Carlo Migliaccio

La musicologia filosofica di Vladimir Jankélévitch


Il contenuto del presente saggio è stato proposto al Convegno della Società Italiana di Musicologia, Fiesole, 21 settembre 1996


Abbreviazioni impiegate nel testo:
MH = V. Jankélévitch, La musique et les heures, Seuil, Paris 1988
PL = V. Jankélévitch, La présence lointaine, Seuil, Paris 1983


Ciò che colpisce maggiormente il lettore e lo studioso che si avvicina al pensiero musicologico di Vladimir Jankélévitch, è indubbiamente la drastica parzialità delle sue scelte e dei suoi approcci, sia dal punto di vista geografico sia da quello storico. Il suo ambito di interesse è volutamente limitato alla musica francese, russo-slava e spagnola, in un arco di tempo che va dal 1800 al 1940 circa. Vi è qualche strappo alla regola grazie a sporadici riferimenti a musicisti italiani, anche settecenteschi o a qualche autore delle avanguardie post-belliche. Ma il fatto più eclatante in Jankélévitch è sicuramente l’assenza pressoché completa della musica tedesca e austriaca. Questo fatto, che indubbiamente potrebbe porre pesanti riserve sulla correttezza e sul valore critico della musicologia di Jankélévitch, tuttavia diviene un elemento significativo nella comprensione dell’originalità e della peculiarità del "taglio" musicologico proposto dal filosofo francese. Il primo passo per motivare una simile prospettiva e per rintracciarne un possibile percorso teorico, è la contestualizzazione storica del pensiero e della figura di Jankélévitch. Vissuto tra il 1903 e il 1985, era figlio di ebrei russi naturalizzati francesi (il padre, Samuel, era fra l’altro un eminente studioso della filosofia tedesca, nonché primo traduttore di Freud in francese). Compiuti gli studi filosofici all’Ecole Normale Superieure, Jankélévitch sostiene il dottorato in filosofia con una tesi sul pensiero dell’ultimo Schelling. Lavora inoltre su Bergson e Guyau, su Simmel e sui mistici russi e, in campo musicologico, su Fauré e Ravel.

Lo scoppio della guerra interrompe, momentaneamente ma bruscamente, la brillante carriera universitaria di Jankélévitch: si arruola prima nell’esercito francese e, all’occupazione, nelle file della Resistenza. Già nel 1934 era affiliato al Fronte popolare, conscio del pericolo che "il fascismo, la brutalità e lo spirito totalitario fanno correre al pensiero". Egli subisce i tragici eventi storici non solo a livello fisico e personale (viene ferito a Mantes, durante l’avanzata tedesca; gli viene inoltre revocato l’incarico d’insegnamento in quanto non naturalizzato francese fin dalla nascita), ma soprattutto soffre della sorte del popolo ebraico vittima dell’Olocausto. In tal senso condivide le preoccupazioni del suo maestro Henri Bergson, che ai tempi della prima Guerra mondiale aveva fatto coincidere la difesa dei confini francesi con la salvaguardia dei valori spirituali di libertà e democrazia; e che, all’inizio della Seconda guerra, poco prima di morire, rinuncia a convertirsi al Cattolicesimo per solidarizzare con il suo popolo oppresso.

La guerra e l’occupazione, vanno quindi considerati come una "svolta" , decisiva nella vita di Jankélévitch, una dura prova per la sua esistenza che ha grandemente influenzato l’evoluzione del suo pensiero filosofico-musicale. Ma se per altri intellettuali la coscienza di questa sofferenza si poteva tradurre in opere cariche di denuncia, di angoscia e di impegno ideologico, in Jankélévitch al contrario, vi fu un forte e attivo impegno civile, ma la completa assenza di esplicite affermazioni di principio. I suoi testi sembrano infatti eludere pudicamente la pesantezza delle questioni metafisiche fondamentali. Notiamo per esempio che le tematiche da lui approfondite in questo periodo sono La menzogna(in un saggio scritto nel 1940 durante il ricovero all’ospedale di Marmande), Il malinteso(1941), La semplicità(1943, dedicato a Bergson). Sul piano musicologico, si occupa del Notturno(1942), e poi specificamente di Chopin, Listz, De Falla, Bartok, Debussy, in saggi apparsi immediatamente dopo la liberazione, quando gli fu affidata la direzione dei programmi musicali di Radio Tolosa-Pirenei. In generale i suoi gusti musicali palesano una forte affinità ideale con tutte le correnti antiaccademiche, antiwagneriane e antidindyste, della Francia dei primi anni del secolo.
Paragoniamo ora questa attività di Jankélévitch a ciò che per esempio Debussy faceva durante il periodo della Prima Guerra mondiale: componeva le anodine sonate per diversi strumenti, curava pazientemente l’edizione delle Sonate di Bach e degli Studi di Chopin; su questo modello, egli stesso scriveva i suoi dodici Studi per piano. Nel frattempo il suo amico Igor Stravinskij - il quale gli scriveva dalla Svizzera dicendo: "I crucchi possono star sicuri: non darò loro la soddisfazione di diventare matto, e neanche lei" - iniziava la sua svolta neoclassica, culminante, nel 1920, con il solare balletto- masquerade Pulcinella. E Maurice Ravel, che si era arruolato nonostante le precarie condizioni fisiche allo scopo di combattere “per l’Internazionale e per la Pace", nel 1917, una volta riformato per il peggioramento della sua salute e appresa la notizia della morte di sette suoi commilitoni e amici, dedica alla loro memoria le serene e ridenti danze del Tombeau de Couperin, un omaggio, secondo le sue parole, "all’intera musica francese del XVIII secolo".

