Alessandro Solbiati e Silvio Cerruti
I Luoghi della Mente: L'acqua in Schubert
 


Indiscutibile punto di partenza per affrontare e penetrare la variegatissima Odissea del Lied schubertiano è l’op. 4 n. 1, Der Wanderer (Il viandante) su testo di Schmidt von Lübeck. Il percorso dell’attività compositiva del maggiore di tutti i liederisti, che si stende dal 1814 al 1828 e comprende circa 620 lavori, ha in quel canto, scritto nell’ottobre del 1816 e pubblicato nel 1821, il suo simbolo, oltre che inizio e iniziazione spirituale. Molto in proposito è stato scritto e per questo rimandiamo il lettore ai pregevoli lavori di Bortolotto, Lo Presti e Mennuti [1] . Il tema del viandante: «Ich komme von Gebirge her; / es dampft das Tal, es braust das Meer. / Ich wandle still, bin wenig froh, / und immer fragt der Seufzer: wo?» (Io vengo dalla montagna, è nebbiosa la valle, è in burrasca il mare. Vagolo silenzioso, son poco lieto, e sempre chiede il mio sospiro: dove?) tornerà, ora come disegno musicale, ora come motivo poetico delle liriche prescelte, ora come programma o «stigma», nel corso di tutta l’opera schubertiana. Il vagare senza meta, o verso una meta che si sa irraggiungibile, la ciclicità indotta da partenza e ritorno, desiderio di fuga, esperienza di viaggio formativo accompagnata da nostalgia della casa avita, stanno a indicare il percorso dolente della vita il cui termine è la morte. Tutto ciò è simboleggiato anche nello svolgersi degli eventi naturali, in particolare è evidente nel motivo del ruscello, e troppo nota è l’attenzione che Schubert porta alla Natura, in tutte le sue manifestazioni, ivi compresa ovviamente quella umana, perché ci si debba diffondere oltre su tale tema. Basti notare che la Natura è contrassegno costante nell’opera del Maestro. Ma altrettanto sorprendente è il fatto che, dei quattro elementi empedoclei, quello che ricorre con incredibile (e commovente) frequenza è l’acqua. L’acqua nei suoi tre stati di aggregazione, nel suo modo d’apparire ai nostri sensi, nei suoi multiformi aspetti e nei suoi variegati riferimenti all’animo umano. Anzitutto il ruscello, ma anche la fonte, le sorgenti, il fiume, la cascata, l’abisso spumeggiante, il lago, il mare, il gorgo, eppoi la pioggia, la brina, la neve, la tormenta, il ghiaccio, le nubi, le lacrime. Cercare il motivo di tale predilezione sarebbe impervio, fatica certo non inutile, che rimanda però alla felice similitudine agostiniana del fanciullo che ambisce vuotare il mare con un cucchiaio. Inoltre esporrebbe all’obiezione che i testi di un centinaio e oltre di Lieder in cui ricorre il tema dell’acqua sono opera di poeti austro-tedeschi, precedenti o contemporanei, comunque estranei al compositore.

Nella lirica tedesca, sia del periodo cosiddetto classico sia del romantico, di fatto troviamo assai spesso il richiamo al liquido elemento. E Schopenhauer, nel terzo libro del Mondo Come Volontà e Rappresentazione, nota giustamente: a ben comprendere le idee esprimentisi nell’acqua, non basta veder l’acqua d’un placido stagno o corrente d’un corso regolare ed eguale: quelle idee si rivelano appieno sol quando l’acqua si mostra alle prese con tutte le situazioni e gli ostacoli che, operando su di lei, la spingono alla manifestazione piena di tutte le sue proprietà. Perciò la troviamo bella quando precipita, rumoreggia, spumeggia, si lancia in alto o ricadendo si polverizza, o alfine, ad arte costretta, come raggio sprizza verso il cielo. E così in circostanze diverse variamente mostrandosi, sempre afferma costante il carattere proprio ... La vita dell’uomo quale apparisce il più sovente nella realtà, somiglia all’acqua come noi di solito la vediamo, in fiume e stagno ... così l’arte poetica oggettiva l’idea dell’umanità, della quale è caratteristico il presentarsi in caratteri fortissimamente individuali. Quindi il motivo dell’acqua preesiste nelle liriche dei poeti musicati da Schubert e, se vogliamo, con frequenza notevole. Già, ma intanto quelle liriche Schubert le ha scelte, fatte proprie, sceverate, assunte come motivo e stimolo per la sua inesauribile vena musicale, a differenza di Schumann, Mendelssohn e Brahms in cui raramente l’acqua compare, sia pure fuggevolmente.

L’arte nella sua autonomia ideale ha il privilegio, che alla scienza e alla filosofia è negato, di poter scegliere liberamente il proprio oggetto. E la scelta di Schubert, sicuramente motivata, deve avere un significato anche per noi. Cercarlo con l’ausilio della psicoanalisi (tentazione insana!) è operazione che si prospetta infruttuosa, ancorché lecita - on a détruit la Bastille pour ça -. Ora, un’interpretazione che poggi sulla psicologia degli stati profondi e che s’avvalga, come reperto «autoptico», dell’opera a noi pervenuta, ma non nasca da un rapporto interpersonale, non sia cioè condotta dalla persona viva, è procedimento che trascende il campo sperimentale, e pertanto è fallace, o quanto meno espone al rischio del fraintendimento, vale a dire dell’errore. Schubert, hélas! n’est plus avec nous. A parte il fatto che la sua morte precede di quasi settant’anni la pubblicazione della Traumdeutung, probabilmente egli stesso non avrebbe saputo spiegare, con il suo adorabile candore, il motivo di una scelta che a noi appare tanto significativa. L’acqua nei suoi infiniti aspetti, ora elemento reale, talvolta addirittura protagonistés, ora metafora, ovvero simbolo, immagine sonora, troppo spesso ricorre, al punto di farci pensare che il musicista la considerasse essenza stessa della vita umana, dell’uomo, del suo sangue.

Diciamo quindi, con motivata convinzione, che l’acqua è veramente per Schubert un luogo della mente, per di più prediletto. L’attenzione che il nostro musicista e i suoi poeti, quasi sempre romantici, portano alla Natura ha connotati quasi mistici, religiosi. Essa è rappresentata, amata, compresa, esaltata in tutta la sua infinita ricchezza. Testimoni sono i testi delle liriche e i pentagrammi che ne derivarono. Non certo le allegre scampagnate, con i concerti en plein air, le amene riunioni conviviali rallegrate dal vino, raffigurate per i patiti delle biografie dai quadretti di Kupelwieser e di Moritz von Schwind. Schubert però non descrive la Natura, si fonde in essa, la interpreta, cioè la ricrea. Il «tacito infinito andar del tempo» in lui si fa rappresentazione sonora dello scorrere del ruscello, del fiume, della cascata. Il mare tranquillo, il nordico «mare pigrum ac prope immotum», ch’egli non conobbe in vita (e a noi poco importa), il mare che aveva acceso la fantasia di Tacito, nasconde nel suo seno il liquido movimento delle correnti che il compositore rende con stupefacente instabilità armonica, modulazioni continue, inattese, degli accordi arpeggiati, sì che avvertiamo, con angoscia, i pericoli agghiaccianti nascosti sotto l’imperturbabile calma della superficie. Il musicista investe la Natura con la propria soggettività, in essa infonde il proprio io, con il corredo dei suoi sentimenti, con tutti i moti dell’animo, con la sua squisita sensibilità. Cioè la Natura è occasione, a volte pretesto, per effondere liricamente sensazioni, ansie, angosce, inebrianti passioni, cocenti delusioni, dolori, pacificati comunque nella serenità della creazione artistica. Schubert ha il dono di cogliere l’anima delle cose. Il testo poetico non è pretesto per comporre. Troppo convincente è l’adesione della musica alla realtà della lirica prescelta. Schubert non forza il testo, se non minimamente e di rado, ma aggiunge, e il risultato è maggior ricchezza, ottenuta peraltro senza deformare. Egli si prefigge di commuovere le cose, gli elementi naturali, per averne finalmente l’anima e questo itinerario emozionante, più che sceglierlo, gli è dato, concesso, conferito dalla Musa: è la vocazione dell’artista creatore. In lui la mobilissima vitalità dell’essere coincide con l’effusione del sentire e si attua nella sfera del sublime, di «ciò ch’è grande al disopra d’ogni comparazione», se la felice definizione kantiana ci è concessa dal pubblico odierno invero piuttosto scanzonato. Legato al tema del ruscello, dello scorrere dell’acqua, è quello del fluire del tempo, inteso come vertiginosa parabola i cui estremi son nascita e morte, arcata della vita, contraddistinta da perpetua alternanza di gioia e dolore, sorrisi e lacrime, e pertanto sorgente inesauribile di fecondità spirituale, il cui pungolo recondito è rappresentato dal binomio di malattia e morte. Per quanto deplorevole sia il processo, e lacrimevole la vicenda, innegabile la conseguenza: la sensibilità acuita dal presentimento della fine imminente ha come riscontro la prodigiosa fecondità dell’ultimo anno (la morte colse Schubert a trentun anni). Viene spontanea la domanda ingenua: che avrebbe scritto se solo dodici mesi in più gli avesse concesso Atropo? Le opere del 1828, e solo di capolavori si tratta, fanno presagire miracolose creazioni di sconvolgente modernità come seguito ovvio, anzi obbligato. Ora, se gli attimi, i frequentissimi e felici attimi compositivi, quasi sempre confinati al mattino, che gli furono regalati in vita, hanno lasciato nel Lied, nonché nelle opere strumentali, un segno indelebile, che esclude obiezioni critiche, che non tollera incomprensioni musicologiche, ma che si dimostra ambito sicuro per i posteri, confine invalicabile, faro direzionale, elisio illuminante, vien fatto di chiederci: che avrebbe concesso a lui, e a noi, un solo mese in più? L’animo dell’artista è solito vivere nell’intimità, nella profondità insondabile del sentimento. «La musica è l’arte dell’animo che immediatamente si volge all’animo stesso.» La scultorea definizione hegeliana, che cronologicamente avrebbe potuto adattarsi al nostro compositore, di cui però il filosofo non ebbe notizia, esteticamente sembra coniata per Schubert e forse per lui solo. «Lusingare gli attimi della vita, carezzarli di infinita musica e magia, per indurli a dire la loro verità. Come in un interrogatorio di gelosia.» Così Giacomo Debenedetti a proposito di Swann, nella Recherche proustiana. Ma a noi viene in mente il Lied sconvolgente Die Liebe hat gelogen. «L’anima individuale deve venire a concordare con l’anima del mondo» aveva scritto Novalis. Rovesciate questa esortazione dettata dall’idealismo magico e avrete i Lieder di Schubert, o meglio la loro motivazione recondita. Per eseguirli, bisogna anzitutto essere musicisti, e non artisti consumati, occorre molto candore, anzi innocenza, e soprattutto semplicità, la stessa che di queste pagine è connotato visibile; ma non tragga in inganno l’apparenza! anche nelle opere del 1814, quando il Maestro aveva appena diciassette anni, sotto la superficie levigata sono nascoste complessità sorprendenti, sapienza e maturità sbalorditive, «pascoliane» sottigliezze. Epperò la risultante è una sola: Schubert compone per gli uomini, non per i musicologi o gli specialisti e anche in questo sta la sua grandezza, nel Lied certamente inarrivata, se non invalicabile.

