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"Qualsiasi perturbazione sonora che, emergendo dal silenzio, dia luogo ad una sensazione acustica (...) è quindi sinonimo di suono, ma si usa soprattutto per suoni soggettivamente giudicati non musicali o che comunque riescano sgradevoli, fastidiosi, molesti." (Treccani). È interessante come questa definizione riesca a non dirci assolutamente nulla di significativo sul rumore, nulla che oltrepassi la soglia della 'prima idea che viene in mente'. Essa, in compenso, ci indica utilmente il quadro di riferimento del senso comune, intessuto di inevitabile pregiudizio. Proseguendo l'indagine troviamo: "denominazione generica di qualsiasi fenomeno acustico dovuto a vibrazioni irregolari, che produce una sensazione sgradevole." (Garzanti); "fenomeno acustico, percepito per lo più come sgradevole o indesiderato, dovuto a vibrazioni irregolari e non armoniche. Terminologia scientifica, fis.: sovrapposizione di onde di diversa frequenza secondo una mistura non ordinata e mutevole di frequenze e ampiezze" (De Mauro). Nota comune è il fastidio e la sgradevolezza, mentre il riferimento alle vibrazioni irregolari o alla mistura non ordinata di frequenze e altezze, preso dall'acustica, ci prefigura una dimensione caotica che non sembra avere nulla di specificamente riferibile al rumore in generale, mentre ci vengono alla mente i minuti che precedono un'esecuzione orchestrale, quando ciascun musicista si ripassa il proprio punto difficile in totale quanto sorda autonomia dal resto. Per capire in quali termini il rumore interessa la composizione, dobbiamo prima compiere alcune mosse in una direzione ovvia. Il rumore (qualsiasi significato si attribuisca a questa parola) nella musica c'è già, c'è sempre stato: agli strumenti a percussione, in una originaria divisione del lavoro, è stato demandato il diritto/dovere di produrre rumori legittimamente intrecciati alla compagine "nobile" dei suoni strumentali. Con una funzione dapprima quasi solo ritmica, la percussione ha assolto poi, sviluppandosi il discorso musicale in direzione di una maggiore complessità "spaziale", una funzione anche, se non soprattutto, timbrica. E tuttavia, anche in questo discorso, che cerca di cogliere il rumore là dove la sua presenza sembra pacificamente certificata, qualcosa non quadra. Il fatto è che nessuno percepisce il suono di una percussione come "rumore" anche se, dal punto di vista fisico, senza dubbio lo è; anche considerando gli strumenti cosiddetti "a suono indeterminato" - che sono la maggior parte delle percussioni - e, in particolare, quegli strumenti che emettono suoni particolarmente vicini a rumori provenienti dal mondo reale (piatti, lastre, glass chimes, glocken, claves, frusta, incudine, etc.). Se infatti escludiamo l'uso mimetico del rumore-come-effetto, cioè il ricorrere esplicito alla dimensione citativa del mondo reale - uso che comporta le virgolette di un'estrapolazione - qualunque suono emesso da un musicista nel contesto di un concerto viene recepito come "musicale" cioè interno al linguaggio. Certo vi sono casi in cui il linguaggio musicale stesso ingloba, nella propria dimensione fatica o narrativa, dei tipici suoni provenienti dalla strada o dalla natura -tanti esempi si potrebbero fare da Janequin ad Haydn, all'opera lirica (buffa e poi verista), alle sinfonie di Mahler - ma, per restare a Mahler, anche qui l'uso, per esempio, dei 'campanacci' resta all'interno di un codice eminentemente simbolico, e non evoca l'alpeggio più di quanto la citazione di Fra Martino evochi il mondo infantile, o l'uso di un motivetto bandistico evochi la strada: i suoni della natura o della strada sono per Mahler segni interni ad un linguaggio teso ad elaborare più che a rappresentare il grottesco del mondo che passa sotto il suo sguardo tragico. Anche nei casi di quegli autori dove, per i motivi più vari, patetici o giocosi, l'intenzionalità volge apparentemente senza ostacoli verso la rappresentazione, la forza della mediazione linguistica