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  • E le Bucoliche, allora?

    E le Bucoliche, allora?

    Dopo due post dedicati alla pars destruens, mi sembra necessario dedicarne uno alla pars construens. Abbiamo dunque stabilito che le Bucoliche non sono un racconto autobiografico delle vicende di Virgilio; non hanno scopo celebrativo nei confronti di Ottaviano Augusto; non creano il mito dell’Arcadia; non sono opera priva di contenuti realistici, tutt’altro. Che cosa sono, allora? Anche per questo darei almeno quattro risposte…

    La prima, in realtà, l’ho già data in un post precedente, dicendo che le Bucoliche sono un instant book, scritto a ridosso degli avvenimenti che l’hanno provocato (i fatti che vanno dal 42 al 40 a.C. – anche se nel libro è incluso un probabile riferimento al trionfo di Pollione che ci riporta al 39 [anno di conseguimento del trionfo] o al 38 a.C. [anno della sua celebrazione, dopo il ritorno di Pollione a Roma]). Per fare un parallelo, la monografia sallustiana sulla Coniuratio Catilinae è esattamente contemporanea alle Bucoliche (si data fra il 44 e il 40 a.C.), ma racconta avvenimenti del 63 a.C., cioè di circa 20 anni prima. E’ come se oggi tornassimo a raccontare la fine della cosiddetta “Prima repubblica”: certo, per uno della mia età è storia contemporanea; ma per i giovani, non erano neanche nati. Virgilio intuisce invece che il secondo triumvirato e le espropriazioni dei campi, azione simbolo di quella magistratura, costituiranno lo “shock generazionale”, come l’ho chiamato prima, della sua generazione. E a questo shock reagisce con la propria opera, che quegli avvenimenti, con i loro strascichi, ampiamente, duramente commenta.

    C’è un secondo elemento, di carattere più letterario, che rende le Bucoliche virgiliane un’opera di valore storico. Per noi, sono il primo libro di poesia latina (non epica) che ci sia arrivato organizzato così come l’ha voluto l’autore. Dopo il naufragio della poesia arcaica, il libro catulliano non segue un’organizzazione autoriale. I testi vi sono stati riorganizzati dopo la morte di Catullo, e infatti sono disposti per metro e per associazioni interne, ma non seguono una logica unitaria e consequenziale (prova ne sia che uno dei primi, l’11, si presenta come l’addio definitivo a Lesbia, sebbene debba essere ancora descritta ampia parte della storia d’amore vissuta con lei). Le Bucoliche seguono invece un ordine che fu certamente dato loro da Virgilio, come rivela una serie abbondante di riferimenti e di bilanciamenti interni. Del resto, gli antichi le chiamavano anche “egloghe”, e cioè, letteralmente, “testi scelti”: scelti nella loro disposizione, e non perché fossero solo una parte di quelli composti da Virgilio (nessuno dei poeti a lui contemporanei fa infatti riferimento a egloghe virgiliane differenti da queste). Qual è dunque questo ordine? E’ quello che in una delle “puntate” precedenti ho chiamato struttura a perno sull’egloga cinque. Mi spiego: la prima e la nona egloga (equidistanti dalla quinta: in entrambi i casi, ce ne sono in mezzo altre tre) trattano delle espropriazioni dei campi. La seconda e l’ottava (anch’esse equidistanti) contengono canti d’amore infelice; la terza e la settima sono gare di canto amebeo, ossia a botta e risposta; la quarta e la sesta hanno valore cosmologico: la quarta è una profezia che anticipa che cosa succederà del mondo da qui in avanti; la sesta racconta la storia del mondo dall’atto che per gli antichi lo costituì (non la sua creazione, perché la materia è sempre esistita; ma da un caos informe si passò a un insieme di cose ordinate, l’universo così come lo conosciamo) fino ad arrivare alla realtà contemporanea del poeta, a un hic et  nunc che nell’egloga è rappresentato dalla celebrazione di Cornelio Gallo, amico e coetaneo di Virgilio, come massimo poeta della propria generazione. La quinta egloga è costituita da due canti, che si scambiano due amici incontratisi per caso, in quella che non è una gara poetica, ma un semplice gioco di cortesie. I due canti hanno un medesimo argomento, e cioè gli avvenimenti successivi alla morte di Dafni. Questo Dafni era un personaggio di Teocrito, anzi era il protagonista del canto che viene elevato in quello che per noi (e per Virgilio) è il primo idillio della raccolta teocritea, e quindi la composizione simbolo di quella stessa raccolta. In Teocrito si racconta infatti di come Dafni, di origine semidivina (suo padre è Hermes), per avere offeso Afrodite, dea dell’amore, fosse stato fatto innamorare da questa di una ninfa che non lo corrispondeva. Il canto teocriteo è l’estremo lamento di Dafni, che langue d’amore, si sta lasciando morire, e alla fine del canto si presume che muoia. Virgilio nell’egloga scrive il sequel di questa situazione: nel primo canto, la natura partecipa addolorata al lutto per la morte di Dafni; ma nel secondo Dafni, defunto, risorge e assurge in cielo, e la natura (e i pastori) celebrano con gioia l’avvenimento. D’ora in poi, Dafni non sarà magari più su questa terra, ma sarà pur sempre una divinità che assiste il mondo pastorale. Nella decima egloga, protagonista del canto è Cornelio Gallo, abbandonato, come sappiamo (da un post precedente) dall’amata Licoride. Gallo, addolorato per quanto gli è successo, canta la propria disperazione, cerca vani conforti, riconosce che nulla è possibile contro la forza d’amore. Nell’egloga, detto in altri termini, Virgilio sta ripresentando il testo e la situazione narrata da Teocrito, ma la ripresenta in abiti, diciamo così, moderni, mettendo a protagonista non il protagonista di Teocrito, non una figura mitologica al di fuori da ogni idea di tempo, ma la figura di un poeta suo contemporaneo. Allora, egloga quinta ed egloga decima sono come due commenti al testo teocriteo, due modi di attualizzarlo: continuandolo (quinta), rifacendolo ambientato nella contemporaneità (decima). Come si vede, ogni egloga rimanda dunque a un’altra, secondo uno schema simmetrico. Le simmetrie non si esauriscono qui: ad esempio, i canti amebei si compongono, nell’egloga terza, di dodici battute (per due concorrenti: quindi 24 battute in tutto) di due versi ciascuna, per un totale di 48 versi; nell’egloga settima, l’altra egloga che si compone di una gara di canto, le battute sono invece solo sei (per due concorrenti: dunque, 12 in tutto), ma di 4 versi, per un totale comunque sempre di 48 versi. Nella seconda egloga, il pastore Coridone cerca di invitare a sé il bell’Alessi: un giovanotto si rivolge cioè a un altro giovane; nell’egloga ottava, simmetrica alla seconda, ci sono invece due canti, opera rispettivamente dei pastori Damone e Alfesibeo (che sono i cantori, non i personaggi). Damone canta l’amore di un giovanotto, che rimane senza nome, per la bella Nisa, che però, come sappiamo da un post precedente, sta per sposare e alla fine di fatto sposerà un altro; nel secondo canto, Alfesibeo dà invece voce a una ragazza, che potrebbe chiamarsi Amarillide, ma forse anche no, ma non importa. Questa ragazza, avendo amato Dafni, quando lui se ne è andato in città non l’ha più visto tornare; e ora ha intuito che non tornerà spontaneamente, e perciò ricorre a un rito magico, che dovrebbe riportarlo a sé (il finale non lascia molte speranze che il rito riesca però davvero). Allora, queste vicende d’amore includono prima una relazione m/m (maschio o “male”, all’inglese, che dire si voglia); poi una relazione m/f (male vs female, maschio e femmina); infine una relazione f/m (female vs male, una ragazza che ama un ragazzo). Lo so, in amore ci sono altre possibilità. Ma per un romano di I secolo a.C., farvi riferimento avrebbe trasformato le Bucoliche in un libro pornografico. E le Bucoliche volevano esplorare le possibilità dell’amore, non divenire pornografia.

    Questo ci porta al terzo tema. Un po’ di anni fa, il critico (italianista) Franco Moretti ha coniato per i romanzi moderni, dal Don Quixote all’Ulysses di Joyce, l’espressione “opera mondo”, indicando con questa espressione quei testi che, sotto la superficie del racconto, vogliono esplorare tutte le possibilità del reale. Le Bucoliche sono un’opera mondo. Sui temi da essi delineati (espropriazioni; passioni d’amore; ruolo della poesia; visione cosmologica della Storia), le Bucoliche sviluppano tutti i casi “dabili”, che si possono dare, nella vita umana – almeno, entro i ristretti limiti della morale del tempo. C’è infatti l’espropriato costretto a lasciare le sue terre (Melibeo, egloga prima); quello che conserva le proprie terre (Titiro, sempre egloga prima); quello che rimane sulle sue terre, ma non più da padrone (Menalca, egloga nona). C’è il giovanotto che ama un altro giovanotto (Coridone, egloga seconda), quello che ama una ragazza (il personaggio di Damone, egloga ottava), la ragazza che ama un ragazzo (Amarillide, o comunque si chiami il personaggio cui dà voce Alfesibeo, egloga ottava). C’è la gara che finisce alla pari, senza vincitori né vinti (egloga terza) e quella che finisce con un vincitore e con un vinto (egloga settima). C’è la profezia rivolta al futuro (egloga quarta) e quella che guarda al passato (egloga sesta). Tertium non datur, dice un proverbio latino: in tutti i casi presi in considerazione, non si danno ulteriori possibilità oltre a quelle che ho già enunciato… Nel libro c’è però anche una continua riproposizione delle stesse situazioni: i tre innamorati delle egloghe seconda e ottava, per dirne una, sono tutti innamorati infelici, i cui oggetti di desiderio non ascoltano i loro canti: Alessi infatti non vi è presente; Nisa si sposa comunque con un altro; Dafni non sembra tornare davvero dalla città. Ma innamorato infelice è, nella decima egloga, pure Cornelio Gallo e l’amore, come la politica, si rivela così una forza che si abbatte sui personaggi delle egloghe, e li travolge senza che quelli vi possano opporre qualche resistenza. Ma ancora una cosa: il libro è unitario e punta alla complessità del reale anche nella sua struttura continuativa. Abbiamo già visto come a Titiro, che sembra conservare i suoi beni, si contrapponga Menalca (protagonista di un’egloga “più tarda” per chi legga il libro dall’inizio alla fine), che i suoi beni, invece, credeva di conservarli, ma li ha persi ugualmente. La poesia, dice lì uno dei personaggi, non è una difesa, è come una colomba di fronte a un’aquila. A Cornelio Gallo, celebrato come grande poeta nella sesta egloga (lo riconosce come tale addirittura Apollo in persona, il dio della poesia), fa seguito Cornelio Gallo che, nella decima egloga, è tradito dalla sua amata, viene da lei abbandonato, e per questo soffre come tutti i comuni mortali… Il libro non si limita a constatare e descrivere l’ampiezza del reale: si fa anche metro di giudizio di quel reale. L’uomo può illudersi, sperare, cercare rifugio nella poesia: ma deve sapere che sono illusioni, vane speranze, rifugi temporanei; alla fine, si è sempre travolti, dalle vicende storiche o dalla propria, interna passione amorosa…

    Vengo rapidamente all’ultimo punto, per il quale mi richiamo a quanto ho detto prima dell’egloga quinta e decima in rapporto con Teocrito. Concetto essenziale nella visione romana della poesia è l’idea di aemulatio. Ciò significa che ogni poeta, per essere riconosciuto tale, prende a modello un precedente poeta e lo imita, cerca di dimostrare che gli è superiore, o almeno pari. Nel I secolo a.C., e fino a tutta l’età augustea, l’aemulatio si esercita in riferimento a poeti greci: Catullo omaggia Saffo chiamando Lesbia la propria donna amata (Saffo era nativa di Lesbo); Orazio, più o meno negli stessi anni delle Bucoliche, negli Epodi cerca di imitare Archiloco; nelle successive Odi si rifà ad Alceo. Virgilio sceglie Teocrito. Ma, come abbiamo visto, indica una idea nuova di aemulatio. Teocrito non viene imitato e semplicemente trasferito di peso nella realtà italica. Viene proseguito (il sequel) o riscritto in abiti contemporanei. Questo è l’unico modo legittimo, ci dice Virgilio, di riferirsi a un classico. Nell’Eneide il poeta proseguirà per questa strada continuando, e allo stesso tempo attualizzando, i poemi di Omero, nei cui confronti applica lo stesso schema che nelle Bucoliche aveva applicato con Teocrito. Dopo l’età augustea, l’aemulatio guarderà, per i propri modelli, ai poeti di questa stessa epoca, a cominciare proprio da Virgilio. E i poeti greci serviranno, semmai, per scavalcare i grandi dell’età augustea, e tornare così a delle radici grazie alle quali cercare un proprio posto nel mondo. Ma questa è un’altra storia, e non sarebbe giusto narrarla qui. Qui è giusto concludere dichiarando che per tutte le ragioni elencate, le Bucoliche a me sembrano un libro che non finisce mai di stupire. Ma non sempre le nostre letterature sono in grado di farcelo capire. La cosa migliore, allora, è leggerle, e leggerne quanta più parte possibile. Perché solo una lettura integrale può rendere conto di quella complessità che qui ho cercato di delineare.

    ©  Massimo Gioseffi, 2020

    PS Si ricorda che nella sezione “Testi” di questo sito si può scaricare il commento complessivo alle Bucoliche. L’opera è gratuita; se ne rispettino però i diritti d’autore.

