§ 1. Modulazione
È noto che, in passato, le espressioni
tono e modo sono state talora usate come sinonimi – secondo un’equivocità talvolta criticata, talvolta tollerata – insieme al termine di
tropo più presto caduto dall’uso. Con
modo siamo rimandati al medioevo latino, mentre
tono e tropo sono ricordi greci. Zarlino, che preferisce il termine di modo, ammette comunque entrambi gli usi – "Modo o Tuono che lo vogliamo dire" – propone una spiegazione sull’origine del termine che rimanda a
modus nel senso di regola e di
misura:
"Si debbe adunque avertire, che questa parola Modo (oltra d’ogn’altra sua significatione, che sono molte) significa propriamente la Ragione; cioè, quella Misura, ò Forma, ch’adoperiamo nel fare alcuna cosa, la qual ne astrenge poi a non passar più oltra; facendone operar tutte le cose con una certa mediocrità, ò moderatione (…). Imperoche tal mediocrità, ò moderatione non è altro, che una certa maniera, over ordine terminato e fermo nel procedere, per il quale la cosa si conserva nel suo essere, per virtù della proportione, ch’in essa si ritrova; che non solo diletta; ma etiandio molto giovamento apporta. De qui viene, che se per caso, over'à bello studio tal ordine da essa si allontana, non si può dire, quant'offendi; e quanto il sentimento abhorrisca. Havendo adunque i Musici e i Poeti Antichi considerato tal cosa; perche gli uni e gl’altri erano una cosa istessa (…) chiamarono le loro compositioni Modi; nelle quali sotto varie materie per via del Parlare accompagnate l'una all'altra con proportione esprimevano diversi Numeri, ò Metri, e diverse Harmonie".
L’idea è dunque quella di una
ragione interna del canto, che mantiene ad esso coerenza ed ordine, conferendogli la propria identità ("una certa maniera, over ordine terminato e fermo nel procedere,
per il quale la cosa si conserva nel suo essere"); una "forma", come anche si dice, che pone dei limiti che non possono essere oltrepassati ("la quale ne astrenge a non passar più oltra"). La "moderazione" consiste proprio nel fatto che sono stabiliti questi limiti. In particolare, si pensa qui al metro poetico, sottolineando l’unità tra poesia e musica.
Poco oltre tuttavia lo stesso Zarlino completa questa spiegazione connettendo
modus al verbo modulor che associa senz’altro la misura e la regola al canto: "Sono anco detti Modi da questa parola latina Modus, che deriva da questo verbo Modulari, il quale significa Cantare; over sono detti Modi dall’ordine moderato, che si scorge in loro; imperoche non è lecito, senz’offesa dell’udito passar’oltra i loro termini, e di non osservar la proprietà e natura di ciascuno".
In effetti la parola modo, nella sua accezione musicale, deve essere strettamente connessa con parole come
modulare o modulazione. Quest’ultima – che nella terminologia del linguaggio tonale ha finito per indicare il passaggio di tonalità – ha in realtà in tutta la tradizione antica un significato che rimanda in modo molto generale all’andamento melodico, all’uso "armonioso" della voce, al cantare puro e semplice. Ancora in Zarlino: parlando degli "strumenti naturali" – e quindi delle parti del corpo interessate all’emissione della voce – "come sono la Gola, il Palato, la Lingua, le Labbra, i Denti, e finalmente il Polmone, formate dalla natura; le qual parti essendo mosse dalla Volontà; e dal movimento di esse nascendone il Suono, e dal Suono il Parlare; nasce poi la Modulatione, overo il Cantare…". Più precisamente egli dice, sottolineando il problema della discretezza, che: "Le voci discrete, ò sospese con intervallo adunque sono quelle, che sono principalmente considerate dal Musico; dopoi li Suoni applicati ad esse; percio che da questi e da quelle senza differenza alcuna si forma ogni nostra Cantilena. Questa ogn'uno la chiama Canto, dal Cantare; il quale è Modulatione, che nasce principalmente dalla voce humana".