è sempre fortissima. Così Vivaldi, per evocare il rumore dei tuoni e della tempesta nella Primavera o nell'Autunno, non ha neanche bisogno delle percussioni, tutto è risolto con l'orchestra d'archi: l'effetto è totalmente introiettato all'interno del lessico musicale strumentale, delle sue convenzioni, della sua potenza simbolica. Il passo successivo conviene farlo in una direzione che ci viene indicata con chiarezza dalla fenomenologia dell'esperienza. Mi riferisco alla riflessione su quell'atto di donazione di senso che caratterizza il rapporto tra uomo e mondo e, in particolare, tra l'orecchio e il suono. "...i suoni entrano con le cose in una relazione tanto stretta da poter essere considerati come segni della loro stessa esistenza." (G. Piana, Filosofia della musica, Milano 1991, p. 75). Normalmente l'udire un rumore non implica un indugio sul rumore stesso, un suo ascolto, ma piuttosto una subitanea presa di coscienza della cosa che lo produce: il rumore di un'automobile in avvicinamento è l'automobile che si avvicina, non lo apprendo come un rombo glissante verso l'acuto e in crescendo. Il suono musicale agisce sulla nostra coscienza in modo opposto. Non è normalmente trasparente nei confronti dello strumento che lo produce, non viene interpretato come segno della cosa, se non per incidente: un suono "sporco" emesso da un archetto o da un flauto immediatamente distrugge quella dimensione altra in cui siamo immersi con l'ascolto musicale, riportandoci alla materialità dello strumento mal suonato, alla fisicità dell'interprete che sbaglia. Oppure occorre un orecchio del tutto particolare come quello del liutaio che passa il violoncello appena approntato all'amico strumentista perchè lo provi e ascolta il suono del suo strumento, non la musica che l'amico improvvisa in quel momento. D'altronde le due percezioni tendono ad escludersi: se presto attenzione all'accento dello speaker televisivo, mi sfugge quello che sta dicendo (analogamente se, leggendo, mi concentro sul carattere, sul corpo, su font della scrittura, vedo, guardo, osservo, ma non leggo più). Se nell'orizzonte d'ascolto quotidiano il suono-rumore rimanda alla cosa che, vibrando, lo produce, quando esso entra a far parte di un orizzonte musicale non soltanto cessa di farsi valere come segnale, non solo muta di significato, ma cambia dunque anche il quadro fenomenologico complessivo in cui avviene la percezione stessa. Così io non sento come tale il fruscio emesso dalla spazzola metallica che scorre sulla superficie sabbiata di una grancassa; non percepisco come tale il sibilo che emette la cantante che non legge alcuna vocale sulla sua parte ma trova invece una 's' o una 'f' prolungate; né quel particolare tipo di soffio che esce dal flauto o dal violino suonati con un'inclinazione, rispettivamente del labbro o dell'archetto, "non ordinaria". Di fronte a questi rumori io vengo preso, caso mai, dal crescendo che quel suono porta con sé, incastonato in una rete di precise tensioni dinamiche all'interno di un discorso che conosce altri crescendi, diminuendi, sforzati o contrasti dinamici, e, più in generale, relazioni sintattico-musicali che rendono questa classe di eventi sonori tanto idonea a portare senso musicale quanto quella dei suoni ordinari. Se è vero che la tematica del rapporto tra suono e silenzio si può affrontare a partire dalla lacerazione di quest'ultimo (cfr. ancora Piana, op. cit. pp. 65 e sgg.), ci sentiamo allora spinti a sottolineare una distinzione caratterizzante e particolarmente feconda, quella tra il sorgere e l'irrompere del suono sull'orizzonte del silenzio e quindi dell'ascolto. Negli ultimi esempi ho parlato soprattutto di fruscio, sibilo, soffio, cioè di una particolare classe di rumori caratterizzati, per usare il linguaggio della fisica acustica, da un certo modo d'attacco e di tenuta del suono: soffice, dal niente, il primo, continuamente prolungata, la seconda. Potremmo quindi individuare nel fruscio un rumore-tipo all'opposto del quale si pone il