Abbiamo parlato di candore. È opportuno per il nostro Maestro spiegare che si intende con questo. Schubert non era affatto ingenuo, le sue doti di penetrazione psicologica erano sorprendenti e tali appaiono a noi ancor oggi. La profondità nell’indagare e rendere musicalmente i sentimenti umani appare chiaramente nelle opere, in particolare nel Lied, basti pensare al celeberrimo Die junge Nonne. Ma nella vita non aveva secondi fini, cioè fini pratici e risultava quindi particolarmente indifeso. Anche per questo lo amiamo. Suo precipuo interesse era quello di cogliere i momenti significativi della vita, quel che nell’umanità v’è di durevole, di eterno, di universale, non l’effimero, il fugace. Ciò che nella natura ben presto sparisce l’arte rende duraturo, uno sguardo, un fuggevole splendore, tratti spirituali della vita e dell’uomo, transeunti, che ci sono e subito vengono dimenticati: tutto questo l’arte sottrae all’esistenza momentanea, superando anche per questo riguardo la natura. Ciò che Hegel dice a proposito del rapporto dell’ideale con la natura vale anche per il Lied schubertiano. E dobbiamo aggiungere che il genio prorompente ed eccezionalmente prolifico del nostro Schwammerl, il piccolo fungo, come lo chiamavano affettuosamente gli amici, ch’egli ebbe moltissimi e fedeli, dominava con facilità le liriche che giornalmente veniva musicando, con squisita sensibilità le afferrava e se ne appropriava, percependone significanze recondite e valutandone pregi e manchevolezze. Schubert è solo apparentemente vincolato dal testo. Il contenuto perviene a rappresentazione musicale non nella sua immediatezza legata alla parola scritta, ma vien colto dallo Spirito e nelle sue forme ampliato e, poeticamente, diversamente orientato. La musica perciò non è simbolo del testo e men che meno accompagnamento - il simbolo di per sé è sempre ambiguo - bensì anima ideale della poesia. Comunica a noi l’idea percepita quale pura contemplazione, con il corredo dello smarrimento nell’intuizione creatrice. Produrre in arte significa «trar fuori l’idea», «perché il bello si determina come parvenza sensibile dell’idea». Quando il Wanderer, il viandante - e pensiamo soprattutto alla Winterreise - afflitto dalla perdita dell’amata, immerso in cupa nostalgia, morso dal gelo, attanagliato dall’angoscia, nel suo «fatale andare», con il desiderio della casa natia, di tutto ciò che è heimlich, calma, intimità, serenità del domestico lare, vien sopraffatto dal ritorno delle memorie di scene passate e lontane, che gli balenano innanzi come paradiso perduto, ecco che la magia dei ricordi, questi «miraggi dileguati», si fa eco rasserenante, dolcezza introspettiva, pacificazione, serenità creativa. E lo squarcio del modo maggiore, dopo l’agghiacciante minore, un sorriso tra le lacrime, ci avvince e conquide, non solo, ma con la sua profonda umanità ci convince che veramente la musica «è rivelazione più profonda di ogni saggezza e filosofia» com’ebbe a scrivere il vicino di casa, e di tomba, del nostro amato Maestro. Ma quando parla la musica è meglio che il critico taccia.

Cominciamo a enucleare quanto nei Lieder di Schubert improntati all’acqua, a distanza di quasi due secoli, siamo riusciti a vedere. Ne esamineremo solo alcuni, fra i più significativi, ché un’analisi esaustiva prenderebbe un tomo assai voluminoso. Cominciamo da Meeres Stille, su testo di Goethe, op. 3 n. 2, musicato nel maggio-giugno del 1815, quando Schubert era solo diciottenne ma aveva già al suo attivo i capolavori del 1814, Erlkönig e Gretchen am Spinnrade. Basta guardarla questa pagina, unica, per capirne il peso simbolico. Non crediamo esista altro Lied e forse neppure alcun pezzo strumentale altrettanto scarno dal punto di vista dell’articolazione, del gesto pianistico: 32 battute, 32 accordi isocroni arpeggiati del pianoforte e non vi è nulla di specificamente pianistico; a prima vista si potrebbero dire archi di un’orchestra, o, viceversa, l’arpa d’un cantore. Altra cosa simbolica, una sola indicazione dinamica, il pianissimo iniziale, un’indicazione agogica assai significativa, Sehr langsam, ängstlich (molto adagio, angoscioso); non c’è un crescendo né un diminuendo, non un segno espressivo, insomma un unico gesto: l’accordo pianistico; un’unica durata: la semibreve, un unico colore timbrico: cioè la regione grave. E questa livida isocronia sta come linea di confine tra calma e angoscia, assolutamente, mortalmente regolare. Teniamo presente che, al metronomo indicato (che non sappiamo di chi sia ma immaginiamo plausibile), , ogni accordo vien ad avere la durata di tre secondi e mezzo, quindi la scansione risulta tremendamente lenta. Il testo d’altronde parla di bonaccia, ma la bonaccia per il marinaio significa pericolo mortale, ché da essa non si esce e spesso prelude al tifone. Notiamo che Schubert abolisce di proposito la seconda strofa della poesia goethiana ove l’atmosfera si fa serena. Abbiam detto un unico colore timbrico: la regione grave. Il registro usato dal pianoforte è di tre ottave e una terza, circa la metà grave della tastiera.

 

Se si prende in esame il «bordo» acuto del seguito di accordi, ovvero la loro parte melodica, balza all’occhio un’opprimente fissità: in 25 accordi su 32, troviamo infatti come nota superiore il re, o il mi bemolle, o il mi bequadro, note cioè che si muovono nel ristrettissimo ambito di una seconda; ne derivano totale assenza di vero senso melodico e totale «pedalizzazione» superiore che vanno ad aggiungersi alle altre ossessive componenti di immobilità. A tale staticità strumentale non può non corrispondere un’altrettale fissità nel canto. L’ambito totale sarebbe di una nona, per la precisione dal la sotto il do centrale al si bemolle sito una nona minore sopra [2] . Ora, il testo goethiano consta di sessanta sillabe e il canto è pressoché sillabico, cioè ha praticamente una nota per ogni sillaba. Di queste 60 sillabe, 12 sono intonate sul re, la stessa nota che compariva 13 volte su 32 come nota superiore del pianoforte, 14 sono intonate sul sol del secondo rigo in chiave di violino, 10 sul fa, e solo 8 sono sulla tonica, cioè il si bemolle; insomma 44 note su sessanta sono confinate su sole quattro altezze e questa è fissità che fa rabbrividire. Dobbiamo comunque accennare all’ambiguità insita in tutto ciò: abbiamo un mare calmo, ma la bonaccia è presagio di morte, quindi genera angoscia e non calma. E infatti la nota prevalente non è la stabile tonica, il si bemolle, ma il sesto grado, che è tra l’altro il detentore del relativo minore. Il Lied è in tono maggiore, ma il colore prevalente è in realtà quello di sol minore; e inoltre, delle 8 comparse melodiche della tonica, base stabile della scala, soltanto due sono armonizzate con un accordo definitivamente stabile, cioè di tonica (nell’accordo finale e sul levare, punto debole quindi, della battuta 4, alla parola Wasser). Ecco il sintomo musicale del vero cuore espressivo del Lied: la staticità non è calma, ma quiete mortale, genera angoscia, così come l’isocronia non è calma ma ossessione. Notiamo infine, ancora sul piano armonico, che le cadenze perfette, le risoluzioni in si bemolle, sono pochissime, e che la tonalità viene continuamente «depistata» sul terzo e sesto grado (re minore e sol minore), cioè le toniche deboli, i due minori interni al tono di si bemolle maggiore. Non solo, un’indagine sulle note melodiche che non siano: re, fa, sol, si bemolle, ci porta inoltre a osservare che prevalgono quelle cromaticamente non appartenenti alla scala di si bemolle: ci sono infatti quattro do diesis e nessun do bequadro, tre mi bequadri e soltanto due mi bemolli che farebbero invece parte della scala. L’accento è quindi posto su ciò che in realtà risulta inquieto in quanto estraneo alla scala di si bemolle. La struttura formale complessiva consta di quattro periodi, come quattro periodi d’un corale, corale di sacralità laica, corale di morte; i periodi sono esattamente di otto battute ciascuno e questa simmetria assume un tono spettrale. Diciamo corale, non solo per la struttura globalmente accordale, ma anche perché, come nei corali di Bach, c’è una sosta alla fine di ogni periodo, anche se è realizzata ritmicamente in modo costantemente diverso e con un allungamento progressivo, come ci si volesse fermare sempre più: la prima volta, sulla parola Meer, abbiamo una minima puntata seguita dalla pausa, la seconda volta, sulla parola her, una semibreve, la terza e la quarta volta ci sono due corone, vale a dire due fermate senza tempo. Tolte queste quattro battute d’appoggio, tutte le altre sono costituite da due sole cellule ritmiche: minima puntata e semiminima , oppure due minime . E i due ritmi sono immancabilmente in sequenza alternata, , il che genera vistosamente un ritmo di marcia inesorabile, di marcia funebre. Dobbiamo notare che i quattro periodi sono uno diverso dall’altro, e che manca quindi un vero concetto di ripresa. Vi è solo un piccolo e affascinante sintomo di ritorno, perché l’ultimo periodo comincia con lo stesso re puntato dell’inizio del Lied e il ritorno è ben percepibile. Vi è tuttavia una correzione di tiro: il re qui è adagiato sul suo accordo, quello del terzo grado, re minore, mentre all’inizio del Lied compariva sull’accordo di tonica. Un ulteriore sintomo di angoscia, tutto è uguale, ma nulla ritorna mai davvero uguale. Prima di addentrarci in un’indagine sull’armonia di questo Lied, occorre sottolineare il fatto che ogni accordo dura tre secondi e mezzo, dura cioè talmente da assumere una sorta di autonomia fonica. La distanza fra un accordo e l’altro è tale che si finisce per ascoltare il singolo accordo ben più che la sua concatenazione col successivo. Un esempio chiarirà il nostro pensiero. Il primo periodo finisce, con la parola Meer, sull’accordo di re maggiore, il cui nesso funzionale con il tono di si bemolle è l’essere dominante del relativo minore (sol minore); ma, data la durata enorme di tre secondi e mezzo per ogni accordo arpeggiato, noi finiamo per percepirlo come tonica di re maggiore, tonalità assai lontana. Ma l’esempio più forte delle conseguenze espressive dell’autonomia fonica del singolo accordo è ciò che avviene nel terzo periodo ove si susseguono sette accordi con funzione di tensione, cioè tutte dominanti di toni differenti che vengono a generare più di venti secondi di instabilità e di non risoluzione, un ponte su di un fiume che si allunga e s’allontana sempre, facendoci dubitare che arrivi mai alla fine su l’altra riva.