È interessante notare che Zarlino caratterizza come improprio l’impiego della parola modulazione in rapporto al canto fermo, mentre questo termine verrebbe usato propriamente in rapporto al canto figurato. Ciò ha il senso di richiamare l’attenzione sull’idea del movimento come essenziale alla melodia. La modulazione è infatti "un movimento fatto da un suono all’altro per diversi intervalli, il quale si ritrova in ogni sorte d’harmonia e di melodia". Ma laddove non c’è "varietà di tempo", "procedendo equalmente da un intervallo all’altro per il medesimo tempo come si fa nei Canti fermi, e questa è detta modulatione impropriamente", mentre nel canto figurato, "nel qual cantiamo non solo con semplici suoni e semplici elevationi e abbassamenti de voci; ma si muoviamo ancora da un intervallo all’altro con veloci e tardi movimenti; secondo il tempo mostrato nelle sue figure cantabili; e questa è detta modulatione propriamente". Il modo diventa dunque la specificità del canto – il suo
andamento melodico caratteristico.
Si tratta di ambiti di significato che risalgono alle fonti della trattatistica medioevale. Il termine
modulatio può assumere un significato così generale che numerosi trattati lo riprendono nella stessa definizione della musica. A cominciare dalla definizione agostiniana: "Musica est bene modulandi scientia" (De Musica, I). "La musica è una perizia consistente nella modulazione nel suono e nel canto, cioè una scienza nella quale si è esperti nel modulare, cioè nel cantare dolcemente" (Musica est peritia modulationis sono cantuque consistens, id est scientia, qua quis peritus est modulare, id est dulciter cantare) scrivono Johannes de Muris (Speculum musicae) e Jacobus Leodiensis (Speculum musicae) riprendendo queste definizioni da Isidoro Ispanicus (De Musica). Ancora da Isidoro viene ripetuta da numerosi trattati la caratterizzazione della musica come "modulatio vocis et concordia plurimorum sonorum". Anche l’idea che la musica sia anzitutto"peritia modulationis" nel suono e nel canto, o semplicemente "ars modulationis" si ritrova in molti trattati (ad es. Rabano Mauro,
De universo)
Il canto (cantus) a sua volta "est inflexio vocis et modulatio" (Ieronimus de Moravia,
Tractatus De Musica e Johannes Ciconia,
Nova Musica). In Adam De Fulda (Musica) si distingue un’"emissione vocale usuale", che è canto derivante dal puro istinto della natura, che è comune agli uomini ed agli animali, dalla "emissione vocale
regolata" che è invece "modulatio dulcissima".
Attraverso questo nesso con la modulatio,
canto, melodia e modo vengono così strettamente legati tra loro.
Nel Nouveau Système de musique théorique, cap. VI, Rameau osserva che "la modulazione non è altra cosa che il progresso dei suoni fondamentali e quello dei suoni compresi nei loro accordi" (la Modulation n’est autre chose que le progrès des Sons fondamentaux, et celui des Sons compris dans leurs Accords). Questa nozione diventa così sottilmente ambigua per quanto riguarda il riferimento al canto (melodia) ed all’armonia. Da un lato ci si riferisce ancora, come nell’uso antico, ad una successione lineare di suoni, dall’altro questa successione riguarda anzitutto il basso fondamentale e le note degli accordi costruiti su di essi, e dunque un percorso armonico che può restare all’interno della tonalità ma anche realizzare un movimento da tonalità a tonalità: del resto, secondo Rameau, il movimento primario del basso fondamentale è un movimento per quinte. Si vede così, in questa semplice osservazione sul termine di modulazione, il profondo mutamento di senso che esso è destinato a ricevere in rapporto al linguaggio della tonalità.
§ 2. Modo
Naturalmente venendo ad una nozione più specifica di modo dobbiamo essere un poco più precisi. Conviene allora prendere le mosse dalla semplice alternanza di toni e semitoni nell’ottava che potremmo chiamare
schema intervallare di base, ovvero schema intervallare della scala del modo. Si tratta di una suddivisione di base dello spazio sonoro (ottava, ma anche eventualmente un intervallo di grandezza inferiore), che rappresenta un’impalcatura sulla quale si presenta una suddivisione di secondo livello che riguarda, per dirla in breve, la distribuzione del "peso" delle note attribuito a questa o a quella posizione della suddivisione di base.
