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  • Una rilettura (post)romantica di Catullo

    Una rilettura (post)romantica di Catullo

    La passione del compositore Carl Orff (1895-1982) per la classicità, che risale all’età scolare, si indovina facilmente anche solo scorrendo i titoli della sua produzione: Orpheus, 1925; Antigonae, 1949; Trionfo di Afrodite, 1953; Oedipus der Tyrann, 1959; Prometheus, 1968; De temporum fine comoedia, 1973. Tale passione si accompagna a quella ancora più precoce (visto che data dall’infanzia) per il teatro, campo in cui Orff ha di fatto quasi esclusivamente concentrato i suoi sforzi compositivi. Nel 1930 dalle mani del musicista trentacinquenne escono due serie di Chorsätze a cappella, in cui vengono messe in musica alcune liriche catulliane. In particolare: nella serie denominata Catulli Carmina I, vengono intonati i carmina 85, 5, 51, 41, 8, 87 e 75 (in quest’ordine); nella serie denominata Catulli Carmina II (del 1931), il 46, il 101 e il 31. In questi due cicli il compositore, oltre a rivelare la sua predilezione per il poeta veronese, per la prima volta si serve del latino come lingua per i testi da musicare (qualche precedente era reperibile solo negli esercizi scritti per la scuola, il cosiddetto Schulwerk). Il primo dei due cicli è anche l’antecedente diretto di un’opera di più ampio impegno compositivo, completata solo nel 1943 e rappresentata all’Opera di Lipsia – rimaneggiata in una nuova veste – con il nome di Ludi scaenici Catulli Carmina. Per questa composizione Orff aveva  musicato anche i carmina 58, 70, 109, 73 e 32.

    Prima di analizzare le particolarità di quest’opera, pare opportuno chiarire quale sia la natura della forma compositiva cui il compositore si riferisce con l’indicazione di ludi scaenici. Infatti, come aveva già sottolineato Werner Thomas, amico e collaboratore di Orff, questa dicitura allude al Theatrum emblematicum barocco, in cui l’argomento tende ad assumere carattere antipsicologico e il coro a rivestire funzione didattica di commento. In effetti Orff, pur non avendo mai confermato questo riferimento, aveva già fatto uso delle Imagines magicae di origine barocca nella Lukaspassion (1932) e aveva lavorato fino al 1933 alla rielaborazione della commedia gesuitica Philotea (1643) di Johannes Paullinus, opera peraltro mai rappresentata vivente l’autore e la cui partitura è andata in seguito perduta. Per parte sua, Orff – riferendosi alla scena dei Ludi – preferì sempre richiamarsi semmai alla forma della commedia madrigalesca (sui precisi caratteri della quale, bisogna dire, regna un po’ di confusione), della quale verrebbero a suo dire recuperate le figure dei ballerini e il coro che canta a cappella. Ad ogni modo, al di là del riferimento più o meno esplicito a questo o a quel modello, è fuori di dubbio che i Catulli Carmina sono un prodotto dello studio e del recupero erudito, da parte di Orff , di forme del teatro barocco.

    Nel 1953 i Carmina vennero uniti con i precedenti Carmina Burana (risalenti al 1936) e il già ricordato Trionfo di Afrodite, realizzato invece per l’occasione. Le tre cantate vennero a costituire uno spettacolo unitario, andato in scena per la prima volta – con il titolo di I Trionfi  – al Teatro alla Scala di Milano. I tre testi condividono la stessa concezione scenica; in essi l’azione o manca del tutto o, se anche è presente, è in un certo senso simbolica e ambisce a significare qualcosa di universale, perché originario, elementare, e come tale comune a tutti e sempre valido. Per raggiungere questo effetto Orff si serve del suo personalissimo stile, che definisce “fatto musicale originario” (Urgrundmusik), in cui parola, suono e gesto scenico esprimono la stessa cosa. In questo senso, però, i Catulli carmina presentano almeno un paio di particolarità rispetto al resto del trittico. La prima è la presenza di un’orchestra che, quando presente, è di sole percussioni (prima volta per Orff) e che, raccogliendo un coacervo di strumenti extraeuropei già sperimentati in ambito didattico, contribuisce a creare un forte senso di alienazione spazio-temporale nell’ascoltatore. Poi, altra eccezione, i carmina presentano una struttura di teatro nel teatro, in cui la vicenda amorosa del poeta Catullo viene offerta di exemplum a un gruppo di giovani innamorati, che assistendovi dovrebbero liberarsi della propria passione. Per questo, nella composizione Catullo viene a essere contemporaneamente poeta, visto che fornisce lui stesso i testi del ludus, e personaggio, agendo, per così dire, il suo dramma.

