Sergio
Bonanzinga
Il
teatro dell’abbondanza
Pratiche di ostensione nei mercati siciliani
Galleria
di immagini
I mercati, situati fin dall’antichità nel cuore dei centri urbani (sia europei
sia extra-europei), si presentano quali luoghi privilegiati dello scambio
anzitutto delle merci, ma anche delle esperienze che marcano i tempi della vita
umana (dalla nascita alla morte) e dei cicli naturali (apparizione e
sparizione dei prodotti secondo l’alternarsi delle stagioni). Alla centralità
spaziale del mercato si accompagna una simmetrica centralità simbolica, cui
rinviano le molteplici pratiche che vi si svolgono: dal commercio (tecniche
di vendita) alla interazione sociale (contrattazione dei valori sui cui si fonda
l’identità degli individui, dei gruppi e delle comunità), dalla ritualità (mediazione
tra l’umano e l’extra-umano) all’intrattenimento (spettacoli di strada fondati
sul sistema prestazione-offerta, azioni ludiche di vario tipo). Se la qualità
teatrale dei comportamenti socio-rituali e ludico-spettacolari appare evidente,
più indefinita – e proprio per questo più invischiante – si rivela
la teatralità racchiusa nel complesso delle modalità ostensive (esposizione
e imbonimento) adottate dai venditori per allettare gli acquirenti. Questa
dimensione “espressiva” dell’offerta dei prodotti è una marca distintiva del
commercio di piazza, oggi non meno che in passato. Essa scaturisce dalla necessità
di assicurare l’efficacia materiale dell’azione (attirare il maggior numero
possibile di compratori) attraverso una sapiente retorica dei ritmi e delle
forme, dei suoni e dei colori. Nulla è lasciato al caso nell’allestimento della
scena, giornalmente ricostruita da attori che sanno adattare i
modelli tradizionali alle esigenze individuali e al mutare dei tempi[1].
Ormai da vent’anni osserviamo le dinamiche di compravendita nei mercati “storici”
siciliani, cioè in quei mercati urbani stabili dove largamente prevale l’offerta
dei generi alimentari e più spiccatamente persiste una identità di lunga
durata. L’indagine sui codici espressivi (visivi e sonori) che
regolano l’offerta dei prodotti è stata condotta attraverso rilevamenti nei
mercati di Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Trapani, Caltanissetta e Acireale.
Si proporrà in questa sede una prima sintesi dei dati raccolti, selezionando
testimonianze funzionali a rivelare i tratti che strutturano questo peculiare
sistema di vendita. Ai fini di un confronto, utile a cogliere i margini di persistenza
e di mutamento delle pratiche tradizionali, si sono anche considerate altre
consuetudini documentate attraverso la memoria di quanti ne sono stati protagonisti
fino a un recente passato, oppure reperite nella letteratura di interesse etnografico.
Le strategie dello sguardo e le ragioni del gusto
Parari o armari a putìa (addobbare o allestire la bottega)
sono le espressioni tradizionalmente impiegate per intendere l’allestimento
espositivo della merce in vendita. Ogni mattina il venditore deve per prima
cosa riconfigurare l’effimera scena della sua azione, caratterizzandola secondo
la disponibilità dei prodotti e l’estro della giornata (dove giocano aspetti
che vanno dalle condizioni atmosferiche agli umori personali). La “scenografia”
dipende anzitutto dalla disponibilità di spazio davanti alla postazione di vendita,
che orienterà l’esposizione in senso prevalentemente orizzontale o più spiccatamente
verticale (se la strada è stretta). Per i venditori di prodotti ortofrutticoli
l’attrezzatura necessaria alla composizione della temporanea “vetrina” sono
vanchi (banchi), vancuna (banconi), vanchiteddi (banchetti)
e scaffiati (scaffali di legno da appendere al muro), insieme a supporti
improvvisati mediante cassette di legno o di plastica (casci, cascitti,
casciteddi) e a ganci metallici (crocchi) di varia foggia e dimensione
per appendere vegetali “a grappoli” (banane, limoni, agli, cipolle, pomodori,
peperoncini, ecc.). Oggi, diversamente da quanto accadeva in passato, macellai
e salumieri collocano direttamente in strada dei grandi banchi frigoriferi da
esposizione (dotati di ruote), analoghi a quelli che si trovano all’interno
delle normali botteghe. Questa innovazione coesiste tuttavia con più antiche
convenzioni del mostrare. Ancora assai comune è infatti vedere le diverse varietà
di carne poggiate su banconi scoperti o pendenti da stanghe dotate di ganci
fissi o mobili (cruccheri ), collocate al di sopra e alle spalle
del banco-frigo, oppure i caci stagionati ordinatamente disposti a piramide
accanto a più moderni e asettici espositori per generi alimentari. Il pesce
si continua invece a tenere scoperto, sui banconi o nelle cassette (casci
, spaselli), insieme a ghiaccio tritato per mantenerne intatta la freschezza,
separando il pesce da taglio (tonno, pescespada, cernia, ricciola, ecc.) –
collocato su appositi banchi con il piano in marmo (bbalata) –
da tutte le altre varietà. L’architettura delle botteghe, e spesso anche delle
postazioni volanti, è completata da tende (o ampi ombrelloni) e da lampade appese
sulla merce. Queste svolgono una duplice funzione: le tende servono a riparare
(dal sole o dalla pioggia) e le lampade a illuminare il luogo di vendita. Il
loro uso combinato permette nel contempo di gestire il riverbero della luce
per dare colore e “vitalità” ai prodotti esposti. Funzione di “insegna” rivestono
inoltre le fotografie e i dipinti (su legno o metallo) spesso collocati sui
muri di sfondo delle postazioni all’aperto o appesi all’interno delle botteghe.
Si tratta in larga prevalenza di raffigurazioni legate ai contesti della produzione
(scene agresti, pastorali, marinare), della vendita (immagini “storiche” dei
mercati) e del consumo (pietanze cucinate, tavole imbandite, ecc.). Ai contesti
produttivi si riferiscono pure svariati oggetti utilizzati come “icone” del
tempo del lavoro (reti e nasse, panieri di vario tipo, attrezzi contadini, ecc.).
Frequentissime sono infine le fotografie “di famiglia” e le immagini devote,
intese ad affermare l’identità individuale entro una dimensione di sacralità
collettivamente condivisa (si consideri che le strade dei mercati divengono
anche ciclicamente “teatro” delle celebrazioni religiose)[2].
La
testimonianza di un giovane fruttivendolo della Chiazza (Piazza)
di Acireale sintetizza efficacemente il sistema di esposizione di frutta e ortaggi[3]:
Mettendo vicino il pomodoro rosso e i piselli verdi si ha un
colpo d’occhio diverso che mettere le carote vicino ai pomodori. La merce “a
montagna” dà un altro colpo d’occhio [ammucchia i piselli]. Le zucchine messe
belle in alto [verticali], invece che coricate, sembrano un mazzo di fiori.
Lo stesso gli asparagi: così [posati orizzontalmente] sembrano “a peso morto”,
ma in alto si notano subito. Le carote insieme all’insalata verde, guardi che
bell’occhio che dà. Le cassette le mettiamo da salire a scendere, “a scala”.
Le banane attaccate ai crocchi fanno un’altra figura. Peperoni e melanzane
li mettiamo assieme perché nero con rosso si distingue meglio. Un altro bel
segreto è il nostro ombrellone: arrivando la luce del sole, con questi ombrelloni
rossi le arance, le fragole sembrano più colorite, più belle.
Non diversamente, ma con maggiore insistenza sul valore “personale”
della propria competenza, si esprime un fruttivendolo che tiene bottega in via
Pannieri, una delle strade di accesso al mercato palermitano della Vuccirìa [4] :
Questo lavoro non è che si fa o si inventa, nasce con me. Io tutte le mattine,
quando faccio la vetrina, dipende dai periodi di stagione, si accoppiano i colori
sia per la frutta sia sulle verdure e sia sugli ortaggi. Alla conclusione di
tutto, quando si finisce di addobbare, mettendo un po’ di verde in mezzo alla
frutta, viene fuori un quadro eccezionale. […] U scaffiatu è un tipo
di arredamento più antico che hanno solo le botteghe come la nostra con più
di ottant’anni di attività. La tenda è rossa per dare più colore al tipo di
luce che usiamo noi quando c’è il sole o quando piove.
La strategia cromatica si può considerare una costante del sistema
di esposizione dei prodotti ortofrutticoli, come ribadisce un venditore del
mercato di Strat’â fòglia (Strada della foglia) a Caltanissetta: «Tutta
questione di colori è: banane, fragole, arance. Bisogna spezzare i colori»[5]. Il medesimo criterio viene d’altronde adottato anche dai pescivendoli,
i quali giocano alternando a esempio il rosso delle triglie e dei gamberi, con
il bianco dei calamari e il grigio-azzurro di altre varietà di pesce.
Nelle pescherie le tende (oppure gli ombrelloni) e le lampade contribuiscono
in modo più sensibile a dare risalto alla qualità della merce in mostra. Il
particolare riverbero della luce artificiale, insieme agli spruzzi d’acqua che
i venditori ripetono con frequenza, intensificano difatti la lucentezza del
pesce e ne mantengono “vivo” l’occhio. Per questa ragione anche le pescherie
collocate al coperto – come nel caso del monumentale portico della Chiazza
di Trapani – non mancano di ricorrere ai tipici ombrelloni rossi e alle
lampade sempre accese. All’idea di vitalità e freschezza rinvia anche l’uso
di legare con filo di nylon la testa alla coda dei pesci di medio taglio (aggammari
u pisci nel Palermitano), mantenendoli in posizione arcuata come fossero
ancora guizzanti.
Un pescivendolo trapanese della Chiazza illustra il proprio sistema di
esposizione che, nel metodo di base, rispecchia consuetudini più ampiamente
applicate[6]:
Il pesce di taglio va tutto messo da una parte, il pesce da zuppa,
da frittura o da arrosto dall’altra. […] Chistu è ttàvulu di tàgghiu, unni
cci mintemu a tunnina, piscispata, lattumi , cernie, a ricciola,
tutto pesce di taglio. [Indicando la parte opposta dello spazio di vendita]
Avanti cci mittemu tuttu u pisci di tezza – u rrungu, opa, scrummu
– e invece supra mintemu pisci di prima e secunna. Un’estetica è.
S’av’a ddari sempri u trasi e nnesci nnê pisci.
Questa “estetica” si declina dunque su tre piani: a) la
varietà (il pesce da taglio va separato dal pesce minuto); b)
la qualità (pesce di prima, di seconda e di terza scelta – rispettivamente
detto scamali , muddami e mazzami – occupano
parti diverse del bancone a partire dall’alto); c) il cromatismo (si
devono accostare i pesci “spezzando” i colori). Solo così si arriva a dare «l’entra
ed esci nei pesci» (u trasi e nnesci nnê pisci), si riescono cioè a mediare
le ragioni della “scenografia” con quelle del commercio, offrendo agli acquirenti
una esposizione tanto accattivante quanto funzionale alla scelta.
Una certa inclinazione “teatrale” presentano anche le operazioni di pulitura
e di taglio, sempre effettuate a vista su grandi taglieri per il pesce (vanchi
– o tàvuli – i tàgghiu, tavulazzi, tavuleri)
e su imponenti ceppi di legno per la carne (ccippi). Se il tonno si taglia
a iniziare dalla testa, il pescespada si comincia invece a tagliare dalla coda,
sicché la testa culminante nella lunga “spada” possa restare fino in fondo a
testimoniare l’originalità del prodotto (talvolta si spaccia per pescespada
altro pesce da taglio di minor pregio). Coltelli di varia foggia e dimensione,
adoperati con studiata perizia da pescivendoli e macellai, acquistano pertanto
un ruolo assai pregnante entro le scenografie del mercato. Perfino la pulitura
degli ortaggi (carciofi, lattughe, finocchi, ecc.), che di solito i venditori
effettuano nei momenti in cui la domanda è meno intensa, si qualifica per una
certa enfasi dei gesti, sempre comunque finalizzata a rimarcare in qualche modo
la qualità della merce.
Come ha posto in
evidenza il fruttivendolo palermitano della Vuccirìa, le “vetrine” si
possono abbellire con elementi vegetali di vario tipo. Ramoscelli di verde (alloro,
mirto, asparago selvatico, rosmarino, ecc.) si vedono spesso spiccare dalle
cassette di frutta e non è raro che vengano impiegati anche frutti e fronde
artificiali per rendere più attraente la “scena”. Queste modalità decorative
sono in larga parte affidate alla creatività individuale, anche se alcune configurazioni
riflettono un codice più ampiamente condiviso. Nei mercati palermitani si usa
a esempio esporre i bbabbaluci – una varietà di piccole lumache
tipiche del periodo primaverile-estivo – in ampi contenitori di canne
intrecciate (caitteddi) da cui emergono vistosi mazzi di spighe di frumento.
Un venditore del Capu (Capo) ne specifica il motivo: «Perché così si
capisce che sono i bbabbuluci che stanno nei campi e non quelli di allevamento»[7].
Insomma le spighe assumono valore di “etichetta”, equivalgono a dire “origine
controllata” del prodotto, al di là del mero valore ornamentale che rivestono
entro questa mini-scenografia rurale. All’origine del prodotto alludono anche
le brillanti alghe verde-smeraldo (lattuca i mari o aicca i ciàvuru,
‘lattuga di mare’ o ‘alga profumata’ nel Palermitano) che di norma punteggiano
i banchi delle pescherie. Tra i pescivendoli permane inoltre – anche se
sporadicamente – l’uso di adornare con fiori rossi (rose o garofani) l’esposizione
di tonni e pescespada. Su un banco di piazza Pardo, nel cuore della Piscarìa
(Pescheria) di Catania, tra due imponenti tranci di pescespada e di tonno, si
staglia una brocca di vetro contenente un mazzo di rose rosse (artificiali)[8]. Due donne che vendono il pesce
alla Fiera (altro mercato storico catanese) sottolineano la vitalità
della consuetudine: «Sempre a fiori quando c’è il pesce assai»[9]. Un pescivendolo della Chiazza
di Trapani declina invece l’uso al passato: «Come tradizione, quando il tonno
riusciva di colore spettacolare, ci si metteva un bel mazzo di fiori, di rose
oppure garofani, per significare la freschezza e la qualità bella. Allora si
gridava: Câ ciuri vieru l’àiu, câ ciuri! [Coi fiori per davvero
ce l’ho, coi fiori!] – Ora fineru tutti sti cosi»[10]. Ma se a Trapani «queste cose sono ormai finite»,
nel mercato palermitano di Bbaddarò (Ballarò) l’antica pratica si manifesta
tuttora vitale. Su un banco della “Pescheria del pesce fresco di Porticello”,
situata in piazza del Carmine (all’inizio di via Giovanni Grasso), dalle bocche
spalancate di due pescespada spuntano mazzi di garofani artificiali insieme
a un grande girasole, mentre in un angolo della bbalata, davanti ai rossi
tranci di tonno, si trova una boccia di vetro ricolma di ciuffi di menta. «Nel
vero tonno ci si mettono i garofani veri e quelli finti, il colore delle rose
della tunnina nostrale di Porticello!», grida il venditore, replicando
in forma di abbanniata (imbonimento) alla nostra richiesta di chiarimento[11].
Un centinaio di metri più avanti, alla “Boutique del pesce” situata all’altro
capo della piazza, i fiori in bocca a un enorme pescespada ancora intero sono
invece freschissimi: «Ho messo queste rose di maggio perché il pesce spada è
favoloso e se le merita queste rose. Perché è una cosa di lusso!» E il venditore
prosegue modulando un adeguato richiamo: O ma che ppescespata! E cche rruose
di tunnina e cche rruose! (Che pescespada! E che rose di tonno!)[12].
L’associazione cromatica che si impone allo sguardo si traduce quindi in imbonimento:
“questo tonno ha il colore delle rose”, secondo una procedura comparativa ricorrente
in molte grida di richiamo (cfr. infra).
Se le decorazioni floreali restano ormai una rarità, molti sono invece i pescivendoli
palermitani che sulle bbalati dove si taglia il tonno pongono
rigogliosi ciuffi (cfr. supra ) – o addirittura piantine
– di menta. Questa ulteriore presenza vegetale, oltre a una efficace funzione
ornamentale ottenuta mediante l’accostamento tra verde intenso e rosso sgargiante,
suggerisce implicitamente uno dei tipici modi di cucinare il tonno: lo stufato
steccato con aglio, pepe e menta (tunnu mmuttunatu). Anche altre modalità
ostensive rinviano d’altronde al “tempo del consumo”, prefigurando alcune tra
le preparazioni più comuni dei prodotti offerti oppure proponendone condimenti
e contorni. Alla Piscarìa di Siracusa abbiamo osservato un mucchio di
“cozze locali” punteggiato da fili di sedano, pomodori e limoni interi e a metà:
una straordinaria varietà cromatica costituita da verde, rosso e diverse gradazioni
di giallo (interno/esterno dei limoni) su sfondo nero[13]. Nei mercati di Palermo il bianco
del baccalà è sempre vivacizzato dal rosso dei pomodorini a grappoli e dal giallo
dei limoni, mentre sui banconi delle macellerie sanguigni pezzi di carne vengono
spesso esposti sopra verdi foglie di lattuga. Le diverse varietà di olive, esposte
a piramide in particolari banchi decorati a colori sgargianti, si accompagnano
a rosmarino, alloro, peperoncini o limoni. Come prassi espositiva ricorrente
tra i fruttivendoli abbiamo rilevato l’associazione delle arance rosse (tagliate
a metà) con le fragole. Qui la procedura di associazione cromatica (cfr. supra),
traducibile nello slogan “arance rosse come fragole”, rinvia anche a una delle
preparazioni più comuni: le fragole al succo d’arancia.