Va da sé che la costanza dello schema intervallare di base è una condizione di "ordine interno"; quanto all’articolazione di secondo livello, essa conferisce allo spazio il carattere di uno "spazio architettato", cosicché non vi è solo una differenza nell’ordine di successione, nell’alternanza regolare di toni e semitoni, ma anche una sorta di regolare
marcatura di questo o quel momento della costruzione musicale. La parola "modo" può essere riferita ad entrambi i livelli di articolazione
considerati nella loro unità – restando aperta la possibilità di
restringere il significato di questa parola al semplice
schema intervallare di base. Conviene allora distinguere, nell’impiego del termine modo, anzitutto un’accezione
propria da un’accezione
impropria (ovvero ristretta
e riduttiva). Il puro e semplice schema intervallare di base istituisce infatti nulla più che una successione di intervalli e riguarda unicamente l’idea di un ordine scalare. In rapporto ad esso sarebbe opportuno parlare di
scala piuttosto che di
modo. "Modi e scale non sono affatto identici, e se uno desidera imparare qualcosa di più della natura dei modi gregoriani non deve fermarsi alle note, ma deve arrivare a comprendere le leggi melodiche che governano il loro uso".
È infine opportuno introdurre un’accezione
estesa.
In effetti, mentre nella nozione propria vengono chiamati in causa modi
di intendere gli schemi intervallari di base, ed eventuali "regole"
conseguenti, vi possono essere anche elementi che la pratica musicale propone
come caratteristici del modo in quanto associati ad esso da consuetudini legate
all’esecuzione, che possono avere una grande importanza nella riconoscibilità
del modo. Si può trattare di elementi di carattere strettamente musicale,
ad esempio tipi particolari di ornamentazioni, volture motiviche caratteristiche,
scelte di registro, scelte ritmiche o timbriche che possono essere legate prevalentemente
ad un modo piuttosto che ad un altro. Tuttavia si può arrivare a includere
nelle caratteristiche del modo anche elementi che si allontanano dagli aspetti
propriamente musicali e che appartengono piuttosto al contesto socio–culturale,
come l’esecuzione riservata a particolari occasioni di incontro sociale, a determinate
celebrazioni, riti religiosi ecc. Tra questi elementi va incluso anche il possibile
riferimento ai contenuti delle canzoni, in generale alla loro "destinazione".
L’idea di un etos dei modi si radica certamente nella nozione
estesa,
piuttosto che in quella propria, e trae da queste "estensioni"
le proprie motivazioni e ragioni d’essere. La discussione sul suo buon fondamento
è spesso fuorviata dal fatto di non tener conto di questa circostanza.
3. Esempi
Per illustrare la differenza tra scala e modo nella modalità
di tradizione europea, si consideri il nono modo di Zarlino (secondo la classificazione
della prima edizione delle Istitutioni del 1558), e lo si metta a confronto
con il secondo. Entrambi iniziano dalla nota la. La
scala del
nono modo è del tutto identica a quella del secondo, entrambi hanno la
stessa suddivisione di base. Ma il secondo modo è
ripartito in
diatessaron + diapente (la–re–la) e va considerato come il corrispondente
"plagale" del primo modo (re–la–re) , mentre il nono modo è
ripartito in diapente + diatessaron (la–mi–la), cosicché è
differente il modo di intendere la suddivisione di base. Naturalmente una simile
differenza deve essere "fatta notare" all’interno della composizione
concreta, cosa che avviene negli esempi citati dallo stesso Zarlino nelle prime
battute della composizione. Così nel caso del secondo modo:
il tenore scende da re a
la, mentre il soprano
tiene il la. La nota finale in entrambe le voci è il
re,
essendo il secondo modo da considerarsi come "plagale" del primo.
Si presti attenzione anche alle cadenze intermedie (fini mezani). Ad
es. in batt. 11 il soprano conclude su re e riprende con
la, mentre
il tenore riprende con re. Ed ancora il la chiude sia nel soprano che
nel tenore in battuta 22, ecc.
esegui
Nel caso del nono modo
sia soprano che tenore entrano in mi che, dopo un
gruppo,
scende a la a partire dal quale la scala modale viene enunciata per esteso
in entrambe le voci. L’architettura dello spazio sonoro si presenta prima
della pura successione scalare degli intervalli come una sorta di orientamento
per le intenzioni di ascolto.