Questa liquidità oscura e regolare è, come si vede, di fatto enormemente inquieta al suo interno. All’inizio, nell’arco di cinque battute, quattro sono con l’accordo di tonica in stato fondamentale e alla terza abbiamo una dominante nel primo rivolto; la sensazione è quella di un inizio haydniano, confortevolmente stabilito e confermato, ma da qui in avanti non troveremo più risoluzioni in tonica fino all’ultima battuta! La banale semplicità iniziale, paradigma di legittimità accordale, rende così ancora più vistoso l’abbandono successivo, una sorta d’ironia amara dopo l’attacco rassicurante. Per riassumere succintamente la dinamica armonica dei quattro periodi: il primo ha una impostazione iniziale di ostentata banalità, ma presenta una violenta svolta al lontano re maggiore nella seconda parte; il secondo periodo si aggira tranquillamente sui toni vicini a si bemolle (sol minore, mi bemolle); il terzo periodo invece è costituito da un crescendo di tensione sorprendente, con quelle sette battute di fila costituite da accordi con funzione di dominante che si allontanano dall’impianto tonale di base e giungono fino a una triade di mi minore sulla parola Todes, un inatteso accordo di passaggio cromatico di estraneità e di lontananza voluta dalla tonica (con essa fra l’altro in rapporto di tritono), la cui solita durata di tre secondi e mezzo diventa qui di insostenibile peso fonico. Il quarto periodo riparte dal terzo grado, cioè da re minore, si appoggia inopinatamente sull’omologo re maggiore, tornando al minore e cadenzando velocemente al finale si bemolle maggiore. Concludendo, la coincidenza tra l’assoluto raggelamento articolativo ritmico e formale e viceversa il brivido dato dalle funzioni armoniche instabili, insanabile aporia, è in legame profondo col testo che legge nel mare implacabilmente calmo un segno di morte.

Nel giugno e luglio del 1815 Schubert lavorò senza interruzione a Lieder composti su testi di Goethe, che furon pubblicati in seguito presso Cappi & Diabelli come op. 4 e op. 5. Il n. 3 dell’op. 5, Der Fischer, è un canto strofico con tutte le caratteristiche del VolksLied o, meglio, della ballata romantica. La realizzazione musicale è fatta di un’unica strofa ripetuta quattro volte e cioè sufficiente a determinare un’assoluta mancanza di direzionalità drammatica, a dispetto della dolorosa vicenda conclusiva dell’ultima strofa. Una figura femminile fantastica sorge stillante dall’acqua, rimprovera il pescatore e alla fine lo attira a sé conducendolo a morte. Potrebbe essere la nemesi in risposta alla povera trota del Lied successivo, Die Forelle, che finisce i suoi guizzi argentei appesa all’amo. C’è solo, alla sedicesima battuta, una settima diminuita, sulla parola feuchtes (stillante), peraltro immotivata rispetto al testo, quasi una minaccia per quel che seguirà, ma è l’unico, microscopico accenno drammatico. Non solo la musica non segue la vicenda, è dichiaratamente strofica, come una ballata, ma la strofa stessa al suo interno non segue il testo. Altre volte in Schubert abbiamo visto che, anche in un Lied strofico, la musica della singola strofa si foggia sul verso, lo illustra fedelmente, variando là dove vi siano elementi che lo richiedano. Qui nulla di tutto ciò; la musica è assolutamente haydniana, come ben evidenziano alcune cadenze in chiusura di strofa.

Non c’è nessuna modulazione a toni lontani, tutto è semplicemente si bemolle maggiore e si aggira soltanto tra i toni vicini; nulla di sconvolgente, tutto è immobile dall’inizio alla fine. Contrasto tra la fiabesca, ma in fondo tragica storia, e l’apollineo suono senza direzionalità alcuna, sia dal punto di vista formale (quattro strofe uguali), sia dal punto di vista medio-formale (all’interno della strofa non c’è nessuna tensione), sia dal punto di vista microstrutturale (la condotta dell’armonia) e in tale contrasto sta forse la forza, l’efficacia di questo Lied. Nessuna adesione al testo, tutto si svolge come se la musica raccontasse una fiaba. Impressione prevalente per l’ascoltatore è il fatto che, quando l’acqua, articolativamente ben ravvisabile nell’oscillazione statica delle quartine del pianoforte, si richiude sul povero pescatore, la superficie rimane immota, come se nulla fosse accaduto. Una ballata che si svolge come un sogno sereno. La contrapposizione con il Lied Die Forelle non potrebbe essere più netta: là, alla fine, abbiamo un dramma all’italiana, seppure svolto con sottile vena ironica, o almeno la rappresentazione di un dramma, qui invece tutto è stranamente tranquillo e, se si vuole caricare la cosa di un significato, esso diverrebbe agghiacciante, quasi cinica indifferenza alla vicenda del testo, il che non rientra affatto nell’atteggiamento di Schubert verso la Natura e gli uomini, contrassegnato da sensibilità straordinaria. Non dimentichiamo inoltre che, nell’anno precedente, aveva scritto due Lieder altamente drammatici, Erlkönig e Gretchen am Spinnrade, quindi la vena drammatica non gli faceva certo difetto.

A cavallo fra il 1816 e il 1817 Schubert diede alla luce un piccolo capolavoro destinato alla celebrità e subito divenuto famoso tra gli amici delle schubertiadi, Die Forelle (La trota), op. 32. Quasi contemporanee furon le prime due versioni, cui ne succedettero altre tre nel 1818, nel ’20 e nel ’21, in realtà con pochissime varianti. Il testo era di Christian Friedrich Daniel Schubart, poeta lirico del Settecento originario del Württemberg. Dobbiamo far presente al lettore che, su sollecitazione del violoncellista Sylvester Paumgartner, Schubert utilizzò la musica del Lied per il celeberrimo Quintetto in la maggiore, detto «della Trota», nel 1819.

Il Lied è infatti un piccolo apologo della trota, l’unico, della vasta serie esistente riguardante il rapporto pescatore-pesce, che sia visto dalla parte del pesce. Esso simboleggia un poco il rapporto carnefice-vittima, ed ha un che di scanzonato e sinistro al tempo stesso: la vittima, la povera trota, viene ingannata e uccisa, ma poiché è solo un pesce, il massimo della drammaticità viene realizzato con tinte e movenze da recitativo di melodramma, è cioè rappresentazione della drammaticità, non vera drammaticità, per di più con un poco di parodia, insolito umorismo schubertiano. Assume poi un tono addirittura cinico la ripresa, col suo andamento scanzonato e saltellante applicato alla contemplazione della vittima uccisa; alle parole «e io, turbato, rimasi a guardare la vittima ingannata» vien quasi voglia di dire: meno male ch’è turbato! C’è il patetico, come rappresentazione del pathos, c’è l’ironia e c’è il dramma. E la musica, in re bemolle maggiore, è ironico-gioiosa, nella generale semplicità armonica e melodica (vera melodia da fischiettare); è da osservare come questo Lied sia uno di quelli in cui il testo (il titolo, diremmo) genera una articolazione pianistica altrimenti inesistente: il guizzare imprevedibile della trota genera una snella battuta di due quarti in cui il pianoforte nel primo movimento scivola su una veloce e sghemba sestina ascendente che alterna intervalli diatonici a cromatismi di passaggio e si arresta poi con uno slancio improvviso, ascendente anch’esso, sul secondo movimento ben più statico.

 

La tradizione della musica occidentale predilige da sempre ritmi costituiti dal movimento forte lento e da quello debole più mosso: infatti la sarabanda, che ha opposta caratterizzazione, è una danza di origine ispano-araba. Nella trota l’inversione del rapporto movimento-stasi, zoppo e guizzante, è sicuramente motivata dal riferimento all’acqua e al guizzare della trota che nuota in essa. Dopo la letterale ripetizione musicale che caratterizza la seconda strofa del testo, si arriva all’elemento B relativo alla terza strofa; qui il testo è estremamente narrativo e il farsi torbido dell’acqua è fedelmente raffigurato in modo quasi madrigalistico: la sestina infatti non si ferma più e diventa un mescolio armonico oscuro e confuso. I successivi accordi ribattuti che accompagnano l’attimo conclusivo della pesca ci ricordano poi davvero, con ironia quasi grottesca, le movenze di un recitativo d’opera lirica italiana. La ripresa, sia pur parziale, applicata però alla contemplazione della trota pescata e non più alla trota che guizza, assume, come si diceva, un tono sgradevolmente estraneo alla natura del testo e la sua ironia sfiora il cinismo.

