al tema dei powerful media sono problemi di punteggiatura, cioè di risalita dalla struttura sincronica delle relazioni sistemiche alle interpretazioni diacroniche in termini di causa/effetto.

Quarto: anche la testualità audiovisiva ha un versante numerico ed uno analogico, che però non può essere confuso con quelli inerenti gli esseri umani presentati o rappresentati all’interno dei testi. L’istanza enunciativa che si esprime attraverso il testo audiovisivo, veicolando contenuti e contemporaneamente facendo scattare relazioni emotive e livelli metacomunicativi (segnali d’incorniciamento), esibisce contemporaneamente segni visivi (immagini, scritte) e segni auditivi (parole e fonazioni, rumori e suoni, musiche): possiamo dire che l’audio sta al video – o magari, in modo più specifico, che la musica sta alle immagini – come la comunicazione analogica sta a quella digitale?

Luis Prieto, in una nota della prefazione all’edizione italiana di Messages et signaux, così articola i rapporti fra (da una parte) musica filmica “diegetica” ed “extradiegetica” e (dall’altra parte) “diegesi” ed “extradiegesi”:

Ciò che si chiama «musica» da film può riferirsi in alcuni casi a segnali musicali, e in altri a segnali imitativi di segnali musicali. La distanza cui alludo [la distanza fondamentale fra il segnale imitativo e il suo significato – ndr] esiste sicuramente solo negli ultimi, e dunque può apparire con chiarezza grazie al contrasto di questi con quelli. Quando si tratta di musica di fondo [...] ci troviamo di fronte a veri segnali musicali: essi non fanno parte della storia che i segnali iconici (immagini) e imitativi (dialoghi, rumori, ecc.) del film ci fanno conoscere, ma ‘accompagnano’ questi segnali e si trovano, rispetto ad essi, nello stesso rapporto in cui, nella maggioranza dei casi, si trovano i segnali gestuali rispetto al discorso che accompagnano, cioè [in un rapporto] di ‘parassitismo’. Le cose stanno invece molto diversamente quando la musica fa parte della storia stessa [...]: si tratta in questo caso non di veri segnali musicali, ma di segnali imitativi i cui significati sono segnali musicali che sarebbero stati emessi nella storia. Circa il rapporto in cui questi segnali imitativi si troverebbero rispetto agli altri segnali iconici o imitativi del film, per determinarlo bisognerebbe prima determinare se tutti questi segnali non costituiscano, insieme, un unico segnale «filmico».2

Pur senza utilizzare l’opposizione diegetico/extradiegetico3 per pertinentizzare lo spazio-tempo narrativo rispetto alla distinguibilità fra segnali “imitativi” (mimetici, finzionali) e segnali “veri” (cioè attribuibili all’istanza enunciativa del testo filmico, “esterna” per definizione benché implicitata, e non a personaggi enunciatori all’interno del testo), Prieto pone una domanda essenziale proprio su questo punto: l’insieme dei segnali “imitativi” (immagini di personaggi e ambienti, voci e scritte all’interno dell’universo finzionato, musiche di scena) non è forse un unico segnale filmico da opporre a quell’altro segnale (metafilmico?) costituito dalle marche enunciazionali visive e dal sonoro over? Ecco dunque che i segnali “imitativi” - o, se vogliamo, il “segnale filmico” unico benché multimediale – può essere considerato come il modulo numerico rispetto a cui quello musicale extradiegetico (“di fondo” lo chiama Prieto) rappresenta la metacomunicazione analogica e “parassita” (non semiologicamente simbiotica).

Può sembrare strano che l’immagine e il parlato vengano uniti assieme in una sorta di blocco “digitale” in opposizione alla musica over “analogica”, eppure è proprio questo il fenomeno che Deleuze attribuisce al cinema sonoro, o meglio al talkie:

Cosa succede con il cinema parlato? L’atto di parola non rinvia più alla seconda funzione dell’occhio, non è più letto [come le didascalie nei film muti – ndr], ma udito. Diventa diretto e recupera i tratti distintivi del “discorso” [...] Il cinema non diventa per questa ragione audiovisivo. Diversamente dalla didascalia che era un’immagine differente rispetto all’immagine visiva, il parlato, il sonoro, sono uditi ma come una nuova dimensione dell’immagine visiva, una nuova componente. Anche a questo titolo essi sono immagine.4

Il cinema parlato è una sociologia interazionista, dice Deleuze citando in nota Goffman: siamo evidentemente a un passo dalla pragmatica della comunicazione.