esegui
Nel trattare ciascun modo, Zarlino accenna anche all’atmosfera affettiva, ma riferendo costantemente ad altri le opinioni sull’argomento mostra un certo scetticismo in rapporto a questo lato della questione. Inoltre egli richiama l’attenzione sul fatto che la stessa pratica musicale, aderendo a quelle opinioni, contribuiva a consolidarle. Ad esempio per il secondo modo egli osserva che "volevano alcuni, che ‘l Secondo modo contenesse in se una certa gravità severa, non adulatoria; e che la sua natura fusse lagrimevole, e humile; di maniera che mossi da questo parere, lo chiamarono Modo lagrimeuole, humile, e deprecativo. La onde si vede, che
havendo gli Ecclesiastici questo per fermo,
l’hanno usato nelle cose meste, e lagrimose; come sono quelle delli tempi Quadragesimali, e di altri giorni di digiuno; e dicono, che è Modo atto alle parole, che rapresentano pianto, mestitia, solicitudine, cattività, calamità, e ogni generatione di miseria; e si trova molto in uso ne i loro canti". Nel caso del nono modo invece "alcuni l’hanno chiamato aperto, e terso, attissimo ai versi lirici; la onde se li potranno accommodar quelle parole, che contengono materie allegre, dolci, soavi, e sonore: essendo che (come dicono) hà in sè una grata severità, mescolata con una certa allegrezza, e dolce soavità oltra modo".
Facendo riferimento ai raga, è possibile illustrare assai bene le tre nozioni di modo che abbiamo distinto parlando di nozione
propria, impropria ed
estesa. Uno standard di classificazione dei raga ormai largamente affermato è esemplificato da una "scheda" che contiene le seguenti indicazioni:
That – >ovvero scala di base
Aroha – >indicazione delle note caratteristiche in direzione ascendente
Avaroha – >indicazione delle note caratteristiche in direzione discendente
Vadi – >indicazione della nota "più importante"
Samavadi – >indicazione della seconda nota per importanza
Pakad–>indicazione di una figurazione melodica caratteristicamente impiegata dal raga in questione.
Talvolta viene indicato l’orario di esecuzione, orario che sottintende il riferimento all’atmosfera affettiva, all’occasione di esecuzione, ecc.
Nel caso del That si ha dunque la nozione riduttiva del modo. Ad un unico That sono riportabili un’amplissima molteplicità di raga. Perciò un raga assume il proprio profilo dalla forma della direzione ascendente e discendente così come dalla indicazione delle due note strutturalmente più importanti, oltre che nel numero delle note che può eventualmente essere diverso nell’una o nell’altra direzione. Il pakad e l’orario di esecuzione appartengono invece alla nozione estesa, l’uno rappresenta un elemento di riconoscibilità del raga strettamente musicale, mentre il secondo riguarda il "senso" del raga in un’accezione ampia del termine e sarà inteso normalmente secondo un’inclinazione simbolica piuttosto che prescrittiva. Ad esempio nel caso del raga Marwa si indicherà l’appartenenza al That omonimo (in generale i That prendono nomi da raga)
e si specificherà che il raga è eptatonico in
direzione ascendente ed esatonico in direzione discendente:
esegui
Vadi è rappresentata dalla nota Re ¥ e Samavadi dalla nota La, mentre il Pakad dal seguente motivo:
esegui
Si tratta infine di un raga del calar del sole. – In rapporto
ai raga risulta anche con particolare chiarezza il carattere astrattamente teorico
dei sistemi dei modi. Prima di tutto vi sono le melodie. Prendendo l’avvio
da esse, risulterebbe naturale pensare che si possano dare i più disparati
schemi intervallari e che essi non siano senz’altro raccolti in un sistema unitario
o che sia già dato in via preliminare un metodo per raccoglierli insieme.
Tuttavia uno dei compiti che la teoria musicale si è proposta sotto ogni
cielo è quello di individuare tipologie, di realizzare classificazioni
– cosa del resto tipica di ogni compito di riflessione teorica in genere – arrivando
a veri e propri "sistemi di modi". Naturalmente vi saranno delle affinità
tra i modi e dunque diverse possibilità di raggruppamento. A loro volta
queste sistemazioni teoriche non potevano che interagire con la pratica stabilendo
per essa un ambito di riferimento ed eventualmente un campo di regole più
o meno nettamente definite (e talora anche imbrigliando la pratica).
Per quanto riguarda gli aspetti teorici occorre distinguere
tra puri raggruppamenti effettuati con criteri empirici, da quelli che
derivano da considerazioni strutturali interne, tendenti a prospettare
un vero e proprio corpo sistematico realizzato da un lato tenendo sempre
d’occhio la realtà musicale, dall’altro non esitando a ricorrere a schematismi
concettuali.