Sempre nel 1817 Schubert ventenne si cimenta con Schiller. A dire il vero già ai tempi del Convitto, nel 1813, Salieri aveva proposto agli allievi alcune liriche ormai famose del poeta di Marbach e il giovanissimo musicista s’era persino cimentato proprio con un canone sulla seconda strofa di Gruppe aus dem Tartarus che qui consideriamo, lavoro contrassegnato come op. 24 n. 1. Abbiamo comunque un certo numero di Lieder che per argomento han l’oltretomba, per esempio Fahrt zum Hades, Freiwilliges Versinken, dell’amico Mayrhofer e, di Schiller, Klage des Ceres, Das Mädchen aus der Fremde, Der Pilgrim, di Schubart An den Tod e infine il Religiöses Drama Lazarus di Niermeyer e anche lì abbiamo il filone delle acque infernali. La dantesca immagine schilleriana del ruscello dell’abisso dà luogo a una sorta di melologo cantato: la voce infatti si comporta come semplice narratrice delle immagini sonore del pianoforte, prendendo atteggiamenti propri di un recitativo; in generale è veramente difficile poter definire sequenza melodica la linea del canto, massime nell’inizio, Etwas geschwind (Piuttosto mosso). La voce narra, o piuttosto si fa eco d’immagini: «Ascolta - come mormorio d’astioso mare, come nel bacino di cave rocce geme un ruscello, romba laggiù in tetro abisso un greve-lieve, straziato Ach!» Parliamo di melologo cantato perché la voce è semplice «portatrice» di parole del testo, mentre tutta l’immagine sonora è nel pianoforte, che si fa evocativo ai limiti del poema sinfonico. E qui l’unico riferimento possibile, anche dai punti di vista armonico e articolativo, è Franz Liszt: si veda per esempio la pagina iniziale, quel tremolo di ottave ossessivamente spezzate con forcelle che crescono sino al fortissimo e decrescono al piano per poi riprendere. È così potentemente immaginativo questo Lied che il soffermarsi sul singolo rapporto testo-musica ridurrebbe quest’ultimo al livello di madrigalismo e l’analisi a una semplice descrizione.

Preferiamo viceversa arrivare subito alla straordinaria spina dorsale dell’intera composizione, una spina dorsale che percorre tutte le strutture, continua, ossessiva, costituita da un percorso cromatico ascendente, e non discendente, come, dato l’argomento degli inferi, sarebbe stato logico pensare: tutto il Lied è infatti attraversato da una scala cromatica che sale, talvolta s’arresta, per subito ripartire e questo suggerisce una visione o interpretazione sotterranea del testo, o della vita dell’Ade, come di un inferno interiore in continua tensione, sempre frustrata, verso la luce, verso l’alto. Non avrebbe senso altrimenti in un percorso infernale, ove tutto noi ci figuriamo come statico, grave, o discendente.

È luogo ricorrente, nella tarda produzione pianistica di Liszt (1870-80), quello di non mettere alcuna alterazione in chiave, non certo per affermare il tono di do maggiore, quanto perché l’impianto tonale si era fatto così instabile che nessuna tonalità doveva essere scelta come base del pezzo; ebbene la stessa cosa avviene in questo Lied schubertiano scritto cinquant’anni prima di quelle «audacie» lisztiane; anche qui non vi è nulla in chiave, ma il primo do maggiore è quello che esplode sulla parola Ewigkeit (eternità), solamente alla quarantaquattresima battuta dell’Allegro. Dire che questo Lied è in do è cosa ardua: la prima tonalità che si delinea entro il turbine cromatico, e per di più solo di passaggio, senza fermarcisi sopra con una cadenza, è quella di la bemolle minore, ben lontana dal do!, che compare alla battuta dodici, dopo di che riparte il vortice cromatico che giunge sino all’approdo del re minore nell’attacco dell’Allegro, che però viene negato nel giro di un secondo, perché comincia un altro cromatismo ascendente senza appoggi armonici, il cui punto d’approdo è il fa diesis minore finalmente vero, affermativo, con tanto di cadenze, che compare alla ventesima battuta dell’Allegro sulla parola folgen, e dura per circa otto battute. Si noti che ci troviamo alla distanza di tritono, la più ampia possibile, dal do: il fa diesis è una sorta di anti-do. Poi, improvvisamente, senza alcuna mediazione, una cadenza di fa diesis minore scivola di semitono ascendente e va a sol minore, facendo ripartire il moto cromatico che si fermerà solo sull’esplodere del succitato do maggiore alla parola Ewigkeit.

Alcuni successivi passaggi che collegano i poli do e fa diesis (do-fa-do diesis-fa diesis) riportano infine al do e l’unica scala discendente del pezzo richiude il Lied come un libro sulla nota do, ma armonizzata come do minore, nella battuta isolata con corona finale in pianissimo.

Esiste un particolare e sotterraneo collegamento tra le tonalità, utilizzato in pieno solo nel XX secolo da Béla Bartók, ma che il musicologo ungherese Ernö Lendvay, coniando il termine di armonia assiale, dimostra essere presente, in modo più o meno cosciente, anche nella musica romantica. È possibile cioè legare a ogni tonalità maggiore due tonalità minori e la prima è quella che mantiene le stesse alterazioni in chiave, cioè il cosiddetto relativo minore, che è a distanza di terza minore (Do maggiore-la minore), lo chiameremo collegamento A, la seconda quella che porta lo stesso nome (Do maggiore-do minore) che chiameremo collegamento B. Quest’ultima è più lontana per quanto riguarda le alterazioni in chiave (ve ne sono tre di differenza), ma è legata dal fatto di aver la stessa tonica, cioè la stessa nota base. E ciò consente una sorta di percorso chiuso ciclico:

All’interno di questi collegamenti le tonalità a distanza di tritono (do-fa diesis, oppure mi bemolle-la) assumono tra loro l’aspetto di poli opposti, per «colore», per «clima» sonoro.

Se si prende la Sonata per due pianoforti e percussione di Bartók, si nota che l’oscurissimo inizio è tutto imperniato sul fa diesis che, essendo il tritono del do, incarna il mondo dell’oscuro, il contro-tono, l’ombra della tonalità, mentre chiunque conosca quella famosa sonata sa che la grande esplosione tematica è imperniata sul do maggiore. Cioè nell’asse do-mi bemolle-fa diesis-la, il principio opposto al do, che è il fa diesis, rappresenta l’oscurità. Il paragone con la Sonata per due pianoforti e percussione è di evidente pertinenza: ma anche in altri lavori bartokiani il polo dell’oscurità, della magmaticità è rappresentato dal fa diesis mentre il polo della luminosità è incarnato dal do. Il caso del nostro Lied (precedente la Sonata bartokiana di ben 110 anni!) è paradigmatico, sembra proprio voler dimostrare l’armonia assiale; infatti si parte dalla nota do, si fa un cromatismo e ci si ferma sul mi bemolle, ch’è la via di mezzo fra il do e il fa diesis, sia pure come dominante di la bemolle minore, poi si ripassa attraverso il do e ci si arresta (rapidamente) solo al la (sia pur come dominante di re minore). Soltanto l’arrivo al fa diesis, cioè al tritono del do arresta davvero il cromatismo. E qui tutto cambia perché per otto battute abbiamo un fa diesis minore ben affermato, ma arrivati alla fine di questa fase si riparte, però non dal fa diesis, bensì dal suo quinto grado, il do diesis. La nuova scala cromatica omette solo il fa diesis (che era già stato poco prima amplificato) e quando si giunge al sol esso diviene la dominante di quel do che esplode con il fortissimo sulla parola Ewigkeit. Non possiamo non notare che il fa diesis di prima cadeva sulla parola Trauerlauf (funebre corso), e si trattava di otto battute in pianissimo del tutto contrapposto quindi al clima del do maggiore.

A questo punto, tenendo presente che in Bartók spesso la pratica dell’armonia assiale è collegata all’impiego di proporzioni formali e strutturali desunte dalla sezione aurea, abbiamo fatto una indagine in questo senso sul Lied schubertiano (si tenga presente che l’uso della sezione aurea nelle proporzioni formali della musica è attestabile talvolta fino dai tempi di J.S. Bach) e il risultato è stato sorprendente. Abbiamo considerato solo l’Allegro, che consta di 73 battute e abbiamo costatato che la sezione aurea positiva (73 x 0,618 = 45,1) cade dopo la parola Ewigkeit (il do maggiore fortissimo), sulla pausa della battuta seguente; la sezione aurea negativa (73 x 0,382 = 27,9) cade invece sulla pausa alla fine della frase in fa diesis minore, dopo la parola Trauerlauf. Il doppio riscontro a noi sembra eccessivo per essere casuale! Le due sezioni auree si innestano quindi proprio là dove sono i cuori tonali, l’omphalós patetico di quel percorso cromatico. Non sappiamo se Schubert fosse consapevole o meno di tale fatto per noi tanto sorprendente, ma in caso affermativo saremmo di fronte a un’architettura formale e tonale profonda e misteriosa.

La caratteristica più netta nell’uso della voce, che ci ha indotti a parlare di melologo e di voce narrante, è data dal fatto che la linea vocale segue letteralmente il cromatismo, e ha i soli momenti melodici quando approda a qualcosa, quando l’armonia si stabilizza (di passaggio, come sul la bemolle minore o, più stabilmente, come sul fa diesis minore), in questi casi e solo in questi casi la voce non è mero riflesso del cromatismo pianistico, ma vera e propria frase. Perché tutto questo? Forse perché l’ambiente è più forte delle anime che si trovano negli inferi e qui il protagonista è quello. Del resto la voce che nel testo invita a guardare i defunti e il loro paesaggio infernale è abbastanza impersonale. Dobbiamo sottolineare che ci sembra non esista nella storia della musica un altro lavoro che sia interamente attraversato da una scala cromatica ascendente. Concludendo, questo Lied è veramente un poema sinfonico con voce recitante, ma anche un caso anomalo, e quel che stupisce, che lascia attoniti, è la dirompente forza espressiva della sua modernità, tanto più che è stato scritto nel 1817, quando Liszt e Schumann erano bambini e l’Autore appena ventenne.