    Il testo della cornice narrativa (Praelusio ed Exodium), entro la quale si inserisce poi la vicenda catulliana (Actus I, II e III), è tutto di mano di Orff (latino incluso), e suggerisce una buona conoscenza della letteratura e della cultura antica, da Plauto agli elegiaci (Properzio, Ovidio, senza contare, ovviamente, Catullo), all’imperatore Adriano. Orff fa anche uso di proverbi, e addirittura perfino delle epigrafi pompeiane (CIL IV, 9123 e CIL IV, 7621), probabilmente ritrovate nelle Pompeianische Wandinschriften di Hieronymus Geist (1936), o nell’edizione ad usum scholarum di Ernst Diehl (1910). Sulla scena appaiono due cori, iuvenes e iuvenculae, che dopo essersi reciprocamente dichiarati amore eterno (eis aiona, tui sum), cominciano a indirizzarsi inviti amorosi, a tratti esplicitamente erotici, innescando un entusiastico gioco linguistico fondato su un lessico di sapore elegiaco, pieno di diminutivi e vezzeggiativi (O tua blandula, blanda blandicula, tua labella ad ludum prolectant; O tua mentula cupide saliens, peni peniculus, velut pisciculus, is qui desiderat tuam fonticulam).

    (iuvenes et iuvenculae)

    Interviene però un coro di senes, che prima deride le parole dei giovani, poi definisce ingenuo tanto entusiasmo. Con l’obiettivo di istruire i giovani sull’illusorietà del sentimento amoroso, i vecchi introducono allora la vicenda del poeta Catullo.

    (senes)

    Ecco dunque comparire sulla scena il personaggio Catullo (Actus I), che si esprime solo tramite le parole delle sue liriche. Tuttavia, come accennavo prima, davanti agli occhi degli spettatori si trovano contemporaneamente due Catullo: il personaggio, che, essendo presentato dai senes (e quindi da Orff) col preciso obiettivo di avvalorare il loro punto di vista, risulta almeno in parte rivisitato, aggiustato per il fine narrativo; e il poeta, che, oltre a fornire i testi al personaggio, offre sfumature più numerose di quest’ultimo, potenzialmente variabili con il variare della conoscenza del Liber che ogni singolo spettatore può avere. Mi sembra quindi opportuno evidenziare alcuni esempi che possano dare conto dell’operazione che Orff ha compiuto intessendo un gioco ironico, consapevole o meno, con gli spettatori, che permette ancora una volta di problematizzare il rapporto della classicità con le epoche successive.

    Il racconto inizia con un coro che declama il carme 85, il celebre Odi et amo. Seguono la presentazione del protagonista e dell’amata Lesbia, e il loro duetto d’amore (scene I, II e III).