  • Miti bucolici II

    Miti bucolici II

    Il terzo mito che vorrei sfatare è quello dell’Arcadia. Nei post precedenti dedicati a questo tema abbiamo visto che cosa un lettore medio dell’età di Virgilio poteva conoscere dell’Arcadia, e quale fosse lo spazio dell’Arcadia nell’opera di Teocrito. Anche in questo caso possiamo segnalare che le letterature d’uso scolastico trasmettono, dell’Arcadia, una visione che ha pochissimo riscontro nel testo virgiliano. Semplificando, l’Arcadia per loro sarebbe una regione ideale, nella quale si ambientano le egloghe che vogliono proporre una fuga dalla tristezza del presente, come consolazione a una situazione ritenuta abbruttente. Dietro a questa concezione ci sono pagine famose di Bruno Snell che, sul finire dell’ultimo conflitto mondiale, aveva individuato nell’Arcadia un’invenzione a tavolino, che si sarebbe realizzata per l’appunto sul tavolino di Virgilio. Gli studi successivi hanno mostrato quanto questa visione sia riduttiva e fasulla, determinata forse più dalle circostanze storiche in cui scriveva Snell, che dalla realtà dell’opera virgiliana. Partiamo allora dalla constatazione che nessuna egloga è ambientata in Arcadia; e che Arcadi possono essere alle volte i pastori presenti in alcune egloghe, ma mai gli scenari dell’opera virgiliana. Per l’esattezza, l’Arcadia è citata in quattro egloghe solamente. La prima di esse è la quarta dell’intera raccolta, cioè l’egloga del puer. Quello che dice il cantore di quel testo (diciamo pure, per comodità, Virgilio) è che la materia alta e nobile che si trova a cantare – ossia le gesta del puer – gli consentirebbero di vincere perfino il dio del canto pastorale, ossia Pan; e questo verdetto si avrebbe anche se, con termine calcistico, Pan “giocasse in casa”, fra i suoi fedeli più ardenti di zelo, e cioè in Arcadia (la regione dove il dio era nato, dove era particolarmente venerato e che già Teocrito, come abbiamo detto altrove, aveva strettamente connesso a quella divinità). Di Arcadia si torna poi a parlare solamente nell’egloga settima, ambientata sulle rive del Mincio, che vi viene nominato esplicitamente ed è descritto anche con toni di un certo realismo, che ne ricordano le sinuosità, i tratti paludosi, l’abbondanza di canneti. I due cantori che si sfidano in quella gara sono definiti entrambi Arcadi, aggiungendo che questo significa “pari nel cantare”, e “capaci (parati) sia di cantare a botta e risposta “- come di fatto faranno – “sia in un canto lungo e continuo”. Come si vede, qui l’Arcadia si fa garanzia di eccellenza poetica, ma non è terra di consolazione o di fuga dalla realtà. Nell’egloga ottava il primo dei due pastori che si sfidano in quel testo, Damone, canta la serenata che un giovane senza nome (ma da non confondere necessariamente con il cantore Damone) fa alla sua bella, nel giorno in cui questa bella, di nome Nisa, si sta sposando, però con un altro… La serenata è un canto diciamo così “formalizzato”, che ha strutture ben riconoscibili, e un ritornello che le dà ritmo. In questo ritornello si celebrano i “canti del Menalo”: e poiché il Menalo, come sappiamo, è monte dell’Arcadia – ne abbiamo già parlato – l’espressione equivale a dire “canti arcadi”, ossia “canti pastorali”. La connessione fra l’Arcadia e l’attività pastorale (che era, ed è tuttora la principale fonte di reddito di quella regione) è di antica tradizione; come nell’egloga settima, anche qui vediamo che “canto arcade” equivale a dire “canto di alto livello artistico”, e come tale è appropriato alla situazione disperata del cantore, che con la sua serenata, pur senza crederci troppo, ancora vorrebbe convincere Nisa dell’errore che, secondo lui, lei starebbe facendo. Nulla ci dice invece che la scena sia ambientata in Arcadia: anzi, quando viene descritta la cerimonia nuziale riconosciamo momenti tipici delle cerimonia romana; e quando viene descritta la proprietà del personaggio che dice Io, questa proprietà ha di nuovo tratti molto romani. L’Arcadia non è nemmeno terra di fuga o di consolazione: il pastore che la cita nel suo ritornello non intende trasferirsi da quelle parti, e dal suo canto non trae nessuna consolazione (Nisa alla fine sposerà il suo fidanzato, che non è lui; e nel finale lui dice semmai di volersi suicidare…). L’ultima menzione dell’Arcadia ci riporta alla decima egloga. Cornelio Gallo, abbandonato dall’amata Licoride, che ha seguito un altro nelle lontane regioni bagnate dal Reno, pensa che solo i pastori arcadi abbiano l’abilità necessaria per raccontare, un giorno, le sue sofferenze d’amore; e non nasconde che gli sarebbe piaciuto vivere fra loro, perché ben altra sarebbe stata la sua esistenza, se, in Arcadia, si fosse dedicato alla caccia, e con la caccia avesse evitato i mali d’amore (come si sa, dall’Ippolito euripideo, il mondo di Diana e quello di Venere sono tradizionalmente contrapposti fra loro). Qui c’è la sola menzione dell’Arcadia non solo come terra di valenti cantori, ma anche come possibile rifugio di una vita che però, per svolgersi in quella terra, avrebbe dovuto essere totalmente diversa da quella che Gallo è cosciente di avere invece vissuto. L’Arcadia, cioè, nemmeno qui è presentata come un’opzione di fuga o di rifugio: è una vita alternativa, che sarebbe bello fosse stata così, ma che si sa non essere stata così, e non poterlo nemmeno diventare. Non per nulla, tutta la parte che rievoca questa (im)possibile esistenza si sviluppa come congiuntivo desiderativo – con tanto di utinam a rimarcarlo! – ai tempi dell’imperfetto e del piùcheperfetto, ossia ai tempi della irrealtà riconosciuta come tale.

    E vengo al quarto e ultimo mito: è quello dell’assenza di realismo nelle Bucoliche. Tutta una serie di dettagli già evocati in questi due post ci dimostrano che il mondo delle Bucoliche sa essere fortemente realistico. E’ realistica la descrizione di sé che fornisce Titiro, con i vari stadi della sua vita, e con le attività economiche che hanno caratterizzato ciascuno stadio; è realistica la descrizione delle nozze di Nisa o della proprietà del suo innamorato senza speranza. Realistica è anche l’immagine del Mincio evocata nella settima egloga. Si potrebbe continuare: Coridone contrappone la propria inadempienza ai lavori minimi della campagna con una descrizione della campagna che invece ferve di lavori concreti: i mietitori, la servetta che prepara loro la focaccia rustica a mezzogiorno, i buoi che ritornano stanchi alla sera ecc. ecc. Anche la proprietà di Titiro, nella prima egloga, viene descritta con termini molto realistici, che includono il canale di confine e la siepe a separare dalle proprietà vicine, così come usava nella centuriazione della pianura padana. Molto tecnici sono i termini con i quali Melibeo rievoca la sua passata attività agricola, uno per tutti i novalia citati al v. 70 della prima egloga, che sono i campi lasciati a riposo dopo un anno di intensa produzione. Anche in questa direzione gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare. I post dedicati alle piante bucoliche ci hanno rivelato, a loro volta, che la flora descritta da Virgilio è una flora abbastanza realistica (tranne quando, già dallo stesso Virgilio, certe piante, come l’amomo, siano indicate quali esotiche); ed è una flora che individua abbastanza chiaramente la regione padana e la dorsale tirrenica dell’Italia, ossia i territori che, l’uno per nascita, l’altro per scelta di vita (Virgilio visse gran parte della sua esistenza fra Roma e Napoli, come testimonia lui stesso nel finale delle Georgiche), dovevano essere territori e panorami ben noti al poeta.

    ©  Massimo Gioseffi, 2020

  • Miti Bucolici I

    Miti Bucolici I

    Cerco di contribuire alla sospensione delle lezioni offrendo un po’ di materiale di riflessione su autori e temi latini. Dedico questo post a Virgilio e alle Bucoliche, in continuità con una serie di post già disponibili su questo sito (sul tema dell’Arcadia e sul tema delle piante presenti nelle prime sei egloghe), che, messi assieme, possono fornire una certa possibilità di lavoro.

    Il post, che per comodità di consultazione ho diviso in due, lo vorrei dedicare a sfatare quattro miti relativi alle Bucoliche. Parto dal primo, che chiamerò mito biografico. L’immagine delle Bucoliche che traspare da quasi tutte le letterature in uso nelle scuole italiane è quella di una composizione scritta in relazione alle espropriazioni dei campi avvenute dopo la battaglia di Filippi e l’accordo fra i triumviri vincitori, per ricompensare i veterani dell’esercito di Cesare. In questa visione tradizionale Virgilio, che aveva rischiato di perdere i suoi possedimenti, ma li aveva poi conservati grazie all’intercessione di Ottaviano, nella prima egloga darebbe spazio al proprio ringraziamento assumendo la veste di Titiro che, dopo avere rischiato a sua volta di essere allontanato dai propri beni, fu invece salvato dall’intervento provvidenziale (ancorché sollecitato) di uno iuvenis deus abitante a Roma. Questa lettura si scontra con almeno tre particolari. Il primo: tutto ignoriamo circa le proprietà di Virgilio, poiché il materiale antico che fa riferimento alla vicenda che ho appena raccontato non risale oltre l’età di Svetonio, cioè grosso modo duecento anni più tardi del (presunto) svolgersi dei fatti. Quel materiale ha quindi valore romanzesco, o – se vogliamo – può essere considerato al massimo come un tentativo di interpretare il testo virgiliano; ma non ha valore di testimonianza. Un testimone che vive 200 anni dopo i fatti che testimonia è, ovviamente, un testimone inattendibile. Quale fosse l’origine sociale di Virgilio, se avessero o meno lui e la sua famiglia delle proprietà terriere, se quindi il poeta sia stato coinvolto oppure no nelle espropriazioni, non lo possiamo dire. Quello che possiamo dire, secondo elemento di cui tener conto, è che i lettori contemporanei a Virgilio (delle Bucoliche ci parlano a brevissima distanza cronologica dal loro apparire due poeti vicini a Virgilio, e cioè Orazio nella decima satira del primo libro e Properzio nella trentaquattresima elegia del secondo libro) , quei lettori – dicevo – non mostrano nessuna conoscenza di una interpretazione autobiografica delle Bucoliche, e quando parlano di quell’opera la interpretano come una somma di storielle autonome e fantasiose. Terzo elemento: la struttura a perno sulla quinta egloga fa sì che alla prima egloga corrisponda, per analogia di argomento, la nona egloga, che infatti parla anch’essa di espropriazioni e di violenze avvenute in campagna. Il protagonista della nona egloga, Menalca, è un pastore rinomato per la sua abilità di canto, che aveva rischiato di perdere i propri beni, che era riuscito apparentemente a mantenerli in virtù della sua eccellenza poetica, ma che poi alla fine li aveva persi ugualmente. Se proprio vogliamo trovare un riferimento autobiografico nelle Bucoliche, dovremo dire che questa egloga si adatta molto di più a Virgilio della prima: perché nella prima Titiro è sì raffigurato a cantare la bella Amarillide, ma non sembra un cantore di eccellenza riconosciuta, ammessa da tutti, come invece è Menalca e come i poeti a lui contemporanei ci assicurano fosse riconosciuto Virgilio. Se però Virgilio è Menalca, l’egloga nona ci dice che il poeta, dopo avere pensato, o forse sperato, di conservare i propri beni, li avrebbe lo stesso persi anche lui… Io vorrei però prescindere per questa, come per la prima egloga, da ogni lettura autobiografica, per limitarmi a osservare questo: il lettore continuativo delle Bucoliche – quello cioè che non si limita a un unico testo, inevitabilmente distorto – leggeva nella prima egloga che esiste una possibilità di salvezza (dalla violenza delle espropriazioni), possibilità che Titiro ha saputo sfruttare, Melibeo no. Quello stesso lettore, andando avanti nell’opera, leggeva però anche che chi aveva pensato di salvarsi in virtù delle proprie doti o di aiuti particolari, in realtà non si era salvato, ma aveva subito il destino di tutti. Proprio in conseguenza di questo, i personaggi dell’egloga nona possono esprimere una morale generale dal tono piuttosto sconsolato: i canti, la poesia, valgono, come difesa personale, tanto quanto valgono le colombe all’arrivo dell’aquila, e cioè niente. Alla lettura biografica delle egloghe proporrei allora di sostituire una letture che chiamerò “generazionale”, introducendo l’idea che ogni generazione (un concetto storicamente labile, ma che ha una sua efficacia pratica) vive un proprio shock – per la mia generazione, affacciatasi alla comprensione della vita nei primi anni Settanta del Novecento, ad esempio, questo shock fu sicuramente il terrorismo, non a caso continuamente rimosso nel seguito della nostra vita, tanto che ancora oggi, quando viene chiamato in causa per qualche ragione, genera reazioni impreviste e a volte sorprendenti (per i giovani del 2020, spero che lo shock che ne influenzerà i comportamenti anche a distanza di decenni non debba essere il virus che ci sta tenendo tutti a casa). Le Bucoliche, a mio parere, non vanno lette in chiave personale, ma come la risposta di un grande poeta a quello che aveva immediatamente percepito essere lo shock della propria generazione. Ricordo che le Bucoliche costituiscono quello che oggi noi chiameremmo un “instant book”, ossia un libro scritto a brevissima distanza di tempo dagli avvenimenti che descrive, composto a ridosso dei fatti storici che hanno dato loro ragione di essere. Non sappiamo se Virgilio avesse campi o no, se ne sia stato espropriato, o no. Ma certamente lui aveva visto le espropriazioni e le aveva viste arrivare non dalla parte dei nemici (i Pompeiani o i Cesaricidi). Le espropriazioni, con quanto di illegale hanno portato con sé, erano state opera degli eredi di Cesare, erano state opera di chi si pensava amico e continuatore dell’azione cesariana. Inoltre, Virgilio le espropriazioni le ha viste arrivare e abbattersi su persone senza colpa; ha visto che comportavano la perdita di ogni bene e della propria identità sociale (Melibeo è costretto all’esilio; Menalca, un tempo proprietario, rimane sì sui terreni che erano stati suoi, ma nella veste di mezzadro, costretto a pagare la decima a un possessor che nulla ha fatto per lavorare i campi). Virgilio, infine, ha anche imparato che se all’inizio le espropriazioni sembravano un evento gestibile, perché ammettevano diversità di reazioni e di comportamenti, poi si sono rivelate una violenza generalizzata, che ha annullato qualsiasi diversità, contro la quale niente è servito di difesa, e nessuno se ne è potuto salvare. E’ di questo allora che parlano le Bucoliche, e si capisce perché, a distanza di oltre duemila anni, esse siano ancora un’opera ritenuta degna di essere letta (perché ogni generazione, prima o poi, si ritrova in circostanze simili), laddove se si riferissero ai fatti privati di Virgilio poco ci interesserebbero oggi. Partendo da questa ottica, capiamo anche perché Titiro sia descritto nella prima egloga con termini molto realistici e precisi, che però non corrispondono all’immagine che Virgilio aveva al tempo delle Bucoliche: nel 40 (un anno di comodo), Virgilio ha trent’anni e, come attestano i suoi tria nomina, è cittadino romano fin dalla nascita; Titiro invece è vecchio, ha la barba bianca, ha vissuto varie avventure amorose, è stato a lungo schiavo e si è riscattato solo di recente. Capiamo anche perché nell’egloga Melibeo abbia altrettanto spazio di Titito, se non di più, e perché al suo lamento sia dato altrettanto spazio che al ringraziamento di Titiro, se non di più…