Nell’estate del 1817 Schubert scrisse, con dedica ad Anton Stadler, amico suo sin dai tempi del Convitto, un Lied il cui testo rimane d’autore sconosciuto, e che quindi potrebbe anche essere del musicista stesso, Der Strom. Riduttiva, guardando queste quattro pagine, ci sembra la traduzione «Il fiume», ché ci vien fatto di pensare piuttosto a una corrente impetuosa, travolgente. Infatti balzano all’orecchio, prima ancora che all’occhio, alcune evidenti articolazioni «schumanniane» (non dimentichiamo che Schumann aveva in quel momento sette anni e che ne mancavano ancora quindici ai suoi primi Lieder). Musicalmente la barriera Austria-Germania è nettissima: l’Austria trae tutte le sue armi armoniche e i suoi comportamenti formali soprattutto dall’Italia, mentre la Germania si rifà nettamente al corale di Bach. Epperò nel nostro caso dobbiamo parlare di «schumannianità» anzitutto per la scrittura pianistica, ma anche per quella vocale. Le figurazioni del pianoforte son costituite implacabilmente, dalla prima all’ultima battuta, di quartine contrapposte (sinistra-destra, quindi quattro contro quattro note), una scrittura molto densa, soprattutto se si considera la collocazione di tali quartine nel registro medio-grave. In realtà la quartina non fa altro che diventare una specie di nervatura ritmico-articolativa di vere e proprie disposizioni accordali da corale. Cioè, se si suonasse questo Lied sovrapponendo le note di ogni quartina, ne uscirebbe un perfetto corale a quattro parti ben collegate. Ma così facendo verrebbe a mancare quella nervatura ritmica, il flusso denso delle quartine, che sta a significare, o a rappresentare l’acquaticità, il ribollire della corrente. Rispetto ad altri Lieder occasionati dal tema del fiume o del ruscello, non c’è qui direzionalità di percorsi, essendo questo ribollire piuttosto statico nel registro.

Le sette battute introduttive, senza la voce umana, sono caratterizzate da una tripla «schumannianità»: anzitutto la densità della scrittura a quartine contrapposte; poi il fatto di costruire la sequenza melodica leggendola in trasparenza entro le quartine stesse, quasi essa fosse un semplice coagulo della vibrazione armonica che s’insinua tortuosamente per gradi congiunti: fa-mi-re-do diesis-re-si-do-la-si bemolle-la-la-re. Altro comportamento che sarà frequente in Schumann: se si prendono in esame le due parti estreme, il basso e la linea del canto, si nota che mantengono una totale indipendenza melodica, procedendo però improvvisamente per ottave al momento della cadenza, e venendo così a enfatizzare le punteggiature musicali, che arrivano come martellate dopo le varie inquietudini armoniche. Ma l’elemento nettamente più filotedesco e schumanniano è un atteggiamento diverso dalle consuetudini schubertiane nell’uso dell’armonia: normalmente è tipico del musicista viennese accostare regioni tonali molto lontane tra loro, spesso in maniera assai drastica, senza però accentuare le tensioni all’interno di un tono mediante cromatismi; entro una tonalità si mantiene cioè su cadenze di matrice haydniana, il che rende poi ancora più sorprendenti i veloci cambi di modo o le escursioni a toni lontani. Qui invece abbiamo il comportamento opposto, che è di matrice affatto tedesca, poiché proviene ancora una volta dal corale bachiano: grande motilità all’interno, epperò staticità generale. Cioè, fatta eccezione per un solo punto, in cui si allontana molto tonalmente, da fa maggiore a fa diesis minore, tipico slittamento di semitono con modulazione a tono lontano, la musica si attiene ai toni vicini a re minore (si ricordi appunto che il corale di Bach si mantiene sempre entro i toni vicini a quello d’impianto). Ma se si guardano in questo Lied i singoli collegamenti accordali, notiamo un’enorme presenza di dominanti secondarie, sì che ne abbiamo a un certo punto sei di fila che rinviano con pervicacia la risoluzione, si tratta cioè di continue alterazioni cromatiche che, accentuando le tensioni interne a una tonalità, non provocano però alcuna modulazione. Instabilità armonica interna, assai simile in fondo a quella di Meeres Stille.

C’è infine, e compare spesso, una spina dorsale costituita da un cromatismo discendente, che suggerisce la discesa del fiume ed è anch’essa tipicamente schumanniana.

L’altra considerazione concerne la parte vocale, ed è di nuovo componente schumanniana: la voce passa di colpo dal continuo tortuoso grado congiunto ai grandi salti, d’altronde in forte legame col testo, perché quando questo dice «sale, cade in increspate onde, qui s’impenna, caccia laggiù in selvaggia processione» abbiamo salti d’ottava e persino di decima, vere impennate nelle pieghe del discorso musicale. E quella della voce che si slancia improvvisamente e coraggiosamente è una componente cara al romanticismo successivo, tipicamente tedesco; d’altronde anche il testo che parla in prima persona si identifica con quella Stimmung.

Abbiamo prima accennato alla sorprendente modulazione a fa diesis minore, di fronte a una cinquantina di battute precedenti tutte aggirantisi nei toni vicini; il fatto che essa avvenga con un solo accordo intermedio, malgrado la lontananza del tono d’arrivo, fatto comprensibilissimo in Schubert, risulta assai insolito qui e finisce per essere una greve sottolineatura del testo, che dice «Doch nimmer findend» (perciò mai più trovando).

Dobbiamo ancora sottolineare in questo Lied impetuoso la drammatica implacabilità della sua scrittura ribollente che evita riposanti risoluzioni. Del resto tutto Schumann è fatto di continui rinvii delle cadenze con l’ausilio di dominanti secondarie, e però, quando finalmente giunge, la sospirata cadenza arriva come una martellata e qui è esattamente così: nella durezza dell’impatto della brusca cesura ravvisiamo i segni del conflitto spirituale, di una negatività che non è solo psicologica e sentimentale, bensì metafisica. Notiamo infine il consueto atteggiamento problematico di Schubert nei confronti delle riprese; per lui la ripresa non è assolutamente un obbligo formale da rispettare, ma, rovesciando i termini, è vero e proprio espediente compositivo cui ricorrere qualora il testo lo richieda. In questo caso, per esempio, quando i versi citano di nuovo il fluire della corrente, a quel punto la musica incappa in un frammento di ripresa, quasi un segnale, sorprendente per il compositore stesso: alle parole «wird nimmer froh» (non si fa mai gioioso) il canto si ritrova sullo stesso frammento iniziale, mi bemolle-do diesis-re, per un attimo sembra riprendere la stessa concatenazione melodica (quasi se la ritrovasse davanti strada facendo), e anche questo comportamento assomiglia a quello di un fiume, ma in realtà riprende solo il flusso tematico, non il tema stesso, e lo abbandona sostanzialmente subito. Questo è l’unico percepibile microaccenno di ripresa, quasi la implacabile fantasia schubertiana sospingesse verso lidi sempre nuovi. Quindi drammaticità molto forte, schumannianità di scrittura, di armonia, di comportamento vocale; l’acqua che è sicuramente il ribollire di quella situazione stretta e l’inquietudine tutta interna al tono, questa vita che si rivoltola mormorando è l’inquietudine dentro la tonalità, con la sola eccezione che abbiamo illustrato.

Nel mese di marzo del 1817 Schubert si cimenta con un testo assai impegnativo di Goethe, Gesang der Geister über den Wassern, e lo fa con il quartetto vocale. Nell’anno precedente aveva anche provato a musicarlo per sola voce e pianoforte e, nel 1820, aveva deciso d’aggiungere al quartetto vocale l’accompagnamento del quintetto d’archi (due viole, due violoncelli, contrabbasso), considerando tale versione come definitiva. Noi ci occuperemo di quella del 1817.

Ai primi dell’Ottocento in Germania e Austria sorsero associazioni di cantori dilettanti dette Liedertafel che si diffusero rapidamente inducendo i musicisti a scrivere per trio e quartetto vocale. Il primo ad adottare tale forma fu Michele Haydn, ma toccò a Schubert il compito di portarla a perfezione, come ben evidenzia il lavoro che prendiamo in esame, il quale non è un Lied sensu proprio, in quanto è scritto per coro maschile a cappella. L’imponenza del testo goethiano genera l’imponenza della musica. Ora il coro a cappella ha in sé automaticamente un connotato di «assoluto», di «sacralità laica» nel nostro caso, e fa di questo Lied un vero e proprio mottetto laico, non un madrigale, perché troppo spirituale per esser madrigalistico.

Parliamo di mottetto perché la struttura formale è in tutto e per tutto simile (con una sola piccola eccezione) a un mottetto antico, rinascimentale, ben lontana da una struttura ottocentesca. È costituita infatti da episodi separati da corone e non collegati da alcun nesso tematico. Ogni episodio è fondamentalmente a sé stante dal punto di vista melodico-armonico, non ci sono ritorni tematici, proprio come nella polifonia quattro-cinquecentesca. Il passaggio da un episodio all’altro è contrassegnato talvolta da un cambio d’area tonale anche piuttosto netto, come si può vedere nella prima pagina, in cui abbiamo tre diesis in chiave per la prima strofa, Sehr langsam, (la maggiore), poi uno solo nella seconda, Etwas geschwinder, (sol maggiore); si tratta quindi di una struttura armonica sostanzialmente a blocchi, e questo invece è tipicamente schubertiano. L’unico accenno di ripresa, ma non riusciamo a definirla così, meglio dire «cornice», abbiamo alla fine del Lied, Langsam, nelle ultime sei battute, che ripropongono, non però nota per nota, l’idea dell’inizio.

Importante è notare che ogni immagine poetica è realizzata con situazioni musicali così chiare, nitide, riferite in modo talmente trasparente ai versi, da far sì che ogni episodio divenga una specie di struttura simbolica, anziché struttura descrittiva. Cioè il riferimento alle parole del testo viene fatto con tale trasparenza che finisce per assumere l’aspetto di archetipo o simbolo dell’immagine che si fa musica.

A questo punto non ci resta che tracciare una specie di elenco degli episodi e del tipo di trattamento del coro e dell’armonia, considerando il rapporto tra immagine del testo e figura musicale. La prima strofa, di sette versi, si realizza in un episodio diviso in tre zone, tre sotto-episodi:

  1. i primi due versi, praticamente uguali agli ultimi, esprimono un concetto, il concetto base, vale a dire la tesi che «l’anima dell’uomo somiglia all’acqua», cui segue: «viene dal cielo, risale al cielo e di nuovo alla terra deve tornare, eterna vicenda», e il fatto che una tesi venga data in maniera assolutamente non immaginativa, cioè come se il coro fosse una sola voce collettiva, che, ribattendo omofonicamente un accordo, assume un tono di «recitato», ci sembra perfettamente coerente con la concezione di quei due versi iniziali.