    (Odi et amo)
    (Vivamus, mea Lesbia, atque amemus)
    (Ille mi par esse deo videtur)

    Nella scena IV compare Celio, amico del poeta, al quale questi, offeso e preoccupato per aver assistito al mimo di Lesbia che danza insieme ad altri uomini, declama il carmen 58. L’identificazione di questo Celio risulta meno lineare di come è data dal compositore. Infatti, l’atteggiamento che il poeta tiene sulla scena nei suoi confronti porterebbe a riconoscervi il Caelius, flos Veronensum iuvenum del carmen 100, amico provato di Catullo, perfettamente a conoscenza delle sue sofferenze d’amore. Proprio in tal senso andrà dunque letto il Lesbia nostra del testo catulliano. Eppure, è ben nota la tendenza di parte della critica a interpretare quel nostra in senso letterale, riconoscendo in Celio il Marco Celio Rufo, oratore italico, non veronese, difeso da Cicerone nella Pro Caelio, anch’egli vittima dell’amore per Lesbia. Il riferimento ciceroniano è un’interessante prova extra-testuale, tanto più se si accetta che questo Celio sia il medesimo Rufo del carmen 77, lì definito amico ma traditore del poeta. Ancora più fitta si fa però la questione a problematizzare l’identità del Rufo del carmen 77, che certamente potrebbe essere l’oratore, ma che potrebbe anche essere tutt’altra persona. Dunque, nella migliore delle ipotesi i Celio in certo qual modo legati alle sorti di Lesbia e Catullo nel Liber sono almeno due, mentre nei Ludi scaenici Orff sembra riassumere nello stesso personaggio sia l’amico confidente, sia il traditore, che prenderà il posto di Catullo tra le braccia della donna amata nell’Actus II (scena VII). Dopotutto, è topica nel repertorio operistico e letterario la figura dell’amico presunto leale, salvo poi rivelarsi infido nel corso della vicenda. Ad ogni modo, l’operazione di Orff risulta arbitraria, e tanto basti.

    (Caeli, Lesbia nostra)

    Un’ulteriore interpretazione dei dati “biografici” contenuti nel Liber è riconoscibile procedendo oltre. Scoperto il tradimento di Lesbia e di Celio, in sogno (scena VI) e nella realtà (scena VII), il personaggio Catullo apre l’Actus III con spirito mutato. Intona nuovamente l’Odi et amo con cui si era aperto il ludus, ma questa volta alla fine del carmen, anziché presentarsi Lesbia, fanno la loro comparsa Ipsitilla (scena IX) e Ameana (scena X). Le due avventure amorose del protagonista vengono offerte agli spettatori come tentativi fallaci di consolarsi dell’abbandono della donna amata. Nella scena di Ispitilla (carmen 32) vi è ancora qualche traccia di affetto, deducibile sia dalla dinamica, che oscilla tra il piano e il pianissimo, sia dal fatto che viene inscenata la scrittura di una lettera privata indirizzata dal poeta alla donna. Questi due indizi potrebbero sottendere una relazione intima tra i due, ferma restando l’estrema fisicità che la lettera dipinge. In ben altri termini è presentata la vicenda di Ameana (carmen 41), dove non vi è nemmeno un tentativo pur fittizio di dolcezza. Piuttosto, i toni sono quelli di una pubblica duplice accusa rivolta alla donna, quella di essere puella defututa, e per di più disonesta. Ciò che mi interessa mettere in evidenza rispetto a questi episodi è però l’ordine in cui Orff sceglie di presentarli, immaginandoli entrambi successivi alla deludente esperienza con Lesbia, e consecutivi tra loro.

    (Amabo, mea dulcis Ipsitilla)
    (Ameana, puella defututa)