Un più stretto riferimento al piano del consumo presentano le molte pietanze
già preparate disponibili sui banchi delle macellerie (carni farcite, panate,
marinate, ecc.), delle pescherie (dall’insalata di mare al condimento per il
risotto, dagli involtini di pescespada a quelli di sarde) e presso i venditori
di prodotti ortofrutticoli (cipolle e peperoni al forno, patate, fagiolini e
carciofi bolliti). Gli alimenti cotti o elaborati vengono tenuti sempre separati
da quelli al naturale. La salsiccia di maiale, che è pur sempre il risultato
di una specifica preparazione, viene invece appesa ai crocchi insieme
a capretti (interi o a metà, ai quali viene tuttavia sempre lasciata una parte
di coda come segno distintivo rispetto all’agnello, considerato meno pregiato)
e a diverse altre varietà e tagli di carne (vitello, agnello, trippa, pollame,
coniglio, teste di maiale, ecc.), delineando in certi casi sontuosi scenari
dell’abbondanza alimentare. In occasione della Pasqua l’ostensione intensificata
di agnelli e capretti assume addirittura valenza rituale, mischiandosi all’arcaica
ideologia del sacrificio in onore del dio risorto.
Nei mercati tradizionali le dinamiche dell’offerta non si esauriscono tuttavia
nelle retoriche dello sguardo. È spesso consentito toccare la merce per saggiarne
freschezza e qualità, selezionando personalmente i prodotti da acquistare (diverse
volte abbiamo addirittura osservato i venditori mettere dei contenitori di plastica
a disposizione della clientela per la scelta dei carciofi). In qualche misura
codificata è anche la “licenza di assaggio” di qualunque cibo immediatamente
commestibile (dalle olive alla frutta, dai caci ai salumi). I clienti divengono
in questo caso destinatari di una comunicazione intersensoriale che mentre orienta
gli acquisti già prelude ai piaceri della tavola. Come rilevato nella Chiazza
di Trapani e nella Piscarìa di Catania, a volte l’assaggio si
trasforma in vera e propria degustazione. Nello stesso banco di piazza Pardo
che sfoggiava le rose tra i pesci da taglio (cfr. supra), un piatto contenente
delle fettine di pescespada marinato (con olio, limone e peperoncino) è a disposizione
dei passanti. Il venditore – che offre anche altre varietà di pesce marinato
(tonno e masculini, ‘acciughe’) – ripete l’invito: Manciassi,
manciassi! (Mangi!). Tra fiori sgargianti e prelibatezze in omaggio l’effetto
centripeto è assicurato. Lo stesso metodo pubblicitario è impiegato da un venditore
di “prodotti di tonnara” della Chiazza trapanese: i piattini con le diverse
varietà di derivati dal tonno (insaccati, salati, sottolio, ecc.) sono ordinatamente
disposti su un tavolo fornito di stecchini e tovaglioli di carta per un più
agevole e igienico consumo. Una modalità che si può ritenere esemplare dei canoni
tradizionali dell’assaggio è stata osservata nel mercato nisseno di Strat’â
fòglia presso un banco di frutta. Il venditore grida: Tri cchili
a ddu euru, avanti! Rigalati, rigalati! (Tre chili e due euro, avanti!
Sono regalati!). Si tratta di arance e un cartellino indica: «Brasiliano / Ribera
/ ¤ 0,65 Kg» (l’imbonimento arrotonda quindi per eccesso il prezzo segnalato,
¤ 2 anziché 1,95). Il venditore taglia un’arancia a metà e la porge a due potenziali
acquirenti: «Avanti, assaggiassi! Cci dicu assaggiassi!» (Avanti, assaggi! Le
dico assaggi!). Entrambi acquistano la quantità proposta (tre chili) e al momento
del peso il venditore rimarca una lieve eccedenza: Cchiossài, ammuttamu!
(Di più, andiamo avanti!). Una generosità che egli vorrebbe subito compensata
da ulteriori vendite: Nn’atri tri cchili! (Altri tre chili!)[14].
I
frequentatori dei mercati possono anche soddisfare in loco le proprie
necessità e curiosità gastronomiche presso taverne, botteghe, chioschi e venditori
ambulanti di cibi cotti. La “cucina da mercato” – in buona parte coincidente
con quella “cucina di strada” tanto acutamente indagata da Fatima Giallombrado
(1995) – si qualifica anzi come specifico oggetto di ricerca. Essa ruota
principalmente intorno a una serie di alimenti “liminari”, quali a esempio le
interiora di vitello arrostite (stigghiuola a Palermo, taiuni
a Messina) o bollite (quarumi a Palermo e a Catania), le lumachine condite
con aglio e prezzemolo (bbabbaluci), il pane con la milza (pani câ
mièusa) e altre ghiottonerie tipicamente palermitane come il mussu
(cartilagini del bovino – testa, piede, ginocchio, ecc. – bollite
e servite fredde) o la frìttula (residui della macellazione dei bovini
fritti nel grasso). Tra le pietanze tipiche da taverna si segnalano le fave
in umido, le polpette di carne o di sarde (fritte o al sugo), le insalate con
pomodoro, acciughe e pezzetti di carne bollita. Comuni sono anche le friggitorie
che offrono a Palermo le tipiche frittelle di farina di ceci (panelli)
e le crocchette di patate (cazzilli), servite in soffici panini di forma
tonda (mmuffuletti ), insieme a carciofi (cacuòcciuli
), cardi (caidduna) e “broccoli” (vròcculi) fritti in pastella
(m’pastedda). I bbabbaluci vengono di solito cucinati in grandi
pentole di rame (quarari ) collocate davanti alle botteghe di
prodotti ortofrutticoli e offerti in grandi teglie poggiate su appositi
banconi. Tutti gli altri alimenti possono essere venduti sia in postazioni stabili
(chioschi e taverne) sia su banchi mobili, spinti a mano, attrezzati per l’esposizione
dei diversi cibi (a esempio per la frìttula si usa un grande paniere
internamente foderato di carta oleata e rivestito di canovacci per mantenere
costante la temperatura). Speciali carrelli vengono anche utilizzati, sempre
nei mercati di Palermo, per la vendita della focaccia con cipolla e pomodoro
(sfinciuni ), delle pannocchie bollite (pullanchi,
pullanchielli) e della zucca lunga (cucuzza longa) bollita e posta
su blocchi di ghiaccio per essere servita fredda (gli ultimi cibi compaiono
solo nei mesi estivi). Una postazione fissa è invece necessaria per la cottura
e la vendita del polpo bollito (pruppu vugghiutu ), servito su
un bancone in grandi piatti di ceramica, guarniti da limoni tagliati in due,
da cui si prelevano i gustosi bocconi direttamente con le mani.
Non è infine casuale che
il piano del consumo alimentare si fonda talvolta con quello dell’intrattenimento
ludico, come accade nelle taverne per il “gioco del tocco” (u toccu),
dove ci si sfida mettendo in palio il vino o la birra, oppure nel caso di un
tipo di lotteria estemporanea che si effettua per le vie dei mercati palermitani,
il cui premio è proprio rappresentato da un vassoio ricolmo di pesce e altri
alimenti (a rriffa râ spisa )[15].
L’efficacia dell’ascolto
La vendita dei prodotti alimentari – effettuata tra i banchi dei mercati
o per le strade dei centri urbani – è ancora spesso reclamizzata attraverso
un ampio repertorio di richiami, in osservanza al celebre motto Rrobba abbanniata,
menza vinnuta! (Merce “gridata”, mezza venduta). Con i termini abbanniata
(o abbanniatina), bbanniata (o bbanniatina), vanniata
si usa infatti definire nelle varie parti della Sicilia la pratica dell’imbonimento,
diffusamente impiegata fino a un recente passato per propagandare qualsiasi
offerta di prodotti o servizi[16].
Giorgio Raimondo Cardona, che considera le grida di reclame nell’ambito
di una tassonomia dei “generi dell’arte verbale”, esprime alcune utili valutazioni
di ordine complessivo: «Come la pubblicità dei mass-media, questi richiami devono
combinare efficacia (in termini di contenuto di informazione) ed economia (brevità)
e nello stesso tempo essere anche peculiari e distintivi del venditore, e tali
da colpire l’ascoltatore. […] La forma generale di questi brevissimi messaggi
pubblicitari è innanzitutto caratterizzata da fatti di intonazione: particolari
qualità della voce e altri espedienti “soprasegmentali”, profilo melodico riconoscibile;
sul piano sintattico, le frasi sono spesso brachilogiche perché sottintendono
già un quadro illocutivo ben preciso. Così il grido “Fichi!” non è ambiguo se
gridato da un venditore, in quanto sottintende tutto ciò che è necessario» (1976:
204). Nel caso siciliano i richiami sono caratterizzati dalle seguenti modalità
formali e contenutistiche: a) l’intonazione si dispiega entro
un ambito che può andare dal “gridato” al “cantato”; b) la metrica nella
maggioranza dei casi è libera, anche se a volte si riscontrano schemi strofici
determinati (cfr. Tiby 1957: 96-97); c) il testo può spaziare
dalla semplice iterazione del prezzo della merce (grado “zero” dell’imbonimento)
a un complesso formulario di espressioni – spesso basate su figure retoriche
quali comparazione, perifrasi, metafora, iperbole (cfr. Pennino 1990: 422-426)
– intese a menzionare e a descrivere i prodotti in vendita.
Si segnala che il termine ‘imbonimento’ (letteralmente “rendere buono” e per
estensione “magnificare qualcosa”), qui liberamente utilizzato in alternativa
a ‘richiamo’, nella sua accezione più propria si riferisce a espressioni di
propaganda che possono presentare una articolazione testuale piuttosto estesa.
Imbonimenti e richiami rientrano comunque nella categoria dei suoni-segnale [17] , svolgendo funzioni
che investono almeno tre piani del sistema comunicativo: a) qualificare
l’identità di chi vende e della merce in vendita (funzioni designativa
e demarcativa, che cioè rappresentano l’insegna di un dato venditore
e segnalano la marca della sua merce); b) mantenere il contatto
con i destinatari del messaggio (attirare l’attenzione) ed esercitare pressione
(persuadere) su di essi (funzioni fàtica e conativa secondo la
griglia delle funzioni linguistiche di Roman Jakobson); c) attivare componenti
ludiche e più in generale espressive che possono anche prescindere dalle ragioni
strettamente legate al commercio e talvolta non avere specifici destinatari
(ancora seguendo Jakobson, funzioni emotiva , riguardante l’espressività
soggettiva, referenziale , nel caso di richiami genericamente
orientati verso il contesto, e poetica, relativa alla dimensione creativa,
estetica, che presiede alle modalità di formulazione del testo).
La varietà formale e stilistica dei richiami pubblicitari siciliani è tendenzialmente
determinata dalla provenienza sociale dei venditori (quasi esclusivamente di
sesso maschile), poiché vi confluiscono sia elementi derivati dai repertori
poetico-musicali tradizionali sia componenti connesse alla vocalità impiegata
in determinati contesti ergologici: nel Palermitano le abbanniati di
prodotti ortofrutticoli rinviano spesso allo stile di canto dei carrettieri
(cfr. Guggino 1991: 15 e Pennino 1990: 426); nel Messinese si ravvisa una netta
demarcazione tra le bbanniati dei pescivendoli, che presentano il medesimo
tipo di vocalità riscontrato nei richiami di pesca, e quelle dei venditori di
frutta e ortaggi che sono più prossime ai canti dei carrettieri e dei contadini
(cfr. Bonanzinga 1997: 23-24)[18]. Va inoltre ricordato che già alla fine del
secolo scorso i folkloristi siciliani avevano rilevato la differenza fra le
abbanniati “di strada” (degli ambulanti) e quelle di putìa (dei
bottegai), concordando nell’attribuire alle prime una più pregiata articolazione
del profilo melodico. La ragione di questa differenziazione è ovviamente da
individuare nella specifica funzione assolta dall’abbanniata nel commercio
ambulante. In questo caso il suono, oltre a trasmettere un messaggio, è di per
sé messaggio in quanto comunica la presenza di una classe di venditori (a esempio
‘pescivendoli vs fruttivendoli’) e, più precisamente, di quel particolare
venditore il cui grido è noto nel circondario in cui è solito operare. I processi
imitativi innescati dai contatti fra venditori e la propensione a elaborare
soluzioni melodico-verbali individuali contribuiscono tuttavia a determinare
una circolarità delle formule di imbonimento non sempre riducibile a schematizzazioni
rigide, anche perché talvolta lo stesso venditore tratta prodotti diversi secondo
le stagioni e/o le occasioni, adattando alle differenti mercanzie le pertinenti
formule di richiamo, oppure si trova ad alternare l’attività di vendita ambulante
a quella stanziale (in postazioni volanti nei mercati o impiegandosi temporaneamente
presso botteghe).
Ulteriori precisazioni riguardanti le “voci dei venditori” siciliani verso la
fine dell’Ottocento – assai rilevanti a fini comparativi – emergono
dalle pagine di Giuseppe Pitrè (1882: 289-291):
Caratteri delle voci il sottinteso, il doppio senso, che porta l’equivoco, il
frizzo, anche la licenza. Qualche volta, perché venga chiamato sulla merce l’occhio
e l’attenzione della gente, non manca la sgarbatezza e la sguaiataggine. Il
tempo e l’occasione determinano le voci. Una voce fuori stagione è una stonatura,
e basta ad attirar la curiosità de’ popolani che la sentono e ne restano stranizzati.
In Palermo un venditor di seme, che di tanto in tanto cerca farsi ad ogni costo
sentire gridando la sua robacome la si grida ne’ giorni del Festino
di S. Rosalia, è accolto a fischi, a schiamazzi e a certi suoni imitativi della
bocca, che sono indubbi segni di disprezzo. Vi son voci le quali esse sole ci
fanno accorgere che una nuova stagione, un dato tempo si avvicina, come della
primavera ci avverte il fiorir degli alberi e il sorriso della natura tutta;
onde l’animo si allieta. Tutti poi abbiam provato la triste impressione di certe,
che il popolo qualifica per voci di cattivo tempo. […]
Molte voci son tradizionali, molte
altre non lo sono, perché temporanee, occasionali, personali. Lo spirito di
novità porta a dispettare il passato; ma se una gridata tradizionale c’è, la
non si perde pel nuovo ribelle venditore: e per uno che la trascuri, vi son
dieci che la faran sentire. Le tradizionali hanno vita lunga, ripetendo la loro
fortuna dalla felicità della qualificazione, dall’arditezza della iperbole,
dalla esatta rispondenza della perifrasi dell’oggetto che si vocia, ma più che
altro dalla misura in che si chiudono e dalla particolare cantilena che le accompagna.
[…] Parole e cantilena vanno sempre insieme; e, più ancora
che nel canto popolare, ogni formola ha la sua cantilena propria, che non facilmente
si toglie o si dà ad imprestito. Le parole si contraggono, si allungano, si
spezzano senza pietà né regola per tradursi e perdersi in note infinitamente
strascicate, stemperate. La nota più comune è la malinconica, la lamentevole;
ma non manca l’allegra, che ritrae dallo schiamazzo chiassaiuolo de’ vicoli
e dei mercati in che si vuole far sentire. Ve ne hanno di brevissime, che si
traducono in un iato acuto che non dice nulla; e ve ne hanno delle lunghe, ma
non troppo perché si possan dire una filatessa di parole: queste voci inclinano
alla ilarità, alla gaiezza. Allora bisogna pensare che è la buona stagione,
quella in cui la natura sorridente ha moltiplicato i venditori. Parecchie di
queste voci lunghe da cerretani raccomandano ai presenti la mercanzia con motteggi
talora salaci e sboccati.
Vediamo ora una serie di
espressioni propagandistiche registrate a Villabate (Pa), Belmonte Mezzagno (Pa), Salemi (Tp) e Messina, a iniziare
da alcuni imbonimenti fondati sulla comparazione e sull’iperbole. Si offrono
infatti pere tanto mature da potersi “bere”, fragole “grosse come albicocche”,
fichi “più dolci dei datteri”, pesche “come meloni”, cavolfiori “come ricotta”,
tonno “come mostarda”, gelsi “migliori delle fragole” e costardelle –
una varietà di pesce azzurro – altrettanto “saporite”:
Pira
bbutiri àiu ca si fannu sucari veru! Pira bbutiri ca si màncianu e si vìvunu!
(Ho pere burrone che sono proprio da succhiare! Pere che si mangiano e si bevono!)[19]
A trentasei rana
veru cci scalaru sti fràguli! Chisti veru varcoca sunnu, varcoca! I fràguli
frischi! (A trentasei soldi è proprio calato il prezzo delle fragole!
Queste sono proprio albicocche! Le fragole fresche! )[20]
Ma chi rattuleddi chi àiu di fica! Ma chi rattuleddi chi àiu di fica!