    Il secondo mito che possiamo a questo punto sfatare è quello del valore celebrativo delle Bucoliche. Le Bucoliche non celebrano Ottaviano, del resto mai nominato nell’opera; e non celebrano (come pensavano i commentatori del IV secolo) i tresviri agris dividundis che avrebbero concesso a Virgilio/Titito di conservare i propri beni. Questa seconda affermazione si smonta facilmente: se l’egloga prima non si può leggere in chiave autobiografica, non c’è ragione di ringraziamento. Aggiungo che un collega espertissimo di queste cose, Fabio Stok, in un bellissimo articolo ha dimostrato come la carica di tresviri agris divendendis in realtà non sia mai esistita, sia un’invenzione di comodo della scuola tardoantica. Quanto a Ottaviano, mi limito a dire questo: nel libro virgiliano l’unico personaggio politico ricordato più volte, con tanto di “nome e cognome”, è Asinio Pollione, citato nella terza egloga come poeta, come esperto di poesia, come svolgente la funzione di patronus verso altri giovani poeti, e anche verso i due giovani poeti che si scontrano fra loro nell’egloga (nessuno dei quali è necessariamente Virgilio, ma uno dei quali ha nome – guarda caso! – Menalca…). Asinio Pollione è ricordato anche nella quarta egloga, per via del suo consolato del 40 a.C. Sappiamo che i consoli di quegli anni erano stati scelti con largo anticipo, secondo un metodo che anticipa il “manuale Cencelli” di buona memoria (Massimiliano Cencelli è un politico italiano della Prima Repubblica, credo ancora vivente, noto per non avere mai scritto il manuale che gli si attribuisce [e che non esiste come opera letteraria], ma che in realtà era una somma di regole di spartizione delle cariche pubbliche fra partiti e correnti politiche, all’interno dei partiti). In questo meccanismo, un console veniva scelto da Ottaviano, uno da Marco Antonio. I consoli del 40 a.C. furono Asinio Pollione e Gneo Domizio Calvino. Quest’ultimo era un partigiano di Ottaviano; Pollione era uomo di Antonio. Pollione è ancora ricordato, più dubitativamente, nell’egloga ottava, dedicata a un Tu che rimane senza nome, ma di cui si ricorda il trionfo (Pollione, proconsole in Macedonia nel 39 a.C., ottenne in effetti l’onore del trionfo). Accanto a questa figura, nota, evidente, ben definita – e schierata sempre con Antonio! – nel Liber bucolico compaiono altre due figure che invece non hanno nome, ma di cui si ricorda solo la funzione: il puer della quarta egloga e il iuvenis deus della prima. Una buona lettura di quei testi suggerisce di lasciare le due figure nel loro ruolo di funzioni, un puer che deve rinnovare il mondo e un deus che ha salvato – o sembra avere salvato – Titiro. Meglio evitare, cioè, di dare loro un nome. Se però proprio vogliamo invece puntare a una verità storica, dovremo ammettere che l’identificazione più probabile, fra le molte, spesso fantasiose, che sono state proposte per il puer della quarta egloga, vede in quel bambino il frutto (auspicato, ma non ancora prevedibile con certezza) del matrimonio fra Marco Antonio e Ottavia, la sorella di Ottaviano. Il matrimonio si celebrò nel 40 a.C., l’anno del consolato di Pollione, sotto i cui auspici l’evento è quindi messo. Da quelle nozze nascerà un figlio l’anno dopo, ma sarà una bambina, non un bambino: Antonia, la futura madre di Germanico. Allora, anche questo puer senza nome, se gli vogliamo dare un nome, rischia di essere legato più ad Antonio – che ne sarebbe il padre – che a Ottaviano, che ha solo il ruolo di zio materno (lo zio che, come sappiamo – lo ha dimostrato in un suo libro Maurizio Bettini – ha meno peso nella famiglia, in opposizione allo zio paterno). E il deus? Rimane figura senza nome, forse anche perché era conveniente lasciarlo così. Segnalo solo che iuvenis per i Romani è un termine ambiguo: si definisce iuvenis, per tradizione, qui iuvat rem publicam, prendendo le armi e combattendo da adulto. Quindi è un termine che, nel 40 a.C. , si prestava perfettamente al ventitreenne Ottaviano; al trentaseienne Pollione; ma anche, perfino, al quarantatreenne Antonio. Quanto a deus, è il termine con cui, nella lingua comune, si definisce il proprio patronus (Pollione dunque?), ma con cui Titiro rimarca più volte che è lui a voler indicare così il suo protettore, quale che questi sia. Dunque, nessuna delle tre possibili identificazioni ottiene, dal testo, più forza delle altre…

    ©  Massimo Gioseffi, 2020

  • Le piante delle Bucoliche – VI

    Le piante delle Bucoliche – VI

    Man mano ci addentriamo nel Liber virgiliano, troviamo situazioni e piante già incontrate in egloghe precedenti. La sesta egloga è speculare alla quarta: una profezia che dall’hic et nunc del poeta (il consolato di Pollione) volge lo sguardo verso un futuro umanamente lontano, in una; una narrazione che dal formarsi del mondo dal Caos indiscriminato arriva fino alla stretta contemporaneità del poeta, nell’altra. La sesta egloga racconta, sotto forma di mito (come la quarta sotto forma di profezia), la Storia del mondo, dalle origini all’oggi di Virgilio, simboleggiato dalla proclamazione a poeta dell’amico Cornelio Gallo. Nelle trasformazioni che hanno dato origine al mondo non mancano le piante: viene da quel contesto la frase Incipiant silvae cum primum surgere (v. 39), adottata, come sappiamo, quale titolo del libro di Gigliola Maggiulli, che ci fa costantemente da guida.

    L’egloga ha struttura complessa. I primi sei versi servono di introduzione programmatica; al mondo agreste riporta l’immagine di Thalia, la musa della commedia e, per estensione, della poesia bucolica, che non erubuit silvas habitare. Dal v. 6 al v. 12 c’è una dedica, a un Varo tradizionalmente identificato nel giurista cremonese Alfeno Varo. In questa sezione due, e di tradizione, sono i richiami al mondo vegetale. Il flauto del poeta è indicato con l’immagine usuale della canna, tenuis harundo, v. 8; la poesia virgiliana è sintetizzata nel richiamo alle myricae, v. 10, e al nemus, v. 11, in modo del tutto simmetrico a quanto visto nell’egloga quarta alla quale, dunque, rimando (nemus è, come sappiamo, interscambiabile con silvae, il termine attestato nell’altra egloga).

    Dal v. 13 al v. 30 si estende la cornice propriamente detta. In essa si racconta di come due pastori (pueri, v. 14), con l’aiuto della ninfa Egle abbiano costretto il ritroso Sileno a donare loro un canto da tempo promesso, sorprendendolo al mattino, ancora sotto l’effetto delle abbondanti libagioni della sera precedente (Sileno era stato tutore di Bacco, e da questo suo ruolo conserva un’evidente passione per il succo dell’uva). La scena si ambienta in aperta campagna, nei pressi dell’immancabile grotta (v. 13). Pochi, però, gli elementi vegetali: sul capo di Sileno pende, secondo una consuetudine greca, una corona di fiori, che si era soliti porre in testa in occasione del convivio (v. 16). I fiori della corona servono ai due pastori per ricavarne dei legacci, vincula, parola e situazione più volte insistite (vv. 19 e 23). Si tratta, ovviamente, di legami molto fragili, quasi scherzosi, più di parvenza che reali. Ma Sileno d’altronde, una volta svegliatosi e capita la situazione, non sembra contrario a offrire il suo canto. Il volto del semidio al risveglio è rosso, perché così l’ha dipinto Egle, v. 22, utilizzando come colorante il succo delle more selvatiche, il rubus ulmifolius. La ragione del gesto nel complesso ci sfugge; ma certo Sileno, così dipinto, assomiglia più che mai a una statua oracolare.

    (more di bosco in fase di maturazione)

    L’ultimo riferimento botanico di questa prima parte si riferisce all’effetto del canto di Sileno, che fa sentire la sua azione su creature e animali selvatici (Fauni et ferae, v. 27), ma anche sulle piante. Le rigidae quercus ondeggiano muovendo ampiamente la loro chioma, come per assenso alle parole del semidio (v. 28).

    (quercus virgiliana [roverella], riconosciuto come
    albero monumentale, nel comune di Maglie, Lecce
    )

    Anche il finale dell’egloga presenta elementi di cornice (vv. 82-86). Del canto di Sileno si dice infatti che è un canto famoso, che era stato composto da Apollo – il dio della poesia – che se ne avvalse mentre viveva sulle rive dell’Eurota (il fiume di Sparta e della Laconia tutta, sulle cui sponde il dio corteggiò inutilmente Dafne e amò tragicamente Giacinto). L’Eurota si era fatto interprete e memoria di quel canto, lo aveva insegnato alle piante di alloro che sorgono numerose lungo il suo corso, e da quelle piante, presumibilmente, lo deve avere appreso Sileno. Il legame alloro/Apollo è comunque tradizionale, così come quello alloro/poesia, visto che di corone di alloro si incoronavano i vincitori delle gare pitiche, che prevedevano competizioni per musicisti e poeti.

    (il fiume Eurota)

    Veniamo al canto vero e proprio. Sileno rievoca la formazione del mondo, con linguaggio fortemente epicureo. Le piante sono, come s’è detto, un elemento di questo processo, ma non particolarmente insistito (vv. 31-40). In seguito, Sileno traccia una storia dell’umanità dalla conquista del fuoco al diluvio universale (l’ordine, nell’egloga, è inverso), al mito degli Argonauti e della nave Argo, la prima a solcare i mari. Dal v. 45 in poi, Sileno si concentra sulla figura di Pasifaë, la mitica moglie del re Minosse di Creta, che, per una vendetta di Afrodite, si innamorò di un bianco torello con il quale, alla fine, concepì il Minotauro. Virgilio si interessa soprattutto alla parte dolorosa della storia, quella dominata dall’impossibilità pratica di un’unione fra una donna e un toro, e dal dolore che ne consegue nell’animo di lei, dominato da una passione forzatamente insoddisfatta. La vicenda si presta a introdurre diversi elementi vegetali: mentre Pasifaë vaga incessantemente sui monti, alla ricerca di un amato che sempre le sfugge (perché liberamente al pascolo; e perché, ovviamente, non capisce le attenzioni della donna), il torello, tranquillamente sdraiato sull’erba (molli fultus hyacintho, v. 53), rumina l’erba rendendola pallida con i succhi gastrici (pallentes ruminat herbas, v. 54), all’ombra di un leccio (ilice sub nigra), o, se proprio ne ha voglia, presta le sue attenzioni alle altre mucche della mandria. Il giacinto naturalmente non può sorreggere un toro, né costituisce il componente primario di un campo. Ma un campo ricco di giacinti selvatici (da non ricercare necessariamente in montagna) è un campo fiorito, florido, invitante, nel quale è bello pascolare e fermarsi a ruminare. Quanto al leccio, è una new entry nell’immaginario bucolico virgiliano. Noto anche come elce, appartiene al genere delle querce (quercus ilex è il suo nome scientifico), ed è, come quelle, pianta spontanea nei nostri climi, anche se diffusa soprattutto lungo la costiera tirrenica, di longevità secolare ed ampie dimensioni (può arrivare ai 20 m di altezza e ai 4/5 di diametro) e fitto fogliame scuro (nigra). Una ilex sovrastava, stante la testimonianza di Orazio, il fons Bandusiae probabilmente situato nel suo possedimento in Sabina (carm. 3, 13).

    (leccio solitario)
    (foglie e ghiande di leccio)

    Messa da parte una fuggevole allusione ad Atalanta e alle mele d’oro delle Esperidi (che non sono piante reali), v. 61, un altro mito ad alto tasso botanico, diciamo così, è quello delle sorelle di Fetonte che, dopo il recupero e il seppellimento del cadavere del fratello (fulminato da Giove per i disastri procurati guidando con imperizia il carro del Sole), addoloratesi oltre misura, furono trasformate in ontani. Il narratore esterno dice che, vv. 62-63, con il suo canto (o forse meglio, ‘nel suo canto’, all’interno dei temi trattati), Sileno le musco circumdat amarae corticis, e poi le solo proceras erigit alnos, “le circonda con l’amara corteccia di muschio” (non è il muschio ad avere corteccia, naturalmente, ma l’alnus; il muschio si estende sulla corteccia delle piante) e “le fa sorgere dal suolo trasformate in alti ontani”. L’ontano, alnus glutinosa, è una pianta arborea alta 10 e più metri, che vegeta un po’ in tutta Italia dal livello del mare fino ai 1000/1200 m di altitudine, con una certa preferenza per la regione delle Prealpi e dei laghi prealpini. L’ontano ama infatti i terreni umidi, acquitrinosi, quando non addirittura paludosi, e i corsi d’acqua: il che si adatta perfettamente al mito di Fetonte, secondo tradizione caduto nelle acque del fiume Eridano (sia questo, o no, l’attuale Po). La corteccia dell’ontano ha proprietà curative, e viene perciò utilizzata in decotti di odore gradevole, ma sapore amaro (amarae corticis).

    (alnus glutinosa)

    Quanto al muschio, si tratta di pianta pioniera, ossia tra le prime a insediarsi per colonizzare un ambiente, che ama anch’essa l’umidità ed è capace di trattenere una grande quantità d’acqua per lunghi periodi, per poi rilasciarla lentamente nell’ambiente circostante. Una pianta di muschio è formata da piccoli fusti e da foglie microscopiche, prive di tessuti vascolari e di vere radici. La funzione di ancoraggio al terreno è infatti svolta da strutture filamentose sotterranee, i rizoidi, attraverso i quali la pianta si espande a coprire la massima superficie possibile.

    (muschio su corteccia di conifera)

    La scena centrale dell’egloga è però costituita dall’investitura poetica di Cornelio Gallo, vv. 64-73. Essa si svolge lungo le rive del Permesso, il fiume che scende dall’Elicona, già luogo sacro alle Muse nella poesia esiodea. Proprio Esiodo è esplicitamente nominato come predecessore di Gallo. A celebrare la grandezza di questi, arrivano Apollo e tutto il corteo delle Muse. La cerimonia vera e propria viene compiuta tuttavia da Lino, mitico cantore e figlio di Apollo, già evocato nella quarta egloga. Lino ha sul capo una corona trionfale, fatta di generici fiori e di apio amaro, v. 68. L’apium graveolens, il banale sedano della nostra cucina (secondo altri, il prezzemolo), è pianta usata per incoronare i vincitori dei giochi Nemei, che al loro interno prevedevano anche gare di canto. I giochi erano stati istituiti, secondo la tradizione, per una circostanza luttuosa, e Lino, a sua volta, era considerato il fondatore del genere elegiaco, praticato da Gallo, ma che in origine era utilizzato soprattutto per le lamentazioni funebri. Ciò spiegherebbe l’aggettivo amarum, che mal si addice al sedano in sé (o al prezzemolo).

    (sedano coltivato)

    Nel corso dell’investitura, Lino consegna a Gallo una zampogna, indicata con l’immagine tradizionale dei calami, v. 69. Dello strumento si dice che con esso Esiodo fosse stato capace di smuovere le piante, come un novello Orfeo. L’immagine è espressa con la scena delle rigidae orni che, al suono della zampogna, abbandonano i monti e seguono il cantore (v. 71). L’ornus, o più esattamente fraxinus ornus, in italiano detto anche orniello o frassino della manna, è pianta di media altezza (in genere non supera i 10 m), diffusa un po’ in tutta Italia, ma specialmente nelle regioni alpine e prealpine del Nord, fino a un’altitudine di 1200/1500 m, e in quelle appenniniche, fino a un’altitudine massima di ca. 1000 m. E’ pianta robusta, capace di ripopolare terreni desertici, che si usa anche come ornamento dei giardini in virtù della sua ampiezza e della bella fioritura tardo primaverile, oltre che, alle volte, per il suo legname. Ha radici tenaci e robuste, che impediscono al terreno di franare, ma forma slanciata, che non impedisce alla restante vegetazione di crescere alla sua base. Il fogliame è leggero e viene mosso con facilità dal vento: caratteristiche che, nel loro complesso, possono spiegare sia l’habitat montano assegnatogli da Virgilio, sia l’idea di una complessiva rigidità, eccezionalmente però scossa, come sono scosse dal vento le chiome dell’ornus.

    (filare di fraxinus ornus in Ungheria)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – V

    Le piante delle Bucoliche – V

    L’egloga quinta presenta l’incontro di due pastori che, in amicizia e rispetto reciproco, decidono di celebrare con il loro canto un terzo personaggio, Dafni, che uno dei due riconosce addirittura come proprio maestro, e l’altro come figura comunque degna di lode, una sorta di nume tutelare di ogni comunità pastorale. Dafni era il protagonista del primo idillio teocriteo, nel quale veniva cantata la sua sofferenza d’amore, che lo aveva portato a morte. I due canti virgiliani proseguono l’opera di Teocrito: nel primo, il giovane Mopso rievoca il dolore degli uomini e della natura dopo la morte di Dafni; nel secondo, il più anziano Menalca celebra la rinascita e l’assunzione in cielo di Dafni, con la conseguente gioia della natura e della comunità pastorale. L’incontro fra i due pastori avviene per caso, ma il canto si svolge in un ambiente a noi ben noto, fatto di olmi mescolati a noccioli (v. 3 hic corylis mixtas inter consedimus ulmos), dove sono garantiti l’ombra e la frescura e non manca neppure una comoda grotta, la cui entrata è cosparsa di labrusca, v. 7. E’ questa la vite selvatica (vitis silvestris), della quale infatti sono messi in risalto i grappoli, rari, perché manca l’opera dell’uomo ad aiutarli nella crescita.