    Inutile segnalare che, invece, leggendo il Liber non vi è alcuna possibilità di sapere se i due episodi vadano pensati in quest’ordine, né se siano davvero successivi all’amore per Lesbia. Eppure, questa è la scelta del compositore, ed è ancora una volta una scelta squisitamente drammaturgica. Anche questa struttura narrativa, come quella dell’amico traditore, e forse anche più di quella, risulta infatti piuttosto nota. Il tentativo di vendicarsi della donna amata intrecciando relazioni di ripicca inesorabilmente fallaci è già motivo tibulliano (I, 5) e percorre tutta la letteratura occidentale, fino ai giorni nostri (nel repertorio operistico, ad esempio, si ricordi il cambio Lola/Santuzza negli affetti di Turiddu, in Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, 1890). Anche la presenza di più di una relazione amorosa, tra l’altro di tono sempre meno romantico, era già stata sondata – per esempio – da Jacques Offenbach nei suoi Les Contes d’Hoffmann (1881). Lì pure un poeta, artista e campione del romanticismo tedesco, offriva se stesso come exemplum ad alcuni giovani studenti, chiarendo come fosse stata la sequenza di tre amori, quelli per Olympia, Antonia e Giulietta, a portarlo a perdere l’anima e a scegliere, alla fine, di dedicarsi solo all’arte, preferendola anche alla tanto attesa, bellissima Stella. Le somiglianze con il Catullo orffiano sono, in questo caso, suggestive, ma non ci è dato sapere se il compositore avesse presente questo antecedente – e in fondo poco importa. Importa semmai notare che provando, come altri prima e dopo di lui, a riordinare la biografia catulliana a partire dagli indizi forniti dal Liber, indizi che egli riteneva sempre biografici, Orff abbia compiuto questa operazione seguendo uno schema tipico delle biografie sentimentali, alla formazione del quale sicuramente Catullo e gli elegiaci latini hanno contribuito e dal quale lo stesso Offenbach, e molti altri, possono più o meno involontariamente avere attinto.

    Per concludere, vorrei sottolineare un’altra scelta, più sottile, che mi sembra sottesa alla narrazione di Orff e che denuncia, come le altre, un certo grado di lavoro sul materiale catulliano di riferimento. Conclusi i tentativi di consolarsi tra le braccia di altre donne, e dopo aver intonato il carmen 8 (scena XI) per farsi forza nel chiudere i rapporti con Lesbia, il personaggio Catullo incontra nuovamente sulla scena la donna accompagnata da Celio, e finalmente la vicenda sembra prendere un’altra piega. Infatti, lei gli va incontro pronunciando il suo nome, mentre lui la respinge. Segue l’intonazione dei carmina 87 e 75 in un’unica soluzione, come già apparivano nel Chorsatz. In quest’ultima scena (XII), il protagonista pronuncia le dure conclusioni verso le quali lo hanno portato le estenuanti vicissitudini con la donna amata. Egli la accusa di essere venuta meno al foedus amicitiae, cui lui si sarebbe invece mantenuto irreprensibilmente fedele (così almeno dice), e pronuncia la celebre distinzione tra amare e bene velle, sostenendo che nec iam bene velle queat tibi, si optima fias, nec desistere amare, omnia si facias. Insomma, alla conclusione del ludus Orff sembra voler condividere questa distinzione catulliana, che di fatto assume i caratteri di un punto d’arrivo per il suo protagonista. Anche in questo caso, però, mi pare che l’antinomia catulliana venga adattata alle esigenze del compositore. Infatti, nel modo in cui la presenta Orff sembrano perdersi le implicazioni che i termini bene velle e amare portavano con sé sul piano socio-familiare del mondo latino, limitandosi a significare delle sfumature sentimentali e un punto di vista diverso dall’inizio per il personaggio Catullo, divenuto in un certo senso più consapevole. Del resto, questa era la posizione portata avanti dai senes, e la ragione stessa di proporre l’exemplum catulliano. D’altra parte, il riferimento culturale sembra essere sempre quello della biografia sentimentale: Catullo che respinge Lesbia, non è diverso da Hoffmann che respinge Stella alla fine dei Contes.

    Tornando a Orff, pare legittimo pensare che in questo quadro dei Trionfi il compositore, coerentemente con la concezione scenica dell’intero trittico, abbia voluto dipingere principalmente l’aspetto individuale e romantico dell’amore, con l’obiettivo di rappresentare un universale umano, pur mediato, come abbiamo visto, da un post-romanticismo narrativo in cui ancora trovava ispirazione all’altezza degli anni Quaranta. Infatti, la complessità apparentemente perduta dell’antinomia catulliana tra amare e bene velle ritorna con tutto il suo spessore, e con un esito inedito anche per il poeta latino, nel Trionfo di Afrodite, insieme con il recupero, da parte del compositore, della poesia di Saffo, di Euripide e dei carmina docta 61 e 62. Proprio l’ultimo quadro dei nostri carmina, l’exodium proposto alla fine dell’episodio di teatro nel teatro, introduce di nuovo i due cori di giovani che, dopo aver ripetuto l’eis aiona iniziale, aprono il rito nuziale inscenato nel Trionfo d’Afrodite e negli epitalami catulliani, con le parole Accendite faces.