Un esempio di questo secondo tipo è naturalmente il
sistema dei modi di tradizione europea, che poggia sulla possibilità
a priori di generare altri schemi da uno schema secondo una regola di
rotazione.
Ogni elemento del sistema ottenuto per rotazione sarà relativamente omogeneo
ad ogni altro formando per così dire una "famiglia" di modi.
Ad esempio, nel sistema modale di tradizione europea non vi saranno mai due
semitoni consecutivi, o un intervallo di ditono, ecc., e questo in stretta dipendenza
dal modo della loro costruzione. Una simile regola di rotazione è presente
anche nell’organizzazione dei murchana nell’antica musica indiana. Essendo
fondato su una regola, il numero dei "modi" possibili è strettamente
determinato una volta che si sia data una scala di base. Ma ciò vale
appunto solo per le scale di base e dunque per la nozione
impropria di
modo. Come abbiamo visto in precedenza, una stessa scala può sostenere
più di un modo ed il numero dei modi in senso proprio può essere
soggetto a discussione. Nel caso dei dieci That di Bathkande (1860–1936), essi
non sono derivabili per rotazione l’uno dall’altro:
ma la loro individuazione deriva da una riflessione
empirica,
ovvero dall’idea che – tollerando eccezioni e con un po’ di buona volontà
– la grande varietà dei raga possa essere ricondotta,
per quando riguarda
la struttura scalare di base, ad uno di questi dieci tipi.
§ 4. Tono
Uno schema intervallare è in sé qualcosa di
astratto,
che può essere considerato anche indipendentemente da qualche specifico
fatto sonoro. Ci possiamo allora chiedere come uno schema intervallare possa
concretizzarsi, e la risposta, del tutto a portata di mano, ci fornirà
una prima introduzione della nozione di tono.
Si tratterà infatti di determinare la "nota"
iniziale a partire dalla quale potranno essere fissate tutte le altre secondo
la distribuzione degli intervalli proposti nello schema.
La parola "tono" usata in questo contesto ha un senso
che abbraccia sia il riferimento ad una nota determinata sia al fatto che, risuonando
concretamente, essa rende possibile la traduzione dello schema astratto in un
evento sonoro concreto.
A. Auda, Le modes et les Tons de la musique, Bruxelles 1931, p. 19: "Nel senso più ristretto la parola tono (ton) designa semplicemente il grado della scala che serve di base al modo, il grado nel quale si fissa il punto di partenza della sua ottava o della sua ‘armonia’ per parlare come gli Antichi". – "Il modo regge in un modo astratto, teorico, i rapporti mutui degli intervalli; il tono traduce questi stessi rapporti sensibilmente situandoli nella scala dei suoni",
ivi, p. 20.
Sullo sfondo vi è pur sempre un’accezione della parola
"tono" che, nelle sue origini greche, può indicare semplicemente
il timbro della voce, e dunque il suono (questa accezione si è mantenuta
ad esempio nel tedesco Ton ed anche per certi usi correnti dell’italiano
tono). Ma per questo impiego si può pensare soprattutto alla parola
"intonazione" (intonatio) non solo nel senso della correttezza
dei rapporti intervallari in un’esecuzione, ma soprattutto in un senso che richiama
l’ "intonare un canto" ovvero il dar voce ad esso.
Tono
è dunque anzitutto quella che potremmo chiamare la "nota di intonazione",
la nota su cui lo schema intervallare viene intonato – con una duplice sfumatura
di senso del termine: l’intonare come "dar voce" e l’intonare come
stabilire correttamente gli intervalli, cosa che richiede in via di principio
una nota di intonazione. Bononcini dice esplicitamente: "Si chiama
tuono dal verbo intuonare". Così come
modo
dal verbo modulare.
Naturalmente la nota di intonazione assume, proprio in quanto
è il suono sul quale il canto viene messo in voce, il carattere di riferimento
a partire dal quale viene commisurato l’intervallo di ogni singola nota. Secondo
Danielou la nota assunta come nota di riferimento, che egli chiama impropriamente
"tonica", nella musica modale risuona molto spesso e tende ad assumere
carattere di pedale, e questo non per una ragione meramente pratica, per facilitare
l’intonazione dei cantanti, ma anche per mantenere la presenza di una relazione
intervallare fissa per ogni nota della melodia, oltre le relazioni mobili degli
intervalli tra loro. Questo pedale peraltro non ha bisogno di essere la nota
caratteristica della struttura melodica del brano. Talora "strumenti a
percussione, come tamburi, cimbali, ecc. possono essere sufficienti a determinare
questa tonica" (p. 29).