  2. l’immaginosità e la conseguente figuralità della musica cominciano da qui, cioè con il percorso alto-basso-alto («viene dal cielo, risale al cielo e di nuovo alla terra deve tornare»).

  3. il terzo sottoepisodio, che completa la prima strofa, consta solo delle parole fortemente sottolineate «ewig wechselnd», eterna vicenda. Del primo comportamento abbiam detto. Del secondo, notiamo che i riferimenti sono i più ovvii possibili: visto che occorre mettere in scena la discesa e la salita, il coro finalmente si spezza in due parti, tenori e bassi, e si verifica un doppio percorso di discesa-salita. Dobbiamo sottolineare un elemento sottile, ma fondamentale e affascinante, poiché qui la musica dice più della parola: alle battute 5-7, ai versi «vom Himmel kommt es, zum Himmel steigt es», le due voci riproducono quella concatenazione d’intervalli che prende il nome di quinte dei corni, re-fa diesis, la-mi, fa diesis-re, antico comportamento dei corni naturali che da sempre è segnale di partenza e, quindi, di lontananza; e lo troviamo infatti, nel 1704, nel Capriccio sopra la lontananza del fratello di J.S. Bach diciannovenne, poi, nel 1809, nella Sonata in mi bemolle beethoveniana detta «degli addii». L’inserimento in questo Lied, da parte di Schubert, delle quinte dei corni diviene un bellissimo riferimento alla Sehnsucht, esprime l’anelito, la nostalgia, il desiderio del ritorno, la ormai ben nota sensazione dell’inadeguatezza del luogo ove si è, che abbiam veduto nel Wanderer, applicata ora alla condizione del trovarsi, dell’essere inserito, meglio dir «precipitato a forza» nel percorso eterno cielo-terra. Con le parole «und wieder nieder zur Erde muss es» (e di nuovo alla terra deve tornare) vien fatto coincidere un lungo gioco sulle terze minori, re-si-re-si, un intervallo neniante e infantile anch’esso collegato alla nostalgia. Scelta molto forte, che mette a nudo improvvisamente una intensa spiritualità schubertiana che la bonomia del musicista non avrebbe fatto sospettare: è la vistosissima sottolineatura della vicenda eterna, dell’Eterno soprattutto, nell’episodio successivo, imperniato sulla parola «ewig» ripetuta e molto protratta; notiamo qui l’avvento della calma, tutto rallenta, tutto si placa, tutto è molto dolce, molto tematico, molto melodico. È il momento modulante che condurrà al sol maggiore dell’episodio successivo e tutto si allarga in un canto ricco di avvincenti cromatismi interni: siamo nel vero cuore melodico della prima parte, che abbiamo considerato come una A tripartita. Nella seconda parte, Etwas geschwinder, in sol, tonalità lontana quindi dal la maggiore iniziale, comincia l’immagine del rapporto con l’acqua, cioè con la cascata impetuosa che diroccia dall’alta rupe.

  4. La prima parte di questo episodio è quella che va dalle parole «strömt von der hohen» (diroccia dall’alto) al verso «zum glatten Fels» (sul levigato masso) e comprende tredici battute in cui il flusso dell’acqua è reso figurativamente con movimenti discendenti e isocroni di crome; ma se è vero che esse continuano a scendere nel registro, è vero anche che nel frattempo continuano a ripartire dall’alto, il che inserisce, in un moto direzionale, una componente di circolarità e l’incedere di tale circolarità ancora fa pensare al Wanderer. In questo caso l’immagine è chiara fino al limite del madrigalismo, «la musica specchio dell’oratione», fedelmente al dettato monteverdiano. Meno madrigalistica è la connotazione data alla seconda parte della strofa. L’acqua si muoveva prima precipitando dalla parete, ma in modo felice, si frantumava a basso gioiosa, senza drammaticità, sul levigato masso, «zum glatten Fels».

  5. Questa prima fermata, alle parole «und leicht empfangen» (e dolcemente accolta), è realizzata con modalità che ricordano il placarsi che abbiam visto alla parola «ewig»: stessi tipi di valori, stessi dolci cromatismi, insomma un corale, ma pure abbastanza mosso al suo interno, anche dal punto di vista armonico.

  6. Vi sono simmetrie evidenti nel Lied: alla staticità dell’«ewig» menzionato corrisponde la prima stazione dell’acqua discesa dal monte; al primo movimento, che non era affatto drammatico, dell’acqua che scaturisce e fluttua (movimento già preannunciato peraltro in b, nel percorso alto-basso tra cielo e terra), corrisponde l’esplosione drammatica del testo che dice: «contrastano rupi il flutto precipite, spumeggia irosa a grado a grado verso l’abisso». E qui notiamo le prime tre voci in forte, ma con il secondo basso in fortissimo, con ampi intervalli che arrivano al salto di nona minore e persino a quello di undicesima. Armonicamente non v’è nulla di particolarmente audace, ma i movimenti interni sono di grande drammaticità. Non a caso abbiamo qui l’unico momento in fortissimo del Lied; e a questo punto osserviamo che le immagini hanno un tale peso simbolico, in quel netto delinearsi e in quell’essere semplicemente accostate senza alcun tentativo di collegamento, che non possiamo fare a meno di considerarle ognuna una stazione della via crucis della vita.

  7. Siamo ora arrivati a un Adagio (Langsam) in pianissimo, alle parole «Im flachen Beete» (nel disteso corso), in cui tutto di nuovo si placa e lo specchio calmo del lago è evocato con «movimento statico», semplici oscillazioni, senza direzionalità. Interessante è pure il rapporto fra le singole sezioni, legate da un sottile gioco di analogie e contrasti a livello sempre figurale e mai tematico.

  8. Nell’Etwas geschwind di pag. 68, alle parole rapide e incalzanti, che animano poi la musica «Wind ist der Welle lieblicher Buhle» (vento è dell’onda tenero amante), torna il movimento. L’andamento si piega in giochi imitativi molto veloci tra il vento e l’onda, in rapide botte e risposte, il che rispetta il rapporto di causa-effetto esistente tra i due fenomeni naturali. E qui l’onomatopea è simbolo del movimento stesso della vita, fluctus fortunae, e quindi è archetipicamente rappresentativa. L’Adagio (Langsam) si ripresenta improvviso nelle sei battute finali, ma non si può neppure questa volta parlare di ripresa, perché è proprio l’assunto iniziale che torna dopo aver esaurito la sua realizzazione interna. Il Lied è uno dei capisaldi di Schubert, un vero capolavoro, un poema dell’acqua e della vita di enorme peso simbolico e noi non sentiamo affatto il bisogno del sostegno strumentale alle voci; questa è la tipica musica da cantare a cappella, ma non per un semplice riferimento storico al mottetto, bensì proprio per il peso specifico della condotta delle voci, decisamente autosufficiente e maggiormente astratto e simbolico.

Auf dem Wasser zu singen è un piccolo gioiello, forse la più avvincente melodia schubertiana, musicato su testo del conte Leopold zu Stolberg. Di incerta datazione, certo non posteriore al dicembre 1823, dal momento che fu pubblicato in un supplemento della «Wienerzeitschrift für Kunst», verrà edito da Cappi & Diabelli con numero d’opera 72 nel 1827. Tre strofe assolutamente identiche in cui Schubert non cambia una sola nota. Avrebbe potuto, invece di scriverle per intero, mettere il segno di ritornello dopo la prima. Il Lied non è quindi nella tradizionale forma chiusa, A, B, A; potremmo definirlo in forma A, A’, A’’ Non c’è quindi ripresa, c’è un tema solo più volte ripetuto; non c’è B, a meno che non si voglia considerare un B tonale il momento in cui, all’interno della strofa che viene poi ripetuta, la tonalità passa dall’iniziale la bemolle minore a do bemolle maggiore. Tutto appare a prima vista molto semplice, volutamente semplice, a tutti i livelli, anche a quelli di microstruttura armonica, cioè di singola cadenza; la cadenza più elementare, tonica-dominante-tonica, è nettamente prevalente. Persino le sottodominanti sono poche. Questa è la premessa inevitabile: il Lied ha una prima superficie di lettura di disarmante trasparenza: tre strofe di testo, tre strofe musicali uguali e, a livello armonico, è di grande semplicità. Vi son però tre elementi importanti da osservare. Il primo riguarda l’articolazione pianistica scelta, la ben nota sestina costituita da tre duine che rimbalzano appoggiandosi l’una all’altra; essa non cede mai, dalla prima all’ultima battuta, è implacabile.

L’appoggiatura che caratterizza la seconda e la terza duina d’ogni sestina rende subito ragione d’una tremula, incerta mobilità; d’altra parte l’immagine offerta dal testo è quella dell’acqua su cui balugina il riflesso del tramonto; ora l’appoggiatura è flebile, sfumata, per sua stessa natura e, salvo poche eccezioni, discendente. Sul piano intervallare il Lied è strutturato, in quasi tutte le battute, con una figura tipica, il salto ascendente di ottava all’inizio della battuta e la successiva discesa per appoggiature. La figura complessiva è quindi costituita dallo slancio ascendente e dalla discesa per appoggiature ed è impossibile non essere condotti automaticamente all’immagine del ruscello che scende, non linearmente, bensì saltellando tra i sassi, con incerta intermittenza. È fondamentale notare che il salto d’ottava iniziale d’ogni battuta genera la rotatorietà, la circolarità, perché ogni volta v’è slancio eppoi discesa. Siamo tentati di pensare a un’anticipazione del ciclo Die schöne Müllerin (La bella mugnaia), con l’eterno girare sia della ruota del mulino, sia del ruscello che la sospinge, sia della vita e delle sue fortunose vicende, connesse con l’ansia del ritorno del Wanderer. Ma l’appoggiatura abbinata alla duina è anche una precisa figura retorica barocca, simbolo del sospiro malinconico, della nostalgia, dell’effetto della lontananza; non possiamo non pensare ancora una volta al Capriccio bachiano sulla lontananza del fratello. Nostalgia significa appunto letteralmente «dolore del ritorno», e qui il wenden, il kehren zurück si identifica col salto ascendente d’ottava. L’acqua che scorre sempre scendendo, ma sempre di nuovo cadendo dall’alto e la malinconia vengono così a coincidere nella loro rappresentazione strumentale. A un successivo livello d’indagine è importante notare che la presenza di questa articolazione pianistica, incessante, e non solo prevalente, costituisce il fondale per una voce che fa una cosa piuttosto rara nel Lied schubertiano, cioè viene trascinata dal pianoforte ad assumere la sua stessa articolazione, con un po’ di ritardo, quasi volesse imitarlo.