    (vitis silvestris nei boschi)
    (infiorescenza di vite silvestre)

    Nel corso dell’egloga distinguerei, come al solito, fra canto e cornice. Nella cornice non ritornano molti elementi agresti, se non sotto forma di immagine. Mopso promette un canto che, dice, vv. 13-14, avrebbe inciso nella corteccia di un faggio, pianta che sappiamo ricorrente nel paesaggio virgiliano e che, con la grotta, delinea quanto meno una serie di ondulazioni collinari. Menalca esalta la grandezza dell’amico, prima che questi dia inizio al suo canto, attraverso il paragone con un altro cantore, assente dalla scena, di nome Aminta, e osserva che Mopso eccelle sul rivale tanto quanto l’olivo predomina sul salice flessuoso, o la rosa sulla saliunca. Nel primo caso si tratta probabilmente di una superiorità qualitativa, che vede nell’olivo (qui ricordato come pallens. v. 16, in virtù del colorito del fogliame) la pianta totemica della civiltà mediterranea.

    (pianta d’ulivo da giardino)

    Il cromatismo viene messo in evidenza anche per la rosa (anzi, un intero roseto, v. 17), rossa, punicea, cui è contrapposta la saliunca, identificata di norma con la valeriana saliunca, una pianta erbacea, di basso fusto, dall’infiorescenza rada e poco significativa, che nasce spontanea in ambienti aridi e sassosi, specie di montagna.

    (valeriana saliunca)

    Altre metafore sono più generiche. Una volta terminato il canto di Mopso, Menalca lo proclama piacevole come dormire, stanchi, nell’erba di un campo (in gramine, v. 46). Mopso ricambia il favore, con un’analoga serie di immagini (vv. 82-84), nessuna delle quali tocca però l’ambito vegetale. Questo ritorna, solo superficialmente, nel riferimento allo strumento musicale adoperato da Menalca, un flauto, denominato, v. 85, come “canna”, cicuta; e nella descrizione del bastone pastorale con il quale Mopso contraccambia l’amico, vv. 88-90, lavorato e reso elegante dalla disposizione simmetrica dei nodi.

    Diverso è il caso dei canti. Mopso ricorda una natura addolorata, fatta di animali che non vanno più al pascolo, di ninfe in lutto (cui i noccioli, coryli, sono chiamati a fare da testimonio, v. 21), di montagne incontaminate e boschi intonsi che piangono anch’essi l’evento crudele, v. 28. Dafni è celebrato come un protos heuretes, un inventore/civilizzatore. E’ l’allievo di Pan, v. 59, che ha introdotto fra gli uomini il culto di Bacco, le feste a quel dio tradizionalmente associate, e il tirso, il tipico bastone delle Baccanti.

    (Baccante con un tirso, bassorilievo moderno)

    L’eccellenza di Dafni nel mondo pastorale è segnalata da una serie di immagini di maniera, vv. 32-34. Dafni era di ornamento alla comunità dei pastori, come le viti lo sono alle piante che le sostengono, i grappoli d’uva matura alle viti stesse, le spighe al campo coltivato. Anche il dolore per la sua scomparsa è espresso da una metafora agricola. Ai campi sono stati affidati, con la semina, grandia hordea, v. 36, ‘ricchi chicchi di orzo’, e invece ora, al loro posto, sorgono erbacce infestanti, v. 37, infelix lolium e steriles avenae. La semina è sempre un atto di fiducia, qui mal riposta. Hordeum in realtà è un termine generico, che nella classificazione moderna indica una trentina circa di specie, tutte graminacee. E’ difficile dire a quale si riferisse esattamente Virgilio. Certo si tratta di chicchi selezionati e ben scelti, sui quali era riposta la massima fiducia, che, senza l’evento luttuoso e imprevisto descritto nel canto, non sarebbe stata mal risposta. Quanto alle steriles avenae, non vanno identificate con l’avena coltivata, ma semmai con l’avena barbata, una pianta erbacea alta 30-80 cm, che cresce negli incolti e ai margini delle vie, con spighe setolose, dai chicchi piccoli e poco fruttiferi, quindi, ai fini della commestibilità. Allo stesso modo, il lolium sarà, con ogni probabilità, il lolium temulentum, ossia la zizzania, una graminacea infestante, con fiori a spiga rossa, che tende a mescolarsi e a confondersi con il grano – ma i cui chicchi hanno carattere intossicante.

    (avena barbata)
    (campo di steriles avenae)
    (lolium temulentum)

    Allo stesso modo, anche nel settore dei giardini e dei fiori da giardino, alla viola (mollis, ‘cedevole’, ovvero di basso fusto) e al narciso (purpureus, ‘rosseggiante’), che già conosciamo dalle altre egloghe, per effetto della morte di Dafni si sostituiranno ora il carduus e il paliurus dalle spine acute (vv. 38-39). Nel primo caso, c’è incertezza fra i commentatori virgiliani, che hanno identificato il carduus ora nella centaurea solstitialis (il cosiddetto “fiordaliso giallo”, un’asteracea spinosa, di carattere erbaceo, raramente superiore ai 5 dm, di carattere spontaneo e, anzi, spesso invasiva), ora nel cirsium arvense, il cardo dei campi italiano, che è sempre un’asteracea, più alta della precedente, con fiori compresi tra il rosa e il viola, anch’essa di carattere infestante. Il paliurus è invece comunemente identificato nella marruca, la pianta dalle cui spine, secondo tradizione, fu fatta la corona di Cristo. Si tratta di un arbusto, diffuso in tutta la macchia mediterranea, specie in ambiente collinare, che può essere alto anche qualche metro, con foglie difese da piccole, ma spiacevoli spine. Oggi relativamente poco diffuso nelle nostre campagne, un tempo era molto usato per le siepi di confine, sia per la presenza delle spine, sia perché pianta mellifera.

    (centaurea solstitialis)
    (cirsium arvense)
    (paliurus spina Christi)
    (dettaglio dei rami di paliurus)

    Più generiche sono le immagini del secondo canto, quello di Menalca. Una parte di esse risponde simmetricamente a quanto già detto da Mopso. Ritroviamo perciò silvae e rura che gioiscono per la rinascita e la nuova condizione divina di Dafni (v. 58); gli intonsi montes che lanciano grida di gioia per quell’avvenimento (vv. 62-63); generici arbusta che proclamano la divinità del personaggio (v. 64). Nelle feste pastorali per il nuovo dio, sono presenti crateri d’olio tra le offerte sacrificali (v. 68), e vino pregiato, di Chio, per le libagioni dei pastori (v. 71). Queste avverranno in casa durante l’inverno, all’ombra di un pergolato durante l’estate, indicata con la facile metonimia della presenza delle messi (v. 70). Ai vv. 76-78 ritroviamo un costrutto ormai noto e visto già più volte. Gli onori e le cerimonie per Dafni rimarranno in vigore fintantoché la natura seguirà il suo corso – la Natura, come sappiamo, è sempre il campo usato per indicare il ripetersi garantito e incontrovertibile di determinati fenomeni (rimando per questo a un precedente post di questo stesso sito, https://sites.unimi.it/latinoamilano/immagini-di-natura/ ). Qui l’idea è espressa con una serie di immagini che stanno fra l’agreste e lo zoologico: il cinghiale è animale da montagna, il pesce vive nell’acqua, le api si nutrono di preferenza di timo – che, come sappiamo dalla seconda egloga, è pianta profumata, e quindi particolarmente attraente per gli insetti e utile dunque come pianta mellifera – e le cicale di rugiada. Le cicale naturalmente non si nutrono di rugiada, ma di succhi vegetali e della linfa degli alberi. Quella usata da Virgilio è però un’immagine callimachea (fr. 1, 32-34 Pfeiffer), dietro alla quale sta la tradizione, già platonica (Fedro, 262D), della cicala come antico essere umano dimentico di provvedere al proprio cibo per amore verso le Muse.

    (ape che sugge un fiore di timo – ingrandimento fotografico)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – IV

    Le piante delle Bucoliche – IV

    La quarta egloga si apre con l’immagine vegetale più nota dell’intero libro: ai generici arbusta, già incontrati più volte, e alle altrettanto generiche silvae, vengono contrapposte le humiles myricae. L’aggettivo, già utilizzato nella seconda egloga per le capanne che poco si elevano dal suolo, è ben noto; la pianta indicata, lo è di meno. Di norma, myricae viene tradotto con ‘tamerici’, un genere di piante di cui esistono una sessantina di specie, molto diffuse in tutto il bacino mediterraneo, soprattutto nelle zone litoranee e prossime al mare. Possono assumere forma di arbusto o di albero, sono sempreverdi o a foglie caduche, nelle specie arboree raggiungono un’altezza di 15 m. L’esemplare più comune in Italia è la tamarix gallica, cespugliosa, ma che può comunque raggiungere i 5-6 m di altezza; anch’essa cresce di preferenza lungo le coste e i greti dei torrenti, in terreni sciolti, spesso sabbiosi. Molto comune allo stato selvaggio, serve però anche come pianta ornamentale dei giardini – con i nomi di tamerice, tamerisco, cipressina, scopa marina – e per il rimboschimento di luoghi sabbiosi, come barriera frangivento e per il consolidamento delle dune, perché è capace di sopportare la salsedine e vegeta senza difficoltà in terreni salini, fino a un’altitudine di 800 m ca. La natura legnosa del suo tronco e il fenomeno di lacrimazione che la caratterizza trovano conferma in quanto Virgilio dice delle myricae nelle egloghe ottava, v. 54, e decima, v. 13.

    (tamarix gallica, coltivata ad albero)
    (cespuglio naturale di tamarix gallica)

    Ma una pianta del genere si adatta solo in parte all’immagine iniziale dell’egloga, che prevede una netta contrapposizione fra la verticalizzazione delle silvae e  l’orizzontalità delle myricae, e le cose non cambiano nemmeno supponendo che Virgilio avesse in mente la forma cespugliosa di alcune specie. Per questo, nelle myricae del passo si è proposto di identificare qualche pianta a basso fusto, come potrebbe essere l’erica campestre, o comunque qualche altro elemento della stessa famiglia. Se infatti associamo più comunemente l’erica alle brughiere della Scozia o dello Yorkshire (si pensi alla sua ricorrenza in Wuthering Heigths, 1847), le oltre seicento specie in cui il genere si suddivide hanno habitat e conformazioni abbastanza variegati, e molte di loro, come l’erica arborea e l’erica scoparia, sono diffusissime sui nostri litorali, specie quelli tirrenici.

    (erica di campo)
    (erica di campo)

    Quanto all’egloga propriamente detta, essa, com’è noto, racconta la trasformazione del mondo a partire dalla nascita di un puer che resta innominato. Al fenomeno viene assegnata una precisa data, l’anno 40 a.C., l’anno del consolato di Asinio Pollione. La crescita del puer è seguita dal poeta per uno spazio di almeno trent’anni, quelli necessari a portarlo alla piena maturità. Nulla ci viene detto circa l’identità del bambino; ma l’indicazione cronologica, il riferimento iniziale ai carmina della Sibilla, la paideia che per lui viene ipotizzata ambientano certamente l’egloga in Italia, pur senza consentire ulteriori precisazioni. Il meccanismo messo in atto da Virgilio è fortemente innovativo: nella tradizione antica il progresso dell’umanità viene raffigurato di norma come un’inarrestabile decadenza e allontanamento da un’età eroica, e aurea, che sta alle spalle della nostra contemporaneità, e non davanti ad essa. Virgilio inverte l’ordine: l’età dell’oro delle origini sta per ripetersi, a breve giro di termine. Negli anni necessari al suo compimento, rimarranno certo alcune tracce della vita di ogni giorno, e quindi anche alcune attività lavorative, a travagliare la generazione di passaggio cui il poeta sente di appartenere. Fra queste attività non mancano quelle agricole, riassunte nell’incisiva formula del telluri infindere sulcos del v. 33. Anche il successivo venir meno di queste sopravvivenze è indicato con una serie di immagini agresti (vv. 40-45): la terra fertile (humus) non sarà più soggetta agli strumenti agricoli (non rastros patietur); la vite non dovrà più essere potata, azione che abbiamo già visto citata sia nella seconda che nella terza egloga; non servirà più arare i campi; né tingere la lana, perché gli animali al pascolo assumeranno spontaneamente i colori desiderati. A quest’ultima azione provvederanno coloranti naturali, come il murex (= la porpora), ed erbe particolari, come il lutum e la sandyx. Il primo termine individua la Reseda luteola, pianta pigmentosa, di color giallognolo, un’erbacea spontanea diffusa in tutta Europa, alta ca. 1 m, con fusto sottile e liscio, e fiori piccoli e variopinti. Il suo utilizzo come colorante giallastro (il lutum è propriamente la terra fangosa; Virgilio qui lo dice croceus, ‘color zafferano’) è ben noto fin dall’antichità.

    (reseda luteola)

    Qualche problema maggiore pone invece la sandyx. Plinio ne parla infatti come di un colorante di origine minerale, non vegetale, e pensa a un errore di Virgilio. Gli interpreti antichi del passo la definiscono invece un’erba, in parallelo al lutum; per questo si è pensato alla Rubia tinctorum, o robbia, dalla quale si ricava il cosiddetto ‘rosso di garanza’, un pigmento molto usato in pittura, che si ottiene dalle radici della pianta essiccate, frantumate e bollite in acido. 

    (rubia tinctorum)

    Messo da parte il facile uso metonimico di nautica pinus per indicare una nave al v. 38 (i pini fornivano, effettivamente, un pregiato legname da costruzione), le altre immagini botaniche dell’egloga si concentrano intorno alla serie di doni e di fenomeni naturalistici che dovrebbero accompagnare la nascita e la crescita del puer. Una parte di essi è del tutto generica: al v. 23 si ricorda che la culla stessa del puer offrirà blandos flores, ‘fiori profumati’, ma indeterminati. Al v. 24 si dice che, per effetto della nascita, verranno meno le erbe velenose, ma anche qui senza specificare nessun esempio. Altri fenomeni sono più precisi: intorno alla culla la terra produrrà, spontaneamente e senza bisogno di intervento umano, edera, baccare, colocasia e acanto (vv. 18-20). Delle quattro piante citate già conosciamo l’edera e l’acanto. Il baccar compare qui per la prima volta, ma sarà citato anche nell’egloga settima, v. 27, come pianta apotropaica contro i sortilegi. Già Plinio era incerto circa la sua identificazione; oggi si tende a farlo coincidere con l’Helicrysum italicum, un fiore della famiglia degli astri, dal tipico colore giallo lucente (così scrive anche Gigliola Maggiulli, che però usa poi la denominazione di Helicrysum sanguineum, una margheritacea che è fra i simboli odierni di Israele). L’elicrisio fiorisce in tutto l’arco mediterraneo, specie in terreni vicini al mare, rocciosi e poco fertili. In alcune specie è coltivato anche nei giardini, come pianta a fioritura estiva, le cui corolle, essiccate, servono per corone di lunga durata (ideali, quindi, come dono da mettere intorno alla culla).

    (elicriso in fiore)

    Nessuna incertezza circonda invece la colocasia, che già Plinio identificava con il kyamon, l’odierna Nelumbo nucifera, una ninfea diffusa in Egitto, comunemente nota come ‘fiore del loto’. Poiché anche l’acanto, cui si accosta, è, come sappiamo dalla terza egloga, pianta esotica, l’effetto virgiliano sta nell’unire nell’elenco piante comuni (edera e baccare), utili per farne corone, con piante ricercate, a impreziosire il dono. E’ possibile che, più che al fiore, Virgilio pensasse alle foglie della Nelumbo, che sono grandi fino a 60 cm, di colore verde brillante, fuoriuscenti dall’acqua per un metro e anche più. In questo modo, sarebbe ulteriormente giustificato l’accostamento con l’edera e l’acanto, piante non particolarmente pregiate per la loro fioritura.