Ora ci vonnu piatti d’argentu a sti fica ianchi, ianchi e puliti! E bba, rigalàtili,
puliti! Sunnu dâ Codda! (Ma che datterini sono questi fichi! Ci vogliono
piatti d’argento per questi fichi bianchi e puliti! E va, regalateli, puliti!
Vengono dai Colli!)[21]
Muluna vieru è sta gran pièssica! (Proprio un melone è
questa gran pesca!) [22]
Ma ch’è bbeddu iancu, iè comu la ricotta stu càvuliciuri! (Ma
com’è bello bianco, è come la ricotta questo cavolfiore!)[23]
Iàiu tunnina ch’iè ccomu a mustadda! (Ho tonno che è come
mostarda!)[24]
Gghiosa, gghiosa! Gghiosa nira mègghiu di fràguli! E ch’è nnira ch’è
bbedda sta gghiosa! (Gelsi! Gelsi neri migliori delle fragole! E come sono
neri e come sono belli questi gelsi!)[25]
A ddu liri, a ddu liri! Custardeddi rruossi! Sunnu cu sapur’i fràuli sti custardeddi!
Pari chi fràuli su sti custardeddi! A ddu liri! Ma chi ciauru chi fannu! (A
due lire! Costardelle grosse! Hanno il sapore delle fragole queste costardelle!
Sembrano fragole queste costardelle! A due lire! Ma che profumo che fanno!)[26]
Come nella
bbanniata che vanta la qualità dei fichi raccolti sui Colli che circondano
Messina, in svariati richiami si usa menzionare il luogo d’origine del prodotto,
enfatizzando in questo modo la funzione demarcativa. Così accade
a esempio per le pregiate ciliege “napoletane” (grandi “come mele”), per i fichi
e le noci del “Parco” (territorio di Altofonte, nella parte alta della Conca
d’Oro), per la pesca di Carini (Pa), per l’ormai quasi estinto muluni dû Faru (anguria
del Faro, nella zona di Capo Peloro) e per la sarda di Castellammare (Tp):
Napulitani ruossi iàiu, chi bbelli ggirasi! Ggirasi i Nàpuli com’a li puma!
(Che belle ciliege napoletane grosse che ho! Ciliege di Napoli come le mele!)[27]
Dû Paiccu l’àiu, chi bbeddi ficu! Paicchitani vieru l’àiu i ficu! (Del Parco
li ho, che bei fichi! “Parchitani” proprio li ho i fichi!)[28]
Paicchitana l’àiu sta nuci, eni vieru bbianca! (“Parchitana”
ce l’ho questa noce, ed è proprio bianca!)[29]
Di Carini àiu pièssica! Ch’è
bbella pièssica, ch’è bbella pièssica! Pièssica di Carini, pièssiche! (Ho
pesche di Carini! Che bella pesca! Pesca di Carini, pesche!)[30]
Scalar’u muluni faruotu, faruot’u muluni! Dû Faru iàiu muluni! Scalaru
i muluni! Scalaru i muluni faruoti, dû Faru iàiu muluni! (È ribassato il
prezzo del melone “faroto”! Ho meloni del Faro! È ribassato il prezzo dei meloni
“faroti”, ho meloni del Faro!)[31]
E di Casteddammari arrivanu li saiddi! Saidduzzi chi bbìnniru ora!
Saiddi, saiddi! E cchi bbeni duci la pasta cu li saiddi! Saidduzzi di Casteddammari,
saiddi! (E da Castellamare arrivano le sarde! Sarde che sono arrivate ora!
Sarde, sarde! E come viene dolce la pasta con le sarde! Sarde di Castellamare,
sarde!) [32]
Nell’ultimo testo si fa riferimento a una delle pietanze siciliane più note:
la pasta con le sarde. I venditori non si limitano infatti a decantare convenienza
e qualità della merce, ma giungono a suggerire possibili associazioni e preparazioni
(si osservi che il primo richiamo presenta una strutturazione metrica in quartina):
Chi
bbella sta fasulina / ca l’àiu vieru fina! / A facitivilla câ nzalata / sta
bbella fasulina! (Che belli questi fagiolini / che
sono proprio pregiati! / Fateveli in insalata / questi bei fagiolini!)[33]
Signura,
va facitivilla vieru a nzalata, ca vi purtavu pumaruoru, patati e a fasulina!
(Signora, fatevela proprio l’insalata, che vi ho portato pomodori,
patate e fagiolini!)[34]
Vaciticcillu a ffarri vieru u cumpanàggiu ê vostri mariti, nna lira
nni viennu reci milinciani ca l’ât’a ffari â parmiciana! Bbbeddi nìvuri! (Andateglielo
a preparare davvero il companatico ai vostri mariti, con una lira ne vengono
dieci melanzane che dovete fare alla parmigiana! Belle nere!) [35]
Rruossi e nnìvuri milinciani! Bbelli miliciani, bbelli milinciani, vâ faciti
a caponatina chî milinciani! Rruossi e nnìvuri milinciani! (Melanzane grosse
e nere! Belle melanzane, vi fate la “caponatina” con le melanzane!)[36]
Chi viennu bbelli a gghiotta, bbabbaluci! Cchiù ruossi di crastuna iè, bbabbaluci!
(Come vengono bene in umido, bbabbaluci [piccole lumache]! Sono più grossi
dei crastuna [lumache di grandi dimensioni])[37]
Vi ll’avit’a ffari vieru ammudicati, a nna lira reci cacòcciuli! Chi ssu tiènniri!
(Ve li dovete proprio fare imbottiti di mollica, a una lira dieci carciofi!
Come sono teneri!)[38]
A gghiotta, a bbracioli, a bbecchificu chi vvenunu bbelli st’ancioi! (Al
sugo, imbottite, a “beccafico” come vengono bene queste acciughe!)[39]
Iè comu li vuliti fari vi li faciti! Arrustuti, fritti, ammarinati li faciti!
«Chisti èrinu pisci – saiddi, tunni – pi farli con la cipolla e
l’aceto» (E come li volete fare ve li fate! Arrostiti, fritti, marinati li preparate!
«Questi erano pesci – sarde, tonni – da fare con la cipolla e l’aceto»)[40]
Il testo degli imbonimenti può a volte contenere riferimenti alle circostanze
della vendita o – se pure metaforicamente – al contesto produttivo.
È questo il caso del primo esempio dove si decantano ciliege talmente grosse
e mature che “sembrerebbero colte da Maria Paris”, una nota interprete
di canzoni napoletane degli anni Sessanta:
Pari
ca vieru Maria Paris i cugghìu sti quattru cirasi, ca l’àiu vieru nìvuri e gruossi!
Cirasi nìvuri! (Pare che proprio Maria Paris
le ha raccolte queste quattro ciliege, che sono davvero nere e grosse!
Ciliege nere!)[41]
Cumpari Peppi, cumpari Peppi, nun lu sparati ora stu iocu di fuocu, facitimilla
vìnniri vieru sta càlia! (Compare Peppe, compare Peppe, non
sparatelo ora questo gioco di fuoco, fatemeli proprio vendere questi ceci abbrustoliti!)[42]
Ancora alle circostanze di vendita, ma con una più ampia articolazione del contenuto
verbale (oltre che con una intonazione melodica particolarmente notevole), fa
riferimento l’abbanniata del tonno rilevata a Salemi, così illustrata
dal venditore ambulante Benedetto Di Dia: «Il tonno lo portavano da Bonagìa,
da Castellammare coi carretti, all’epoca. […] Si pigliava un pezzo di tonno
in un foglio di carta e si girava per il paese bandizzando che c’era il tonno,
o alle volte neanche si metteva in mano e si girava il paese abbanniannu.
[…] Quando c’era un pochettino di crisi, che non si poteva vendere il tonno,
e c’erano quelle giornate di scirocco nei mesi di maggio e giugno, col tonno
appeso [i tonni ancora interi si tenevano appesi a una stanga], il vento l’annacava
e il sole l’asciugava e si diceva»:
Taliàtila
ch’è bbiva, surra e tunnina, surra e tunnina! E lu culuri di la cirasa àvi,
ch’è bbiva! Surra e tunnina! / E lu ventu mi l’annaca e lu suli mi l’asciuca,
ch’è bbiva! / Surra e tunnina! / E tu manciasti surra e iò tunnina, semu a la
para fin’a ddumani matina! / Surra e tunnina!
(Guardatela ch’è viva, surra [pancia del pesce che si vende anche
salata o essiccata] e tonno! E ha il colore della ciliegia, ch’è viva! E il
vento la dondola e il sole l’asciuga, ch’è viva! E tu hai mangiato surra
e io tonno, siamo alla pari fino a domani mattina! Surra e tonno!)[43]
La vicenda biografica del venditore Di Dia si presta a esemplificare le modalità
di trasmissione e circolazione dei moduli melodico-verbali caratterizzanti la
propaganda commerciale tradizionale:
Io
sono nato a Marsala e poi sono venuto a Salemi, mi sono fidanzato e mi sono
sposato nel 1952, ed è dal ’52 che abito qui a Salemi. Io a Marsala vendevo
soltanto pesce. Poi invece qua a Salemi vendevo pesce, vendevo frutta, vendevo
verdura, vendevo noccioline e simenza [semi di zucca tostati],
andavo a comprare polli nelle campagne, vendevo galline e facevo di tutto… vendevo
pure budelli di maiale per fare a sasizza [la salsiccia], a cento
lire al metro li vendevo. […] C’era la buonanima di mio suocero: quello era
un “abbandizzatore” internazionale. Fatto è che il Comune quando doveva “abbandizzare”
che mancava l’acqua, che si dovevano iscrivere i bambini a scuola… chiamavano
sempre a lui. E c’era lui che “abbandizzava” e un altro col tamburino che suonava
per fare affacciare la gente. Si chiamava Vito Adamo, ngiùria
[soprannome] gli dicevano Vitu Chiuviddu , ed è morto verso il
’68 che aveva più di ottant’anni.[44]
Un pescivendolo si trasferisce quindi dal centro costiero di Marsala (Tp) a Salemi, nell’entroterra del Trapanese, ed estende la
propria attività al commercio dei prodotti della terra e di quant’altro si prestasse
alla vendita itinerante. Sposa però la figlia del banditore “ufficiale” di Salemi:
quello stesso Vitu Chiuviddu incontrato tanti anni prima da Alberto Favara
che dalla sua voce raccolse proprio l’abbanniata del tonno. Da questi
apprende il repertorio e lo stile delle abbanniati salemitane, come dimostra
tra l’altro la notevole stabilità formale del richiamo impiegato anche dal suocero
per la vendita del tonno (cfr. Favara 1957/II: n. 919). Di Dia presta inoltre
saltuariamente opera presso la locale pescheria e fornisce una testimonianza
di straordinario interesse riguardo all’uso gergale dell’abbanniata per
comunicare tra venditori di putìa (bottega) nel caso di clienti fastidiosi
o perditempo. Questi erano detti vispisuna, da vispisa, termine
riferito a uccelli passeriformi che continuamente saltano da un punto all’altro:
«Delle volte c’erano quelli che erano giravano sempre e non compravano mai.
[…] Quelli che erano fitusi a comprare, allora giravano sempre: “A quanto
vanno?” – “A cento lire.” – “A quanto vanno?” – “A cento lire.”
– E guardavano e non compravano mai. E allora noi dicevamo: Tàgghiacci
u lazzu sai! È vispisuni, pari ca posa e nun posa mai! Tàgghiacci u lazzu!
[Taglia corto sai! È vispisuni, pare che si posa e non si posa mai!]».
I clienti di questo genere venivano anche allusivamente chiamati “gamberi”,
sicché vi si potesse fare libero riferimento mediante il filtro dell’imbonimento:
Quello che entra dentro la pescheria per comprare e non compra
mai, allora per non mortificarlo dicevamo: Ch’è bbieddu l’àmmiru! [Che
bello il gambero!] E già c’era un significato. Quello delle volte lo capiva
e allora: “Mi lu dici a mmia ch’è bbeddu l’àmmiru?” – “No per carità,
àiu l’àmmiru e abbannìu l’àmmiru.” [Lo dici a me che bello il gambero?
– No per carità, ho il gambero e grido gambero.][45]
Anche alla “licenza di assaggio” (cfr. supra) si può alludere nell’imbonimento,
come specialmente accade per quella varietà di prodotti che vengono offerti
salati e/o tostati (semi di zucca, ceci, fave, pistacchi, mandorle, nocciole).
La consuetudine dell’assaggio per questo genere di merce viene rimarcata con
sottile ironia ancora da Di Dia: «Quando c’erano le feste, allora si vendeva
a simienza [i semi]. U pizzica e mmùzzica significa che
passa lei e pizzica, passa un altro e pizzica, passa quell’altro e pizzica,
e noi altri gli diciamo: u pìzzica e mmùzzica, e grana nenti!
[il pizzica e mozzica, e soldi niente!]». Questo il testo del richiamo:
Nucidda, a viera càlia e ssimienza, ch’è càvura! U pìzzica e
mmùzzica! Ch’è bbella càvura! Nucidda, a viera càlia e ssimienza! Càvura càvura,
càvura càvura! (Nocciola, i veri ceci tostati e i
semi di zucca, ch’è calda! Il pizzica e mozzica! Com’è bella calda! Calda calda!)
[46]
Fra i generi alimentari che si possono sottoporre alla “prova” dell’assaggio
troviamo anche i fichidindia (i pregiati “bastardoni” di Catania), le angurie
(muluni) e la ricotta, come esemplificano questi richiami registrati
a Messina e a Belmonte Mezzagno:
Bbastadduni i Catania, catta sti ficadigni! Cincumila a càscia,
cincumila a càscia! Accattati, bbelli sunnu rrossi! Fozza, assaggiàtili sti
ficadigni, assaggiàtili! Bbastadduni i Catania, bbastadduni i Catania! Cincumila
a càscia, cincumila a càscia! Doci sunnu! Sunnu rrossi, fozza assaggiàtili!
Fozza, sunnu doci, facitivi a bbucca doci!
(“Bastardoni” di Catania, compra questi fichidindia! Cinquemila lire a cassetta!
Comprate, sono belli grossi! Forza, assaggiate questi fichidindia, assaggiateli!
Sono dolci! Sono grossi, forza assaggiateli! Forza, sono dolci, fatevi la bocca
dolce!) [47]
A pprova
sunnu sti muluni, a pprova! Rrossi sunnu, rrossi! Accatativilli sti muluni!
Sunnu duci com’u zùccaru! Ora ora i pigghiai sti muluni, ora ora! Assaggiàtili!
(A prova di assaggio sono questi meloni! Rossi, sono rossi! Comprateveli questi
meloni! Sono dolci come lo zucchero! Proprio ora li ho raccolti questi meloni!
Assaggiateli!)[48]
O chi ricotta bbella! Signura, ccà c’è u parruccianu, chiddu anticu! Ricotta
ri piecura l’àiu, ch’è bbella! – Signora bbassassi u paneri, prima â ssaggiassi
e poi s’accatta. – Ri piecura l’àiu, ch’è bbella! (O che ricotta bella!
Signora qua c’è il venditore, quello antico! Ho ricotta di pecora, com’è bella!
– Signora abbassi il paniere, prima l’assaggia e poi se la compra. –
Di pecora ce l’ho, com’è bella!)[49]
Richiami assai singolari sono quelli in cui non viene affatto menzionato il
prodotto in vendita. Ciò denota quanto fosse radicata e diffusa la competenza
collettiva alla base di questo sistema di reclame. Valgano da esemplificazione
i richiami in uso a Palermo e a Messina per la vendita dei gelsi (ccèusi
) e delle fave verdi (favi ). Si osservi come nei due testi sia
il fattore “tempo” a fungere da indicatore: le fave si vendono nel pomeriggio
e i gelsi di prima mattina, subito dopo essere stati colti poiché si tratta
di frutti rapidamente deperibili:
A
st’ura bb’arrifriscanu! (A quest’ora vi rinfrescano!)[50]
Ie mmi fannu ciauru di rrosi, mi fannu! Ie accà c’è u meli! U meli àiu stasira!
E stasira l’àiu mègghiu d’assira! (E fanno profumo di rose! E qua
c’è il miele! Ho il miele stasera! E stasera ce l’ho migliore di ieri sera!)[51]
È significativo rilevare come la medesima strutturazione metaforica della bbanniata
messinese delle fave verdi sia stata riscontrata a Palermo da Alberto Favara:
«Qui, il nome della pianta leguminosa viene sostituito con quello di una saccarifera,
per esprimere meglio la dolcezza. È lo stato anteriore della comparazione; noi
diremmo: “le fave verdi sono dolci come il cannamele”, ma l’abbanniatina
canta solamente cannameli, e tutti intendono che sono fave. Sotto l’eccitazione
melodica si produce la metafora, che esprime con maggior efficacia del nome
astratto il sapore, il colore e la bella apparenza dei frutti» (1923a, ried.
in 1959: 73; cfr. anche 1957/II: n. 826).