Anche i musicisti del Gruppo dei Sei furono estremamente prolifici nel periodo immediatamente successivo alla guerra, precisamente dopo la pubblicazione di Le Coq et l'Arlequin di Cocteau; di composizioni come Cocardes, (si notino i titoli) Le Boeuf sur le toit, Le mariées de la tour Eiffel, dice Jankélévitch: "Questa specie di incredibile candore, ingenuo come l'aurora, è infatti comune alla maggior parte delle musiche scritte in Francia dopo l'incubo della prima guerra mondiale: l'album in cui sei musicisti si intendono per cogliere in mazzo nient'altro che i fiori più ingenui, i pensieri più frivoli, inespressivi, superficiali (...) esprime la distensione di un dopoguerra interamente votato, dal suo primo risveglio, ai giochi puerili e alle schermaglie ingenue"(MH, 40-41).

Il Pendant fra Jankélévitch e questi musicisti è molto forte, e la sofferenza pudicamente celata del filosofo che passeggiava amabilmente per i boulevards e frequentava i caffé di Toulouse non può che collegarsi a ciò che questi artisti recepivano nel loro intimo e, come antenne sensibilissime, sublimavano nella loro attività creativa, nella loro tecnica, nel loro percorso compositivo: qui ci proponiamo di individuare questo percorso comune, che va dall’occultamento al disvelamento, dall’illusione alla disillusione, dalla finzione alla verità.



Punto di partenza della loro musica è il rifiuto della forma e dell' "eloquenza" musicale della tradizione sonatistica classica e tardoromantica, ossia della concezione della musica sia come sviluppo logico-dialettico di un'idea sia come "espressione" in suoni di un contenuto retrostante. Alla musica discorsiva e concettuale essi oppongono la tecnica dell'interruzione, dell'incoerenza e della brachilogia; è quello che Jankélévitch chiama "regime della serenata interrotta": quando le melodie cominciano a tendere verso il Pathos espressivo, Debussy le interrompe con qualche improvviso frastuono o con una fanfara lontana. Il Legato pianistico e l'omogeneità orchestrale si tramuta negli Staccati e nei Pizzicati di una popolaresca chitarra, e la pomposa accordalità in un susseguirsi di balbettanti noticine ribattute. La stessa temporalità, prima costituita da slanci passionali e da atteggiamenti ispirati, si raffredda nella nuda meccanicità del tempo metronomico o nell'ossessiva insistenza delle ripetizioni.

Erik Satie in particolare è per Jankélévitch il campione di una serie di camuffamenti e finzioni, finalizzati a distogliere la musica da ogni soggettivistica compiacenza: vi è in Satie un gusto per il circo, per le marionette e gli automi. Spesso Satie fa apposta ad apparire noioso e fastidioso, o a darsi arie da ipocrita, come un ciarlatano o un prestidigitatore; la sua volontà, un po' ascetica e quasi masochistica, di sottrarsi all'estetica accademica, giunge all'insolenza e al sacrilegio nei confronti della melodia romantica e fa sì che egli provi un "piacere diabolico" a irritare coloro che potrebbe invece facilmente accattivare (MH, 59). Similmente Déodat de Séverac e Mompou, secondo Jankélévitch, amano apparire volgari, in virtù di quello spirito di rinuncia e di litote che si può chiamare "le bon mauvais goût"; e anche Debussy si divertiva spesso a riprodurre melodie bandistiche e jazzistiche, o gli scherzi ridanciani dei guitti d'osteria. Invece di costruire una sinfonia in quattro movimenti - come d'altronde erano in grado di fare - questi musicisti preferiscono comporre piccoli pezzettini, semplici e banali, privandosi così delle "comodità dei discorsi lunghi e amplificati"(PL, 157).

