Ernesto Mainoldi

Musica e natura, suono e silenzio


Il suono dei parchi
: sotto questo titolo suggestivo si è tenuto a Torino, tra il 21-22 marzo 1997, un convegno organizzato dall’Associazione “La Nuova Arca”.


Muovendo dal problema della conservazione dei parchi naturali e dei rapporti tra tecnologia e ambiente, il dibattito ha dato vita a un’accesa discussione sui rapporti tra suoni prodotti dal mondo tecnologico e suoni naturali. La musica, di conseguenza, è venuta a trovarsi in mezzo a questi antistanti poli, da una parte rivendicata da chi la vorrebbe mero artificio umano, risultato di un’interazione di conoscenze empiriche e di tecnologie atte alla produzione del suono, dall’altra come un’arte che ha sempre cercato un rapporto di tipo imitativo con la natura, ricordandosi i vari esempi tratti dalla letteratura musicale (dalla Sesta Sinfonia di Beethoven a Olivier Messiaen). In tale accezione naturalistica si sottintenderebbe la volontà di plasmare il suono come se fosse un’energia naturale grezza - vuoi una roccia piuttosto che una fonte d’acqua silvana - in attesa di un atto “demiurgico” portato dall’artista-artefice. Sul versante opposto, ossia quello della concezione dell’arte come espressione della vis tecnologica prodotta dall’agire umano, si rileverà una sorta di inerziale tendenza alla produzione, in non importa quale forma - cioè a prescindere da un qualsiasi rapporto imitativo.

Si potrà osservare che due posizioni siffatte porterebbero a non piccole conseguenze nella formazione di una concezione della storia della musica: da una parte una storia condotta dall’evoluzione della forma, parallelamente all’evoluzione del rapporto percettivo di tale forma (ciò che costituirà oggetto dell’estetica); dall’altra una storia qualitativamente leggibile secondo ciò che muove la percezione della forma, ovvero secondo un rapporto con ciò che guida la nascita della forma (portando alla costruzione di una metafisica dell’arte, o nel caso migliore alla comprensione della metafisica dell’arte).

In merito a una certa incompletezza insita nella visione “tecnicistica” della musica si è fatto osservare, nel corso della discussione, che un simile tipo di concezione non tiene conto della musica vocale, la cui priorità sulla musica strumentale - almeno nelle tradizioni musicali più antiche - è cosa assodata, al pari del suo essere espressione spontanea a prescindere da un problema tecnologico, cioè l’essere il canto Urtypus dell’arte musicale. A questa osservazione è stato risposto che anche la gola e le corde vocali altro non sono che uno strumento tecnico, sicché la musica vocale non potrà sfuggire a detta prospettiva “tecnologica”: da qui si è arrivati a negare la possibilità di un legame “profondo” tra musica e linguaggio, proprio perché la musica, sfuggendo al complesso “meccanismo” mentale di produzione del significato, si pone in attività esclusivamente sul piano della produzione tecnologica, il cui fattore propulsivo sarà chiamato “creatività”. Seguendo questo ragionamento “creatività” e “significato” si troveranno contrapposti con tutta evidenza, onde sarà il “significato” a sovrapporsi in seconda istanza alla “creatività” quale necessario tramite ermeneutico, unico capace di conferire “senso”. Per contro, seguendo la concezione imitativa, il senso sarà già insito nella forma creata, giacché in essa è posta l’imitazione di un’idea - intesa questa come forma imitativa di una potenza dell’Intelletto -, la quale viene ad essere in atto non sul piano della creatività, bensì già su quello del significato, ancorché tale significato resti impalesato a un approccio estetico o fenomenologico. Qui l’ermeneutica assumerà valenza di rivelazione del significato, ossia traduzione dal significato dell’idea a significato coglibile dal pensiero dialogico.

Non a caso è stata ricordata, sempre a proposito del rapporto musica-natura, l’antica concezione cosmogonica (la quale si può far risalire per quanto riguarda la filosofia occidentale al Timeo platonico), per cui la musica costituisce un’imitazione delle operazioni con cui il Demiurgo ha disposto l’Universo, trovandosi dunque ad essere accidentalmente apparentata con la natura naturata, giacché essa stessa è imitazione diretta delle cause e delle leggi che soggiacciono all’operare della natura.

Da queste due posizioni - e in particolare da quella “tecnicistica” - sono seguite le immancabili prese di posizione e conseguenti proposte volte a “migliorare le cose”, tratto inconfondibile di ogni qualsivoglia discussione animata da sentimenti progressisti. Come sintesi estrema è arrivata la proposta di rendere maggiormente “fruibili” i parchi naturali dotandoli “magari” di sistemi elettroacustici per la diffusione del suono - idea che ha scatenato cori di disappunto.

Sul versante “naturalista” - dimentico di tutta la portata che il termine 'imitazione’ necessariamente viene a implicare (al quale abbiamo sopra vagamente accennato) - si è peraltro fatto ricorso al consueto processo di spiegare la musica attraverso accostamenti immaginali: significativi gli esempi chiamati in causa come brani ispirati a “fatti” di natura, Ionisation e Density 21,5 di Edgard Varèse, dove il primo titolo allude al processo chimico della ionizzazione, mentre il secondo alla densità del platino, materia di cui era fatto il flauto che suonò in prima esecuzione l’opera. In questi casi l’imitazione diviene di tipo visuale, è volta a evocare un’immagine o un modello, onde il processo di costruzione del significato risulterà non auditivo, richiamandosi così a quel processo di evocazione visuale attraverso le note che animava le già ricordate “imitazioni” di Beethoven e Messiaen.