colpo, netto, forte e breve: sono due esempi estremi che rappresentano due classi di rumori che afferiscono rispettivamente al sorgere e all'irrompere. Questa estrema semplificazione ci serve ad individuare un potenziale percorso gradualmente transitorio fra l'uno e l'altro estremo, all'interno del quale trovano posto le innumerevoli possibilità che combinano i vari modi d'attacco, di tenuta, di decadimento, con le infinite dinamiche dal pianissimo al fortissimo. La distinzione mi sembra feconda perchè ospita al suo interno, quasi naturalmente, un'altra distinzione tipicamente musicale, quella tra suoni legati e suoni staccati che si valorizza sullo sfondo della dicotomia fondamentale continuo/discreto. E' questa dicotomia che in molti casi guida la mano del compositore nel tracciare percorsi e nessi logici tra materiali musicali che possono essere indistintamente, a posteriori, definibili come suoni propri o rumori. Un accordo complesso e dissonante, un cluster, fortissimo e staccato, potrebbe essere tanto poco leggibile in termini diastematici da poter essere compositivamente permutato -ovvero percettivamente scambiato- con un altro che ne condividesse tutte le caratteristiche tranne il fatto di avere rumori in luogo di suoni: in entrambi i casi avremmo udito un evento sonoro fortemente caratterizzato dall'essere un colpo. Non occorre d'altronde arrivare alla musica contemporanea per trovare esempi di composizioni che fanno valere quest'equivalenza logica, sulla base di scelte che rendono prioritari, sul piano del senso musicale, paramentri come timbro, dinamica e, più in generale, la qualità del suono, rispetto ad altezze e timbro. Beethoven nella sonata op.106, alla fine dell'ultimo movimento, alle bb. 369-380, mette in scena un trillo in ff sul MIb0 (l'ottava più grave del pf.), una scelta assai audace che contribuisce a fare di Beethoven un autore estremo: un trillo in quel registro, nonostante l'ovvia parentela con gli altri trilli che si incontrano nella sonata, non ha più niente di "musicale" nel senso ordinario -cioè diastematico- del termine: è un rombo, un boato tellurico, un rumore a tutti gli effetti. Tra le risorse espressive che hanno interessato un certo tipo di compositori del presente e, come abbiamo visto, anche del passato, vi è, dunque, questa: l'estraniazione timbrica, la possibilità che il suono di uno strumento, in determinate condizioni, possa nascondere la propria identità, diventare altro da sé, irriconoscibile. Questa metamorfosi può avere un fine, una tendenza verso, pensiamo al "pizzicato" nello strumento "ad arco" (travestimento antico, che guarda alla chitarra o all'arpa) e, in questa direzione, al "pizzicato alla Bartòk", che, esasperando il rumore implicato da quel modo d'attacco attraverso il rimbalzare violento della corda sul manico, ottiene un suono decisamente percussivo, mentre Xenakis va ancora oltre chiedendo (ad esempio in Tetras, (1984) per quartetto) un pizzicato e glissato con l'unghia. D'altra parte il suono di un arco, rapido sugli armonici, "flautato", tende invece a somigliare ed amalgamarsi con i fiati; mentre il suono di un flauto o di un sassofono, attraverso un'opportuna emissione e posizione dell'imboccatura, si fanno letteralmente percussivi, "pizzicati". Oppure l'estraniazione può agire senza puntare ad un gesto mimetico, ed ecco allora il suono al ponticello negli archi e il frullato nei legni (che hanno già una lunga storia nella musica del novecento storico, a partire da quell'istanza "espressionista" che ha contribuito in modo deciso ad ampliare la ricerca timbrica). In questa direzione sono andati lo studio dei suoni multipli nei legni, il moltiplicarsi delle sordine negli ottoni (influenzati dal Jazz) e la sperimentazione senza confini sulle percussioni (pensiamo anche solo all'uso della pallina superball, sfregata su pelli e metalli) : tutto questo ha dilatato la tavolozza timbrica degli strumenti tradizionali al punto da rendere l'orchestra semplicemente irriconoscibile. L'emergere del rumore tra