6 - Luciano Berio. Outis. Appunti per una discussione
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Il simbolico non è necessariamente linguistico mentre è, di necessità, estetico:
perché è con il corpo che si comunica e originariamente si sente,
perché il legame simbolico con l'altro è in primo luogo, al suo avvio,
radicato nella struttura di senso del "sentire". Perché il linguaggio
simbolico è, al tempo stesso, sommamente rispettoso della differenza e della
distanza.
Da un lato, allora, il simbolico ha un carattere di immediatezza estetico-sensibile
ma, dall'altro, "apre" a un rapporto con l'altro che rifiuta il dominio
e il possesso, offrendo così la possibilità di instaurare un concreto
dialogo spirituale.
Parlare quindi di paradigma estetico
per la dimensione dialogica dell'arte non significa cadere, al contrario,
in una qualsiasi delle modalità estetistiche: è invece un tentativo
di comprendere le radici sensibili di un rapporto la cui genesi è culturale
e spirituale. Processo che può avere proprio nella poiesis artistica una
sua significativa esemplificazione, appunto un suo paradigma, nel duplice significato
di "modello" ed "esempio". Il simbolo, nell'arte, non è
esclusivamente un segno, tanto meno un segno arbitrario, bensì è quella
radice di senso comunicativo che conduce a un comune "sentire", senza
per questo annullare le differenze. Per cui il simbolo esprime uno stupore originario,
diviene "genesi precategoriale fenomenologica del senso": rivela una sfera
fungente che appartiene al senso comunitario delle persone, che può essere
compreso come elemento di identità interculturale.
Le esemplificazioni sono, a questo proposito, numerose, e di vario genere.
I miti, in primo luogo: miti che non sono, con l'universo che costruiscono, ingenue
immediatezze ma il segno di un lungo percorso dello spirito, forme in cui "prende
senso una particolare visione della vita": "anche quando la filosofia
insiste sull'unità della vita spirituale, quest'unità non è
la confusione delle lingue, né il comodo rifugio metafisico da cui tutto ha
misteriosamente origine, bensì il simbolo vivente dell'umana cultura, nella
quale tutti i prodotti dello spirito sono intercomunicanti e apparentati" [1].
Il mito è la partecipazione a un "vissuto" che è un comune
substrato di ogni cultura. In ciascuna di esse il mito è presente come significato
simbolico originario, segno di una vera e propria simpatia "simbolica"
- un'empatia - fra le varie matrici culturali. E' una comunanza che non cerca una
sintesi dogmatica poiché vive, e sempre di nuovo manifesta la sua tensione
costruttiva di senso, nelle sue differenze narrative. Il carattere simbolico del
mito, presente in tutte le culture, è il segno di un'essenza
comune, radicata nelle cose stesse, nel rapporto fra l'uomo, la natura e gli altri
uomini nelle loro dimensioni sacre. E', al tempo stesso, il terreno che costituisce
un'analogia estetica fra le culture, aprendo la possibilità di un dialogo
di reciproca identificazione.
Le manifestazioni della sacralità o dell'arte, proprio per la loro
valenza tendenzialmente extrapolitica, comunque sottraibile alla contingenza, si
pongono su un piano simbolico che è paradigmatico, che fornisce cioè
il modello per un sentire comune fondato sull'oggettività di un'opera (o
di un rito), in cui l'espressività diviene capacità di manifestare,
e di far sentire, un mondo di senso: in cui, appunto, la presenza è espressiva
e comunicativa nel suo stesso essere presenza. L'arte non è dunque solo un
esempio ma la manifestazione di un piano comune di verità simbolica
perché, come scrive M. Dufrenne, "l'arte è vera in
quanto ci aiuta a conoscere il reale: esprime quel che il reale esprimerà,
e non l'illusorio o l'immaginario" [2].
L'arte non attesta infatti solo la personalità del suo autore ma la realtà
storico-spirituale in cui ha vissuto o vive: è la possibilità di un
senso che esibisce un'empatia fondamentale, che funge in ogni relazione intersoggettiva
e che ha al tempo stesso, a sua volta, una fondamentale valenza storica e spirituale.
Forse i missionari che "convertivano" gli aztechi avevano ben
compreso questa possibilità comunicativa dell'arte, la sua capacità
simbolica di essere al tempo stesso manifestazione dell'identità di una cultura
e apertura alla comprensione empatica dell'altro. E infatti non va considerato casuale
che l'omologazione degli indigeni esigeva che venissero bruciati gli oggetti simbolici
rappresentativi delle loro culture [3],
certi che così avrebbero definitivamente spezzato la possibilità di
comprendere una cultura di prevalente tradizione orale. Gli esempi di poesia azteca
che ci sono giunti riescono tuttavia a manifestare una simbolicità lirica,
con la straordinaria ricchezza metaforica del linguaggio, che al tempo stesso ci
apre la loro propria visione del mondo, che rifuggiva a un descrittivismo realistico.