Di frequente gli imbonimenti veicolano contenuti carichi di ironia e allusività,
specialmente a sfondo erotico, che accomuna emittenti e destinatari in
un orizzonte di reciproca complicità. In questi esempi ricorrono allusioni agli
attributi sessuali sia maschili (cui rispettivamente rimandano le “uova”
della lattuga, ovvero il cuore dell’ortaggio, la zucchina e la banana) sia femminili
(il “baccalà” di donna Grazia):
Signura,
si chiamassi veru a cammarera, mi sta rumpennu tutti l’ova di lattuchi! Lattuchi
c’ànnu vieru l’ova, lattuchi! (Signora, richiami
la cameriera, che mi sta rompendo le uova delle lattughe! Lattughe che hanno
proprio le uova, lattughe!)[52]
Signura, sâ ddifinnissi vieru a cammarera ca voli vieru u cuoddu
dâ me cucuzza, er è comu u meli! (Signora, stia attenta
alla cameriera che vuole proprio il collo della mia zucchina, ed è come il miele!)[53]
Scalaru i bbanani! Oh signura, vaddassi chi l’àiu bbella, tisa e longa ogni
bbanana! E cchi ssu ciaurusi sti bbanani! A trimilaliri ô chilu! (È ribassato
il prezzo delle banane! Oh signora, guardi come ce l’ho bella, tesa e lunga
questa banana! E come sono profumate queste banane! A tremilalire al chilo!)[54]
Tàgghia tàgghia, tàgghia tàgghia! Bbaccalareddu, baccalareddu a quattru lireddi,
a quattru lireddi, tàgghia! E u bbacalereddu i ddonna Ràzia e
ccu lu ssàggia nun si sàzzia! Tàgghia! Bbaccalaru, bbaccalaru! U bbaccalaru
i ddonna Razia e ccû ssaggia nun si sàzzia! A quattru lireddi, a quattru lireddi,
tàgghia! (Taglia taglia! Baccalà a quattro lire, taglia! E il baccalà
di donna Grazia chi lo assaggia non si sazia! Taglia! Baccalà!)[55]
La pratica dell’imbonimento
presenta ampi margini di improvvisazione specialmente nei contenuti verbali,
arrivando talvolta ad acquisire specifico valore espressivo entro i contesti
comunicativi tradizionali. Ignazio Dominici, un anziano carrettiere di Villabate
che sporadicamente esercitava anche l’attività di venditore ambulante, riferisce
che nei fondaci (fùnnachi) dove si ritrovavano i carrettieri per mangiare
e riposare, oltre alle canoniche sfide di canto (cfr. Guggino 1991), si gareggiava
anche sui moduli delle abbanniati [56] . Il venditore ambulante
Nino Geraci ricorda che sfide estemporanee si potevano svolgere anche mentre
si lavorava: «Si cc’era unu ch’era ggilusu dô misteri, cci abbanniava di contrapieri»
(Se c’era uno geloso del mestiere, gli abbanniava contro). Egli ricorda
che una volta ad Altofonte un venditore lo provocò gridando: Ma chi cci isti
a ffari vieru ô Paiccu, chi pièssichi bbelli vieru! (Ma che ci sei venuto
a fare al Parco, che belle pesche!). Geraci allora replicò: Vidi ca iò nun
tû nsignu unni va a cattari sti pièssichi bbelli vieru! (Guarda che non
te lo insegno dove andare a comprare queste pesche proprio belle!). Sempre Geraci
riferisce di un alterco con un altro venditore, tale Pippinu Surfareddu.
La questione riguardava il posto di vendita usualmente occupato da Geraci a
Termini Imerese e quindi usurpato dall’altro, che per replicare al rimprovero
abbassò il costo dei mandarini. Geraci allora cominciò a offrirli gratis, gettandoli
per aria e gridando: Cunnutu cu sî pìgghia pìcciuli! Mannarini, chi ssu dduci!
Nu nni vògghiu pìcciuli, nu nni vògghiu pìcciuli! (Cornuto chi prende soldi!
Mandarini, che sono dolci! Non ne voglio soldi!)[57].
Un ultimo esempio contribuisce a meglio precisare le possibili declinazioni
individuali del codice espressivo dell’abbanniata. L’episodio riguarda
il padre di Geraci e suo “compare” Natale, che in un crocicchio di Termini Imerese
inscenarono una esilarante tenzone intorno alla freschezza dei broccoli:
Natale: Vidi ca partivu cu ll’acqua er arrivavu cu ll’acqua
e lli stàiu vinnennu cu ll’acqua sti sparacelli! – Geraci:
Ci nni sunnu assai ca pàrtunu nta iornu, iò partu sempri di prima sira pi
purtaricilli frischi frischi sti sparacelli! – Natale: Chi
vennu bbelli fritti ca canni dû puòiccu sti sparacelli! – Geraci:
E si di canni i puòiccu un nni putiti capitari, iti nno chiancheri e vvi
faciti dari a ntìcchia i grassu di puòiccu, chi vennu bbelli sti sparacelli!
Sunnu vieru frischi frischi e ccoti tri gghiorna nn’arreri e mm’addivintaru
cû ciuriddu bbiancu sti sparacelli! (Natale: Vedi che sono partito
con l’acqua e sono arrivato con l’acqua e li sto vendendo con l’acqua questi
broccoli! – Geraci: Ce ne sono tanti che partono di giorno, io
parto sempre di prima sera per portarglieli freschi freschi questi broccoli!
– Natale: Che vengono bene fritti con la carne di porco questi
broccoli! – Geraci: E se carne di porco non ne potete trovare,
andate dal macellaio e vi fate dare un poco di grasso di porco, che vengono
bene questi broccoli! Sono proprio freschi freschi e raccolti tre giorni fa
e hanno fatto il fiore bianco questi broccoli!)[58]
L’abbanniata si presta anche a esprimere significati diversi da quelli
relativi all’attività commerciale, acquisendo pertinenza nel più ampio quadro
dell’interazione sociale. Esplicativi al riguardo sono due casi segnalati da
Alberto Favara. Il primo si riferisce al furto subito da un taverniere palermitano:
«Egli intuì subito donde gli veniva il tiro: amici del vicinato; ma naturalmente
si guardò bene dal far parola con chicchessia dello sfregio patito. Solamente,
mentre stava a friggere, invece dei pesci abbanniava parole di colore
oscuro, indirizzate agli amici, che soli potevano intenderle, quasi a
dir loro: “Ho capito, e a suo tempo aggiusteremo i conti!”» (1923a, ried. 1959:
74). Queste le parole gridate dal taverniere (1957/II: 496): L’angiuli pigghiaru
l’ancilu, / foru Schibbi e Farisei. / M’arrubbaru l’amici mei. / Un su’ porci
ca gridanu! (Gli angeli hanno preso l’angelo, / sono stati Scribi e Farisei.
/ Mi hanno derubato gli amici miei. / Non sono porci che gridano!). Il secondo
esempio riguarda un venditore ambulante di Trapani, tale Ndria (Andrea)
Sorrentino, il quale affermava (1957/II: 510): «Abbaniannu abbanniannu, a cu
vogghiu offennirri offennu: “Unni lu viri chiddu chi è veru vacabbunnu? Unni
lu viri chi caminata chi avi sta signura baggiana?” E poi ci mettu la ruca»
(«Gridando gridando, offendo chi voglio: “Non lo vedi quanto è scansafatiche
quello? Non lo vedi come cammina questa signora vanitosa?” E poi grido rucola»).
Reclamizzando la rucola il venditore inframmezza frasi da cui emerge il suo
variegato universo esperienziale, cui egli allude in modo criptico e allusivo:
U viri, u viri si pigghiaru u nomu e cugnomu meu? O ruca ruca… Li irita li irita
fa jucari! O ruca ruca… Assa mi lassa iri ch’annuttau! O ruca ruca…(Lo vedi
che si son presi il mio nome e cognome? Rucola… Le dita fai giocare!… Basta
lasciare che faccia notte!). L’efficacia comunicativa dell’abbanniata
pare tuttavia resistere al mutare dei tempi, come bene esemplifica un articolo,
firmato “nostro inviato”, apparso su “La Repubblica” del 5 settembre 1996 (in
Cronaca,
p. 18) sotto il titolo Così “Bocca di Rosa” fu cacciata dal paese. L’occhiello ne chiarisce in modo esplicito
il contenuto: «A Partinico la rivolta delle mogli. Telefonate a catena ai carabinieri
per far chiudere la casa d’appuntamento». Questo il capoverso conclusivo:
L’ultimo
capitolo di questa cronaca di squallore non è stato ancora scritto. Riguarda
un pescivendolo, quello che ha la sua bancarella proprio tra la piazza e il
vicoletto dove c’era il bordello. I carabinieri lo stanno cercando per un interrogatorio.
Hanno un sospetto. E cioè che lui, il pescivendolo, fosse in qualche modo la
“vedetta” di vicolo Sant’Annuzza, la guardia che doveva avvertire i due sfruttatori
in caso di pericolo. Infatti, il pescivendolo esibiva la sua mercanzia gridando
sempre: Pesce!…pesce fresco!… Ogni volta però che si avvicinava un carabiniere,
allora il pescivendolo cambiava grido. E ripeteva: Calamari!…Calamari!…
Era in quel momento che, dal bordello, tutti se la squagliavano.
Il registro performativo del richiamo di piazza, che può essere considerato
un “modello forte” nella vita quotidiana di numerose società tradizionali, si
ripresenta in occasione di formule di questua, saluti, acclamazioni, giuramenti,
minacce, ingiurie e imprecazioni, dove affiorano moduli fonico-ritmici stilisticamente
determinati[59]. A tale riguardo un caso limite,
e quindi paradossalmente esemplare, vede per protagonisti due pescatori di Porticello
(a pochi chilometri da Palermo): mentre prestavano servizio militare, i due
si scambiavano gli ordini di riconoscimento nella tipica inflessione delle abbanniati
del pesce in uso nel loro paese[60].
Talvolta anche suoni prodotti con strumenti possono essere impiegati per attirare
gli acquirenti. A Lipari (Isole Eolie), tale Peppuzzu u Carbunaru vendeva
il pesce per le strade richiamando l’attenzione con la brogna, e il segnale
era inconfondibile poiché nessun altro usava la tromba di conchiglia sulla terra
ferma[61]. A Giampileri, una frazione di Messina, per
vendere i gelati si alternavano alla voce dei colpi di fischietto[62].
A Mezzojuso (Pa), il suono di un corno d’ottone era connotativo dei panneri,
venditori ambulanti di stoffe[63].
A Salemi si annunciava l’arrivo del tonno fresco, nei mesi di maggio e giugno,
a ritmo di tamburo[64]. A Palermo,
l’uso del tamburo per reclamizzare il tonno svolgeva addirittura una duplice
funzione: il suono fungeva nel contempo da richiamo per la vendita e da sostegno
ritmico per il trasporto a spalla del pesce lungo il tragitto dal porto alle
pescherie. Questa pratica, significativamente denominata abbanniata di la
tunnina (imbonimento del tonno), è stata così documentata da Alberto Favara
all’inizio del Novecento (1923b, ried. 1959: 95-96):
Vi era
nel popolino grande allegria per l’arrivo del pesce dalla carne dolce e a buon
mercato; il tonno veniva adornato con grandi mazzi di garofani, quindi, imbracato
con corde, veniva trasportato a spalla da due uomini. Ma il personaggio essenziale
della funzione era il tammurinaru, perché egli col ritmo regolava e facilitava
la marcia, trasformandola in un rito. Al momento giusto i portatori avvisavano
il Cacicia: «Vossia sona, zu’ Peppi!». Mentre quelli sollevano il tonno,
il tammurinu attacca un giambo, come una scossa, uno sforzo iniziale
per passare dalla immobilità al movimento; fa seguire quindi una serie di spondei
vivaci, con i movimenti preparatori per segnare il tempo della marcia, e infine
la marcia anapestica, vivace, a passi brevi sotto il grave peso. […] Il piccolo
corteggio procede così, allegramente, sotto l’impulso del ritmo. «Cu a sunata
– mi diceva il Cacicia – ci sèntinu piaciri a caminari, e u pisu
mancu u sèntinu». […] Se cessa questa funzione alleggeritrice del ritmo,
la marcia diventa difficile. «Chiddi chi portanu u tunnu senza tammurinu,
un ponnu caminari. Senza tammurinu ci aggranca a spadda » [Quelli
che portano il tonno senza tamburo, non possono camminare. Senza tamburo si
fanno male alla spalla]. Tanto che, quando il padrone del tonno non vuol far
la spesa del tammurinaru , i portatori lo pagano di tasca propria.
Al valore funzionale posto in evidenza dalle testimonianze dei protagonisti,
che investono sia il piano del coordinamento senso-motorio sia quello dell’effetto
pubblicitario, fa riscontro l’interpretazione fornita da Favara, cui non sfugge
il senso rituale di un’azione simbolicamente proiettata a celebrare l’abbondanza:
“carne dolce e a buon mercato”, guarnita con mazzi di garofani, recata in processione
a suon di tamburo fino ai banchi dei mercati e delle botteghe[65].
Ma forse c’è di più. Nelle cialomi –
i tradizionali canti dei tonnaroti eseguiti soprattutto per coordinare il sollevamento
delle reti – ricorreva di frequente il verso «e lu rràisi cu li ciuri»
(cfr. Guggino 1986: 89). Il “regista” della mattanza dei tonni, il rais
appunto, era quindi destinatario di offerte floreali, non solo canore: una ghirlanda
gli veniva donata nel caso di pesche particolarmente fruttuose (ibidem).
I fiori svolgono qui pertanto, come in molte altre celebrazioni rituali, una
forte mediazione simbolica tra la vita e la morte, significando nel contempo
la propiziazione dell’abbondanza e l’offerta per sanare lo squilibrio naturale
determinato dalla uccisione di una preda. Nelle società tradizionali il sangue
versato per procacciarsi nutrimento è difatti “sangue sacro”, e il dono floreale
può in qualche misura compensare il rischio che la morte sempre comporta.
Favara rileva inoltre un caso in cui il trasporto del tonno veniva accompagnato
da un rigatteri (piccolo grossista di pesce) che alternava al tamburo
il flauto di canna (friscalettu), annotando: «pi priu Vanni Pannazza
avìa st’usanza» (1957/II: 487). Se la ragione dell’uso viene individuata nel
puro piacere estetico (priu, ‘diletto’), non va tuttavia sottovalutata
l’efficace funzione propagandistica che doveva svolgere questo motivo «ad uso
di Tubbiana » (noto ballo carnevalesco) eseguito dal Pannazza:
antesignano emblematico dei jingle radiotelevisivi.
Ornare il tonno di fiori vermigli è – come abbiamo visto – una consuetudine
tuttora sporadicamente praticata, mentre l’uso del tamburo quale strumento da
richiamo in riferimento alla pubblicità commerciale è viceversa tramontato da
circa un trentennio ed è stato pertanto documentato esclusivamente in circostanze
non contestuali. Specialmente in ambiente urbano si ricorreva al banditore (bbanniaturi,
abbaniaturi, vanniaturi) sia per reclamizzare l’apertura di nuove
botteghe sia per sostenere vere e proprie campagne propagandistiche[66].
A Palermo, fino agli anni Cinquanta, il messaggio pubblicitario si poteva inserire
in una cornice particolarmente spettacolare: una comitiva composta da un banditore
(abbigliato a imitazione dei pazzarielli napoletani) e da suonatori di
tamburo, di tromba e di piattini metallici procedeva in carrozza per le vie
dei rioni sostando negli slarghi e nelle piazzette. I suonatori attiravano allora
fragorosamente l’attenzione del pubblico, seguiti dal banditore che declamava
l’annuncio recando in mano o su un vassoio i prodotti da reclamizzare. Nel quartiere
di Borgo Santa Lucia (u Bbuiggu) la pratica si è mantenuta più a lungo
vitale, come attestano questi due “casi” risalenti agli anni Settanta, riproposti
dai protagonisti per consentire la nostra documentazione[67].
Il primo esempio riguarda l’apertura di una macelleria in via Principe di Scordìa:
[ritmo dei tamburi] Viva u signò Gambino, viva!
[rullo] Oò, â via Prìncipi di Scordìa aprìu a carnezzerìa u signò Gambino.
Però, ô rittu peroni: un ci nn’è ntrallazzu ddocu, ddocu è carni i vitellu originali
ed è mircata. Un vi faciti llùdiri. Certuni macari vinnevanu canni mmugghiata
pi sasizza. Assai ci nni furu a ffari stu viersamentu però. U signò Gambino
è cientu pi cientu, carnuzza bbona e mircata: u primu tàgghiu a decimilaliri!
[rullo] (Viva il signor Gambino, viva! Ehi, nella via Principe di Scordia il
signor Gambino ha aperto una macelleria. State attenti però: lì non c’è trucco,
lì è carne di vitello originale e a buon mercato. Non fatevi illudere. Certuni
magari vendevano carne arrotolata per salsiccia. Ce ne sono stati molti a fare
così. Il signor Gambino è cento per cento, carne buona e conveniente: il primo
taglio a diecimila lire!)
Il secondo caso riguarda invece la pubblicità del vino dello zzu Cìcciu
di Misilmeri, gestore di taverna nel mercato del Borgo:
[ritmo dei tamburi] Viva u zzu Cìcciu mussulumisi, viva!
[rullo] Aò, cu voli vinu bbonu i Paittinicu, àv’a gghirri nnô zzu Cìcciu.