i materiali espressivi va dunque collocato in questo quadro generale di ampliamento, alterazione, estraniazione del suono strumentale. A questo quadro va però aggiunto un tassello fondamentale. La ricerca sul suono non è certo iniziata nel '900 ma in quel secolo ha potuto giovarsi di strumenti di riflessione e di sperimentazione messi a disposizione dall'acustica, dalla teoria dell'informazione e dalla tecnologia ad esse connessa: l'elettricità e poi l'elettronica, l'elaborazione di spettri per l'analisi del suono e dei suoi transitori, la registrazione, la sintesi, la modulazione di ampiezza e frequenza, tutto questo ha dotato le orecchie di telescopi e microscopi, abbracciando in un unico sguardo innumerevoli fenomeni sonori eterogenei e, allo stesso tempo, consentendo l'analisi di aspetti infinitesimi del suono singolo. Anche chi non ha prodotto musica elettronica ne è stato influenzato. L'orecchio del compositore teso come un microfono verso la realtà sonora circostante si rende disponibile ad un ascolto musicale di quella stessa realtà, è la scoperta di un paesaggio sonoro che si rende significante perchè si scopre fatto di eventi potenzialmente inscrivibili nella ideale, immensa, introiettata partitura del mondo. Xenakis in Metastasis o in Pithoprakta ci parla del suo ascolto del suono-massa di una manifestazione di piazza o del caotico frinire di migliaia di cicale; Nono, in "...sofferte onde serene...", del suo ascolto dei tanti rumori della vita nella laguna di Venezia; e così Sciarrino, Lachenmann, Grisey. Nel mio percorso compositivo, iniziato nei primi anni '80, mi sono sentito anch'io modestissima parte di questa temperie, attraversando fasi intense di ricerca sulle qualità timbriche del suono acustico, sulla sua materia, sui suoi confini labili, sulla sua estendibilità in direzioni che ne cancellavano la distinzione "parametrica". Altezze, timbro, dinamica, durata, densità, cessavano di essere parametri distinti: nella loro interazione e interdipendenza bisognava cercare il nuovo orizzonte di senso, la nuova complessità. Studiare un'armonia come una sonorità, non soltanto come un insieme di segni-altezze elaborate sulla carta e ancora prive di connotati fisici. Pensare un accordo, un suono, come un organismo in movimento, sottoposto a innumerevoli sollecitazioni interne ed esterne che ne influenzano il decorso e la trasformazione (una visione del sonor, questa, che ritrovavo in Varèse e in Grisey) mi spingeva ad allargare il territorio dei materiali sonori da elaborare espressivamente in due direzioni nuove: il continuum diastematico dell'universo non temperato (quindi l'uso di quarti di tono) e le innumerevoli sfumature di colore che portavano il suono verso il rumore e questo verso il suono. Non ho mai considerato quindi il rumore come qualcosa da tematizzare di per sé, perché dotato di significato autonomo, né, d'altra parte, come un confine da non oltrepassare o da varcare definitivamente. È la ricerca della soglia, del passaggio, che mi ha sempre affascinato e guidato. Il mio tendere l'orecchio trova infine una risonanza profonda in una certa poesia che intrattiene col rumore un rapporto assai intimo, che si approssima tanto più alla musica quanto più si distanzia dai luoghi comuni, entrando nelle pieghe di un ascolto declinato attraverso sfumaure infinite. Il rumore è appena udibile mentre inquieta il silenzio teso e intimo della fanciulla in Un Rumore, nelle Myricae di Pascoli "St! un rumore...ai labbri ti si porta è raffinatissimo ossimoro nel John Keats di I stood tip-toe upon a little hill " ....and then there creptA little noiseless noise among the leaves" è presenza e aura avvolgente nei versi di Sandro Penna: "Come è forte il rumore dell'alba! (da Una strana gioia di vivere ) "Io vivere vorrei addormentato (da Poesie 1927-1938) è lontana fantastica epifania, in questo Haiku giapponese del XVII secolo: c'è una meta (Ikenishi Gonsui, trad. E. Dal Pra)
Sergio Lanza, 4 gennaio 2007
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