    (Exodium)

    La passione tumultuante si è placata, il Trionfo successivo celebrerà la forza d’Amore incanalato in una relazione matrimoniale. L’amante di Lesbia deve farsi da parte…

    © Michele Genovese, 2019 (foto di Marcello Ferrario, 2009)

  • Mitomania e mitomani III

    Mitomania e mitomani III

     

    I casi esaminati in precedenza possono essere ritenuti esemplari di una mitografia (Catullo crea il mito “Catullo”, ossia il mito del giovane poeta vittima di amici ed amanti, costruito da Catullo il poeta; Virgilio crea il mito del mondo bucolico tormentato da Amore, di cui Coridone è solo il primo esponente), ma non di una mitologia. Vorrei allora dedicare quest’ultimo post a personaggi mitologici, la cui possibile mitomania è svelata o dalla contraddizione fra quanto essi affermano e quanto ci ha detto in precedenza il narratore (come nel caso di Coridone  e “Virgilio”, il narratore della seconda egloga), o dalla contraddizione fra quanto essi affermano e quanto ci ha detto una tradizione mitografica precedentemente attestata con sufficiente forza per divenire agli occhi del lettore Verità.

    Parto ancora una volta da Catullo, più esattamente dal carme 64. Ne do qui per scontata la struttura: in occasione delle nozze fra Peleo e Teti, descritte realisticamente come tipiche nozze romane, al momento della presentazione dei doni per gli sposi il Narratore esterno si sofferma a descrivere una coperta fittamente ricamata. La coperta a poco a poco prende vita, o meglio prende vita la situazione narrativa delineata dai ricami, con una voce esterna, il narratore, e una interna che a un certo punto prende a sua volta la parola. Si tratta di Arianna, abbandonata da Teseo sulle coste di Nasso, che si lamenta del proprio crudele destino. Cosa ci dice di Teseo Arianna? Ovviamente, che è perfidus, ìmmemor e crudelis, cioè usa sostanzialmente gli stessi aggettivi che abbiamo visto utilizzati nel carme 30 per Alfeno. Come questi, anche Teseo, a detta di Arianna, non è stato ai patti: ha preso quello che gli serviva, ma si è liberato della zavorra non appena possibile. Ha fatto dei promissa, ha lasciato sperare qualcosa (iubere), e ha permesso poi che i venti portassero via le sue promesse (tutte espressioni ricorrenti anche nel carme 30). Lei è invece la vittima, vittima di un foedus non rispettato, un foedus che si immaginava stabile, ma che la controparte ha brutalmente tradito, venendo meno a un investimento sentimentale ed emotivo di Arianna, e facendo crollare speranze e certezze (vv. 132-142):

    “Sicine me patriis avectam, perfide, ab aris
    perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?
    Sicine discedens neglecto numine divum,
    immemor a! devota domum periuria portas?
    Nullane res potuit crudelis flectere mentis
    consilium? tibi nulla fuit clementia praesto,
    immite ut nostri vellet miserescere pectus?
    At non haec quondam blanda promissa dedisti
    voce mihi, non haec miserae sperare iubebas,
    sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos,
    quae cuncta aereii discerpunt irrita venti…”.