Picchì, a viri, cu zzu Cìcciu ogni gnornu trasi u vinu. Nna pocu i sfardacasetti
a notti ràpri e nun si sapi chi fannu intra a taveinna. Picchì pari a taveinna
i Pallavicinu: un coippu cci manca l’acqua e un coippu cci manca u vinu. Signuri
mè, vidì chi chissi chi veni a notti travàgghiunu chi bbustini: u mbunzingatu!
Vinuzzu bbonu at’a gghiri nnô zzu Cìcciu mussulumisi: a milliquattrucentu liri!
[rullo] (Viva lo zio Ciccio misilmerese, viva! / Ehi, chi vuole vino buono di
Partinico, deve andare dalla zio Ciccio. Perché, vedete, con lo zio Ciccio
ogni giorno arriva il vino. Qualche imbroglione apre di notte e non si
sa cosa fanno nella taverna. Perché pare la taverna di Pallavicino [borgata
di Palermo]: una volta gli manca l’acqua e una volta gli manca il vino. Signori
miei, state attenti che questi che vengono di notte lavorano con le bustine:
lo “imbustinano”! Per il vinello buono dovete andare dallo zio Ciccio misilmerese:
a millequattrocento lire!)
A eccezione dell’acclamazione d’apertura e dell’espressione conclusiva, che
presentano un’intonazione ben distinta, il resto del messaggio viene scandito
ad alta voce con mirabile artificio drammatico, fondato su un canovaccio adattabile
a diverse circostanze, quali a esempio le questue in denaro per l’organizzazione
delle feste rionali. Ancora più intensamente che nel caso della propaganda commerciale
è possibile qui avvertire il gioco mimetico del banditore, che con abile e persuasiva
ironia richiede l’esborso dei soldi ai devoti:
[ritmo dei tamburi] Viva â matri sant’Anna, viva!
[rullo] Signuri mè, viriti ca ruminica passa u cummitatu pi fari a fiesta.
Mi raccumannu un ci faciti fari abbili. Cincumila liri ô misi ogni famìgghia
un ci fa nenti a nuddu. Un mittemu a ffari: «u sapi, a mamà nun c’è, u papà
niscìu». Si buliti a fiesta ci’at’a mentiri i pìcciuli. No ca quannu viditi
u cummitatu staccati puru a luci, pu nu fa sèntiri chi siti dintra. Si nni va
u cummitatu, a mamà nesci dintra a cucina, u papà dintra u gabinettu. Oppuru
fannu ffacciari u picciriddu: «U sapi, a mamma nun c’è, è nisciuta!»
[imita la voce del bambino] No, ci vonnu i pìcciuli! Mintiemu i tusielli
ed addumamu! Chi bella gran fiesta! [rullo] (Viva la madre sant’Anna,
viva! Signori miei, sappiate che domenica passa il comitato per fare la festa.
Mi raccomando non fatelo disperare. Cinquemila lire al mese per famiglia non
sono di peso a nessuno. Non cominciamo a fare: «sapete, la mamma non c’è, il
papà è uscito». Se volete la festa dovete dare i soldi. No che quando vedete
il comitato staccate pure la luce, per non fare sentire che siete in casa. Arriva
il comitato, la mamma se ne va in cucina e il papà dentro il gabinetto. Oppure
fanno affacciare il bambino: «Sapete, la mamma non c’è, è uscita!» No, ci vogliono
i soldi! Mettiamo i paramenti [drappi da esporre su finestre e balconi] e accendiamo
[i ceri votivi]! Che gran bella festa!)
L’innovazione più significativa
introdotta nel commercio ambulante, adottata specialmente nell’ultimo ventennio
dai venditori più giovani, consiste nell’impiego di piccoli impianti di amplificazione
vocale montati sul mezzo di trasporto della merce. L’incidenza di questa nuova
tecnologia viene puntualmente commentata da un ambulante incontrato a Noto (Sr)
lungo il corso Vittorio Emanuele[68]:
Ormai col microfono vanniamo così… solo facciamo capire
quello che c’è: «Abbiamo pere, abbiamo mele, càvuli, prezzemolo, basilico!»
Però solo per fare capire quello che abbiamo, perché al megafono con la caratteristica
tradizionale non si capisce proprio niente. Quindi ci adattiamo col megafono
e abbiamo dovuto lasciare la tradizione all’antica.
Nel caso della diffusione elettroacustica delle grida pubblicitarie abbiamo
spesso riscontrato una certa tendenza a scandire le parole e a limitare l’uso
del siciliano. Non si tratta tuttavia di una prassi sempre attuata, poiché la
chiarezza del messaggio pubblicitario per chi ascolta non sembra preoccupare
troppo i venditori di vecchia scuola (indipendentemente dall’età), che affidano
l’efficacia comunicativa al suono, in quanto insegna personale, più che
al significato letterale del messaggio.
Quale esempio emblematico di aggiornamento tecnologico, in qualche misura rispettoso
delle tradizionali modalità pubblicitarie, si può infine segnalare la consuetudine
rilevata a Palermo tra numerosi venditori ambulanti di sfinciuni. Questi
usano difatti l’amplificazione per diffondere il contenuto di un’audiocassetta
in cui si ripete un imbonimento eseguito da tale Giuseppe La Torre, detto Pippinu
u sfinciunaru [69]
:
Chi spicialità vieru di sfinciuni! Càvuru è bbellu vieru, chi
cciàvuru! Chi cciàvuru! Uora u sfuinnavi, uora! Sunnu cosi i caprìcciu vieru,
chi cciàvuru! Chi bbellezza vieru di sfinciuni! Eè, è bbellu càvuru, è bbellu
vieru, chi cciàvuru! Uora u sfuinnavi, uora!
(Che vera specialità di sfinciuni ! Caldo è proprio buono, che
profumo! Proprio ora l’ho sfornato! Sono proprio cose sfiziose, che profumo!
Che vera bontà di sfinciuni! Ehi, è proprio caldo, è una vera bontà,
che profumo!)
Il complesso delle testimonianze fin qui esaminate pone ampiamente in evidenza
le svariate configurazioni semantiche e funzionali che possono assumere le grida
di reclame entro il sistema comunicativo tradizionale. Questi documenti
sono tuttavia il risultato di indagini mirate, condotte prevalentemente al di
fuori dei contesti in cui la pratica dell’imbonimento svolge o svolgeva la propria
mansione reale [70] . Non sarebbe stato
infatti possibile ottenere notizie altrettanto approfondite sui diversi “usi”
dell’abbanniata mentre era in corso l’attività di vendita, né documentare
l’intero repertorio di venditori che ovviamente si limitano a propagandare i
prodotti offerti in un dato momento. La vitalità di questa antica tecnica pubblicitaria
affidata alla voce umana è stata quindi parallelamente vagliata in circostanze
contestuali, sia nel caso del commercio ambulante sia presso le botteghe e nei
mercati.
Ogni mercato presenta un proprio specifico ordinamento dello spazio, dovuto
di norma alla tipologia della merce trattata (a esempio aree distinte sono rispettivamente
destinate ai pescivendoli, ai macellai, ai fruttivendoli, ecc.), ma anche stabilito
per consuetudine o dettato da soluzioni estemporanee (vedi il caso delle postazioni
volanti). La distribuzione spaziale dei venditori si riflette nella “geografia
acustica” dei mercati: il loro attraversamento propone a chi ascolta il frenetico
avvicendarsi e sovrapporsi di “cornici sonore” variamente strutturate. Entro
questo continuum indifferenziato di suoni è stato pertanto necessario
“isolare” le voci dei venditori, al fine di operarne una selezione qualitativamente
significativa. Si tratta di un aspetto che si può con pertinenza collegare alle
suggestive pagine dedicate da Roger Murray Shafer alla nozione di “paesaggio
sonoro” (1985), e specialmente al parallelismo tra percezione acustica e percezione
visiva in relazione al nesso figura-sfondo (1985: 212-213). Entro il
nostro contesto d’analisi si considera sfondo ciò che risulta percepibile
da ogni punto di ascolto, mentre per figura si intende quanto viene di
volta in volta situato al centro della “inquadratura”, al fine di poterne apprezzare
dettagli e sfumature[71].
Come esemplificazione riportiamo una serie di grida di reclame documentate
nei mercati di Palermo (Bbaddarò, Vuccirìa), Catania (Piscarìa),
Siracusa (Piscarìa), Trapani (Chiazza), Caltanissetta (Strat’â
fòglia ) e nel non più esistente mercato delle “Due vie” di Messina
(i Ddu vii )[72]. Una maggiore densità dei richiami
si è riscontrata ovviamente in condizioni di più spiccata concorrenza, ma anche
l’abbondanza della merce in offerta e il numero di acquirenti in circolazione
gioca un ruolo importante nella “amplificazione” delle grida di propaganda (per
questo abbiamo visitato i mercati prevalentemente nei giorni di venerdì e sabato,
quando si fa più intensa l’attività commerciale). Abbiamo inoltre mediamente
rilevato tra i venditori di pesce una maggiore vitalità delle pratiche di imbonimento.
Va anche detto che la presenza di un mezzo da ripresa – videocamera o
magnetofono – ha in molti casi contribuito a incentivare l’azione dei
venditori, stimolati a ostentare il proprio “mestiere” di fronte a un estraneo
perlopiù percepito come giornalista televisivo. Rispetto ai documenti registrati
in circostanze non funzionali, questi richiami presentano infine un più consistente
impiego di termini o espressioni italiane regionali e italianeggianti (chiaramente
comprensibili e quindi non tradotte) e una più spiccata tendenza a indicare
il prezzo della merce (in lire o in euro secondo il periodo del rilevamento)[73].
Tra i mercati palermitani quello di Bbaddarò (Ballarò) si distingue
per un più marcato permanere delle tradizionali modalità di propaganda “gridata”.
In questo imbonimento, registrato presso la “Pescheria del pesce fresco di Porticello”
(già ricordata per gli ornamenti floreali), il tonno si decanta per la sua provenienza
– appunto il borgo costiero di Porticello (frazione di Santa Flavia) –
che garantisce qualità e freschezza. Con abile retorica i potenziali clienti
sono invitati ad affrettarsi all’acquisto per accaparrarsi le parti migliori
di tanta prelibatezza:
Ora bbellu mio, ora, ora! Uora nni puittaru u tunnu di Potticcello!
Nn’am’alliestiri bbellu miu, nn’am’alliestiri! Nun ti nni pozzu dari aiutu bbeddu
miu, nun ti nni pozzu dari aiutu! Un chilo dieci euro, un chilo dieci euro!
Vardati a tunnina ch’è fina! (Ora bello mio, ora!
Ora ci hanno portato il tonno da Porticello! Dobbiamo fare presto bello mio!
Non ti posso aiutare! Dieci euro al chilo! Guardate che tonno prelibato!)[74]
Nella “Boutique del pesce”, sempre a Bbaddarò , l’imbonimento
ruota intorno alla comparazione cromatica dovuta alla presenza delle rose sulla
bbalata (cfr. supra). Si noti il riferimento al mese di
maggio, atteso per l’abbondante presenza del tonno (metaforicamente definito
“carne calda del mare”) e del pescespada. Anche qui ricorrono sottili perifrasi
– con sapiente uso della particella enfatica mi (che sta per mìzzica,
‘caspita’) – allo scopo di ribadire la convenienza dell’acquisto:
O ma che pescespata! Tonno bbello, tonno! E cche rruose di tunnina e cche rruose!
A ddec’euru pescespata, a ddec’euru pescespata! Pescespata locale! Mii, a ddec’euru
piscispata! Si l’accattati vi nni vinnemu, si l’accattati vi nni vinnemu! I
rruose dâ tunnina, i rruose! Talìa bbellu culure! Talìalu cu li rrose! Rruose
di tunnina, rruose! Rruose di tunnu rruose! A cainni càvura râ mmari, a cainni
càvura râ mmari! Mii, aspittava u misi i màggiu aspittava pâ tunnina e pû piscispatu,
u misi i màggiu! (E che rose di tonno! A dieci
euro pescespada! Caspita, a dieci euro pescespada! Se lo comprate ve lo vendiamo!
Le rose del tonno! Guarda che bel colore! Guardalo con le rose! La carne calda
del mare! Caspita, aspettavo il mese di maggio per il tonno e per il pescespada,
il mese di maggio!)[75]
Nella stessa pescheria si offrono anche merluzzi, sarde e gamberi, con il primo
richiamo che indica i “bambini” quali destinatari privilegiati del consumo:
Mirluzzu, mirluzzu locale! Mirluzzu locale per i bambini! / Saiddi,
saiddi! O picciotti, bboni sù sti saiddi! / Ppi cincu eur’un chilu i gàmberu,
ppi cincu euru! Cincu eur’un chilu i gàmberu!
(Sarde! O ragazzi, sono buone queste sarde! / Per cinque euro un chilo di gambero!)
Tra le grida concernenti i prodotti ortofrutticoli spicca l’abbanniata
di un venditore di patate (banco situato nella parte centrale di via Ballarò),
ironicamente giocata intorno all’inversione del valore commerciale di patate
“vecchie” e “nuove”:
Tri cchila un euru nuovi patati! Tri cchila un euru nuovi patati!
Nuovi patati, nuovi, nuovi, nuovi! Vannu cchiù mieiccati dî viecchi!
(Tre chili di patate nuove a un euro! Patate nuove! Sono più a buon mercato
delle vecchie!)[76]
Vediamo ora alcuni richiami che pubblicizzano cibi cotti. Il primo viene eseguito
dal gestore di una taverna all’imbocco di via Ballarò (lato piazza del Carmine),
che davanti alla porta tiene un banco per offrire interiora (quarumi)
e cartilagini (pieri) bollite ai passanti (cfr. supra). Il secondo,
che reclamizza lo stesso genere di prodotto, è stato documentato presso un banco
della Piscarìa di Catania (situato in un angolo di piazza Pardo); in
questo caso con il termine quarumi si intendono trippa, cartilagini e
sanguinaccio bolliti. Gli ultimi due, registrati in via Ballarò, si riferiscono
alla tipica focaccia palermitana (sfinciuni) – che non viene menzionata
data la già notevole “visibilità” garantita dall’imponente e variopinto carrello
utilizzato per il trasporto – e alle pannocchie bollite (pullanchi):
Nustrali! Àiu a trippa! Bbella quarumi càuvura! È càuvura! Quarumi
càvura! Àiu i pieri! A nzalata! (Nostrale!
Ho la trippa! Bella quarumi calda! È calda! Ho i “piedi”! L’insalata!)[77]
Qua si magna! [78]
Càvuru è! (È caldo!)[79]
Càvura e tiènnira! Pullanca! (Calda e tenera! Pannocchia!)[80]
Un’altra abbanniata in cui non si usa menzionare il prodotto in vendita
è quella che tuttora riecheggia alla Vuccirìa presso una bottega di baccalà
ubicata all’imbocco di via Argenteria (lato piazza Caracciolo)[81]:
È bbellu vieru! (È proprio bello!)
Ancora alla Vuccirìa, in piazza Caracciolo, un anziano venditore offre
finocchietti selvatici e aglio[82]. Nel primo richiamo si ignora affatto il nome
del prodotto, ma si menziona un’apprezzata pietanza caratterizzata proprio dalla
presenza del finocchietto (la “pasta con le sarde”). L’abbanniata dell’aglio
evoca invece le ben note virtù profilattiche del vegetale, qui volte ironicamente
a scongiurare eventuali azioni moleste operate dai vicini di casa:
Pasticella chî saiddi! Rrobba bbella!
(Pasta con le sarde! Roba bella!)
Ci vonnu l’agghi pû vicinu! (Ci vogliono gli agli per il vicino!)[83]
Il più vitale e “spettacolare” mercato urbano oggi esistente in Sicilia –
e forse in tutto il Meridione d’Italia – è sicuramente la Piscarìa
di Catania, che si estende nell’area a ridosso di piazza Duomo tra magnifiche
architetture barocche. Qui l’esposizione dei prodotti si mantiene più che altrove
aderente ai canoni tradizionali e la notevole concorrenza contribuisce ad animare
lo spazio acustico di ogni genere di richiamo. Le pescherie – soprattutto
concentrate nelle piazze Di Benendetto e Pardo – offrono, sotto quest’ultimo
aspetto, lo scenario più movimentato. Valgano da esemplificazione alcuni imbonimenti
registrati percorrendo piazza Pardo[84]. Nella prima vanniata il venditore tenta
tra l’altro di persuadere una cliente assicurando la pulizia della seppia, in
modo che il “nero” sia pronto per preparare il sugo da utilizzare come condimento
di riso o spaghetti. Nella terza osserviamo un’accattivante metafora per decantare
il pregiato novellame di sarde e acciughe (muccu), definito
“filetto del mare”. Nella quarta è ancora la provenienza – l’assai noto
borgo marinaro di Aci Trezza (poco distante da Catania) – a certificare
la qualità della cernia:
U pruppu, a sìccia! / U calamaru a ddecimila lire! Un chilo di
calamari a ddecimila lire! / Vinissi ccà! Abbiamo masculini, pesce fresco! /
Abbiamo gamberoni, sicci, pruppi! Vinissi ccà, vinissi ccà! Avemu a sìccia!
Se vuole il nero lo pulisco io! (Il polpo, la seppia!
/ Il calamaro a diecimila lire! / Venga qua! Abbiamo acciughe! /Abbiamo gamberoni,
seppie, polpi! Venga qua! Abbiamo la seppia!)
Àiu i muccuna, i rrizzi, i cozzi!