Ma ci permette anche di costruire analogie simboliche con le nostre tradizioni poetiche,
con il nostro sentire, sino a poter affermare che la poesia azteca copre "una
gran parte dei temi ricorrenti nella lirica occidentale di ogni epoca" [4].
Ed è difficile non "sentire" la "nostra" lirica in questi
versi aztechi: "Nella goccia di rugiada brilla il sole:\ la goccia di rugiada
s'inaridisce.\ nei miei occhi, i miei, brilli tu:\ io, io vivo". O non sentire
echi di poesia latina in tradizioni orali della Melanesia: "accostati, vieni
vicino, accostati,\ vienimi accanto, insieme, vienimi accanto\ sinuoso millepiedi,
eccitato, sinuoso millepiedi: \ accostati, vieni vicino, accostati, \ vienimi accanto,
insieme, vienimi accanto\ sinuoso millepiedi, eccitato, sinuoso millepiedi"
[5].
Parlare allora di un paradigma estetico per la comprensione del fenomeno
artistico significa riconoscere il duplice ruolo della dimensione simbolica così
come essa agisce nell'arte. Da un lato, la genesi dell'arte è essa stessa
una genesi dialogica, in cui le differenze concorrono, dialogando, alla formazione
di una specifica identità di senso: manifestazione di una coesistenza di
parti diverse, alla cui base vi è un sentimento, il desiderio artistico di
interpretare il reale nelle sue più intime dimensioni qualitative. La costruzione
artistica oggettiva il dialogo come senso dinamico e produttivo della spiritualità
della persona, rendendo necessario l'accordo fra le differenze.
Ma, in secondo luogo, l'arte inaugura una prospettiva simbolica e veritativa
che si offre allo sguardo come possibilità di accedere al senso delle cose
senza essere asserviti al discorsivo o a qualunque ambito dogmatico e monologico:
piano culturale e spirituale che offre una potenzialità di comprensione immediata
non ridotta, né riducibile, all'analisi. Piano di analogia in cui una comune
produttività è esempio di una spiritualità che può essere
comunicata e, appunto, messa in comune. Senza dubbio per comprendere le innumerevoli
valenze di senso dell'opera, i suoi orizzonti, è necessario ricorrere a dimensioni
storiche e riflessive: ed è ovvio che le valenze simboliche non escludono
affatto un processo di ricostruzione analitico-descrittiva del senso. D'altra parte,
bisogna affermare che esse manifestano una archeologia del senso,
il cui afferramento è la base più solida per tale ricostruzione: empatia
simbolica, appunto, cui può seguire il momento dell'identificazione e, su
di esso, della coesistenza.
E' infatti il segno profondo di un incontro in cui si manifesta un senso
veritativo, in cui il sensibile allude a una pienezza come tensione della sua stessa
forma. Di fronte all'oggetto estetico, scrive M. Dufrenne, "non sono né
una pura coscienza nel senso del cogito trascendentale né un puro sguardo,
perché questo sguardo è carico di tutto ciò che sono" [6].
Questa empatia originaria è dunque simbolo
di una partecipazione comunitaria, in cui scoprire la profondità simbolica
dell'oggetto significa al tempo stesso entrare in comunicazione con le profondità
dello spirito, di uno spirito che ha basi comuni, una medesima tensione comunicativa.
Non è un sentimento ingenuo, non ha l'immediatezza di un'ingenua affezione
proprio perché è comprensione di un'attività simbolica, di
un senso enigmatico che non è chiuso in se stesso ma aperto al mondo del senso,
punto di avvio per dinamiche di costituzione spirituale.
Il paradigma estetico non invita semplicemente a sostituire a un giudizio
determinante un giudizio riflettente, capace di comprendere il senso intimo delle
cose, il sentimento finalistico che generano in noi: l'arte non manifesta alcuna
teleologia, ma piuttosto quel che Spinoza chiamava "conoscenza di terzo genere"
o sapere intuitivo, da cui "scaturisce il più alto
compiacimento della mente che possa darsi"[7].
Il paradigma estetico è appunto il simbolo di tale sapere intuitivo, diretto
al nucleo fondante del senso spirituale, in cui comprendere l'altro è in
primo luogo tentativo di costituire, all'interno di una comune genesi di senso, un
piano di valori in cui lo spirito stesso possa affermarsi.
Note
[1] R. Cantoni, I primitivi, Milano,
Garzanti, 1941, p. 339 e 341.
[2] M. Dufrenne, Phénoménologie de
l'expérience esthétique, Paris, PUF, 1953, p. 662.
[3] J. A. Franch, Presentazione a Miti e letterature precolombiani.
Gli aztechi, a cura di C. Rocchi, Torino, Sonda, 1991, p. 13. -
[5] G. M.G. Scoditti, Ricercari Nowau. Una forma
di oralità poetica in Melanesia, Palermo, Centro internazionale
studi di estetica, 1991, p. 103. -
[6] M. Dufrenne, op.cit., p. 501. -
[7] B. Spinoza, Etica, V, proposizione
27, tr.it. di S. Giametta, Torino, Boringhieri, 1981, p. 316. -
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