Con ciò si comprende anche il fatto che, nonostante
la netta differenza tra le due nozioni, tra esse possano sorgere equivocità.
Infatti, in presenza di una standardizzazione della suddivisione di base
dell’ottava, il modo nella sua forma non trasposta può essere
per così dire solidamente riferito ad un determinato "tono",
cosicché questo è in grado di indicarlo. Di qui sorgono le dizioni
comuni che indicano il modo attraverso il tono, come modo
di re, modo
di mi, ecc., dizioni che naturalmente sono equivoche, ma di una equivocità
non priva di giustificazioni. Questa possibilità non ha in ogni caso
nessun senso in rapporto al linguaggio tonale, dove il modo maggiore o minore
diventano una sorta di attributo del "tono", che sembra aggiungersi
ad esso come una sua specificazione particolare.
Il modo può naturalmente anche essere trasposto mediante
l’impiego di alterazioni, ed in particolare i modi possono essere ordinati all’interno
di un unico tono, come fa Vincent nel suo volume The diatonic modes in modern
music.In questo caso risulta particolarmente chiara la differenza rispetto
al rapporto modo/tono nel linguaggio della tonalità. Vincent, a dire
il vero, parla ancora di tonality, in un’accezione estesa del termine,
cosa che a mio avviso sarebbe meglio evitare, tanto quell’accezione è
diversa da quella consueta. Si tratta infatti, assumendo ad esempio, come modo
privo di alterazioni il modo di re, di introdurre via via le alterazioni
fa#, do#,
sol#… passando così, tenendo conto della
terminologia medioevale, dal modo dorico al modo misolidio, al modo ionico,
al modo lidio, ecc. In questa sistemazione le alterazioni in questione
meritano di essere chiamate modulanti in un’accezione del tutto diversa
da quella corrente in quanto in esse non si passa da una tonalità all’altra,
ma da un modo all’altro restando all’interno dello stesso "tono".
Si noti come possiamo trarre di qui esempi quando mai persuasivi dell’importanza
che ha nella musica il modo dell’intendere: così una sequenza
come
può essere intesa come un segmento di tonalità
di la maggiore, ma anche come un modo lidio trasposto nel tono di
re,
e la differenza è assai più profonda – rimandando a contesti musicali
ed a "grammatiche" interamente differenti – di quanto normalmente
si sia disposti ad ammettere. In linea generale si ha la sensazione che la modalità
sia considerata uno stadio anteriore e preparatorio destinata a sfociare nella
tonalità, cosicché anche la musicologia più severa non
esita ad usare la terminologia della tonalità in direzione retroattiva.
Nello stesso tempo proprio questo intreccio di possibilità
e la molteplicità dei giochi che è possibile elaborare su di esse
rappresentano un sorgente a cui hanno potuto attingere a piene mani i linguaggi
musicali. Questo gioco dell’espressione fa naturalmente parte della vicenda
storica. Invece la distinzione tra tono e modo, che è concettualmente
del tutto chiara, rimanda alla differenza tra qualcosa che si sente o qualcos’altro
che non si sente, ovvero che si sente solo per il tramite dei suoni:
la differenza
tra tono e modo può essere infatti ricondotta alla differenza fondamentale
tra suono e intervallo. Ciò che rappresenta, come pura grandezza,
un che di astratto se non viene determinato dai suoni che lo delimitano, è
anzitutto l’intervallo. L’intervallo in sé è un nulla.
Esso diventa qualcosa sotto il profilo fenomenologico, cioè come entità
effettivamente udita, solo attraverso i suoni concepiti come suoni che, delimitando
l’intervallo, lo pongono in essere. Questa possibilità di intravedere
alle spalle della distinzione tra modo e tono quella tra intervallo e suono
mostra che essa non appartiene a questo o a quel linguaggio della musica, ma
a quel sottostrato di nozioni che dobbiamo attribuire ad una teoria della musica
considerata da un punto di vista generale, ai suoi concetti elementari – esattamente
come vi appartengono le nozioni di suono e di intervallo tra i suoni.
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