In Rimski-Korsakov, oltre allo spirito della "burla", troviamo delle autentiche "diavolerie", che non hanno niente a che vedere con il diabolismo romantico e con la metafisica manichea del male: il diavolo di Rimski, dice Jankélévitch, è un "Satana da operetta"(MH, 169), mentre il suo Mefistofele "è il genio della contraffazione, della parodia e dell'imitazione caricaturale"(MH, 170). Come il maligno, così anche le divinità vengono calate dalle vette dell'Olimpo o della teologia speculativa, per essere ridotte all'ingenuità dei giochi d'infanzia o delle creature aeree dei Préludes di Debussy.
La predilezione per travestimenti, parodie e tragedie in pupazzetti rappresenta, in Satie, Séverac, Ravel, Stravinskij, Casella, un humour musicale che è "una forma dell'alibi e del pudore"(PL, 134), un'attitudine Naïve che si oppone alla seriosa magniloquenza del Wort-Ton-Drama wagneriano, all'accentuata passionalità del melodramma italiano, agli sfarzi del Grand Opéra francese, cioè alle rappresentazioni di una cultura fine-secolo che intendeva rimuovere in musica la propria cattiva coscienza. Per i musicisti dei primi decenni del secolo rifiutare questa cultura voleva dire o impegnarsi in una lotta impari o rinchiudersi solipsisticamente nell'angoscia e nel nichilismo; significava o cercare direttamente la via della verità o adeguarsi alle regole del mercato.


È per questo che tali musicisti hanno una sorta di "fobia sospetta del piacere", di quel piacere falso e allettante che la cultura dominante tende a somministrarci. È per questo che essi disdegnano spesso il piacere e si mostrano severi, caricandosi in questo modo della falsa austerità, che per autocompiacenza si ritiene vera: fanno finta di essere austeri per difendere i diritti del vero piacere che è stato così malamente mortificato.

Inoltre, il dolore divenuto mero esercizio estetico, la sofferenza divenuta professione e addirittura fonte di piacere, la morte e l’eroismo esposti come oggetti di applauso, tutto ciò è solo impostura, a cui Jankélévitch oppone la frivolezza, l’ornamento e l’edonismo anche banale. Al posto di una serietà come farsa e beffa, Jankélévitch preferisce un’ironia trasgressiva o una finzione ulteriore che potrà meglio servire la serietà dell’intenzione.

L'artista che a quell’epoca voleva essere sincero poteva rischiare di svendere la propria virtù e sottomettere la propria ragione alle dipendenze dell'irrazionalismo imperante. L'uscita da questa Impasse per Jankélévitch si gioca allora su un fulcro molto sottile attorno al quale ruota il capovolgimento dell'ironia in serietà, dell'ostentazione delle false verità nello smascheramento delle vere finzioni e quindi nell'emergenza di una verità "più profonda e più segreta"(MH, 69). Si tratta del momento in cui la Pars destruens musicale, che aveva neutralizzato il senso dell'espressività romantica, si trasforma in Pars construens,ossia in inedita e creativa donazione di senso, capace di dare all'espressività musicale un valore diverso.

La volontà d'essere inespressivo - dice infatti Jankélévitch - diviene "desiderio di esprimere qualcos'altro che l'inesprimibile verità"(MH, 23). L'humour che per esempio Jankélévitch riscontra in Bartók e Stravinskij è, certo, una parodia della grazia, ma "forse nel nome di una grazia invisibile"(MH, 171).

Il pudore della finzione - cosi come Jankélévitch lo prospetta - si presenta allora come una terza strada rispetto all'alternativa del rifiuto e dell'adeguazione, ed è una risposta diversa al cruccio di Adorno, secondo cui dopo Auschwitz non sarebbe più possibile comporre un pezzo in Do maggiore (che è anche il grande tema post-idealistico ed esistenzialistico della morte dell'arte, dell'impossibilità sartriana di fare della letteratura). Invece l'esponente di irrealtà, di cui i musicisti investono anche le espressioni linguistiche e stilistiche più obsolete, riesce a preservare la musica da ogni compromesso ideologico, da ogni pericolo di sottomissione all'esistente.