In genere nel Lied schubertiano voce e pianoforte hanno due figure ritmico-melodiche tendenzialmente fisse, ma differenti, contrapposte: il fatto che, nel nostro caso, la voce imiti e segua lo strumento costituisce, secondo noi, il disvelamento definitivo ed esplicito della metafora sottesa al testo, che emerge poi nei due versi: «sulle onde scintillanti di gioia l’anima scorre come la navicella»; se il pianoforte incarna l’acqua che fluisce, la voce è l’anima, che scorre come la navicella, e quindi in questo caso prende la figura del pianoforte. Ma come? La stessa figura di duine appoggiate e legate diviene melisma, cioè la sillaba vien detta sulla prima nota e poi «portata» e il fatto di «portare» la sillaba sulla seconda nota accentua nettamente la dimensione patetica della figura retorica barocca rispetto a quanto possa fare il pianoforte, che rimane pur sempre uno strumento a percussione. La maggiore accoratezza delle appoggiature vocali ci svela il passo successivo della metafora: se la voce è l’anima stessa, il suo tramonto di anima-acqua non è semplice tramonto bensì morte, come chiarisce la terza strofa e ciò rende ancora più pregnante la ciclicità del moto, perché, ormai è evidente, il moto circolare non è più soltanto l’acqua che scorre ma è il ciclo del Tempo, con la sua inesorabile legge, l’anánke.

Ma a questo punto v’è da fare l’osservazione più importante concernente la tonalità, che quasi potrebbe sfuggire, tanto essa è realizzata con naturalezza. La romantica «Sehnsucht» consiste nell’avere un sentimento di «nostalgia» in senso etimologico, cioè nell’aspirazione a essere in un luogo diverso da quello in cui si è, ma senza sapere qual è l’elisio cui si anela; se si vuole, è frutto dell’avvertire inadeguato il luogo o lo stato in cui ci si trova.

Auf dem Wasser zu singen è, per chiunque l’ascolti, senza lo spartito davanti, un Lied in modo minore. L’introduzione pianistica di otto battute e l’impostazione di frase sono infatti in la bemolle minore; eppure le alterazioni in chiave sono quelle di la bemolle maggiore; peraltro la svolta nel modo maggiore, quando arriva, avviene nel tono relativo di la bemolle minore, cioè do bemolle maggiore e non la bemolle maggiore, tonalità che sarebbe di diritto quella d’impianto. Auf dem Wasser zu singen è così, per chiunque l’ascolti, un Lied in la bemolle minore che due volte, nel corso della strofa tre volte ripetuta, approda al maggiore (la prima volta al relativo do bemolle e la seconda, finalmente, all’omonimo maggiore, cioè la bemolle). Ma in chiave ci sono quattro bemolli, cioè c’è l’armatura di la bemolle maggiore: ci si muove così costantemente in una tonalità inadeguata a quella predisposta sul rigo dall’Autore stesso, vale a dire ci si muove costantemente nel suo omologo minore. E il fatto che si vada a do bemolle maggiore non smentisce, perché il do bemolle maggiore è tono vicino a la bemolle minore (e non a la bemolle maggiore) in quanto è il suo relativo maggiore. Quindi questo la bemolle minore assume l’aspetto di luogo fisico presente, ma che è tópos instabile e inadeguato perché attende di riposare nella sua stabilità, che è data da quello che sarebbe dovuto essere il Lied, in base alla preparazione tonale dall’Autore stesso effettuata nell’armatura di chiave.

Il minore qui acquista la valenza di luogo instabile, inadeguato e lo si nota anche graficamente dalle numerose, continue, alterazioni di passaggio che devono essere apposte per situare il la bemolle minore. Com’è fatta la strofa? quando si va in la bemolle maggiore? ci si va durante l’unica nota tenuta lungamente dalla voce, alla trentesima battuta, un mi bemolle tenuto sotto cui il pianoforte cadenza dapprima in la bemolle minore, e poi, finalmente e inaspettatamente, nella battuta successiva, in la bemolle maggiore. Se si raffrontano musica e testo, si nota subito che nella prima strofa tale svolta così simbolicamente significativa avviene in un punto assolutamente insignificante, cioè sulla parola tanzet del verso «tanzet das Abendrot rund um den Kahn» (danza il tramonto attorno alla barca). E allora anche la triplice ripetizione di strofa musicale esce dal suo banale aspetto formale di ballata e acquista un profondo peso simbolico, perché alla terza volta, e in modo a nostro parere agghiacciante [3] , si scopre che il luogo inadeguato, cioè il minore instabile, è la vita, mentre la risoluzione stabile e vagheggiata è la morte; infatti la terza volta il testo dice: «finché con ali più elevate e raggianti io stesso non sfuggirò alla legge del tempo» e per la terza volta va in la bemolle maggiore. Quindi se la musica non era adeguata al testo per le prime due strofe con il suo passaggio al maggiore, lo è invece e vividamente la terza, il che vuol dire ch’era stata «concepita» per l’ultima strofa: una forma tranquillamente circolare assume improvvisamente una direzionalità amara e profonda, semplicemente svelando all’ultimo momento un nesso testo-musica sconvolgente. Un’ultima osservazione: in ogni strofa la risoluzione in maggiore, cioè l’appoggio a la bemolle maggiore, porta finalmente a un attimo in cui il disegno non è più discendente, ma si stabilizza nel registro, il che equivale a dire che la risoluzione in maggiore diventa l’attimo di stabilità armonico-articolativa. E anche questo acquista significato solo all’ultima strofa, quando la risoluzione in maggiore vien fatta coincidere, con la consapevolezza della morte. Che v’è infatti di più stabile, definitivo e irrevocabile? Della melodia stupenda l’unica cosa che si può dire, quando gli aggettivi si rivelano inadeguati, è che ha il sapore di una barcarola, meglio, di una siciliana; infatti il Lied appartiene alla felice, e fortunata, schiera dei Lieder melodici, quelli cioè in cui la linea pura del canto è bella e pregnante in sé e non richiede commenti, né analisi.

Nell’autunno del 1827, Schubert pubblicò privatamente la sua opera 106, in cui erano inclusi alcuni Lieder composti su testi del prof. Karl Gottfried von Leitner, amico di vecchia data di Marie Leopoldine Pachler, la quale aveva ospitato il compositore a Graz. A questi lavori appartiene Das Weinen, un Lied che non possiamo annoverare fra i simbolici dell’acqua propriamente detta, ma che, volendo, potrebbe aprire un intero nuovo filone, cui in questa sede non possiamo però dare spazio adeguato: il filone del pianto e delle lacrime. La severa articolazione che il musicista ha scelto già di per sé conferisce a questo lavoro una particolare importanza. La lacrima non ha in Das Weinen la sua rappresentazione più diretta, cioè pittorica, di goccia che cade, come si può riscontrare per esempio in Gefrorne Tränen, nel ciclo Winterreise. Ma il severo moto, lento, isocrono, discendente e imitativo, assolutamente insolito in Schubert, è sicuramente sublimazione della lacrima. Peraltro tutto il testo del Lied si presenta come sublimazione della lacrima, un’acqua affatto particolare, vista non come diretta reazione a una contingenza dolorosa, bensì, rilkianamente, come forza magica, consapevolezza della sofferenza, una sorta di comprensione muta, senza parole, del dolore universale. Cioè «piango perché porto su di me il dolore dell’universo» e la musica diviene polifonica e severa, inserendosi in quel filo che collega sotterraneamente, nella tradizione tedesca, Bach a Schumann. Queste lacrime sono gocce astratte che, stillando lente e regolari, montano una polifonia, le cui quattro voci si sommano via via fino all’isocronia di un corale che nulla ha dell’articolazione prettamente pianistica; questa pagina allude piuttosto a un coro, stilizzato e simbolico, o a un quartetto d’archi, proprio come accadrà spesso in Schumann pochi anni più tardi. La polifonia, l’imitatività sono un poco al di sopra della storia, si muovono nella regione dell’universale, mentre la figuratività è storicamente connotata, tangibilmente articolativa e strumentale e a essa ben corrisponde l’immagine del pianto come compassione nel senso etimologico del termine, modo di portare a sé il dolore universale. Anche l’armonia concorre a questo clima di severità rinunciando ai giochi di colore delle modulazioni lontane, tanto consuete in Schubert. Essa pur arricchendosi, all’interno, di mille sfumature cromatiche, rimane vincolata a toni vicini.

Inoltre tutto, simbolicamente, è un tripudio della quaternità, e il quattro, nelle simbologie che occorrono dal Medioevo in avanti, è sempre il numero dell’uomo. L’uomo di Leonardo, a gambe e braccia aperte, è quaterno, inoltre quattro sono i punti cardinali, cioè il mondo, mentre il quinto punto è il trascendente, il cerchio è l’infinito, e il quadrato è il terreno, il definito.

Il Lied è fatto di quattro strofe di quattro versi ciascuna, e a esse corrispondono quattro strofe musicali uguali, fatte di quattro frasi ognuna, una per ogni verso, le prime tre separate da una pausa, mentre la terza e la quarta sono congiunte; esse si comportano come frasi di un preludio corale bachiano: sono infatti composte da una ampia introduzione strumentale, ampia dato il metronomo lento, e poi dall’alternanza di frasi vocali e di successive zone pianistiche; ci viene in mente il preludio corale bachiano perché la frase, già peraltro rarefatta entro il tessuto musicale, è soltanto un rivestimento del pianoforte, una sorta di coagulo conseguente delle sue parti polifoniche, in quanto la voce galleggia su di esso raddoppiandone semplicemente alcune note. E ciascuna delle quattro frasi cadenza a un grado diverso, la prima al V grado, la seconda al VI, la terza al III, e soltanto la quarta cadenza al I, cioè a si bemolle maggiore, quasi a indicare i quattro punti cardinali dell’universo umano di cui le lacrime sono spina dorsale e questo avviene con serena pacatezza.