    (colocasia o fior di loto)
    (foglie e fiori di loto)

    Nascita e crescita del puer saranno accompagnate da una serie di adynata. Ovunque, ad esempio, fiorirà il prezioso amomo, v. 25, al momento diffuso solo nei territori orientali (in Assiria, dice Virgilio: come sappiamo dalla terza egloga, sarebbe più esatto dire in India). Al v. 28 si promette che tutta la campagna (campus) comincerà a biondeggiare (flavescet, un incoativo di forte effetto) di messi, indicate con l’espressione sineddotica mollis arista. Le aristae, o ‘reste’, sarebbero propriamente i filamenti rigidi con cui terminano le spighe delle graminacee, e quindi stanno qui per l’intera spiga, e la spiga per il grano: ciò che vuol dire il poeta è che il frumento sarà reperibile ovunque, senza bisogno di coltivarlo.

    (spighe con reste)

    Subito dopo, Virgilio ricorda che l’uva rosseggerà da sola perfino sui cespugli spinosi, degli inculti sentes non meglio definiti. L’ultima immagine è però quella che più ci interessa. Le querce trasuderanno direttamente miele (roscida mella, ‘miele rugiadoso’) dalle loro dure cortecce. Le querce sono effettivamente piante spesso utilizzate dalle api come sostegno per i favi: sono ampie, resistenti, presentano al loro interno cavità ottime per la costruzione del favo. Ma Virgilio qui non vuole presentare un’immagine usuale e quotidiana, seppure amplificata nella sua misura, trasformando in fenomeno comune quello che, al momento, sarebbe solo un caso particolare. Quello che il poeta vuole piuttosto dire è che il passaggio attraverso le api, la loro nidificazione, la loro produzione del miele diverranno a breve, come nel caso del lavoro umano, completamente inutili, perché il prodotto finale, il miele, verrà realizzato spontaneamente, senza bisogno di nessuna lavorazione. E’ questa la prima intuizione della società delle api come immagine da utilizzare in parallelo all’immagine della società umana, secondo un procedimento che troverà maggiore sviluppo nel quarto libro delle Georgiche. Nella foto posta qui sotto, che conserva alcuni elementi di copyright, ma è offerta libera da diritti in internet, si vede, a ingrandirla bene, una grande quantità di api che coprono – quale che ne sia la ragione – il tronco di una quercia. Il prodigio dell’apparire improvviso di sciami su piante, siano o no delle querce, ricorre più volte nell’immaginario antico, e torna anche nell’Eneide, VII 64-67, fra i prodigi che annunciano l’arrivo di Enea e dei Troiani al re Latino.

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – III

    Le piante delle Bucoliche – III

    La terza egloga presenta la gara pastorale fra Menalca e Dameta, sotto l’arbitrato di Palemone. L’egloga è nettamente divisa in due. La prima parte vede il litigio, in presa diretta, fra i due pastori, incontratisi casualmente, passati rapidamente agli insulti reciproci, e alla fine pronti a dimostrare il proprio valore sfidandosi nel canto. La seconda parte, nella quale includerei anche le due battute di Palemone, è la gara di canto propriamente detta. Lo svolgimento è amebeo, a botta e risposta, e si estende per dodici battute di due versi ciascuna, per un totale di 48 versi. Palemone prima della gara ne fissa le regole, dimostrando però nello stesso tempo la propria abilità di cantore, e quindi la sua competenza a farsi giudice. Nella battuta finale, che suggella l’egloga, dichiara il verdetto: i due pastori si equivalgono, ed è impossibile scegliere l’uno piuttosto che l’altro. Palemone sancisce la fine della gara con una metafora agreste, v. 111: claudite iam rivos, pueri; sat prata biberunt, “chiudete i canali di irrigazione dei campi, perché l’acqua con cui sono stati irrigati i campi è sufficiente”. Il verso, nella sua interezza, o nelle due parti di cui si compone, è poi divenuto proverbiale.

    Per il resto, distinguerei fra le due parti di cui si compone l’egloga. Nella cornice i riferimenti agresti non mancano, ma non assumono particolare importanza o specificità. Sul luogo dell’incontro, ad esempio, e sull’ambientazione topica dell’egloga, nulla ci viene detto. Nella serie di insulti che i due pastori si scambiano, vv. 10-11, Menalca accusa Dameta – in un modo un po’ tortuoso, ma comunque abbastanza esplicito – di avere danneggiato le viti novelle di Micone (un terzo personaggio che resta ignoto: il nome, che ricorre nella settima egloga, v. 30, potrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo, a indicare un giovane ragazzo), con una mala falx, una falce ‘maligna, malevola, che agisce male’, per dispetto o, più probabilmente, per gelosia. Della vite e della sua coltivazione già sappiamo abbastanza dalle altre egloghe, ed è ovvio che tagliare i tralci quando sono ancora in crescita è un gesto poco amichevole. Vittima dell’ira di Dameta, assieme alle viti, è anche un generico arbustum, un cespuglio di non si sa cosa, forse l’intrico stesso delle viti, specificato subito dopo. A ricambio dell’insulto, Dameta accusa Menalca di avere distrutto volontariamente, per esplicita gelosia, l’arco del giovane Dafni, che era stato regalato al ragazzo da qualche non precisato rivale (magari anche lo stesso Menalca?). L’azione sarebbe avvenuta, vv. 12-15, ad veteres fagos, “sotto i vecchi faggi”, pianta che ormai sappiamo essere un elemento costante del paesaggio virgiliano. In questa sezione dell’egloga troviamo una sola pianta finora sconosciuta. Al v. 20 Menalca accusa Dameta di avere rubato a un altro pastore, Damone, il caprone che quello aveva guadagnato in una gara di canto e di essersi poi nascosto, durante la fuga e l’inseguimento, post carecta, ‘dietro i carici’. Dameta non nega il fatto, ma afferma che il caprone spettava a lui, e che Damone aveva vinto la gara senza meritarlo davvero. A noi comunque interessa il termine carecta. E’ un neutro collettivo, sul modello di salictum = salicetum, ossia la macchia di salici, nella prima egloga, v. 54. La pianta, di cui si individua una macchia, propriamente si chiama carex, e da Linneo è stata identificata con un genere di Ciperaceae, piante acquatiche, o comunque adatte a vivere su substrati umidi, che si rinvengono facilmente negli stagni e nei terreni acquitrinosi. Sono spesso piante infestanti dei tappeti erbosi abbondantemente irrigati e si distinguono per il colore chiaro, la compattezza, le foglie coriacee. Si trovano un po’ dovunque, specie nelle zone temperate. Virgilio ne riparla nelle Georgiche, 3.231, definendo la carex come acuta e come possibile pasto di un toro rimasto separato dal resto della mandria, proprio perché è pianta molto diffusa, ma che non si trova su terreni comuni. Nel nostro caso, è quindi come se Dameta si fosse nascosto, per eludere gli inseguitori, in qualche palude, celandosi nella vegetazione di contorno alla stessa, sapendo bene che nessuno l’avrebbe inseguito in un luogo così disagevole.

    (carex elata)

    Nella fase di cornice c’è un’altra apparizione del mondo vegetale. I due pastori, sfidandosi, decidono che cosa mettere in palio, come premio per il vincitore. Dameta propone una vitella della mandria che sta pascolando (è il premio che poi verrà scelto, e che a Dameta, pastore mercenario, che sta pascolando una mandria non sua, in fondo non costa molto). Menalca non accetta subito, perché teme di dover rendere conto dell’animale eventualmente mancante, al padre e alla matrigna, che a sera contano il bestiame. Propone allora delle tazze di faggio, cesellate con varie figure. Attorno a due personaggi umani (uno è l’astronomo Conone, l’altro non si sa bene chi sia), il fregio continuo è fatto di tralci di vite mescolati a foglie di edera. Della vite sono messi in evidenza i corymbi, ossia l’infiorescenza a grappolo. L’edera è pallens, il che individua l’hedera helix, a foglia bianca centrale, che è specie ornamentale e di maggior pregio.

    (infiorescenza della vite)
    (hedera helix)

    Dameta non accetta la proposta, perché è già in possesso di due tazze di uguale valore e uguale materiale, cesellate con l’immagine di Orfeo che trascina le selve con il canto e, come fregio continuo, con foglie d’acanto. L’attributo mollis, ‘flessuoso’, con cui Virgilio designa questa pianta, indicandolo così come adatto a un fregio che contorni la struttura circolare di una tazza, identifica l’attuale Branca ursina, una pianta acclimatata in Italia come pianta ornamentale dei giardini (i capitelli corinzi, com’è noto, ne riproducono le foglie). L’acanto cresce in terreni incolti e aridi, sotto forma di macchie di cespugli, dal livello del mare fino ai 700 m circa di altitudine. Le foglie erano usate fin dall’antichità contro le irritazioni cutanee, e anche per questo la sua coltivazione è sempre stata abbastanza diffusa.

    (acanto in fiore)

    Venendo alla parte propriamente detta della gara, va tenuto conto del carattere molto stilizzato della stessa. Già Palemone, nella sua battuta introduttiva, vv. 55-57, fa riferimento ad elementi piuttosto generici, per descrivere un locus amoenus entro cui svolgere il confronto: parla di mollis herba, di ager e arbos che parturiunt (una bella, ma facile metafora), di silvae che frondent, di annus (‘stagione’) formosissimus. Il primo termine agreste lo troviamo in un distico di Menalca, vv. 62-63, che ricorda alloro e giacinto come piante sacre ad Apollo (in alloro si metamorfizzò Dafne, vanamente amata dal dio; Giacinto era un giovane amato anch’esso da Apollo, e da questi inavvertitamente ucciso). Il giacinto è qui raffigurato come suave rubens, ‘rosseggiante’

    Dameta, vv. 64-65, ricorda invece la bella e vezzosa Galatea, che ama provocare i suoi possibili innamorati lanciando loro delle mele, per farsi notare, ma fugge poi, ritrosa quanto si conviene a ragazza di buoni costumi, a nascondersi fra i salici, quei cespugli vicini ai corsi d’acqua e delimitanti le proprietà romane, che già conosciamo dalla prima egloga, e che ben si adattano a Galatea, specie se Galatea fosse la ninfa marina, e non una qualsiasi pastorella (un dubbio che nell’egloga permane). Peraltro, Galatea si nasconde sì, come convenzione sociale vorrebbe, ma fa in modo che il pastore veda bene dove si è nascosta, e possa quindi facilmente raggiungerla e proseguire i loro giochi.

    In uno scambio di distici dedicati ai doni per gli amanti, Menalca ai vv. 70-71 promette di inviare a un suo puer non meglio identificato dieci mala aurea tratti da un albero silvestre, e altri dieci gliene promette per il giorno dopo. E’ discusso se si debba pensare a mele rosse molto appariscenti, di particolare maturazione e brillantezza; alle mele dorate delle Esperidi (un frutto mitologico); a qualche altro frutto specifico, e diverso dalle mele comuni, come potrebbero essere le mele cotogne, cydonia oblonga – anche se il loro sapore aspro le rende improbabili come pegno d’amore, ed è solo con la cottura che si enfatizza in loro la presenza degli zuccheri, utilizzati ad esempio per la cotognata, un dolce di carattere gelatinoso.

    (pianta di mele cotogne)

    Nei distici dei vv. 80-83 i due contendenti paragonano i rispettivi amati, Amarillide e Aminta, a cosa spiacevoli il primo (perché Amarillide è descritta irata), a cose piacevoli il secondo (perché Aminta è ben disponibile alla compagnia). Nell’elenco molti sono i riferimenti agresti: il vento è pericoloso per gli alberi, la pioggia per le messi pronte al raccolto; d’altra parte, ai campi coltivati piace l’irrigazione, alle pecore la lenta salix, il salice flessuoso, ai capretti l’arbutus. Si tratta dell’arbutus unedo, o ‘corbezzolo’ e ‘albatro’, una pianta cespugliosa sempreverde, molto frequente nella macchia mediterranea, dai frutti rossi e gialli, ma dai colori comunque sempre vivaci, commestibili e dolci al gusto.

    (cespuglio di corbezzolo)
    (il frutto del corbezzolo)

    In un makarismos indirizzato ad Asinio Pollione, protettore del poeta al tempo della composizione delle Bucoliche, Dameta si augura che in onore del suo patronus il miele possa scorrere a rivi, e l’ispido rovo – probabilmente la mora selvatica, ma il termine come già sappiamo è generico – possa produrre l’amomo, v. 89. Si tratta evidentemente di un adynaton. Quanto il rubus è senza pregio, tanto l’amomo, il cardamomo odierno (elettaria cardamomum), è frutto prezioso, di origine orientale, dai piccoli semi di sapore aromatico e bruciante, utile contro tosse, raffreddore, infiammazioni gengivali e mal di denti.

    (pianta di amomo)
    (frutti e semi)

    Al v. 82 Dameta invita dei non meglio identificati pueri, usciti per cogliere le fragole di bosco, a stare attenti al serpente (probabilmente, una vipera) che si nasconde / si può nascondere nell’erba.

    (fragaria vesca silvestris)

    Al v. 100 Dameta lamenta infine che il suo toro rimanga magro nonostante non gli manchi il pascolo. La causa di tale magrezza viene individuata nella passione amorosa, anticipando tutta quella sezione delle Georgiche in cui proprio gli amori fra bovini assurgono a simbolo della forza e della follia della passione amorosa. I codici parlano di un toro macer nonostante sia pingui in arvo o, a seconda dei testimoni, pingui in ervo. Quest’ultimo sembra il termine più esatto: arva per Virgilio sono di norma i campi coltivati, arati. Ervum è invece la moderna vicia ervilia, o vecciola, una leguminacea – dunque, una pianta ad alto valore nutritivo – simile alle lenticchie, ma soprattutto ancora oggi usata come mangime di alto potenziale per ovini e bovini.

    (vicia ervilia)

    Siamo all’ultimo passaggio. La gara si conclude con due indovinelli, che, nonostante i molti tentativi fatti, non hanno ancora trovato piena spiegazione. Dameta chiede quali siano le terre in cui il cielo è visibile per uno spazio non più vasto di tre ulne (alias tre cubiti: un cubito misura ca. 50 cm). Menalca risponde chiedendo in quali terre nascano i fiori che recano iscritto il nome dei re. Su quale fiore sia così individuato, non esiste dubbio: è il giacinto, che già conosciamo, e nei cui petali gli antichi vedevano le iniziali YA- e AY- dei nomi di Giacinto, appunto, e Aiace. Poiché però il fiore aveva, secondo il mito greco, questa doppia origine, dall’uno o dall’altro eroe, nell’incertezza di quale sia la soluzione caldeggiata da Menalca, l’indovinello resta forzatamente senza risposta.

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – II

    Le piante delle Bucoliche – II

    La seconda egloga ripresenta, naturalmente, alcuni elementi già incontrati nella prima. Come Titiro, anche Coridone canta all’ombra dei faggi. Non una singola pianta, in questo caso, ma un intero faggeto (inter densas fagos), attraverso il quale si conferma l’ambientazione montana dell’egloga (montibus et silvis studio iactabat inani). Questa ritorna anche in seguito, quando Coridone ricorda fra i possibili doni per Alessi i due capreoli trovati nec tuta valle, vv. 40-42 . Più difficile da interpretare il riferimento del v. 21 alle mille agnae che pascolano Siculis in montibus. Il richiamo alla Sicilia, da un lato, sembra un elemento di precisa identificazione topica, un dato che nella prima egloga mancava del tutto; d’altra parte, Coridone qui sta presentando una realtà che non trova conferma nel resto dell’egloga (l’inizio ci ha detto che non è un ricco pastore, proprietario di greggi: cfr. il precedente post “Mitomania e mitomani II”), dunque qualche dubbio è legittimo anche circa la precisazione geografica fornita: quelle greggi inesistenti si possono anzi tanto più amplificare, quanto più sono lontane, fuori dalla vista e dal controllo di chiunque. In ogni caso, il boschetto di umbrosa cacumina svolge la stessa funzione compiuta dal singolo faggio nella prima egloga, offrendo il riparo, all’ombra del quale è possibile il canto.