Sembra affatto distante la concezione chiave della prospettiva metafisica e artistica tradizionale, per cui l’imitazione nell’arte deve evocare attraverso la forma ciò che è al di là della forma: ars imitatur natura in sua operatione. L’imitazione musicale, in tale accezione non sarà semplice suggestione visuale, bensì effettiva presa di possesso attraverso l’udito - e solo quello - della potenza insita nel suono: il suo ethos o energia “che affascina” (secondo la definizione indiana del modo musicale - il raga).

Si vedrà che l’impostazione arcaica del concetto di imitazione possa giungere a dare una spiegazione essenziale e unitaria a domande del tipo: la musica veicola un significato, ovvero un seme di conoscenza, così come avviene con la parola? Quale è la vera origine della musica? Il suono ha una forza? E se sì, a quali leggi risponde? Tali domande - tanto usuali nei trattati di musica greci, medievali, indù o taoisti, quanto univoca è la soluzione da essi fornita - appartengono al novero dei quesiti normalmente rifiutati dalla convenzionale discussione filosofica moderna, in quanto non rientranti nelle possibilità del discorso epistemico razionale, sebbene la questione risulti facilmente ovviabile ricordandosi del seguente detto: “Se non puoi rompere un uovo con una piuma, usa il martello”. E non sfuggirà che la piuma-penna è lo strumento tradizionale della scrittura, mentre il martello è produttore di suono.

Anche se si penserà che il discorso sulla musica possa prescindere dal problema dell’imitazione e dunque del significato (laddove il significante o imitante è la musica tout court), e dunque si penserà di aver risolto la legittimità del quesito attraverso il filtro degli studi antropologici e storici con cui si assume una conoscenza come data per acquisita definitivamente e la si colloca nello spazio e nel tempo, evitando in questo modo di comprenderla, ossia di collocarla in sé - tutto questo con abile ricorso alla categoria di relazione -, ebbene la più secca smentita verrà dalla continua ricerca di sempre nuove soluzioni all’interno del discorso relazionale, ciò che ricorda il continuo proliferare delle teste dell’Idra di Lerna...

A chi ambisca a far cessare tale proliferazione l’indicazione del medievale Boezio: “chi vuol comprendere la musica scenda in se stesso”.

Altro tema di non poco conto dibattuto in seno a questo convegno è stato quello del silenzio. Anche qui non è mancato il consueto dividersi in due fazioni, pro e contro. Da una parte si veniva a elogiare il silenzio quale aspetto “sonoro” intrinseco e maggiormente allietante di un ambiente naturale incontaminato, mentre sull’altro versante veniva lanciata la lapidaria affermazione per cui il rumore è vita, il silenzio morte. Al di là di questa chiusura del dibattito, non sarà ingeneroso lamentare la povertà speculativa con cui il pensiero filosofico moderno ha saputo “mettere tra parentesi” il concetto di silenzio - il quale a ben vedere è un concetto metafisico ancor prima che percettivo. Conseguente a ciò, ma ancora più impellente di presa di coscienza, è il fatto che il pensiero occidentale, e dunque l’uomo occidentale, ha perduto ogni memoria della tecnica del silenzio, ovvero non è più capace di “produrre” silenzio, in ciò non solo ignorando quanto la ricca tradizione medievale di pensiero filosofico e mistico ha insegnato in proposito, ma anche tralasciando - nel suo orgoglioso provincialismo intellettuale - ciò che le formulazioni filosofiche di altre aree geografiche potevano aggiungere di pregnante: ad esempio la dottrina del Nada o il fondamentale insegnamento esposto nella Mândukya Upanisad - per fermarci solo a due esempi ripresi dalla tradizione indù.

Giunti a concludere vogliamo chiederci se la discussione intorno ai temi proposti al convegno di cui abbiamo brevemente riferito si possa riassumere più vantaggiosamente attraverso queste ultime considerazioni sul silenzio, così come a rigore dovrebbe essere per qualsiasi discorso sulla musica, e in definitiva per ogni forma di musica, lasciando in tal modo il silenzio padrone del suo misterioso ethos. Questo non solo perché la civiltà in cui viviamo volge sempre più a essere una macchia di rumore, ma soprattutto perché il silenzio secondo natura, oggidì perduto, non è che un riflesso dell’incapacità di ricreare in sé il Silenzio.

Un monaco del deserto di Scete vissuto sedici secoli addietro lasciò detto, di là dalla coltre di silenzio in cui seppe avvolgere la sua figura, tali parole: “Quali che siano le tue pene, la vittoria su di esse sta nel silenzio”.


Relazione tenuta al Convegno Internazionale “ Il suono dei parchi. Accordi incidentali” Torino, Auditorium della Rai-Tv, 21-22 marzo 1997 organizzato dall’Associazione “La Nuova Arca”

 

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