Il semplice, però anomalo, contrappunto a quattro voci, che si allarga a corale, racchiudendo in sé a tratti le frasi, che ne sono parziale raddoppio, senza alcuna autonomia melodica, fa sì che questo non sia un Lied imperniato sulla melodia, bensì un contrappunto a quattro del pianoforte che finisce ogni volta in una frase di corale, la cui voce superiore è raddoppiata dalla voce che pronuncia il testo. Un Lied simbolico: potrebbe iniziare un intero capitolo sul pianto, che qui viene sacralizzato in una cornice pacificata, con suprema eleganza espressiva. Un profluvio di lacrime musicalmente esperito con felicità ineffabile.

Nel marzo del 1828, a soli otto mesi dalla morte, Schubert accostò per la prima volta le liriche di Ludwig Rellstab, cominciando con Auf dem Strom, Lied per voce di tenore, corno in mi e pianoforte, che fu eseguito nel concerto monografico del 26 marzo, con il cantante Ludwig Tietze e il cornista Josef Rudolf Lewy, il compositore stesso al pianoforte, e fu pubblicato postumo con numero d’opera 119. Esso consta di tre lunghe strofe ed è un canto d’addio all’italiana. Impropriamente chiamato Lied, è quasi un poema che dura il triplo dei normali lavori schubertiani di questo genere, circa 11 minuti. L’analisi, nel nostro caso, se non da escludere, è da accostare in punta di piedi, ché rischierebbe d’uccidere la musica, che avvince e commuove. La stupefacente economia formale, la compresenza delle funzioni armonica e melodica di straordinaria linearità e nitore, la dolcezza travolgente del canto, affidato a turno ora alla voce, ora ai due strumenti, ne fa un Lied sui generis da ascoltare soltanto, un’esperienza emotiva da seguire con l’anima, prima ancora che con l’orecchio. Non vi sono appariscenti strategie espressive, tutto si svolge come un empito del sentimento che trova da sé la sua forma, senza fatica, segno di magistero padroneggiato in modo assoluto. Ancora una volta i versi, ardenti di passione, incontrano, con la mediazione della memoria lirica e musicale, un compositore che sa dire più del poeta. Nelle parole, ricordi struggenti che coinvolgono in Schubert l’artista e l’uomo, consentendogli di dire ciò ch’è ineffabile, esprimere l’inesprimibile. E l’empatia dell’ascoltatore con il musicista è totale. Tutto scorre come la corrente, come la nave che si allontana, come l’avvicendamento delle memorie, con lo sguardo che si stende dalle rive in fuga alle stelle benigne, un tempo pietose guardiane d’un amore perduto, così come dinanzi agli occhi di Schubert ormai fuggiva la vita. Un addio struggente che però si placa in assoluta serenità creativa. L’adesione al testo è perfetta, ma la musica al solito va oltre.

Una lunga introduzione di sedici battute, animate dal dialogo dei due strumenti, e alla diciassettesima entra la voce sulla terzina discendente della mano destra. Nel corso del Lied avvincenti interludi del pianoforte con il corno in eco. L’equilibrio fra voce e strumenti è straordinario, né stupisce, dal momento che in quei mesi tristi nasceva la Sinfonia in do, in cui l’impiego del corno è fondamentale e l’orchestrazione sapiente e raffinata.

L’acqua, praticamente protagonista del testo, non ha immagini musicali corrispondenti, non c’è nulla di acquatico nell’articolazione della voce e del pianoforte, la musica si limita ad arpeggi ascendenti o discendenti e ad accordi ribattuti. Il corno non ha alcuna parte autonoma rispetto alla versione per voce e pianoforte, ma incarna la dimensione della nostalgia leggendo solo la parte superiore, a volte quella interna, mai la grave della scrittura pianistica. Alcune note che sarebbero del pianoforte passano al corno, in qualche caso esso raddoppia la parte della tastiera o introduce la voce umana. Il corno è segno della malinconia conseguente all’addio. Ricordiamo al lettore che, all’epoca di Schubert, il corno del postiglione dava il segnale della partenza della carrozza a cavalli.

Il Lied è una specie di poema della partenza sull’acqua e dice all’inizio: «Prendi gli ultimi baci di commiato» su pedale di tonica, mi maggiore, con il corno che sembra oggettivare la malinconia ch’è interna alla voce del pianoforte.

La struttura formale è affatto particolare. e merita di essere delineata. Il tradizionale modello A-B-A è qui sostituito da una continua divisione binaria degli elementi. Innanzitutto la vasta forma complessiva è divisa in due parti tra loro identiche, A-A’ quindi, cui si aggiunge soltanto una coda di ventiquattro battute del tutto nuova dal punto di vista tematico, cosa questa piuttosto originale, quasi fosse una chiusa, una firma, un post scriptum musicale. La grande zona che vien ripetuta è a sua volta divisa in due parti che chiameremo a e b, in quanto fortemente differenziate da tutti i punti di vista, melodico, tonale, articolativo: in a la parte pianistica è basata su ripetuti arpeggi; in b su accordi ribattuti; a è in mi maggiore, b in do minore; a, poi, è a sua volta divisa in due zone, che indicheremo come , differenti sia sul piano tematico, sia su quello tonale. E qui osserviamo di nuovo quel percorso romantico che si esplica con il gioco del giro delle terze minori, dell’armonia assiale, per cui a una tonalità maggiore, nel nostro caso mi, si apparenta il suo minore, mi, eppoi il relativo maggiore di quest’ultimo, sol. Infatti il Lied comincia in mi maggiore e tale si mantiene nell’introduzione strumentale e per i primi cinque versi del testo, poi alle batt. 26-28 il collegamento pianistico con pedale di dominante di si risolve in mi minore e comprenderà due versi, quindi con gli ultimi tre passerà al relativo maggiore di mi, cioè sol, a battuta 34. E questo è quel percorso per terze minori basato su un’alternanza trasposta di toni maggiori e minori, caratteristica del periodo romantico che con Schubert scopre il suo meraviglioso orizzonte.

La parte b viceversa è divisa a sua volta in due zone che indicheremo come in quanto la seconda ripete interamente la prima; anche qui il giro tonale procede per terze minori. I primi tre versi sono in do diesis minore (la terza minore inferiore al mi), poi si passa attraverso il mi maggiore e si sfocia nel do diesis maggiore del quarto, per subito approdare di nuovo al do diesis minore che conclude la strofa. Complessivamente lo schema formale è il seguente:

Otto parti quindi, con un ricco gioco interno di elementi nuovi e di ritorni.

Per quanto riguarda lo schema armonico è da notare che, stabilito il perno di mi maggiore, la parte a si aggira sulla terza minore ascendente sol e la parte b sulla terza minore discendente do diesis.

L’assenza di un episodio B centrale è compensata, per così dire, dalla novità tematica della coda, quasi un B eccentrico; tale coda, tutta in mi maggiore, è interamente basata su un pedale di tonica proporzionale all’ampiezza del Lied e stabilizza definitivamente il tono.

Ovviamente un discorso sull’acqua come luogo della mente in Schubert [4] non può escludere, dopo l’esemplificazione di questi Lieder, assai diversi tra loro e splendidamente variegati, i Lieder dei tre grandi cicli, Die schöne Müllerin, Winterreise e lo Schwanengesang, ma ciò non può esser contenuto in un solo articolo; richiede infatti un saggio a parte, complemento ideale del presente lavoro [5] .

 

 

Note

[1] Mario Bortolotto, Introduzione al Lied romantico, Adelphi, Milano 1984; Carlo Lo Presti, Franz Schubert, Il viandante e gli inferi. Trasformazioni del mito nel Lied schubertiano , Casa Editrice Le Lettere, Torino 1995; Luisa Mennuti, L’orma del viandante. Franz Schubert: la scrittura del tempo, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1998.

[2] Facciamo presente al lettore che noi ci riferiamo all’edizione Peters per voce profonda, in si bemolle; l’originale schubertiano era in realtà in do maggiore.

[3] Usiamo il termine "agghiacciante" perché secondo la tradizionale attribuzione di climi espressivi ai due modi della tonalità, il modo minore rappresenta il polo triste ed oscuro, mentre il maggiore quello sereno e lieto. La corrispondenza qui effettuata minore-vita e maggiore-morte, costituisce un chiasmo terribile ed amaro, che ritroveremo poi nella Winterreise.

[4] Un particolare ringraziamento dobbiamo esprimere ad Angela Giorgetti, ideatrice del tema I luoghi della mente: l’acqua in Schubert.

[5] Segnaliamo ai lettori le più note incisioni dei Lieder schubertiani considerati nel presente articolo. Meeres Stille: J. Norman, G. Parsons, H. Käch, Philips, PHIL 070 114 1PHG; E. Söderström, P. Badura-Skoda, Astrée Valois, ASTR E 7783. Der Fischer: B. Fassbänder, G. Garben, SONY SK 53104. Die Forelle: Irmgard Seefried, E. Werba, Deutsche Grammophon, DG 437 225-2GX9. Gruppe aus dem tartarus: Ch. Prégardien, A. Staier, Deutsche Harmonia Mundi, DHM 05472-77296-2. Gesang der Geister über den Wassern: Austrian Radio Chor, RSO, G. Preinfalk, Deutsche Grammophon, DG 437 649-2GGA. Auf dem Wasser zu singen: Elisabeth Schwarzkopf, Edwin Fischer, E.M.I., CDH7-64026-2: Irmgard Seefried, E. Werba, Deutsche Grammophon, DG 437 348-2GDO2. Das Weinen: D. Fischer-Dieskau, G. Moore, Deutsche Grammophon, DG 437 215 2GX9 (3). Auf dem Strom, B. Valente, M. Bloom, R. Serkin, SONY SBK 48176. Unica incisione completa del corpus schubertiano di Lieder è quella di D. Fischer-Dieskau, Gerald Moore, Deutsche Grammophon, DG 2720 006; DG 2720 022 (25 LP).

* Le figure della testata di questo articolo sono riproduzioni di illustrazioni A. Broch (a sinistra) e di M. Sandor (a destra). Esse fanno parte dell’ingente materiale grafico e illustrativo che, insieme al patrimonio librario, è stato messo a disposizione del pubblico del mondo in Internet dalla straordinaria iniziativa della Bibliothèque Nationale de France

 

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