Ma c’è di più:

Il muto operava una ripartizione dell’immagine visibile e della parola leggibile. Ma quando la parola si fa udire, si direbbe che faccia vedere qualcosa di nuovo e che l’immagine visibile, denaturalizzata cominci a diventare leggibile per proprio conto, in quanto visibile o visiva.
[...]
Allora si rivela il capovolgimento che tende a prodursi nel parlato rispetto al muto: al posto di un’immagine vista e di una parola letta, l’atto di parola diventa visibile nello stesso tempo in cui si fa udire ma anche l’immagine visiva diventa leggibile, in quanto tale, in quanto immagine visiva in cui l’atto di parola si inserisce come componente.
5

Ecco dunque serviti tutti i fautori di un iconismo delle immagini da intendersi come una sorta di linguaggio “naturale”, preverbale: se nel cinema muto in generale l’immagine visiva è come naturalizzata, la vera invenzione del sonoro (cioè il parlato) modifica l’immagine visiva, la denaturalizza. L’apparizione della voce rende visibile la differenza fra campo e fuori-campo, fra spazio (in e off) e fuorispazio (over), dunque fra l’enunciazione “imitativa” del personaggio e la “vera” enunciazione testuale, che investe l’immagine quanto il parlato – e forse l’immagine più del parlato, in quanto il punto di vista “oggettivo” non può che essere attribuito all’autore modello. La “leggibilità” dell’immagine di cui parla Deleuze non è altro che la controparte del carattere scritturale della kinematographia; il film, arte narrativa audiovisiva, è formato d’immagini aventi il carattere razionale di un funtivo logico inserito in un concatenamento causale che da alcune premesse porterà ad alcune conclusioni attraverso una serie di trasformazioni. In  questo contesto di report, la funzione empatica/anempatica della musica6 funziona come una forma di command, una comunicazione analogica che metacomunica allo spettatore il modo in cui dovrebbe relazionarsi alle immagini (cioè agli eventi narrati).

Se accettiamo queste premesse – il film ha contemporaneamente un livello comunicativo di “contenuto” (la fabula) ed uno di relazione (le istruzioni “metacomunicative” che forniscono la chiave di lettura ideologica, il frame etico e passionale); nel film la comunicazione “numerica” è affidata a tutti i segni diegetici (sia visivi che auditivi), mentre la comunicazione “analogica” è affidata perlopiù alla musica extradiegetica – possiamo chiederci se anche il film può generare comunicazioni paradossali.

Ricordiamo che per la Scuola di Palo Alto gli elementi che costituiscono il paradosso pragmatico del “doppio legame” (double bind) sono:

- intensità di una relazione (e non è forse intensa, fino ai limiti del cult movie, la relazione fra spettatore e testo audiovisivo?);

- strutturazione del messaggio in base ad una contraddizione fra il contenuto comunicativo e la cornice metacomunicativa (e il cinema moderno non si caratterizza esattamente per la rottura dei “patti di genere”?);

- impossibilità del ricevente di uscire dal paradosso metacomunicando (un po’ come succede agli spettatori del metafilm di Buñuel L’angelo sterminatore, i quali, assistendo all’incapacità dei personaggi di uscire da una casa, ammettono la loro stessa incapacità di uscire dalla sala prima della fine del film).

Certo, è verosimile che il paradosso cinematografico non sia patogeno ma, al contrario, psicoterapeutico: per ottenere la catarsi, l’autore deve “prescrivere il sintomo” instaurando un doppio legame liberatorio. Succede in tutti i film in cui si spezza il patto realistico o rappresentando con esattezza kafkiana situazioni impossibili (si pensi alle ultime opere di David Lynch) oppure alludendo all’indecidibilità ontologica delle immagini e del mondo (da eXistenZ a Matrix fino a The eternal sunshine of the spotless mind). Succede in tutti i film in cui s’instaura un paradosso etico, per cui ciò che vedo (immagini di violenza, in qualunque accezione ed esemplificazione del termine) è sanzionato socialmente ma esteticamente godibile. Un caso da manuale è stato quello di Arancia meccanica, film accusato a suo tempo di “fascismo” da quella critica che non s’era avveduta del suo carattere metacinematografico – cioè di cosciente paradosso terapeutico.