    Nel seguito Arianna non fa che ripetere il lamento, solo dando carattere via via sempre più generale alle sue considerazioni (così non si comporta solo Teseo, ma tutti gli uomini maschi), arricchendo sempre di più anche l’elenco delle proprie passate benemerenze (vv. 143-153):

    Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,
    nulla viri speret sermones esse fideles;
    quis dum aliquid cupiens animus praegestit apisci,
    nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt:
    sed simul ac cupidae mentis satiata libido est,
    dicta nihil metuere, nihil periuria curant.
    Certe ego te in medio versantem turbine leti
    eripui, et potius germanum amittere crevi,
    quam tibi fallaci supremo in tempore dessem.
    Pro quo dilaceranda feris dabor alitibusque
    praeda, neque iniacta tumulabor mortua terra.

    Che cosa ci aveva però detto il Narratore di Teseo, e dei patti intercorsi fra i due amanti? Di Teseo, nella presentazione, si dice solo bene (vv. 81-85):

    Ipse suum Theseus pro caris corpus Athenis
    proicere optavit potius quam talia Cretam
    funera Cecropiae nec funera portarentur.
    Atque ita nave levi nitens ac lenibus auris
    magnanimum ad Minoa venit sedesque superbas.

    Di fronte alla difficoltà della patria (gli Ateniesi devono pagare un tributo di sangue a Minosse, re di Creta e padre di Arianna), Teseo si impegna in prima persona, come vuole l’etica romana; espone se stesso (suum corpus proicere optavit); pensa solo a vincere o a morire, se mai dovesse fallire. Di giochi d’amore non si fa parola, se non per dirci che è Arianna che, giovane e inesperta, non appena vede Teseo se ne innamora, perde la testa, non sa più chi sia e dove sia, exarsit e incenditur, sospirando, languendo, impallidendo, balbettando – tutti i signa amoris che ben conosciamo e ben conoscono i lettori di Catullo (vv. 86-102).

    Hunc simul ac cupido conspexit lumine virgo
    regia, quam suavis exspirans castus odores
    lectulus in molli complexu matris alebat,
    quales Eurotae praecingunt flumina myrtus
    aurave distinctos educit verna colores,
    non prius ex illo flagrantia declinavit
    lumina, quam cuncto concepit corpore flammam
    funditus atque imis exarsit tota medullis.
    Heu misere exagitans immiti corde furores
    sancte puer, curis hominum qui gaudia misces,
    quaeque regis Golgos quaeque Idalium frondosum,
    qualibus incensam iactastis mente puellam
    fluctibus, in flavo saepe hospite suspirantem!
    Quantos illa tulit languenti corde timores!
    Quanto saepe magis fulgore expalluit auri,
    cum saevum cupiens contra contendere monstrum
    aut mortem appeteret Theseus aut praemia laudis!

    Anche dei patti non si fa parola. Il Narratore si limita a mettere in evidenza l’investimento forsennato, eccessivo ed unilaterale della principessa cretese, che con il suo labellum (il diminutivo assicura che sia il suo) offre doni agli dèi e fa voti per la vittoria di Teseo, fino a mettergli in mano il ben noto filo (vv. 103-104):

    Non ingrata tamen frustra munuscula divis
    promittens tacito succepit vota labello.

    Così armato, Teseo vince la lotta contro il Minotauro e vince la lotta contro il Labirinto, forse anche più difficile della prima (vv. 110-115):

    Sic domito saevum prostravit corpore Theseus
    nequiquam vanis iactantem cornua ventis.
    Inde pedem sospes multa cum laude reflexit
    errabunda regens tenui vestigia filo,
    ne labyrintheis e flexibus egredientem
    tecti frustraretur inobservabilis error.