    Durante il proprio lamento Coridone offre di sé un’immagine differente: sta vagando sotto il sole cocente, alla ricerca di Alessi. E’ il tempo della mietitura; è l’ora del desinare. Gli arbusta, cespugli non ben definiti, proteggono le cicale che friniscono, v. 13; gli spineta, cespugli spinosi non meglio determinati anch’essi, fanno da riparo alle lucertole, v. 9. Una contadina prepara la focaccia che servirà di pranzo (nell’illustrazione dell’edizione Giuntina, Venetiis 1515, che serve da copertina, la porta invece in un canestro sul capo). Fra gli ingredienti si riconoscono l’aglio (alium cepa) e il timo (thymus serpillum), usati come condimento, e qualificati come herbae olentes, v. 11.

    (fioritura di timo selvatico)

    Nel complesso, le immagini vegetali dell’egloga si concentrano in tre blocchi. Il primo dipende da una certa sentenziosità di stampo elegiaco di cui Coridone si compiace spesso, fatta di similitudini e di comportamenti ripetuti, che è perciò il mondo della natura a fornire con una certa abbondanza. Da qui deriva ad esempio un costrutto come quello dei vv. 63-65, in cui Coridone ricorda l’inevitabile caccia che la leonessa compie nei confronti del lupo, il lupo della capretta e la capretta del citiso. Cosa questo sia, o meglio che cosa possa essere, l’abbiamo già discusso nel commento alla prima egloga. Nel passo in esame si conferma il suo carattere di pianta adatta al pascolo. Già in precedenza, v. 18, Coridone aveva però espresso attraverso un’immagine botanica un paragone fra Alessi e Menalca (un precedente suo amore, come sembrerebbe di capire). Alessi è più bello, perché candidus (il colorito nobile, da cittadino non costretto ai lavori agresti); Menalca era invece scuro di pelle, abbronzato, abituato alla vita all’aperto. Non si insuperbisca però Alessi per la superiorità: alba ligustra  cadunt,  vaccinia nigra leguntur, “i bianchi ligustri cadono al suolo – si intende: senza nessuno che li raccolga – i neri vaccini vengono raccolti”. Non è il colore a fare la vera differenza, ma l’utilità delle piante o, nel caso dei ragazzi, la loro disponibilità verso l’amante. In questo parallelo, il ligustro non pone problemi: il ligustrum vulgare è pianta cespugliosa (che può arrivare fino a 3 m di altezza), molto diffusa in tutto il bacino mediterraneo, in genere sempreverde e con dei fiori biancastri, poco appariscenti, a grappolo, che appaiono fra tarda primavera e principio dell’estate. Il ligustro oggi è abbastanza diffuso come pianta da giardino, ma non certo per la vistosità della sua infiorescenza, che nel complesso di una siepe tende a scomparire.

    (siepe di ligustro)
    (siepe di ligustro in fiore)

    Più difficile è identificare con certezza i vaccinia. Il termine ritorna al v. 50, in un contesto floreale (vd. infra), che ha fatto pensare all’identificazione della pianta con il giacinto, una bulbosa dal fiore primaverile, molto profumato e bello, che si coltiva tuttora a scopo ornamentale, anche dentro casa, e che fiorisce in quasi tutti i colori possibili e immaginabili, ma in natura vede prevalere le tinte scure.

    (giacinti ornamentali)
    (giacinto selvatico)

    Un’altra interpretazione vede invece nei vaccinia, citati anche nella decima egloga come nigra, i mirtilli. In questo caso, il parallelo con i ligustri, fiori candidi che producono bacche infruttuose, giocherebbe non tanto e non solo sull’opposizione di colori, ma anche sulla distinzione fra pianta fruttifera (il mirtillo) e pianta infruttifera (il ligustro, le cui bacche non sono commestibili). L’identificazione resta però incerta, ed entrambe le soluzioni proposte hanno i loro difensori.

    (mirtillo in fiore)
    (mirtillo)

    Il secondo ambito di riferimento delle immagini vegetali all’interno dell’egloga si riferisce a una quotidianità di lavori, rispetto alla quale Coridone si contrappone, o che si lamenta di avere interrotto per amore di Alessi. Già abbiamo visto la netta distinzione che si delinea, all’inizio, fra lui, che all’ombra canta senza speranza la propria passione, e i mietitori, che si riposano anch’essi, sì, ma dopo la fatica di una mattinata di lavoro. Anche in seguito, Coridone ricorda una serie di operazioni lasciate interrotte, o che potrebbe/dovrebbe riprendere, con maggior costrutto rispetto a un inutile lamento amoroso. Compare qui la vite semiputata (v. 70), “potata solo in parte” – la potatura della vite è prassi essenziale per la crescita e la produttività della pianta, ed è azione che si dovrebbe compiere a inizio primavera; se Coridone ancora non l’ha terminata alla stagione delle messi, è segno di grave incuria. La vite, in quel contesto, è descritta come in ulmo, secondo l’uso di farla crescere come rampicante intorno a un olmo. Vite e olmo legati fra loro (“maritati”, in termine tecnico) sono un’immagine ricorrente, anche nella tradizione poetica moderna, per una coppia particolarmente affiatata. La foto che propongo viene dalla valle del Chianti, in Toscana, dove si trovano ancora alcuni filari di questo tipo (non sono sicuro, però, che la pianta “marito” sia un olmo: del resto, in epoca moderna si sono usati anche l’acero campestre, il salice e l’ulivo). Oggi questa tecnica, che consentiva di risparmiare le spese d’impianto del filare e proteggeva la vite da eventuali colpi di calore, è pochissimo praticata. La produzione viticola è infatti molto più bassa di quella che si produce con il vigneto specializzato, a filari, mentre nella mentalità agricola ora domina la specializzazione produttiva, a scapito dell’autosufficienza delle singole proprietà; e la specializzazione favorisce, ovviamente, il vigneto a filare.

    Fra le altre azioni che Coridone si lamenta di avere fatto, e non avrebbe dovuto farle, o di non avere fatto a tempo debito, c’è quella di avere lasciato sfogare il vento (vv. 58-59: Austro, il vento tempestoso) sui fiori, non proteggendoli a sufficienza. I fiori da proteggere dal freddo ritorneranno anche nella settima egloga, v. 6. Dal quarto libro delle Georgiche intuiamo che non si tratta di una coltivazione a scopo estetico: il giardino di fiori profumati serve a stimolare le api alla produzione del miele, ed è un elemento indispensabile della villa romana. Ancora, come cura dall’amore infruttuoso per Alessi, Coridone si propone di tessere qualche oggetto con i giunchi di vimine, vv. 71-72: per esempio, immaginiamo, gerle o canestri, da utilizzare nella raccolta della frutta (così propone lo stesso Virgilio nel primo libro delle Georgiche, come attività da compiere nei momenti di riposo dai lavori dei campi), oppure da vendere al mercato. Coridone descrive poi un mondo di lavori intorno a sé, che abbiamo visto già fare capolino nell’immagine iniziale dei mietitori, ma che ritorna nel sottofinale attraverso l’idea dei buoi che tornano dai campi alla fine della giornata, portando, ormai è sera, l’aratro suspensum, ‘sollevato dal suolo’ (v. 66). In questo modo, Virgilio ci suggerisce la durata dell’egloga, visto che il canto di Coridone era iniziato a mezzogiorno, e ora il giorno sta finendo. Da ultimo: Coridone invita Alessi a condividere con lui la vita in campagna. Assieme potrebbero suonare sul flauto di Pan, indicato con facile sineddoche come cicuta, “la canna”, dal materiale che lo costituiva e che già abbiamo visto abbondare lungo le rive del Mincio (vv. 36-39). Coridone propone anche di humiles habitare casas insieme (‘abitare le basse capanne, che non si alzano dal suolo’, v. 29. Nella prima egloga Melibeo aveva descritto la sua abitazione come un tugurium); di cacciare assieme i cervi; di viridi compellere gregem hibisco, vv. 29-30. E’ questa l’immagine su cui concentrare l’attenzione. L’ibisco (normalmente identificato con l’althaea officinalis più che con il nostro ibisco domestico, hibiscus syriacus, importato in Europa solo in epoca moderna), appartiene al genere delle Malvaceae. E’ pianta molto diffusa in tutta Europa, ma specie in quella mediterranea; ama il sole, però vuole le radici all’ombra e all’umido, per cui cresce spesso lungo i fossi, i canali, gli argini, attorno alle case di campagna. Di tendenza invasiva, è tollerata dagli agricoltori perché foglie e radici sono utilizzate in erboristeria, come emollienti e calmanti, quindi come antidolorifici naturali. I fiori, piccoli ma colorati (a colori tenui: spesso bianchi o rosa, talvolta lilla o rossi), numerosissimi da luglio a ottobre, ne fanno anche una pianta ornamentale, da giardino. I fusti, di altezza a volte superiori al metro, ne consentono la coltivazione sia a cespuglio che ad alberello. Nel testo virgiliano, hibisco può essere sia dativo che ablativo. Nel primo caso, sarà un dativo di direzione: Coridone invita Alessi a spingere (compellere) il gregge verso l’ibisco, non perché le caprette si nutrano in modo particolare di questa pianta (peraltro, da esperienza diretta, le capre distruggono qualsiasi siepe appena commestibile; dei fiori dell’ibisco che abbiamo in giardino è molto ghiotta la tartaruga domestica), ma per indicare campi ricchi di flora, di cui l’ibisco si farebbe così simbolo. Con uguale procedimento, un campo primaverile è indicato, nella sesta egloga, v. 53, come ricco di giacinti, ossia fertile di vegetali. Se intendiamo hibisco come ablativo, dovremo invece pensare a un bastone ricavato dal fusto della pianta, il che è abbastanza realistico pensando al nostro ibisco, un po’ meno all’althea selvatica.

    (althea officinalis)
    (piante di althea officinalis)
    (ibisco siriaco ad alberello)

    Infine, ecco l’ultimo ambito botanico al quale fa riferimento Coridone. Nel presentare una serie di doni che dovrebbero allettare Alessi e invitarlo a trasferirsi in campagna, Coridone immagina come presenti alla scena (ma il suo è ormai una sorta di delirio onirico) delle Ninfe che portano canestri di fiori e di frutta, vv. 45-55. Nell’elenco c’è un po’ di tutto: fiori e frutti che si producono in stagioni diversi; colori e profumi che si mescolano fra loro. Proprio l’aspetto cromatico e quello olfattivo sembrano anzi avere guidato la scelta del cantore, perché sono caratteristiche costanti di pressoché tutte le piante citate, anche quando Virgilio sottolinei solo una di esse. Nell’ordine infatti troviamo: pallentes violae, le violette bianche di primavera, la viola alba da sottobosco; summa papavera, probabilmente i papaveri da campo, papaver rhoeas, non quelli da oppio, di cui abbiamo parlato in un altro post; il narciso, narcissum poeticum, bulbosa colorata anch’essa primaverile, presente sia in natura sia, di maggiori dimensioni, nei giardini coltivati; l’aneto profumato, anethum graveolens, erba aromatica dalla gialla infiorescenza estiva; la casia, fiore di incerta identificazione, comunemente interpretata come la lavandula stoechas; i mollia vaccinia di cui abbiamo già parlato; la calendola (calendula officinalis), per quanto riguarda i fiori; pesche (malum dalla tenera lanugo, preferibili alle mele cotogne spesso indicate al loro posto nei commenti), castagne, prugne, alloro e mirto fra le piante. Degli uni come delle altre fornisco una rapida rassegna fotografica. Inizio dai fiori.

    (viola alba)
    (papaver rhoeas)
    (narcisi da campo)
    (aneto in fiore)
    (lavandula)
    (calendula officinalis)

    Ed ecco ora i frutti. Tralascio le castagne, già presenti nella prima egloga, ma anche le pesche e le prugne, che immagino a tutti ben note, ricordando solo che il pesco (prunus persica) è pianta di origine orientale, diffusa nel Mediterraneo a partire dall’epoca alessandrina; il pruno, prunus domestica, nell’età di Virgilio era ancora una pianta ricercata ed esotica, importata di recente dall’Asia, e non nativa dell’habitat mediterraneo (dove pure aveva facilmente attecchito). Dell’alloro e del mirto ricordo il carattere profumato di entrambi; e il loro essere consacrati rispettivamente ad Apollo e a Venere, due divinità che attraverso le piante di riferimento vengono così, in qualche misura, evocate all’interno del canto, a suggellare, nel finale della scena, il suo carattere di canzone amorosa.

    (filare di laurus nobilis, l’alloro)
    (myrtus communis)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – I

    Le piante delle Bucoliche – I

    Inizio oggi un’ambiziosa serie di post, che vorrebbe passare in rassegna la flora presente in ognuna delle dieci egloghe virgiliane. Anni fa avevo progettato, con un’amica fotografa, un libretto che illustrasse le egloghe pianta per pianta. Non se ne fece nulla. Adesso, grazie a internet, il compito è più facile. Strumento indispensabile di lavoro sono le foto disponibili in rete e, per la parte scientifica, il volume di Gigliola Maggiulli, Incipiant silvae cum primum surgere (un verso della sesta egloga). E’ un libro utilissimo, in cui tutte le piante citate da Virgilio – non solo nelle Bucoliche – sono passate in rassegna una per una, per essere schedate, analizzate, discusse. Purtroppo, il fallimento della casa editrice che lo aveva prodotto e la data relativamente ‘antica’ del volume (Roma 1995) hanno impedito una sua adeguata diffusione e la messa in internet, che sarebbe stata cosa utilissima. In parte, cerco perciò di rimediare qui.

    Partiamo dalla prima egloga e dalle piante che vi sono nominate.

    Titiro suona sdraiato all’ombra di un faggio (v. 1). I faggi tornano nella seconda, nella quinta e nella nona egloga. Il faggio di Titiro è una pianta patula, ampia, che ‘si apre bene’, e che offre ristoro e protezione (sub tegmine). Il pastore, supino (recubans), suona il flauto, presumibilmente appoggiato alla grande corteccia dell’albero. Quello che a volte sfugge in questa immagine è che la fagus sylvatica, il faggio odierno, è pianta da habitat collinare e montano, piuttosto diffusa in tutto il paesaggio alpino e appenninico d’Italia, trovando il suo optimum abitativo intorno ai 900-1000 m di altitudine, anche se si conoscono casi eccezionali di faggeti (uno in Toscana, l’altro sull’appennino emiliano) che scendono fino a 150 m ca. sul mare. Insomma, il faggio non è una pianta di pianura: anni fa, la Banca Agricola Mantovana, oggi defunta, realizzò una strenna natalizia dedicata alle piante di Virgilio, e la foto del faggio andò a recuperarla lungo la valle del Chiese, nella zona del lago d’Idro, che credo sia una delle sedi abituali di seconde case dei Mantovani. Perché allora Virgilio dedica tanto spazio al faggio? La prima risposta possibile, è allontanare l’ambiente dell’egloga (e di tutte le egloghe) da ogni possibile interferenza con un paesaggio biografico. L’egloga racconta la storia di Titiro, non quella di Virgilio: e come Titiro è vecchio (e Virgilio nemmeno trentenne) o ex-schiavo (e Virgilio nacque libero, come attestano i tria nomina), così l’ambiente abitativo di Titiro non coincide, da subito, con quello di Virgilio (l’ager Mantuanus). Nella stessa ottica, il faggio si concilia invece con i monti, dalle cui pendici scendono le ombre della sera, nel finale dell’egloga (v. 83). Altra risposta possibile, è invece ricordare che i faggi sono ignoti a Teocrito, ma in greco fēgos è il nome della quercia (quercus robur), pianta ricorrente nelle Bucoliche, ma soprattutto pianta che gli antichi esegeti connettevano al verbo fagein, nutrire. La fagus virgiliana, come la fēgos greca, cioè, sarebbero piante arcaiche, primitive, connesse a un’idea di nutrimento naturale e spontaneo, da raccoglitori di frutti, che non conoscono agricoltura e fatica.