C’è sempre, in Jankélévitch, l’avversione per l’irrazionale abbigliato da razionale, della cattiveria imbellettata, dell’illogico mascherato da logico: è per questo che egli, seguendo Nietzsche, preferisce che il razionale sia nascosto, sottratto alle tentazioni della ragione borghese e tolto dal pericolo di compiacenza. La maschera, quindi, acquisisce il potere di smascherare, la finzione di far cogliere la verità e, soprattutto, l’assenza di realtà e di razionalità finisce per essere indice di una ragione che, come la città invisibile di Kitez dell’opera di Rimski-korsakov, si mostra capovola al nostro sguardo.
Ed è così che in Satie, maestro di quella che Jankélévitch chiama "scuola del Dégrisement ", si assiste sia alla "caduta dell'ideale nel reale e della poesia nella quotidianità prosaica"(MH, 32), sia alla ricerca di un'ingenuità che è autentico "infantilismo", candore incredibile, ingenuo come l'aurora", che fa assomigliare il musicista a un bambino che piange e la sua musica al sole che sorge nell'alba di un giorno nuovo. Nell' Eveil de Pâques di Déodat de Séverac si odono "le campane dell'avvenire, della promessa e della speranza"(PL, 142), proprio come nella Kiev di Musorgskij e nella città di Kitez di Rimski-Korsakov il suono dei mattinali non creano un mero effetto pittoresco, ma costituiscono i suoni di una città invisibile, "pneumatica" , di un luogo collocato in uno spazio lontano e, dice Jankélévitch, "profondamente umanizzato"(PL, 143).

Gran parte delle riflessioni filosofiche ed estetiche di Jankélévitch sono attraversate da una domanda decisiva: come è possibile il passaggio infinitesimale dalla diffidenza - nei riguardi di tutti i truffatori che ci circondano - a una possibile fiducia, verso tutti coloro che, pur camuffandosi, ci mostrano d’altronde una finzione esponenziale, la finzione della loro finzione? Non sono questi che, rifiutandosi di abbassare le loro maschere, meglio riescono a denunciare le vere imposture? Si tratta, in Jankélévitch, di una sorta di trasfigurazione, una sottilissima inversione, che può aprire un diverso ordine, in cui ogni azione, morale o estetica - e persino l’atto di nascondersi, di sottrarsi -non cade più nel pericolo continuamente risorgente di essere di nuovo fraintesa.

La musica sperimenta al suo interno i momenti di questa inversione, e diviene perciò un privilegiato strumento concettuale, sia metafisico - per il particolare rapporto che essa instaura con la realtà -, sia etico - per la sua concomitanza con la drasticità e l'urgenza dell'azione morale. E questa inversione non si situa lungo un percorso rettilineo, ma nella coesistenza di termini contraddittori (amfibolia): come nella vita morale l'azione si situa al limite della tangenza dell'ostacolo che impedisce con l’organo che favorisce, così la musica rimane in una condizione di medietà tra silenzio e sonorità, tra ineffabilità e linguaggio, tra realtà e finzione. Il rapporto negativo tra musica e realtà non è né un superamento (come in Hegel) né un allontanamento (come in Schopenhauer). La musica per Jankélévitch non annulla la realtà, ma la dissimula, la maschera, per sottrarla agli assalti di coloro che vogliono surretiziamente impadronirsene.

Cosciente della saturazione concettuale a cui la modernità ha costretto il pensiero, Jankélévitch ritrova nella musica la vitalità e la concretezza a cui la parola tende come proprio limite intangibile e inconcepibile. La musica serve a disvelare con più efficacia e immediatezza le verità nascoste, i malintesi sottaciuti, poiché essa, in quanto temporalità fungente, è momento primario, ante-predicativo e precategoriale del pensiero, l'atto della sua formazione prima che esso si obiettivi in un risultato linguistico e formale.

Il singolare viaggio, a cui la musica conduce, è rappresentativo allora delle peregrinazioni a cui la metafisica è costretta nell'epoca del suo massimo smarrimento: è un' "odissea" che parte dall' "ordine del malinteso", in cui si collocano gli inganni che hanno avviluppato la coscienza, per giungere al momento in cui è possibile che quei nodi, prima così ingarbugliati, si sciolgano e che la verità, prima ritenuta sospetta perché ideologica reificazione o perché forma esponenziale di una nuova mistificazione, si mostri nella sua purezza incontaminata. È in questo momento sorgivo che è possibile più che altrove recuperare un ambito di senso, prima dimenticato; è questo il punto focale in cui l'ineffabilità musicale si tramuta in significazione, in cui la disperazione può aprirsi all'innocenza ulteriore e alla possibilità dell'utopia.

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