    Naturalmente, il filo è stato dato ed accettato, quindi un qualche accordo ci deve essere stato. Ma quali siano i termini dell’accordo il Narratore non lo dice. Le ragioni di ciò possono essere molteplici, anche solo di tecnica narrativa (ellenistica). Resta però che i foedera pattuiti ai quali Arianna si appella nel suo lamento, nella narrazione non ci sono. C’è lei che si sbilancia; c’è un filo che viene dato ed accettato, ma non ci sono le condizioni di questa accettazione. Anche la narrazione della partenza è piuttosto sbrigativa, e anch’essa si svolge tutta dalla sola parte di Arianna (vv. 116-123):

    Sed quid ego a primo digressus carmine plura
    commemorem, ut linquens genitoris filia vultum,
    ut consanguineae complexum, ut denique matris,
    quae misera in gnata deperdita laeta
    omnibus his Thesei dulcem praeoptarit amorem:
    aut ut vecta rati spumosa ad litora Diae
    aut ut eam devinctam lumina somno
    liquerit immemori discedens pectore coniunx?

    L’accoglienza  del punto di vista di Arianna, abbastanza indiscussa in tutta la critica (perché con gli occhi di Arianna la storia è stata raccontata da Catullo, naturalmente) ha determinato un passare sopra al controllo della veridicità delle parole di Arianna. Ma il poeta, in precedenza, ci ha detto che è lei a essere fuori di testa per amore. E allora, fino a che punto dobbiamo pensare che quanto ci dice sia vero, fino a che punto dovremo invece immaginare che, vittima di uno shock amoroso, di una delusione e una sovraesposizione sentimentale, non sia Arianna ad essere, più o meno coscientemente, preda della propria mitomania? Il dibattito è aperto…

    Il problema si ripresenta, anche più gravemente, con Virgilio. Nell’Eneide non mancano i narratori menzogneri: mentono di sicuro Giunone e la regina Amata, con quella che, seguendo Dupré, potremmo chiamare “mitomania maligna”; mente di sicuro Enea, che alla corte di Didone narra (o omette di narrare, a seconda dei casi) tutto ciò che gli conviene dire (o omettere), in accordo a quella che Dupré avrebbe chiamato “mitomania perversa”. Ma l’erede più diretta di Arianna è certamente Didone. Qui il narratore dice chiaramente che cosa pensa del comportamento della regina cartaginese. Nell’episodio fatale dell’incontro nella caverna, che dà inizio alla fase “attiva” dell’amore fra Didone ed Enea, egli chiama la resa di Didone una culpa (v. 172) e definisce “un pretesto” (per l’esattezza, usa il verbo praetexit) ogni riferimento successivo al coniugium. Ingannata dalle circostanze, e dal proprio stesso desiderio, Didone si crea nella propria mente una tipologia di legame che nella realtà non esiste, che è impossibile, e che Enea ha da subito indicato come tale. Questo è un passaggio che non andrebbe mai dimenticato (vv. 169-172):

    Ille dies primus leti primusque malorum
    causa fuit; neque enim specie famave movetur  
    nec iam furtivum Dido meditatur amorem:
    coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam.

    Il dettaglio invece viene spesso trascurato, per l’adesione sentimentale ed emotiva al punto di vista di Didone, che Virgilio ha voluto ci fosse, e nella quale normalmente cadiamo irretiti noi tutti. Ora, il problema è lungo e complesso, e non intendo sviscerarlo qui. Però c’è un dato significativo: il narratore ha espresso un esplicito giudizio; l’ha espresso quando l’irreparabile è appena avvenuto, e ancora non se ne conoscono appieno le conseguenze. La scelta di raccontare la vicenda successiva dal punto di vista della donna ci dice che Virgilio non assolve Enea; ma il verso in questione ci invita anche a dubitare di tutte le asserzioni successive di Didone. La regina cartaginese è senz’altro in torto, le sue pretese e argomentazioni sono nulle, rispetto alla verità della Storia (= Enea deve arrivare nel Lazio). Tutto quello che dice è fonte di suggestione ed auto-convincimento, reazione a uno shock emotivo non completamente gestito. Dunque, mitomania? Enea potrà ribattere, a ragione, vv. 358-359, nec coniugis umquam / praetendi taedas aut haec in foedera veni.  Su questo dettaglio il narratore non lo smentisce, e non lo smentisce nemmeno Didone nella sua replica, che pure lo rintuzza circa le altre parti del discorso. Certo, Virgilio è sempre un poeta sfuggente a troppo facili schematizzazioni: e la narrazione accosta questa verità, confermata dal giudizio di prima del Narratore, a quella che invece è una palese bugia di Enea, che nella stessa battuta dice (vv. 357-358): Pro re pauca loquar. Neque ego hanc abscondere furto / speravi (ne finge) fugam. E questo mentre invece noi lettori sappiamo che la fuga Enea aveva tentato sì di nasconderla, eccome!, vv. 288-295. Enea non è però un mitomane, è un (semi)bugiardo, con una verità certa e tante piccole bugie al servizio di quella; ma questo non cambia la situazione di Didone.