L’aspetto metalinguistico del film di Kubrick costituisce così per noi un dato di partenza. Che si tratti di un film sul cinema è abbastanza ovvio. Né è certamente il primo, o il più eclatante, caso in merito. Quel che è più interessante è cercare di capire che cosa esso dica metalinguisticamente della materia filmica, quali idee sul cinema, attraverso il cinema, esso tenda a esprimere. Indicare il carattere metalinguistico di un certo testo non significa esaurirne la portata, ma solo individuarne la struttura significativa. La quale, una volta esplicitata, resta da esaminare, sia nelle tecniche espressive sia nei contenuti. [Ad esempio, nel passaggio dal libro al film Arancia meccanica,] laddove Burgess esprimeva a parole alcune opinioni sulle immagini e sulla musica, Kubrick esprime mediante immagini e musica le proprie idee sulle immagini e sulla musica. Sta a noi spettatori non confondere le immagini che esprimono con le immagini espresse, la musica che dice con quella detta.7

Ad una seconda visione, ci si accorge che il carattere violento di Arancia meccanica non è un accidente né un puro effetto estetico, configurandosi invece esattamente come il tema stesso – dunque autoriflessivo – dell’intero film. Come Alex durante la Cura Ludovico, lo spettatore sperimenta il carattere composito del film per tutta la sua durata, viene brechtianamente costretto a prendere le distanze da se stesso, a interrogarsi sul senso d’ogni ricezione cinematografica, del sentirsi costretto a provare piacere o – che è lo stesso – a provare piacere nonostante il disgusto estetico o le perplessità etiche verso l’oggetto di tale piacere.8

Lo spettatore cinematografico non è solo un cervello che registra dati audiovisivi per la comprensione d’informazioni narrative, ma è anche un corpo (un “corpo sociale”, direbbe Marrone) votato all’interazione con i personaggi ma anche con l’istanza enunciativa di cui essi sono funzione espressiva e materia argomentativa.

Il film non è solo un messaggio razionale da decodificare secondo regole sintattiche “generiche”, ma anche corpo testuale destinato a generare effetti passionali (soprattutto attraverso l’utilizzo sincretico e, direi nonostante Prieto, “simbiotico” della musica). Dunque, il rapporto spettatore/film soggiace a tutte le dinamiche interazionali studiate dalla pragmatica. Una semiotica tensiva del cinema non potrà fare a meno di una teoria del rapporto musica/immagine nei termini di un intreccio fra analogico e digitale, fra metacomunicazione e comunicazione, all’interno di una cornice filosofica in cui il linguaggio cinematografico non è più visto come una sorta di “ragazzo selvaggio” della semiosi illimitata ma, al contrario, come la punta avanzata di un ormai acquisito (almeno artisticamente) “discorso libero indiretto”.


Note

1 P. Watzlawick, J. Helmick Beavin & D. D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, tr. it., Astrolabio, Roma 1971.
2 L. J. Prieto, Lineamenti di semiologia, tr. it., Laterza, Bari 1971, p. 22.
3 In effetti questa opposizione è quella invalsa nella narratologia del film (cfr. R. Stam, R. Burgoyne & S. Flitterman- Lewis, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, tr. it., Bompiani, Milano 1999) per cui gli elementi “diegetici” sono quelli per così dire a portata di personaggio (musiche e voci fuori-campo sono udibili dai personaggi, anche se lo spettatore non ne vede la fonte all’interno dell’inquadratura) mentre gli elementi “extradiegetici” sono quelli percepibili dallo spettatore ma non dai personaggi (musiche “da buca” e voci over non sono propriamente fuori-campo, visto che in linea di principio non possono de-acusmatizzarsi nel campo visivo, ma piuttosto “fuori-spazio”). Ma è chiaro che Platone chiamerebbe “mimetici” questi elementi “diegetici” e chiamerebbe “diegetici” gli elementi “extradiegetici” per come definiti sopra: che è poi ciò che fa Prieto. Per una discussione di questo problema terminologico cfr. A. Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto, tr. it., Lindau, Torino 2000.
4 G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 2004, p. 250 (corsivo di Deleuze).
5 Ivi, p. 253 e p. 257 (corsivi di Deleuze).
6 Cfr. M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, tr. it., Lindau, Torino 1997
7 G. Marrone, La Cura Ludovico, Einaudi, Torino 2005, pp. 133-134 (corsivo mio).

8 Ivi, p. 168.

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