    (faggeto montano)

    Anche il nocciòlo (corylus) e la quercia (quercus) citati ai vv. 14 e 17 da Melibeo concorrono a un’immagine boschiva e da collina, se non proprio da montagna, almeno, ovviamente, nel loro habitat naturale. Nell’egloga il nocciòlo vede avvenire, sotto di sé, l’abbandono da parte della madre dei due piccoli capretti appena nati: in questo modo, una pianta che serve tradizionalmente alla nutrizione alimentare è testimone dello sfacelo, anche economico, portato dalle espropriazioni (spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit). La quercia, colpita dal fulmine, aveva pronosticato un simile scompiglio: la quercia è pianta solida, rigida, spesso utilizzata nelle similitudini per indicare un opporsi tetragono al destino. Ruolo che qui, simbolicamente, le viene invece meno.

    (quercia fulminata)

    Titiro, nella sua risposta, paragona Roma e la città conosciuta fino a quel momento da lui e da Melibeo, quella al cui mercato essi erano soliti recarsi, rispettivamente a un cipresso e a un cespuglio di viburno. Mi pare significativo che, nelle Bucoliche, nessuna di queste due piante torni più: quella di Titiro è un’immagine poetica, costruita su sapere comune, non su un panorama che si voglia in qualche misura ricostruire. Il cipresso (cupressus sempervirens) è scelto come simbolo di Roma per il suo svettare solitario, v. 25. Con i viburna Virgilio individua invece dei cespugli a basso fusto, ed è possibile che il termine avesse, per lui, valore del tutto generico. Il moderno viburnum lantana, detto anche popolarmente “lentaggine” (e lenta è l’aggettivo con cui Virgilio caratterizza qui i viburna: ‘flessuosi’), è pianta piuttosto diffusa in Italia centro-settentrionale, usata come ornamento dei giardini, ma presente anche allo stato selvatico, che arriva fino a 3/4 metri di altitudine, entro un habitat non superiore ai 1000 m di altezza sul mare. Fiorisce in primavera, con fiorellini bianchi, piccoli ma numerosi; per il resto, è pianta abbastanza insignificante, adatta a creare ombra o a fare siepe. Nei giardini odierni se ne conoscono sottospecie differenti.

    (viburno da giardino, coltivato a siepe)

    Possiamo ora passare velocemente sopra le pinus ricordate da Melibeo al v. 38, o su termini generici come poma (qualsiasi pianta da frutto; come frutti maturi, mitia poma, la parola ritorna al v. 80) e arbusta, un altro termine generico. Al v. 48 Melibeo descrive i beni di Titiro come una palude ricoperta di giunco, ossia di canneti: pianta da territorio paludoso, e che ben si adatta a descrivere i dintorni di Mantova (oggi bonificati), e un po’ tutta la pianura padana (anche Milano, fino all’età moderna, lo ricordo, era circondata da paludi).

    (canneto lungo le rive del Mincio)

    Più interessante è lo spazio che viene concesso, entro quel medesimo contesto, alla salix. Poiché di tale pianta si contano oltre trecento specie, è difficile dire a quella di esse si riferisca qui Virgilio. La più diffusa è la salix alba, cui fa seguito la salix viminalis, che assolvono entrambe le caratteristiche che riconosce loro il poeta. Intanto sono piante fluviali, che nascono spontanee in natura, ma sono anche coltivate dalla mano dell’uomo, specie a protezione di canali e rive di fiumi, per le loro capacità di consolidamento del terreno, cui impediscono di slittare verso l’acqua. La salix in effetti è, con i canali d’acqua, il confine usuale delle proprietà individuate dalla centuriazione romana. Quindi, quando Melibeo rievoca un Titiro felicemente addormentato inter flumina nota (v. 51: non necessariamente ‘fiumi’, ma qualsiasi ‘corso d’acqua’, anche i canali delimitanti la proprietà), vicino a una siepe di salici (vv. 53-54), alla cui ombra può tranquillamente dormire, cullato dal ronzio delle api (v. 55), di fatto sta descrivendo un personaggio beato, circondato dalle sue cose, al centro di beni di indiscusso possesso, entro i quali continuare senza pensieri la vita di sempre. Preciso che il cosiddetto ‘salice piangente’ (salix alba tristis) è una sottospecie di salix, assai più rara, estranea al paesaggio bucolico.

    (salix alba)
    (salix viminalis)

    La proprietà di Titiro si caratterizza anche per la presenza di un alto olmo, sul quale ha nidificato la tortora. Non è qui importante individuare esattamente la specie cui Virgilio poteva fare riferimento (la ulmus minor, ovvero ‘olmo campestre’, e la ulmus glabra, ovvero ‘olmo montano’ sono le due più quotate, con una preferenza per la prima); importante è il panorama complessivo che Melibeo viene nel complesso a delineare. Come abbiamo visto, i beni di Titiro sono delimitati da una siepe di salice e dai corsi d’acqua, chiamati anch’essi a fare da confine; includono terreni umidi e un po’ paludosi, o, al contrario, sassosi e morenici (v. 47), ma comunque sufficienti a fornire dei pascua; un pomario, nel quale si ritrovano alberi da frutta produttivi; e, presumibilmente più vicino alla casa, un olmo a proteggerla e difenderla, sul quale gli uccelli nidificano indisturbati. Quella che viene così descritta è la tipica fattoria romana, rispetto alla quale solo la fagus iniziale appare in contraddizione. L’olmo, qui pianta domestica, nelle altre egloghe tornerà in continuazione come supporto della vite, una tecnica di coltivazione effettivamente praticata nel mondo antico.

    (ulmus minor)

    Anche la proprietà di Melibeo doveva avere le stesse caratteristiche. L’orizzonte mentale di Melibeo è fatto di arva (campi arati) e agri (campi coltivati), novalia (campi messi a riposo nel ciclo della rotazione), segetes  e aristae (messi e spighe), terre ben coltivate (tam culta). Il pomario si precisa come fatto di peri e di viti (v. 73), per ognuna delle quali Melibeo conosce una specifica tecnica di coltivazione: la riproduzione ad innesto, e la disposizione a filari.

    (innesto del pero)

    Non mancano naturalmente nemmeno i pascua, o comunque i terreni di cui Melibeo può disporre per questo scopo. Essi includono una rupe (v. 76), una grotta (v. 75), i già noti salici e, piante finora sconosciute, i generici dumi (cespugli non ben identificati; un dumetum è, di norma, un roveto), e la florens cytisus, descritta qui come pianta da foraggio particolarmente apprezzata dalle capre, nella decima egloga come pianta mellifera di grande valore. La moderna cytisus (la ginestra di leopardiana memoria) non coincide con queste caratteristiche, e l’identificazione della cytisus virgiliana resta incerta. Probabile che si tratti della medicago sativa, la cosiddetta ‘erba medica’ dei nostri campi, una leguminosa foraggera per eccellenza e che, in quanto azoto-fissatore, arricchisce nuovamente il suolo in modo naturale, dopo l’impoverimento dato da precedenti coltivazioni di altre famiglie, ed è per questo molto diffusa nelle campagne italiane.

    (medicago sativa)
    (medicago sativa in fiore)

    Altri hanno invece pensato al Trifolium pratense, che ha le stesse caratteristiche della precedente, ma – a differenza di quella – meno si presta a terreni aridi e assolati, e ha necessità di una certa irrigazione: cosa che ben si adatta all’immagine della campagna paludosa e solcata da canali che Melibeo ha delineato fin qui.

    (trifolium pratense in fiore)

    Resta un’ultima pianta a chiudere l’egloga. Con un’offerta finale di ospitalità, Titiro invita Melibeo a restare per una notte presso di lui, promettendogli come cena formaggio, frutta e castagne. Il castagno appartiene anch’esso al gruppo delle fagaceae, come i faggi iniziali e le querce. Diciamo che l’egloga si chiude così con una certa circolarità. Benché si possa trovare già a un’altezza sul mare di ca. 200 m, e fino agli 800 ca., anche il castagno è comunque pianta che prevede un habitat ondulato, se non proprio collinare (ricordo invece che i cittadini ippocastani non hanno nessuna parentela diretta con il castagno e appartengono al genere della aesculus, originario dell’Asia e importato in Italia a puro scopo ornamentale).

    (castagneto nel Lazio)

    Possiamo provare a concludere qualcosa? Diciamo che a me sembra che Virgilio abbia descritto un paesaggio umano e sociale molto preciso, fatto di gesti, azioni, operazioni e anche tratti paesaggistici indiscutibilmente romani e legati alla sua epoca. Viceversa, quando si riferisce a un paesaggio naturale, che serva di ambientazione geografica, non ‘sociologica’ e storica, i tratti si fanno più incerti, e resta molto dubbio che egli volesse ritrarre una località precisa. Se però così non fosse, l’impressione è che tale località andrebbe cercata più nella parte settentrionale dell’attuale provincia mantovana, che non in quella meridionale: più verso le ondulazioni che digradano dal (o portano al) lago di Garda, che nella zona in cui il Mincio si avvicina al Po e vi si getta. In ogni caso, si tratterebbe di andare in cerca delle proprietà di Titiro e Melibeo, non di quella di Virgilio. E questo mi sembra che l’egloga lo sottolinei fortemente in ogni suo tratto.

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Arcadia sull’Hudson

    Arcadia sull’Hudson

    Riprendo il ciclo di post dedicati all’Arcadia, con una prospettiva un po’ inusuale, almeno a occhi europei. Trovatomi a New York per un convegno su temi bucolici, ho scoperto l’esistenza di una scuola pittorica che si chiama “Hudson River School”, un movimento artistico sviluppatosi in America nel cinquantennio che va, grosso modo, dal 1825 al 1875, in parallelo all’opera di letterati come Henry David Thoreau (1817-1862) e Ralph Waldo Emerson (1803-1882). Devo all’amico Carlo Bottone, allora risiedente a New York, sia la visita alle sale del Metropolitan Museum dedicate a questa scuola pittorica, sia una gita (che molto consiglio a chi si trovasse da quelle parti) lungo le rive dell’Hudson, un piacevole complemento e diversivo dal caos organizzato della metropoli americana. Un ricordo per me indelebile e graditissimo.

    A chi volesse notizie precise e scientifiche su quella scuola pittorica, segnalo gli ottimi siti del Metropolitan Museum – che offre 54 dipinti, tutti commentati, e altro materiale informativo – e della Wadsworth Collection (un museo di Hartford, nel Connecticut), consultabili alle pagine https://www.metmuseum.org/toah/keywords/hudson-river-school/ e https://www.thewadsworth.org/collection/hudson-river-school/. Io qui non voglio esibire una dottrina che non ho, e che del resto in rete si può recuperare abbastanza facilmente. Dalle considerazioni intorno a quei dipinti – quelli che ho visto, quanto meno – vorrei ricavare tre suggestioni, che a me paiono tre forme del riuso arcade operato dai pittori di quella scuola.

    Il primo caso: ci sono dipinti che, pur rappresentando paesaggi più o meno reali della Valle dell’Hudson, sarebbero illustrabili con versi virgiliani, anche se la loro origine non è mai da cercare in Virgilio ma in una (presunta) osservazione dal vero e/o in una riproduzione di modelli pittorici inglesi – Turner e Constable in prima linea. Dico presunta osservazione dal vero, sia perché i dipinti raffigurano, quando hanno un’indicazione precisa, più i luoghi vicini alle sorgenti del fiume, nella zona delle Adirondack Mountains, che non quelli nei dintorni di New York, e io quei luoghi non li ho visti; sia perché, pur conservando ancora oggi la valle, man mano ci si allontana da Manhattan, un aspetto prettamente bucolico, il paesaggio in centocinquanta anni si è comunque alterato, ed è difficile capire quanto quei dipinti siano fotogrammi reali, e quanto pesi su di loro il velo dell’idealizzazione, assai forte nella poetica di questi pittori. Ecco così, ad esempio, una perfetta illustrazione del virgiliano ipsae lacte domum  referunt distenta [uberacapellae, IV 21, nel dipinto di Asher Brown Durand intitolato River Scene e datato 1854 (in realtà sono boves e non capellae, ma il resto cambia poco); oppure, ecco l’ille meas errare boves, ut cernis di I, 9, raffigurato dal quadro Autumn Oaks di George Inness, ca. 1878; il grandioso panorama proposto da The Beeches, ancora di Durand, datato 1845, in cui il pastore che, giustamente, agit gregem secondo i precetti virgiliani richiama di nuovo in mente la prima egloga, pur ridotto com’è a elemento miniaturizzato sullo sfondo di questi alberi maestosi; o, sempre di Durand (1853), le mucche che si abbeverano inter flumina nota di High Point, Shandaken Mountains (una località dello Stato di New York, vicino alla attuale città di Olive). 

    (Durand, River Scene, 1854)
    (Inness, Autumn Oaks, 1878)
    (Durand, The Beeches, 1845)
    (Durand, The Beeches, 1845, part.)
    (Durand, High Point – Shandaken Mountains, 1853, part. )

    Vengo alla seconda tipologia di intervento, che è quella della illustrazione di presunti luoghi geografici dell’Arcadia, in genere più facilmente inventati che conosciuti dal vero (la Grecia di inizio Ottocento non è ancora una meta turistica troppo sicura). Ecco ad esempio Evening in Arcady di Thomas Cole (1845); oppure, dello stesso pittore, ecco Dream of Arcady, del 1838. Sono paesaggi ideali, non diversi da quanto avevano fatto, con l’Italia, i Poussin e i Lorrain in un’altra, più antica stagione, e non diversi da quanto, per certe regioni dell’Italia (la valle di Tivoli e la Sicilia) fanno ancora gli stessi pittori della scuola dell’Hudson. Riporto, a titolo di esempio, una veduta di Taormina dove, sotto al maestoso panorama dell’Etna, si alternano rovine vere e di invenzione (l’autore è sempre Thomas Cole, 1843).