Aò, rrobba bbella, rrobba fresca! Muccuna, rrizzi, cozzi! Troppu bbelli!
(Ho i murici, i ricci, le cozze!)
Cirènnia! Cirènnia, ricciola e ppauru! / Spatu ch’è bbellu! Spatu
ch’iè vvivu! / Bbellu ddaveru è u muccu! A mègghiu spisa iè! U filettu dû mari
è u muccu! (Cernia, ricciola e pauro! / Pescespada
che è bello! Pescespada che è vivo! / Proprio bello è il muccu
! È la spesa migliore! Il muccu è il filetto del mare!)
Bbella rrobba iàiu, rrobba viva, fozza, cu mància pisci! / Cirènnia ch’iè trizzitana,
bbelli trigghi! / Spatu ch’iè vivu! / Rrobba viva! I calamari vivi! (Ho
bella roba, roba viva, forza, che mangia pesce! / Cernia “trezzitana”, belle
triglie! / Pescespada che è vivo!)
Oò, àiu chiddu bbellu! Orate, spicole! Bbelle orate e spicole!
/ I veru scùmmri avemu, i veru scùmmri! / Spatu è chiddu bbellu! Vidi ca bbellu
è u spatu! / Bbelli scùmmri avemu! Calamari, calamari! Scùmmri, calamari, iàmmiru!
Spatu ch’è bbellu, spatu! (Ehi, ho quello bello! /
Abbiamo i veri sgombri! / Il pescespada è quello bello! Guarda quant’è bello
il pescespada! / Abbiamo sgombri belli! Sgombri, calamari, gambero!)
Piscarìa è anche il nome del piccolo ma vivace mercato di Siracusa, situato
proprio all’inizio dell’isola Ortigia, dove si estende il centro storico della
città[85]. Presso la “Casa del pesce dei fratelli Listro” si decantano
tra l’altro la bontà del pescespada “locale” e della seppia colma di “nero”
per preparare l’eccellente intingolo (cfr. supra):
Pescespato locale! Lucali u spatu, lucali u spatu! Pescespato!
Lucali iè! / Bbella la cirignitta, bbella iè! A ciregna c’è! / A sìccia, l’opi!
Saddi e opi! / A sìccia c’àvi u nìvuru! Sugo nero, sugo nero! A sìccia c’av’u
zzucu! / C’è l’àmmiru ch’è bbellu, ch’è bbivu! / Ch’è bbellu u muccu, ch’è bbellu
u muccu! A mègghiu spisa è u muccu! / Si nni calau u pisci, si nni calau!
(Pescespada locale! Spada locale! È locale! / Bella cernia! C’è la cernia! /
La seppia, le boghe! Sarde e boghe! / La seppia che ha il “nero”! La seppia
che ha il sugo! / C’è il gambero che è bello, che è vivo! / Com’è buono il muccu!
Il muccu è la spesa migliore! / È ribassato il prezzo del pesce!)
Le seppie in vendita nella “Pescheria dei fratelli Cappuccio” non solo sono
piene di “nero”, ma sono tanto fresche che “ancora camminano” e “profumano di
mare”:
A sìccia, a sìccia cû nìvuru! Ancora camìnunu, signora! Aò, fannu
ciàuru i mari! / U muccu, u muccu! U muccu c’è!
(La seppia, la seppia col “nero”! Ancora camminano, signora! Ehi, fanno profumo
di mare! / C’è il muccu !)
Presso la “Pescheria del popolo” si insiste di più sulla convenienza dei prezzi
(“regalo”) e sulla licenza di “scegliere” secondo gradimento. Si osservi poi
la menzione di un’altra ricetta tipica – le polpette di muccu –
nell’offerta della mercanzia:
Ddecimila ddu chila, chi ssu bbelli i calamari! Due chili diecimila
lire, forza! / Scùmmri, scùmmri! Fozza! Fozza ch’è c’è da sciegliere! Regalo,
regalo! A cinquemila lire, a cinquemila lire! Fozza signori, scegliere! / Chi
ssu bbelli, chi ssu bbelli! Dai, cci àiu rammiruzzi chi ssu bbelli vivi vivi!
/ Dai, pi ccu s’â ffar’i purpetti i muccu, àa! / Orate bbelle! Orate, spicole!
(Due chili a diecimila lire, come sono belli i calamari! / Sgombri! / Come sono
belli! Avanti, ho gamberetti che sono belli vivi! / Avanti, per chi deve fare
le polpette di muccu !)
Anche tra i venditori di prodotti ortofrutticoli si insiste sul ribasso dei
prezzi e sul permesso di scelta. Si notino in particolare nel primo imbonimento
le espressioni intese a spingere i clienti ad affrettarsi (“vedi che stiamo
vendendo”, “spicciatevi che abbiamo ribassato i prezzi”):
Ô ribbassu, a frutta va ô ribbasso! / Tri cchila a ddumila liri!
Vi pigghiati tri cchila a ddumila liri aranci! / Ô vìnniri u vidi ca semu, ô
vìnniri semu! / A cichita chi iè a bbanana, a cichita! Le più bbelle, signora,
sono le più bbelle! / Scegliere, signori scegliere! Aiutàtivi ch’iè ssiemu ô
ribbassu! (Al ribasso, la frutta va al ribasso! /
Tre chili a duemila lire! Vi prendete tre chili di arance a duemila lire! /
Vedi che stiamo vendendo, stiamo vendendo! / La “chiquita” che è la vera banana!
/ Spicciatevi che abbiamo abbassato i prezzi!)
Ora un mazzu milli liri a spinàcia! Un mazzu milli liri! / Pìgghia a cincucentu
liri i cacuòcciuli! Che freschezza! (Un mazzo di spinaci mille lire!
/ Prendi a cinquecento lire i carciofi!)
Broccoletti, cavuluciuri! Broccoli mille lire, broccoli mille
lire! / Cavuluciuri a ddumila lire! / Fozza, cicòria a ddumila liri, spinaci
a ddumila liri! (Cavolfiore a duemila lire! / Forza,
cicoria a duemila lire, spinaci a duemila lire!)
Sempre presso la Piscarìa di Siracusa si rileva l’imbonimento di un pizzicagnolo
eseguito in stile “moderno”, con ricorso a poche parole in siciliano (bbaccalaru
‘baccalà’, cchiapparella ‘capperi’, càuru ‘caldo’):
U bbaccalaru bbellu stamatina! U bbaccalaru di lusso! / Olive
belle, acciughe, origano! / Bottarga, bottarga, origano! / Origano, latte di
mandorla! / Pomodori secchi, pistacchio, mandorle, noccioline! / Ho cchiapparella
bbella a mille lire stamatina! A cchiapparella bbella! / A mille lire càuru
càuru, pane di casa!
Un imponente porticato – semicircolare ad archi – ospita a Trapani
il mercato del pesce: a Chiazza (la Piazza). Questa monumentale
struttura ottocentesca sorge alla fine del Lungomare, in posizione oggi coincidente
con uno degli accessi al centro storico della città. Nel 2004 un pescivendolo
della Chiazza ne denunciava la “rovina” dovuta a una ordinanza municipale
che limitava la presenza dei banchi agli spazi sottostanti al loggiato, per
consentire un più agevole passaggio delle autovetture. A distanza di un anno
i venditori si sono ulteriormente ridotti e l’antico splendore del mercato –
che ricordiamo vivacissimo fino agli anni Novanta, con l’intera piazza gremita
di tende – si sta lentamente eclissando. Solo poche pescherie, un fruttivendolo
e una bottega di pesce lavorato (secco, salato, sott’olio, ecc.) resistono ancora
e la scarsa concorrenza non stimola certo la frequenza dei richiami. Nei mesi
di pesca del tonno – data anche la presenza a poca distanza delle ultime
due tonnare ancora attive in Sicilia (Favignana e Bonagia) – il mercato
però si rianima e gli imbonimenti ancora sporadicamente riecheggiano, come abbiamo
in particolare rilevato presso il banco di Gaspare Lipari[86].
Si noti, nella sovrapposizione dei registri linguistici, il puntuale ricorrere
degli stereotipi della comparazione cromatica (il tonno ha il “colore delle
rose”), della freschezza associata alla provenienza (tonno appena pescato a
Bonagia) e del richiamo alle preparazioni culinarie più allettanti (in questo
caso il cuscus di pesce, la più tipica pietanza festiva del Trapanese):
Che profumo di mare! Ho trìgghia e àmmaru! / C’è tonno, c’è pescespada,
c’è tonno! Tunnina, pesce spada e tonno! / O che scogliera di mare! Ho trigghi,
calamari e àmmaru! / Colore e sapore, tonno e pescespado! Ch’è fesco stu tonno!
Bbello vivo è, bbello vivo! Tunnina! Va manciativilla ch’è l’uttima vieru! Bbella!
Piscata d’or’è u vieru! Tonno, lattumi, pescespada! / Ddàmuci pisci pû cuscuso!
Cu s’av’a ffari u cuscuso! Bbelli sò! Ch’è profumo di mare! Viniti! Tutto regalato!
Tutto a bbon prezzo! / Ho trigghi, calamari e àmmaru! / Colore di rrose sta
tunnina, colore di rrose! Ch’e fresca, ch’è fresca, ch’è fresca! A canùsciunu,
a canùsciunu! A canùsciunu chidda viva a tunnina, a canùsciunu! Bbella viv’è,
bbella viva! Piscata ora vieru iè! Occhi chiusi, ch’è frisca sta tunnina! Bbella
viv’è, bbella viva! È fresca ooò! A canùsciunu chidda viva, a canùsciunu, a
canùsciunu! Piscata ora ora vieru! Bbella viva è, bbella viva! Chidda di Bbonagìa
vieru è! Tunnina, tonno! Bbella viva è, bbella viva! Piscata ora ora vieru iè!
Taglia, taglia chidda di Bbonagìa, taglia! Che fresca, che fresca! A tunnina
viva che bbella, oè! Taglia c’arrivau ora, taglia, taglia! Taglia câ canùsciunu
chidda frisca, a canùsciunu! Ch’è bbella, ch’è bbella chidda di Bbonagìa! Che
fresca! Che fresca sta tunnina, che fresca! (Ho triglia
e gambero! / Tonno! Mangiatevelo perché è proprio l’ultimo! È appena pescato!
/ Diamogli il pesce per il cuscus! Per chi deve preparare il cuscus! Sono belli!
Venite! / Ha il colore delle rose questo tonno! Lo conoscono quello fresco!
È bello vivo! È stato appena pescato! Fidatevi a occhi chiusi che questo tonno
è proprio fresco! È proprio quello di Bonagia! Appena pescato! Taglia che è
quello di Bonagia! Lo conoscono quello vivo! Taglia che è appena arrivato! Taglia
che lo conoscono quello fresco! Com’è bello quello di Bonagia! Quant’è fresco
questo tonno!)
A Caltanissetta il mercato di Strat’â fòglia (Strada della foglia)
si snoda lungo la via Consultore Benintendi, nella centrale zona tra i corsi
Vittorio e Umberto. La vocazione commerciale e la stessa denominazione di questo
mercato scaturiscono dall’originario legame con l’attività dei fogliamara
, raccoglitori e venditori di erbe selvatiche. Oggi vi si smerciano in prevalenza
prodotti ortofrutticoli, mentre più rara si è fatta la presenza dei venditori
di fogli [87] . In occasione del nostro
rilevamento abbiamo riscontrato la presenza di un solo fogliamaru, che
offriva a “mazzi” diversi vegetali spontanei raccolti nelle campagne che circondano
la città:
Aspàraci, asparaci! Gli aspàraci, calaru! Mazzaredduna, mazzaredduna,
spàraci àiu! Quattru mazza un euru spàraci! Quattru mazza di cipolletti a un
euru! Mazzareddi, mazzareddi, deci mazza un euru!
(Gli asparagi sono ribassati! Ho mazzareddi e asparagi! Quattro
mazzi di asparagi a un euro! Quattro mazzi di cipollette a un euro! Dieci mazzi
di mazzareddi a un euro!)
Le grida pubblicitarie che seguono riguardano carciofi, broccoli e fragole.
Particolare interesse presenta il primo imbonimento che si apre con il riferimento
alla Madonna, invocata a propiziare la vendita e nel contempo a compensare il
venditore per avere manifestato tanta “generosità” nel tenere bassi i prezzi[88]. Lo stesso anziano venditore
mette dei contenitori di plastica a disposizione dei clienti e li invita a scegliere
personalmente i carciofi, rimarcando in modo assai originale la convenienza
dell’acquisto (ripete “miseria”). Anche il venditore di broccoli enfatizza la
qualità della propria merce, arrivando a prometterla in “regalo” ove non si
presentassero acquirenti. L’ultimo testo è un esempio di abbanniata in
perfetto italiano:
E santa Maria pî cacuòcciuli! Cacuòcciuli bbelli! Calaru i cacuòcciuli!
Calaru, calaru! Miseria! Calaru i cacuòcciuli! Cacuòcciuli! Talìa chi cacuòcciuli!
Deci cacuòcciuli a ddu euru! Miseria! Deci vi nni dugnu a ddu euru cacuòcciuli!
Miseria! Sciegliere! Sciegliere! (E santa Maria
per i carciofi! Carciofi belli! Sono ribassati i carciofi! Guarda che carciofi!
Dieci carciofi a due euro! Vi do dieci carciofi a due euro!)
Tiènniri, tiènniri! Cacuòcciuli tiènniri! (Teneri! Carciofi teneri!)
Sparacello, sparacello! Sparacello ch’è troppo bello, signora, mondiale! Talè
cchi bbellu, mègghiu ri chistu nn’attruvi! E si nnu nni vinnu ti l’arrialu!
Troppo bello, signora, mondiale! Numero uno, numero uno! (Broccolo! Guarda
che bello, meglio di questo non ne trovi! E se non ne vendo te lo regalo!)
Due vaschette di fragole un euro! Due vaschette di fragole un euro, un euro,
un euro!
Presso l’unica pescheria attiva in questo tipico mercato della Sicilia interna
abbiamo registrato il seguente richiamo:
Vivo, vivo, viv’è! A ddu euru i merluzzi, avanti signora a ddu euru! S’accomodassi
avanti! Iemu pisannu, avanti! Talìa lu vivarellu!
(È vivo! Merluzzi a due euro! Si accomodi! Proseguiamo a pesare! Guarda com’è
vivo!)
Come in altri mercati, anche a Caltanissetta abbiamo rilevato testimonianze
pessimistiche sulle condizioni di questi peculiari spazi commerciali. Le ragioni
del malcontento si riflettono nelle parole di un anziano salumiere, proprietario
di una piccola bottega situata nella parte alta della Strat’â fòglia:
Prima era caratteristico.
Ora con tutti questi supermercati è scomparso tutto. In una città come Caltanissetta
di 70.000 abitanti mettere tutti sti supermercati… hanno fatto morire questo.
Qua ora non cammina più nessuno. Prima non c’era un piccolo spazio di potere
passare. Ora sta finendo tutto. Stanno aprendo tutti marocchini, cinesi e finirà,
perché continuando di questo passo non ci saremo più nessuno.
Il mutamento in direzione
multietnica della geografia dei mercati urbani è d’altra parte il riflesso di
più generali processi immigratori che investono in modo crescente anche la Sicilia.
Se si può in certa misura comprendere il disorientamento dovuto alla progressiva
occupazione di spazi considerati “centrali” nella percezione di chi li ha tradizionalmente
vissuti e gestiti, è confortante nel contempo rilevare esempi di produttiva
coabitazione. È questo il caso di due venditori di lattughe, uno nisseno e uno
marocchino. A quest’ultimo chiediamo se anche nel suo paese si usi reclamizzare
la merce gridando ed egli ripete in arabo il richiamo appena eseguito in siciliano,
evidenziando una notevole continuità stilistica dell’inflessione vocale. I due
proseguono quindi insieme a pulire e a offrire gridando la loro mercanzia, rimarcando
con studiato mestiere che per venderle a prezzi così bassi le lattughe “neppure
valeva pena raccoglierle”:
Quattru lattuchi un euru, manc’a cògghirli! Prezzi pazzi! Quattru lattuchi un
euru! Quattru un euru ti dugnu, quattru un euru!
(Quattro lattughe a un euro, neppure a raccoglierle! Ti do quattro lattughe
a un euro!)
Le quattro bbanniati del pesce scelte per chiudere questa rassegna rinviano
a una “fonosfera” definitivamente perduta. Il mercato messinese delle Ddu
vii (Due vie), che prendeva il nome dall’originaria collocazione all’incrocio
tra le vie Cesare Battisti e Santa Cecilia, è stato infatti “deportato” da oltre
un decennio in un’area appositamente predisposta con padiglioni prefabbricati
presso piazza Zaera, perdendo inevitabilmente quella fusione con il tessuto
urbano che ne era stato il tratto distintivo. Gli stereotipi su cui si fondano
anche queste grida di reclame sono quelli consueti, ma merita menzione
la prima per l’aggraziata immagine che riesce a evocare[89]:
U papà quannu potta l’àmmeru u picciriddu si prea!
(Quando il padre porta il gambero il bambino è contento!)
Ch’è bbedda frisca st’alalonga! Chi alalonga ciaurusa chi iàiu! (Com’è bella
fresca questa alalonga! Che alalonga profumata che ho!)