    (Cole, Evening in Arcady, 1845)
    (Cole, Dream in Arcady, 1838)
    (Cole, View of Taormina, 1843)

    Il nome di Thomas Cole, 1801-1848, riporta alla terza e forse più importante tipologia. A lui si deve un ciclo pittorico di cinque dipinti, pensati unitariamente, con il titolo di The Course of the Empire, 1833-1836. I quadri sono monumentali (100 cm per 161, ma quello centrale 130 per 193 cm) ed erano stati pensati per essere disposti in un pannello che li racchiudesse tutti, da esibire poi nella casa del committente, tale Luman Reed. Ognuno ha un sottotitolo: Stato selvaggio; Stato arcadico o pastorale; La consumazione dell’impero (quello centrale e più grande); Distruzione e Desolazione. L’idea di fondo consiste nel rappresentare un’identica scena naturale nel suo evolversi: dallo stato di Natura, libero e felice; a quello arcade, in cui l’uomo è ancora perfettamente inserito nel ciclo della Natura; alla costruzione della civiltà, di cui si fa simbolo una fiorente città dai tratti romani; alla distruzione che la civiltà inevitabilmente comporta, perché sedentarietà, fissazione dei confini naturali, costruzione di edifici e case significano il fondarsi di un capitalismo che porta a dissidi, guerre, dissoluzioni. Come sappiamo da un post precedente, è l’idea, espressa nella vita di Virgilio scritta da Elio Donato, che le Bucoliche raffigurerebbero lo stato primitivo ma felice della società, perché i pastori hanno greggi proprie, ma non impongono divisioni al terreno, sul quale le greggi devono poter pascolare senza confini. Con la nascita dell’agricoltura e quindi delle Georgiche, si arriva alla divisione dei campi e al formarsi della proprietà privata, perché i campi non sono di tutti, ma, quando va bene, sono di chi li lavora. Questo sfocia poi nelle guerre e nelle distruzioni, di cui si sarebbe fatta immagine l’Eneide. Che in Virgilio ci fosse un simile progetto naturalmente è assai discutibile; così come non credo che Cole conoscesse Virgilio o Donato (benché, se conosceva Virgilio è anche possibile e addirittura facile che lo leggesse con il commento e attraverso il filtro di Donato, che spesso accompagnava le antiche edizioni virgiliane. Ma non ho nessun dato a riguardo di una possibile conoscenza di Virgilio da parte del nostro pittore, e non è cosa che si possa dare per scontata). Resta da segnalare come, in Virgilio sì e no, in Donato in modo più esplicito, in Cole pure, una medesima critica al mondo contemporaneo e alla società cosiddetta civile, e alle forme del vivere civile, passi sempre attraverso i medesimi luoghi, e un medesimo utilizzo dell’idea pastorale, se non proprio arcade. Questa è per me, delle tre forme di riuso prospettate dal post, quella sicuramente più interessante di tutte.

    (Cole, The Savage State ca. 1836)

    (Cole, The Arcadian or Pastoral State, ca. 1836)

    (Cole, The Consummation of the Empire, ca. 1836)

    (Cole, The Destruction, ca. 1836)

    (Cole, Desolation,ca. 1836)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Lettori in Arcadia

    Lettori in Arcadia

    Torno a occuparmi di Arcadia, prendendo spunto da una giusta osservazione presente nel commento alle Bucoliche di Virgilio curato da Andrea Cucchiarelli (Roma, 2012). Parlando di Arcadia, lo studioso osserva che dovremmo domandarci che cosa sapevano di essa i lettori di Virgilio, fermo restando che per un Romano del I sec. a.C. doveva trattarsi, probabilmente, di una terra vagamente esotica, poco turistica, nota al massimo di nome o giù di lì. Cucchiarelli stende un primo elenco di informazioni, che qui vorrei cercare di riprendere e ampliare. Mi sembra infatti che qualsiasi ragionamento intorno all’Arcadia virgiliana debba partire da una domanda di questo tipo, anche se la risposta è difficile da ricostruire, se non addirittura impossibile. Proviamoci lo stesso.

    L’Arcadia è una regione del Peloponneso centrale, prevalentemente montuosa, che oggi offre alcune rinomate località sciistiche. Molto boschiva, ricca di cipressi e querce, ha in queste il proprio simbolo totemico. Dalla sua conformazione geografica deriva l’idea di una regione conservatrice, come conservatore è, per via di Sparta, un po’ tutto il Peloponneso; ma, se possibile, ulteriormente tale, a causa del maggiore rigore morale riconosciuto di solito alla campagna rispetto alla città, alla montagna rispetto ai territori di pianura. Per i Greci la montagna è un mondo oscuro, il luogo della ferinità: gli abitanti dell’Arcadia vivono perciò nell’immaginario comune a uno stadio primitivo di civiltà. Per questo sono dediti alla pastorizia, attività resa del resto inevitabile dalla configurazione del loro territorio; per questo, sono esclusi da quel processo di civiltà che, nel bene e nel male, ha caratterizzato la restante umanità, che fu nomade o seminomade all’inizio; poi sedentaria e agricola; infine, urbanizzata e in lotta feroce fra comunità e comunità (è questa l’immagine del progresso che offre un biografo tardo antico di Virgilio, Elio Donato). L’Arcadia è invece vista come il luogo dove non esiste ancora la proprietà privata, o quanto meno non è ancora predominante, non è disegnata e imposta sul terreno, oltre che sulle cose, perché le greggi hanno naturalmente sempre un padrone, ma le terre pastorali sono prive di staccionate e mantengono confini incerti. Viene in mente, come possibile parallelo, il bel film di Elia Kazan, del 1947, Il mare d’erba (The Sea of Grass, da un romanzo di Conrad Richter), che giocava proprio sul motivo del conflitto agricoltori/allevatori nel Nuovo Messico del 1880, fondando lo scontro fra le due categorie su questa contrapposizione “terre aperte al pubblico utilizzo delle mandrie/terre chiuse per la coltivazione dei raccolti”, e facendone poi occasione, come è nella tradizione cinematografica, di un melodrammone familiare. In conseguenza di quanto detto, l’Arcadia è vista dagli antichi come la terra della pace che da questa situazione deriva, perché non ci sono beni da difendere né contro il vicino né contro il forestiero; è la terra più prossima alla mitica età dell’oro, insomma, prima dell’insorgere della civiltà e dei suoi mali.

    Il conservatorismo di questa regione si segnala per un altro elemento: l’Arcadia ha divinità proprie, a cominciare dalla declinazione specifica di Zeus Liceo, che ha culti di natura segreta, che ancora Pausania, 8, 38, 6-7, due secoli più tardi di Virgilio, rifiuterà di svelare. Identico discorso si potrebbe fare per Apollo, Liceo pure lui, o per le altre divinità tipiche dell’ambito pastorale, in primis Pan, con tutto il corredo di storie che a lui si riconnetteva. È invece incerto se i lettori di Virgilio conoscessero davvero la topografia dei luoghi di culto legati a queste divinità, descritti nella Periegesi da Pausania, e confermati dagli scavi archeologici americani dell’ultimo decennio. Ancora più improbabile è che conoscessero la storia della regione, o che se ne dessero pensiero: a lungo autonoma, l’Arcadia era stata poi assorbita nell’orbita di Sparta. Aveva avuto un momento di gloria dopo la battaglia di Leuttra (371 a.C.), attraverso la fondazione di Megalopoli (370) e della Lega Arcade, appunto, o come componente importante della successiva Lega Achea (come tale ne parla Polibio). Presto rientrata nell’orbita macedone, e quindi romana, aveva dato qualche filo da torcere a Roma (lo ricorda ancora Livio), ma da tempo aveva perso ogni interesse politico. Difficilmente, poi, i lettori virgiliani si saranno resi conto che il greco d’Arcadia ha particolarità sue proprie, quelle che oggi fanno parlare di un dialetto arcado-cipriota, una variante linguistica attestata in due aree periferiche di incerta assimilazione, a conferma della sopravvivenza di antiche popolazioni non del tutto sommerse dall’invasione unificante dei Dori – ancora una volta, un lascito dell’ambiente montano e della più facile sopravvivenza di antiche forme di vita entro i confini protetti delle valli. Quanto alla geografia, il Menalo, il Liceo, il Partenio erano le sue vette più famose, benché solo la prima tocchi i 2000 metri; Mantinea la località più celebre, non tanto per la battaglia del 418 (vittoria di Sparta su Atene e Argo, nella serie infinita della guerra del Peloponneso), quanto per quella del 362 (vittoria di Tebe su Sparta e luogo di morte di Epaminonda, fatti ricordati pochi anni prima di Virgilio nella biografia del generale tebano scritta da Cornelio Nepote). Oltre a Leuttra, erano certo note Tegea, già citata in un frammento di Pacuvio, Orcomeno, la palude di Stinfalo e la selva dell’Erimanto, luoghi nobilitati dalle imprese di Ercole. Prodotto tipico dell’Arcadia erano gli asini, di una razza particolare, avvezza alla fatica, conosciuta già da Plauto (nell’Asinaria). Fra le letture diffuse dalla scuola, e già dalla scuola antica, vanno ricordate la storia di Aglao di Psofide, l’uomo più felice della terra, che secondo Valerio Massimo e altri realizzò l’ideale di vivere tutta la vita nel suo e del suo, non dovere niente a nessuno, morire circondato dall’affetto dei figli; e il brano di Erodoto, 6, 105-106, secondo cui Fidippide, o Filippide, nel 490 a.C. stava percorrendo i 200 km ca. che separano Atene da Sparta per sollecitare l’intervento dei Lacedemoni in aiuto degli alleati attici, in prossimità dell’invasione persiana, quando, lungo le pendici del Partenio, incontrò Pan, che chiese nuovi culti in proprio onore, garantendo la vittoria degli Ateniesi in contraccambio. Quale che sia il significato del racconto, esso è alla base tanto della confusione (già presente in Luciano) fra questo Fidippide e l’anonimo soldato che percorse i 40 km fra Maratona e Atene per annunciare ben altro avvenimento; quanto del culto ateniese per Pan, per il quale fu subito eretto un altare ai piedi dell’Acropoli e furono introdotti opportuni riti e gare di canto, da taluni ritenuti una possibile origine dei canti pastorali. In quest’ordine di idee si inseriscono anche l’attenzione all’Arcadia offerta da certa epigrammatica greca – una fonte che sempre più riteniamo importante per le Bucoliche virgiliane – e la notizia di Polibio relativa alla diffusione del canto fra gli Arcadi, alla quale in epoca moderna tanta importanza è stata assegnata nel celebre libro di Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1951 (ma già Hamburg, 1946). Polibio 4, 19-21, in un passo in realtà più citato che letto nella letteratura successiva a Snell, dice che gli Arcadi hanno fama di umanità e ospitalità, e di pietà verso gli dèi, messa in dubbio da un massacro di guerra da lui rievocato. Un atto di tale ferocia si spiega però, a detto dello storico antico, con l’abbandono della pratica della musica come disciplina formativa, un tempo seguita da tutti i giovani arcadi, dalla fanciullezza fino ai 30 anni circa. La musica, afferma ancora Polibio, si era del resto resa necessaria in una regione montuosa e fredda, fatta di agglomerati distanti fra loro e isolati dal mondo, in quanto unica, possibile forma di aggregazione sociale, attraverso feste e cerimonie ricche di canti e di danze.

    Dall’ottavo libro di Plinio i lettori romani successivi a Virgilio (ma le notizie erano o no circolanti anche in tarda età repubblicana? Impossibile dirlo) avrebbero appreso altre cose sull’Arcadia: i culti per il lupo, ad esempio, animale sacro, venerato e temuto, con tanto di strani riti al limite della licantropia; oppure, la presenza di sacrifici umani, di nuovo prova di una ferinità e una religiosità accesa, ma particolare. Altro ancora potevano conoscere i Romani del tempo di Virgilio: la presenza di una comunità arcade sulle pendici antiche del Palatino, fin da una preistoria che si perde nel tempo, rievocata però, oltre che da Virgilio nell’ottavo libro dell’Eneide, dall’annalistica arcaica (Gneo Gellio e, probabilmente, Cassio Emina), da Varrone, Livio, Dionigi d’Alicarnasso e altri ancora. Il legame fra l’Arcadia ed Enea, di cui sarà traccia nell’Eneide la presenza non mai ben spiegata di un Arcade nel seguito di Enea, quel Patrone che viene …ab Arcadio Tegeae sanguine gentis (Aen. 5, 298-299), aveva però anche altre origini. In Arcadia esiste un monte di nome Anchisia, che la tradizione aveva collegato, ed era facile farlo, con il personaggio mitologico di Anchise. Da qui due varianti: una, che Anchise fosse morto alle sue pendici e lì fosse stato sepolto, lasciando il proprio nome alla località; l’altra, che Anchise fosse sì passato da quelle parti, così da lasciare il proprio nome al monte, ma in un diverso momento della sua esistenza, in giovinezza. Per spiegare questa possibilità, il mito, cui anche Virgilio aderisce, parlava allora di una deviazione di Priamo e del suo seguito in direzione dell’Arcadia, in occasione delle nozze di Esione, sorella del re troiano, a Salamina, o di una successiva visita a quella: deviazione che Virgilio trasforma in occasione per far nascere l’amicizia di Anchise con Evandro, il capo della comunità arcade stanziatasi poi nel Lazio, rinsaldata dal successivo incontro di Enea con Evandro, dopo il trasferimento di questi sulle pendici del Palatino. Quanto alla comunità arcade, la sua presenza nel territorio della futura Roma è vista da tutte le fonti che vi fanno cenno come un fatto normale e acclarato, un esempio di quella commistione di popoli che Roma riconosceva alle spalle della propria fondazione. In forma diversa, ma non troppo diversa, vanno ricordati la discendenza dei Sabini da Sparta, nota a Plutarco e a Dionigi d’Alicarnasso, oppure l’arrivo della gens Tarquinia da Corinto, ricordata da Cicerone. Nell’uno come nell’altro caso si trattava sempre di località del Peloponneso, forse a sottolineare il rapporto ideale avvertito da Roma con quella terra, terra di valori e di virtù militari e religiose, nelle quali i Romani potevano in larga parte riconoscersi, e delle quali sentirsi fieri (ricordo solo che il nome dei Sabini è connesso da Plinio, nat. 3, 108, a sebesthai, «venerare gli dèi»).

    Stabilito ciò, resta da chiedersi che cosa i lettori di Virgilio potevano sapere dell’Arcadia attraverso Teocrito. Nell’opera del poeta greco l’Arcadia è nominata tre volte: nel secondo idillio, vv. 48-49, come zona di produzione dell’ippomane (un’erba magica); nel settimo, vv. 106-108, in relazione ai culti che vi si celebravano per Pan; nel ventiduesimo, v. 157, come terra dai ricchi pascoli – è questo, del resto, l’idillio che celebra due “eroi” peloponnesiaci per eccellenza, Castore e Polluce. Una sola volta sono citate le montagne dell’Arcadia. Si tratta dell’idillio primo, ambientato chiaramente alle pendici dell’Etna stando a quanto si dice nei vv. 65-69, ma nel quale Pan è chiamato in soccorso da Dafni morente, che lo riconosce come dio cantore per eccellenza nel mondo dei pastori, e ai vv. 123-126 lo invita perciò a venirgli in aiuto, abbandonando il Menalo e il Liceo. Anche altrove, nel corpus teocriteo, si fa menzione di questa eccellenza di Pan, che sempre avrebbe diritto, per antonomasia, al primo premio nelle gare di canto (1, 3); che regola da sovrano riconosciuto gli altri pastori, e non ama che essi cantino quando lui non vuole, perché è stanco o di ritorno dalla caccia (1,16-18); ma che è pronto ad aiutare chi lo venera (5, 58-59), ed è addirittura disposto a farsi suo complice, se necessario, nelle conquiste amorose (7, 103-105). L’Arcadia, dunque, per Teocrito non è una terra di canti o di pastori cantanti: è la terra di Pan, dio pastorale e bucolico per eccellenza; ed è semmai Pan, non gli Arcadi, che si riconnette in qualche misura a un’eccellenza nel canto. Di questo, i lettori di Virgilio dovrebbero sempre tenere conto…

    Bibliografia minima

    Sull’Arcadia:

    A. Cucchiarelli, Publio Virgilio Marone. Le Bucoliche, Roma 2012, pp. 23-25;

    P. Gagliardi, Commento alla decima ecloga di Virgilio, Hildesheim-Zürich-New York 2014, pp. 44-49;

    M. Ferrando, Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico, Vicenza 2018.

    Sul dio Pan:

    Ph. Borgeaud, Recherches sur le dieu Pan, Rome 1979;

    M.C. Cardete del Olmo, El dios Pan y los paisajes pánico. De la figura divina al paisaje religioso, Sevilla 2016.


    © Massimo Gioseffi, 2019