Piscispata or’u nchianaru, ch’è bbellu! Cciû scalai ora a vintimila liri, cciû
scalai! (Pescespada ora lo hanno portato, com’è bello! L’ho appena ribassato
a ventimila lire, l’ho ribassato!)
Frittu di calamari chi ancora si mòvunu frischi! Iàiu bbellu
frittu di trìgghia e ccalamari chi ancora si mòvunu frischi!
(Fritto di calamari che ancora si muovono freschi! Ho bel fritto di triglia
e calamari che ancora si muovono freschi!)
Arruvau u mazzu dû maccatello e puttau a vera russulidda, ch’è bbella! (È
arrivato il “mazzo” dal mercatello e ha portato il vero novellame, com’è bello!)
Sotto il segno dell’abbondanza
Abbiamo delineato l’articolazione locale, storicamente circoscritta, di un sistema
comunicativo “intersensoriale” che affonda le sue radici nello stesso affermarsi
delle società sedentarie, fondate sulla circolazione mercantile dei beni di
sussistenza. Nelle culture agropastorali i processi di produzione, conservazione
e distribuzione degli alimenti si dispiegano d’altronde entro una dimensione
impregnata di sacralità, che perpetua concezioni del rapporto tra uomo e natura
già ampiamente maturate presso i popoli cacciatori-raccoglitori. In particolare,
le pratiche espressive – mimiche, danze, canti, travestimenti, ornamenti,
produzioni figurative, ecc. – sono state costantemente impiegate per significare
nei modi più svariati l’incremento vitale, auspicando l’abbondanza futura per
mezzo di simulazioni ritualmente codificate. Nel nostro caso gli alimenti accumulati,
ostentati con ricercata perizia compositiva ed elogiati attraverso adeguate
modulazioni della voce, rinviano a una rappresentazione potenziata del mangiare
e del bere: con la sola forza della loro presenza gli alimenti scongiurano il
rischio della carestia e della fame; con la loro reale potenzialità energetica
sottraggono gli uomini all’incertezza della quotidiana fatica, riaffermando
il perpetuarsi dei cicli vitali. In questa prospettiva è significativo ricordare
quanto osserva Piero Camporesi (1983: 236) – seguendo in parte le considerazioni
di Émile Benveniste (1971, 1976) – riguardo alla nozione di acquisto
nelle lingue indoeuropee:
Nelle antiche società di ceppo ariano il verbo indicante l’«acquistare
al mercato» (usato anche nel senso di vendere) aveva connessioni etimologiche
col «gioire di un nutrimento, consumare», «nutrire e allevare», connesso anche
con il significato di «salvare» e «guarire». Si profila sullo sfondo anche la
luce della redenzione. Anastomosi di famiglie linguistiche in cui gli allacciamenti
tra sacro e profano, fra comprare e vendere, fra nutrire e consumare, gioire
e salvare, discendono dalla funzione primaria del mangiare. La «civilizzazione»
ha camminato insieme alla storia perché ha avuto appetito, perché è stata spronata
dai morsi della fame. Lo stomaco, inventore ingegnoso di tutte le scienze, è
stato il motore occulto dello sviluppo, delle tecniche dell’organizzazione sociale
delle culture. La riflessione sull’uomo inizia partendo dal suo ventre. L’abbondanza
delle merci commestibili rende possibile il convivium, la comunione alimentare,
cemento sociale delle antiche tribù. In un’altra sfera archetipi solidi o liquidi
(il pane, il vino, il latte) dilatano nel soprannaturale l’esistenza della loro
doppia, ambigua presenza, materiale e simbolica.
È superfluo rimarcare la centralità del cibo entro i circuiti cerimoniali di
scambio, che giovano sia a sancire le alleanze tra gli uomini (individui, gruppi,
comunità) sia a mediare il rapporto tra l’umano e l’extra-umano. Se osserviamo
tuttavia i tratti che strutturano l’istituto dello scambio cerimoniale entro
i più svariati contesti storico-culturali, riducibile alla sequenza di accumulazione,
ostentazione e redistribuzione dei beni in forma di dono [90] , si potrà rilevare
un singolare parallelismo con quanto si verifica entro uno spazio come quello
del mercato, deputato a ospitare in prevalenza scambi di ordine commerciale.
Le ragioni di questo parallelismo vanno ricercate nella natura fortemente simbolica
di un luogo in cui si rinnova quotidianamente il miracolo dell’abbondanza, in
modo a tutti visibile e per tutti disponibile (se pure in misura diversa, fino
a comprendere le offerte caritatevoli). Questa idea traspare con evidenza anche
da quanto osserva Michail Bachtin riguardo alle “grida di mercato” della Parigi
cinquecentesca, ricavate dal Gargantua et Pantagruel di Rabelais: «non
erano altro che una cucina sonora e un fastoso banchetto sonoro in cui
ogni prodotto e ogni cibo aveva il proprio ritmo e la propria melodia particolare;
era una sorta di sinfonia della cucina e del banchetto che risuonava in permanenza
nelle strade» (1979: 200). Sotto questo aspetto i mercati tradizionali
sono luoghi della “certezza”: la penuria dei prodotti sui banchi, o peggio ancora
la loro totale assenza, costituiscono il segno ineluttabile della crisi vitale
per la società intera, mentre l’esposizione fastosa delle merci, accompagnata
dalla loro ben modulata magnificazione acustica, ne rappresentano tangibilmente
il benessere e la prosperità.
Se le pratiche di ostensione attuate in questi mercati hanno obiettivi primariamente
materiali, dettati dalle ragioni del commercio, le forme in cui questa ostensione
si plasma rinviano a modelli riconducibili alla sfera dei comportamenti rituali.
Il modo in cui vengono tuttora “ordinate” in Sicilia le offerte alimentari in
occasione delle pratiche di ex-voto tributate ai santi suggeriscono con forza
questa correlazione. Soprattutto nelle celebrazioni in onore di san Giuseppe,
l’esposizione di alimenti crudi, di pietanze più o meno elaborate e, addirittura,
di notevoli quantità di cibi e bevande confezionate (dai biscotti alla pasta,
dal vino alla cocacola), disposti su tavoli oppure impilati sul pavimento lungo
le pareti di stanze appositamente predisposte, ripropone significativamente
gli stessi schemi elaborati ai fini dello scambio commerciale. Il senso ultimo
di questa ostentazione viene lucidamente posto in evidenza da Fatima Giallombardo
(2003: 42-43):
[…] ortaggi selvatici (cardi, asparagi, finocchietti) e coltivati
(lattughe, fave fresche, carciofi, finocchi); agrumi (arance, limoni, mandarini,
cedri), si ammassano sulle tavole devozionali, adornano le statue dei santi
[…]. Oltre alle primizie di frutta e alle pietanze, tutti questi alimenti sono
strategicamente presenti negli spazi ostentativi delle feste per ribadire, insieme
alle alleanze con le entità sacrali, il senso rassicurante del ritmo apicale
della fertilità. Una dimensione che si itera nelle numerose celebrazioni del
ciclo annuale anche attraverso gli elementi arborei (alloro, mortella, palme),
il fuoco, i rametti di rosmarino posti a adornare anche certe ciambelle di pane
[…]. Si tratta, com’è evidente, di simboli orientati a suggerire l’idea di una
energia vitale concentrata, alla cui fruizione in chiave collettiva, e secondo
norme cerimoniali, molti gruppi continuano a affidare la garanzia della continuità
naturale e sociale.
Si comprende allora quale sia il meccanismo fondante di questa retorica della
persuasione, che non cessa di narrare la seduttività del “corporeo” come
struttura del godimento dei sensi. Ne consegue una estetica del mostrare,
dove la materialità dell’oggetto diventa forma culturalmente sublimata
attraverso una ritmica delle forme, dei colori e dei suoni. Una estetica
corroborata dal vigore di simboli arcaici, eppure ancora straordinariamente
efficaci. Queste strategie dell’offerta “mercantile” degli alimenti continuano
a significare il prevalere dell’ordine umano sul caos che può
essere generato da una natura ostile. Una natura che invece trova, proprio all’interno
di queste aree centrali della civitas , salda e rassicurante domesticazione:
gli alimenti ordinatamente “ammucchiati” e adeguatamente “cantati” riproducono
difatti un esemplare calendario della fruttificazione (vegetale e animale),
che contiene in una indissolubile circolarità i tempi della produzione, della
distribuzione (vendita) e del consumo. “Tempi” solo apparentemente connotati
da uno spirito profano, ma in realtà profondamente permeati di sacralità. Non
è certo un caso che le fiere (del bestiame anzitutto), estensioni
sovralocali e intercomunitarie dei mercati cittadini, siano state da sempre
associate a festività religiose, e che le stesse celebrazioni religiose prevedano
invariabilmente la presenza di particolari mercati, se pure specializzati
nella vendita di prodotti specifici (dolci, bevande, semi tostati e frutta secca,
cibi di strada, giocattoli, ecc.).
I mercati tradizionali – dove peculiari modalità di ostensione si accompagnano
al gusto agonistico della contrattazione, all’irruzione dell’oscenità e del
riso, al piacere del gioco e al rigore iterativo del rito – restano pertanto
ancora luoghi “della lontananza”. Parziali baluardi di un mondo preindustriale,
essi paradossalmente si pongono come modelli dei nuovi e moderni spazi della
compravendita (supermercati, ipermercati e forse anche ultramercati),
non più “officine dei sensi” ma “mercati-obitorio”: tanto dei cibi quanto delle
molteplici declinazioni dell’umana espressività[91].
Riferimenti
d.
= edizione in disco 33/30
cd.
= edizione in compact disc
AA.VV.
1992
I segni dei mestieri. Banchi grida insegne, Leonardo - De Luca, Roma.
2001
Mercati, numero monografico di “La Sicilia Ricercata”, III/8.
Acquaviva,
Rosario - Bonanzinga, Sergio
cd.2004
Musica e tradizione orale a Buscemi , Regione Siciliana - Assessorato
dei Beni culturali e ambientali e della Pubblica istruzione, Palermo.
Aime,
Marco
2002
La casa di nessuno. I mercati in Africa occidentale, introduzione di
S. Latouche, Bollati Boringhieri, Torino.
Alessandro,
Lillo
1982
Grida di mestieri in Sicilia , Edikronos, Palermo.
Alesso,
Michele
1915
Usanze d’altri tempi di Caltanissetta , Tip. Popolare, Acireale
(Ct).
Bachtin,
Michail
1979
L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella
tradizione medievale e rinascimentale [1965], trad. it. Einaudi,
Torino.
Benveniste,
Émile
1971
Dono e scambio nel vocabolario indoeuropeo [1966], in Id., Problemi
di linguistica generale , trad. it. Il Saggiatore, Milano:
376-389.
1976
L’economia, in Id., Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee
[1969], trad. it. a cura di M. Liborio, Einaudi, Torino: I, 9-153.
Biagini,
Ermanno
1938
Venditori ambulanti delle vie palermitane , in “Le vie d’Italia”,
XLIV, 7: 856-865
Biagiola,
Sandro
d.1979
Campania 1. Venditori ambulanti , con libretto allegato, Fonit
Cetra, Milano.
1992
I canti dei venditori ambulanti italiani. Tipi e processi compositivi,
in “Nuova Rivista Musicale Italiana”, XXVI, 1: 53-66.
Bogatyrëv, Pëtr
1982
Le grida dei venditori ambulanti: segni di reclame [1962], in Id., Semiotica
della cultura popolare , premessa di M. Solimini, trad. it.
Bertani, Verona: 209-225.
Bonanzinga,
Sergio
1993
Forme sonore e spazio simbolico. Tradizioni musicali in Sicilia, Folkstudio,
Palermo.
1995
Etnografia musicale in Sicilia. 1870-1941 , Cims,
Palermo.
1997
Il canto di tradizione orale in Sicilia, in Id. (a cura di), Canti
popolari in Sicilia , numero monografico di “Nuove Effemeridi”, X,
40: 2-24.
Braudel,
Fernand
1973
Storia e scienze sociali. La “lunga durata” [1958], trad. it. in Id.,
Scritti sulla storia , introduzione di A. Tenenti, Mondadori,
Milano.
1981
Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII) - II. I giochi
dello scambio [1979], trad. it Einaudi, Torino.
Burke,
Peter
1980
Cultura popolare nell’Europa moderna [1978], introduzione di C.
Ginzburg, trad. it. Mondadori, Milano.
Buttitta,
Antonino
1961
Cultura figurativa popolare in Sicilia , Flaccovio, Palermo.
1996
Dei segni e dei miti. Una introduzione all’antropologia simbolica, Sellerio,
Palermo.
1999
Del giuoco o della giustizia. Della vita e della morte, in G. Ruffino
(a cura di), La carta dei giochi , Materiali e ricerche dell’Atlante
linguistico della Sicilia, n. 7, Palermo 1999: 11-24.
Camporesi,
Piero
1983
Alimentazione folclore società , Pratiche, Parma.
1985
Le officine dei sensi , Garzanti, Milano.
Canetti,
Elias
1989
Le voci di Marrakech [1964] , trad. it. Bompiani,
Milano.
Caravaglios, Cesare
1931 Voci e gridi di venditori
in Napoli , Libreria Tirelli di F. Guaitolini, Catania.
1936 Il contenuto poetico ed il
contenuto musicale nei gridi dei venditori ambulanti napoletani, in. Id.,
Saggi di folklore , Rispoli, Napoli: 65-101.
Cardona, Giorgio R.
1976 Introduzione all’etnolinguistica
, Il Mulino, Bologna.
Collaer,
Paul
1981
Musique Traditionelle Sicilienne , 2 voll., Fonds Paul Collaer,
Tevuren.
D’Agostino,
Gabriella
1991
(a cura di), Arte popolare in Sicilia. Le tecniche, i temi, i simboli,
Flaccovio, Palermo
Della
Peruta, F. - Leydi, R. - Stella, A.
1985
(a cura di), Milano e il suo territorio, 2 voll., Silvana, Milano.
D’Onofrio,
Salvatore
1988
Un gioco tragico: il tocco , in “Nuove Effemeridi”, I/3: 50-58.
Favara,
Alberto
1923a
Canti e leggende della Conca d’Oro , in “Rivista d’Italia”, XXVI:
287-303; ried. in Favara 1959; ried. in “Nuove Effemeridi”, III (1990), 11.
1923b
Il ritmo nella vita e nell’arte
popolare in Sicilia , in “Rivista d’Italia”, XXVI: 79-99; ried. in
Favara 1959.
1957
Corpus di musiche popolari siciliane , a cura di O. Tiby, 2 voll.,
Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo, Palermo.
1959
Scritti sulla musica popolare siciliana - Con un’appendice di scritti di U.
Ojetti, C. Bellaigue, E. Romagnoli e A. Della Corte, a cura di T. Samonà
Favara, De Santis, Roma.
Ferrara,
Corrado
1896
La musica dei vanniaturi o gridatori di piazza notigiani, Tip. Zammit,
Noto; ried. in “Nuove Effemeridi”, III (1990), 11.
Fugazzotto,
Giuliana - Sarica, Mario
1998
(a cura di), Canti e suoni sul lavoro in provincia di Messina, Ass. Culturale
Kyklos GE 002, Messina.
Giallombardo,
Fatima
1990a
Festa orgia e società , Flaccovio, Palermo.
1990b
Accumulare ostentare distribuire. Preliminari a una antropologia della ricchezza,
“Uomo e territorio. Quaderni dell’Istituto di Scienze antropologiche e geografiche
dell’Università di Palermo”, vol. 6, Palermo.
1995
La cucina di strada a Palermo , in G. Ruffino (a cura di), Percorsi
di geografia linguistica. Idee per un atlante siciliano della cultura dialettale
e dell’italiano regionale, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani,
Palermo: 513-527.
2003
La tavola l’altare la strada. Scenari del cibo in Sicilia, Sellerio,
Palermo.
Grazioli,
Riccardo
1985
Il linguaggio dell’imbonimento , in Della Peruta - Leydi - Stella
1985/II: 47-90.
1992
Testo, tempo e imbonimenti di dimostrazione, in AA.VV.: 203-214.
Grillo, Salvatore
1972-73
Invenzioni melodiche di «vanniaturi» siracusani, in “Archivio Storico
Siracusano”, N. S., II: 237-265.
Grisanti, Cristoforo
1981
Folklore di Isnello, introduzione e note di R. Schenda, Sellerio, Palermo
(riedizione dei due volumi pubblicati col titolo Folklore di Isnello,
rispettivamente nel 1899 e nel 1909).
Guarrasi,
Vincenzo
1978
La condizione marginale , prefazione di L. M. Lombardi Satriani,
Sellerio, Palermo.
Guggino,
Elsa
d.1974
(a cura di), Musiche e canti popolari siciliani. Canti del lavoro, vol.
I, Albatros VPA 8206, con libretto allegato.
1986
I canti della memoria , in V. Consolo (a cura di), La pesca
del tonno in Sicilia , Sellerio, Palermo 1986: 85-111.
1991
(a cura di), I carrettieri, con
saggi musicologici di G. Garofalo e I. Macchiarella, Folkstudio, Palermo (I
ed. 1978).
Jakobson,
Roman
1966
Linguistica e poetica [1960], trad. it. in Id., Saggi di linguistica
generale, Feltrinelli, Milano: 181-218.
Julien, Jean-Rémy
1992 Musica e pubblicità. Dai gridi
medioevali ai jingle radiotelevisivi [1989], trad. it. Unicopli, Milano.
La Duca,
Rosario
1994
I mercati di Palermo , Sellerio, Palermo.
Latouche,
Serge
2004
L’altra Africa. Tra dono e mercato [1997], trad. it. Bollati Boringhieri,
Torino (nuova ed. riveduta e ampliata).
Lo Presti, Salvatore
1963 Gli ultimi gridatori delle
vie di Catania, in “Sicilia”, 40: 28-43.
Matvejevic,
Predrag
1998
Mediterraneo. Un nuovo breviario [1987], introduzione di C. Magris,
trad. it. Garzanti, Milano.
Murray
Schafer, Roger
1985
Il paesaggio sonoro [1977], trad.
it. Unicopli, Milano.
Pacella, Vincenzo
1933
Autri cosi di paisi , Scuola Tip. Ospizio di Beneficenza, Palermo.
Pennino,
Gaetano
1990
I suoni e le voci , in AA. VV., Le forme del lavoro. Mestieri
tradizionali in Sicilia , Libreria Dante, Palermo: 415-426.
Perroni Grande, Ludovico
1903
Voci di venditori ambulanti in Messina , in «Archivio per lo studio
delle tradizioni popolari», XXII: 408-413.
Pitrè, Giuseppe
1882 Sulle voci dei venditori ambulanti
, in “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, I: 289-292, 455-458.
1889 Usi e costumi credenze e pregiudizi
del popolo siciliano, 4 voll., Pedone Lauriel, Palermo.
1894 Costumi di venditori ambulanti
di Palermo , Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo.
1900 Feste patronali in Sicilia
, Clausen, Torino-Palermo.
1913
La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Reber, Palermo.
Pratella, Francesco Balilla
1941 Sicilia in Id., Primo
documentario per la storia dell'etnofonia in Italia, 2 voll., Istituto delle
Edizioni Accademiche, Udine: II, 451-476.
Rigoli, Aurelio
1973 Vita e costumi dei siciliani
dall’XI al XIX secolo, in un inedito di Salvatore Salomone-Marino
, in Id., Mondo popolare e letteratura , Flaccovio, Palermo: 109-162.
Rubino, Benedetto
1925
I gridatori delle vie siciliane , in “La lettura”, XXV/2: 157-158
Scarsellini,
Annalisa
1985
Teatralità dell’imbonimento di piazza , in Della Peruta - Leydi
- Stella 1985/II: 33-45.
Serio,
Stefania - Soriani, Guido
2005
Abbanniate e interazioni nei mercati del Capo e di
Ballarò di Palermo, in G. Marcato (a cura di), Dialetti in città,
Unipress, Padova: 99-106.
Sottile,
Roberto
2005
Il mercato in cttà: contesti comunicativo-relazionali a Ballarò e
al Capo di Palermo, in G. Marcato (a cura di), Dialetti in città,
cit.: 93-98.
Tiby,
Ottavio
1957
Il canto popolare siciliano. Studio introduttivo, in Favara 1957/I: 2-113.
Uccello,
Antonino
cd.2004
Antonino Uccello etnomusicologo. Documenti sonori degli Archivi di etnomusicologia
dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, 2 cd, a cura di G. Pennino, Regione Siciliana,
Assessorato dei Beni culturali e ambientali e della Pubblica istruzione, Palermo.
Zumthor,
Paul
1995
La misura del mondo. La rappresentazione dello spazio nel Medio Evo [1993],
trad. it. Il Mulino, Bologna.
Note
[1]
L’idea che i mercati si configurino come scene animate da attori
che ogni giorno interpretano un canovaccio dettato dalla tradizione non
è certo nuova; si vedano a esempio: Bachtin 1979: passim; Burke 1980:
106-110; Camporesi 1983: 235-241; Scarsellini 1985; Canetti 1989: 21-31; Zumthor
1995: 126-127: Matvejevic 1998: 263-271; Aime 2002: 72-84. Per un inquadramento
generale degli aspetti storico-culturali e socio-simbolici connessi alla “vita”
dei mercati urbani in contesti europei ed extraeuropei si vedano in particolare
Braudel 1981 e Latouche 2004.
[2] Tra i pochi testi che trattano
l’esposizione della merce nei mercati storici siciliani (soprattutto attraverso
immagini fotografiche), si segnalano La Duca 1994 e AA.VV. 2001. Per una breve
nota centrata sugli aspetti linguistico-relazionali, cfr. Sottile 2005. Più
in generale per l’area italiana si veda AA.VV. 1992.
[3] Rilevamento (videoripresa):
Acireale (Ct), 09/04/2005.
[4] Rilevamento (videoripresa):
Palermo, 07/05/2005.
[5] Rilevamento (videoripresa):
Caltanissetta, 02/04/2005.
[6] Rilevamento (videoripresa):
Trapani, 10/06/2004.
[7] Cfr. nota 4.
[8] Rilevamento (videoripresa):
Catania, 25/04/2004.
[9] Rilevamento (videoripresa):
Catania, 23/02/2002.
[10] Cfr. nota 6.
[11] Rilevamento (videoripresa):
Palermo, 15/05/2004.
[12] Cfr. nota 11.
[13] Rilevamento (videoripresa):
Siracusa, 24/02/2002.
[14] Cfr. nota 5.
[15] Per considerazioni relative
al toccu e alla riffa nel quartiere del Borgo Santa Lucia –
dove è situato uno dei mercati tradizionali di Palermo – si veda Guarrasi
1978: 158-168. Più in generale sul gioco del toccu in Sicilia,
cfr. D’Onofrio 1988. Riguardo altri contesti ludico-cerimoniali in cui si mettono
in gioco alimenti, cfr. in particolare Giallombardo 2003: 91-124. Sul valore
simbolico del gioco, con specifico riferimento al contesto tradizionale siciliano,
cfr. Buttitta 1999.
[16] Grida di venditori e
artigiani ambulanti siciliani sono state raccolte da numerosi studiosi, fra
cui segnaliamo: Pitrè 1882, 1889/I: 363-404, 1894, 1913: 212-266; Ferrara 1896
(con esempi musicali); Perroni Grande 1903; Alesso 1915: 99-108; Rubino 1925;
Lo Presti 1963 (con ess. mus.); Biagini 1938; Pratella 1941/II: 465-470 (con
ess. mus.); Favara 1957/II: 487-513 (con ess. mus.); Grillo 1972-73 (con ess.
mus.); Alessandro 1982 (con ess. mus.). Per uno studio sulle grida dei venditori
ambulanti napoletani, corredato da documentazione sonora, cfr. Biagiola d.
1979. Per una sintesi relativa all’area italiana, cfr. Biagiola 1992. Per un
approccio funzionale-strutturale alle “grida di reclame”, cfr. Bogatyrëv 1982.
Per un’analisi di tipo linguistico, cfr. Garzioli 1985 e 1992. Per un approfondimento
storico nel più ampio quadro dei rapporti tra musica e pubblicità, cfr. Julien
1992. Per l’edizione discografica di alcuni documenti raccolti in Sicilia si
vedano: Guggino d. 1974: A/4; Fugazzotto-Sarica cd.
1998: 15-22; Acquaviva-Bonanzinga cd. 2004: 22, 23; Uccello cd.
2004: 26, 27, 57.
[17] Per la nozione di suono-segnale
, cfr. Schafer 1985: 22.
[18] Cesare Caravaglios
riscontrava nelle grida dei venditori napoletani lo “stato embrionale” di alcune
forme del canto popolare e in particolare del canto a ffigliola (1931:
28-29; cfr. anche Caravaglios 1936). Il processo inverso venne invece posto
in evidenza da Ottavio Tiby con riferimento a certe abbanniatini trascritte
da Favara: «molto esse debbono al canto del popolo, del quale alcune mi appaiono
come manifeste derivazioni» (1957: 97). Sarebbe interessante approfondire la
questione verificando in modo sistematico le opzioni indicate dai due studiosi.
[19] Rilevamento
(audioripresa): Villabate (Pa),
29/07/1995. Esecuzione: Nino Geraci (n. 1935, venditore ambulante).
[20] Cfr. nota 18
[21] Rilevamento (audioripresa):
San Filippo Inferiore (fraz. di Messina), 18/09/1988. Esecuzione: Francesco
Sottile (n. 1939, venditore ambulante).
[22] Rilevamento (audioripresa):
Belmonte Mezzagno (Pa), 07/08/1991.
Esecuzione: Pietro Greco (n. 1920, contadino e venditore ambulante).
[23] Cfr. nota 20.
[24] Rilevamento (audioripresa):
Messina, 20/02/1989. Esecuzione: Michele Ferro (n. 1911,
pescivendolo al mercato delle “Due vie”).
[25] Rilevamento (audioripresa):
Giampilieri Superiore (fraz. di Messina), 05/08/1988. Esecuzione: Salvatore
Mazzapica (n. 1939, venditore ambulante e contadino).
[26] Rilevamento (audioripresa):
Torre Faro (fraz. di Messina), 18/09/1989. Esecuzione: Giuseppe Arena
(n. 1925, venditore ambulante e pescatore).
[27] Cfr. nota 20.
[28] Cfr. nota 21.
[29] Cfr. nota 18.
[30] Rilevamento (audioripresa):
Salemi (Tp), 30/03/1996. Esecuzione:
Benedetto Di Dia (n. Marsala 1925, venditore ambulante).
[31] Cfr. nota 22.
[32] Cfr. nota 27.
[33] Cfr. nota 18.
[34] Cfr. nota 18.
[35] Cfr. nota 18.
[36] Cfr. nota 27.
[37] Cfr. nota 18.
[38] Cfr. nota 18.
[39] Cfr. nota 23.
[40] Cfr. nota 27.
[41] Cfr. nota 18.
[42] Cfr. nota 18.
[43] Cfr. nota 27.
[44] Cfr. nota 27.
[45] Cfr. nota 27.
[46] Cfr. nota 27.
[47] Rilevamento (audioripresa):
Giampilieri Superiore (fraz. di Messina), 05/08/1988. Esecuzione: Salvatore
Berlinghieri (n. 1959, venditore ambulante).
[48] Cfr. nota 47.
[49] Rilevamento (audioripresa):
Belmonte Mezzagno (Pa), 07/08/1991.
Esecuzione: Giuseppe Saletta (n. 1940, bidello, occasionalmente
venditore ambulante).
[50] Cfr. nota 21.
[51] Cfr. nota 20.
[52] Cfr. nota 25.
[53] Cfr. nota 18.
[54] Cfr. nota 22.
[55] Rilevamento (audioripresa):
Torre Faro (fraz. di Messina), 18/09/1989. Esecuzione: Giuseppe Rando
(n. 1919, venditore ambulante e pescatore).
[56] Rilevamento (audioripresa):
Villabate (Pa), 16/06/2001. Testimonianza:
Ignazio Dominici (n. 1925, carrettiere).
[57] Cfr. nota 18.
[58] Anche questa testimonianza
si deve a Nino Geraci (cfr. nota 18).
[59] Segnaliamo a tale proposito
una pertinente osservazione di Giuseppe Pitrè (1900: 75) riguardo al contrasto
tra la “cantilena allegra” dei venditori e quella “monotona” dei mendicanti.
[60] L’episodio è stato
riferito da Antonino Buttitta che ringraziamo per la segnalazione.
[61] Rilevamento
(audioripresa): Lipari, Isole Eolie (Me)
15/04/1990. Testimonianza: Giovanni Saccà (n. 1932, rigatteri,
piccolo grossista di pesce).
[62] Cfr. nota 24.
[63] Si ringrazia per la
segnalazione Giuseppe Di Miceli (insegnante presso la scuola media statale G.
Galilei di Mezzojuso).
[64] Rilevamento (audioripresa):
Salemi (Tp), 05/05/1991. Esecuzione:
Salvatore Corradino (n. 1912, tammurinaru ).
[65] È interessante
rilevare come questa azione fosse parodisticamente riproposta a Palermo in ambito
carnevalesco (cfr. Pacella 1933: 85-90). Per valutazioni relative a forme rituali
connesse alla celebrazione dell’abbondanza alimentare in Sicilia, si veda in
particolare Giallombardo 1990a e 2003.
[66] L’enunciazione
dei messaggi di pubblico interesse per mezzo dei banditori professionali, eredi
degli antichi araldi, era ancora molto comune in Sicilia fino agli anni Cinquanta.
Gli avvisi, che venivano declamati ad alta voce, erano perlopiù preceduti dal
suono di un tamburo – ma all’occorrenza potevano impiegarsi anche trombe
militari, corni d’ottone, campanelli o campanacci per vacche – con cui
si eseguivano semplici ritmi per meglio attirare l’attenzione. Per attestazioni
relative al mestiere di banditore in Sicilia, si vedano: Pitrè 1889/I: 367;
Alesso 1915: 130-132; Grisanti [1909] 1981: 168-169. Per la trascrizioni musicale
di alcuni ritmi che accompagnavano la declamazione dei bandi, si veda Favara
1957/II: nn. 938, 971, 980, 1016, 1028; per la trascrizione completa di un bando,
si veda Favara 1957/II: n. 1018. L’attività di uno di questi “professionisti
della voce” viene descritta verso la fine dell’Ottocento da Salvatore Salomone
Marino, con particolare attenzione
per forme, funzioni e occasioni di questo antico mestiere
(testimonianza contenuta in un manoscritto edito a cura di Aurelio Rigoli;
cfr. Rigoli 1973: 136-137).
[67] Rilevamento
(audioripresa): Palermo, 07/08/1991. Esecuzione: Giuseppe Aucello
(n. 1916, ex impiegato, abbanniaturi), Maurizio Aucello, (n. 1964, manovale,
tammurinaru ), Onofrio Aucello (n. 1949, bidello, tammurinaru
).
[68] Rilevamento
(audioripresa): Noto (Sr),
07/08/1998. Esecuzione: Salvatore Marini (n. 1956, venditore ambulante).
[69] Abbiamo potuto acquistare
l’audiocassetta (60 minuti di durata) nel 1998 dal venditore Vincenzo Romagnolo
(n. 1949), di passaggio in via delle Pergole (zona Ballarò). Fino a oggi continuiamo
a osservare tra i venditori di sfinciuni la medesima consuetudine, con
il ricorso anche a nuove “edizioni” dell’audiocassetta sempre realizzata da
Giuseppe La Torre.
[70] Fanno eccezione i rilevamenti
indicati alle note 23, 24, 47 e 67.
[71] La formalizzazione verbale
degli imbonimenti si pone in questa sede quale obiettivo prioritario dell’analisi.
Segnaliamo tuttavia che è in corso di elaborazione un nostro studio complessivo
sulle grida di reclame, esteso al complesso degli aspetti performativi
– melodici, cinesici, prossemici – che più ampiamente caratterizzano
questo peculiare sistema di propaganda commerciale.
[72] Considerate le
circostanze in cui si è operata la documentazione, solo di rado è stato possibile
registrare il nome del venditore che eseguiva i richiami. Si indicherà pertanto
esclusivamente il luogo e la data in si sono svolti i rilevamenti.
[73] Una recente indagine,
specificamente incentrata sulle modalità di interazione tra venditori e acquirenti
nei mercati palermitani del Capo e di Ballarò, pone tra l’altro in evidenza
la frammistione linguistica presente nel repertorio delle abbanniati
(cfr. Serio-Soriani 2005).
[74] Cfr. nota 11.
[75] Cfr. nota 11.
[76] Cfr. nota 11.
[77] Cfr. nota 11.
[78] Cfr. nota 9.
[79] Rilevamento (videoripresa):
Palermo, 09/06/1995.
[80] Cfr. nota 79.
[81] Cfr. nota 4.
[82] Cfr. nota 4.
[83] Questa stessa abbanniata
, raccolta sempre a Palermo negli anni Trenta del Novecento da Ermanno Biagini,
viene così commentata: «sta a significare che, siccome l’aglio si fa sentire
col suo odore penetrante e persistente, così occorre l’aglio per far sentire
la nostra presenza ai vicini… quando ne sia il caso!» (1938: 860).
[84] Cfr. nota 9.
[85] Cfr. nota 13.
[88] Giorgio Raimondo Cardona,
esaminando alcuni esempi tratti da una raccolta di grida di venditori del
Cairo realizzata negli anni Trenta da J. Heyworth-Dunne, osserva un caso simile
a questo di Caltanissetta: «il grido “Dio me ne ripagherà” del venditore di
acqua va interpretato come: “il prezzo che vi faccio è così basso che la mia
si può considerare solo una buona azione; per questo mi aspetto ricompensa
sola da Dio”, con un efficace capovolgimento delle presupposizioni dell’ascoltatore»
(1976: 205).
[89] Rilevamento (audioripresa):
Messina, 20/02/1989.
[90] La questione è stata
trattata, com’è noto, in diversi contributi “classici” dell’antropologia (da
Mauss a Bataille, da Malinowski a Lévi-Strauss). Valga qui rinviare agli studi
di Fatima Giallombardo – che ha tra l’altro saputo raccordare i meccanismi
che strutturano certi processi di acquisizione (pesca del novellame nel Palermitano)
a quelli riscontrabili nell’ambito di svariate pratiche rituali siciliane
– e all’ampia bibliografia ivi indicata (1990b, 2003).