    Chi però meglio di tutti ha sviluppato il tema della mitomania “mitologica”, chiamiamola così, è certamente Ovidio. L’opera da prendere in considerazione sono, ovviamente, le Heroides. Come sappiamo, si tratta di lettere di eroine, quindici in tutto (le lettere doppie appartengono a una diversa tipologia, e qui non mi interessano). Tutte le eroine che scrivono appartengono al mondo del mito – tale è per me anche Saffo, la Saffo di Ovidio, quanto meno. Ognuna di loro si relaziona a fonti precedenti (Omero, Callimaco, Apollonio Rodio, Euripide e i tragici tutti, ma anche gli stessi Catullo e Virgilio, cui le lettere di Arianna e Didone chiaramente si rivolgono) e a miti ben attestati e sicuri – resi tali comunque dalla fonte precedente cui Ovidio guarda – e ognuna di loro cerca di convincere il suo uomo lontano, e spesso fedifrago (ma non sempre: Laodamia e Ipermestra, ad esempio, fanno eccezione, in parte anche Penelope) a tornare da lei. Vengo però alla mitomania, intesa come invenzione continuata e continua di bugie mitologiche. Le lettere sono lettere, non hanno quindi una cornice o un narratore che ci dica come dobbiamo leggerle. Ma i miti sono preesistenti. E preesistenti in una forma letteraria precisa, alla quale Ovidio guarda e con i cui interstizi si diverte a giocare. Veniamo a un  caso specifico. Ho scelto la lettera di Issipile a Giasone, la numero VI della raccolta. Siamo nel mito delle Argonautiche: Giasone a Lemno si è unito a Issipile, ha concepito con lei due gemelli (ma non lo sa), è partito spronato dai compagni per riprendere l’impresa del Vello d’oro. L’impresa è riuscita grazie all’aiuto di Medea, con la quale Giasone fugge verso la propria casa in Tessaglia. Il ritorno è lungo, lento, travagliato, e certamente non ripassa da Lemno. Dalla Tessaglia giunge sull’isola un hospes, che racconta a Issipile del ritorno dell’eroe in patria; lui sta ben attento a quello che dice, ma prima della fine si tradisce: Giasone è tornato con Medea, tenendosi ben lontano dall’isola. Ciò significa che Issipile per Giasone rappresenta ora, al massimo, un lontano ricordo. La donna decide perciò di prendere lo stilo in mano, e scrive la sua lettera.

    Le eroine di Ovidio sono tutte grafomani, raccontano molte cose… Issipile racconta la vicenda del suo incontro con Giasone. Le donne di Lemno avevano ucciso tutti gli uomini dell’isola. Quando vedono avvicinarsi gli Argonauti non sanno bene come accoglierli. C’è un’assemblea, in cui prevale il parere di lasciarli sbarcare e fare finta di nulla, mentendo circa l’assenza di abitanti maschi. Non è però questa la posizione di Issipile, che sarebbe a favore del rifiutare lo sbarco ai marinai (vv. 51-54):

    Certa fui primo—sed me mala fata trahebant—
         hospita feminea pellere castra manu
    Lemniadesque viros—nimium quoque!—vincere norunt:
         milite tam forti vita tuenda fuit! 

    Questo dettaglio non è unico e sicuro in tutte le attestazioni della leggenda: Igino, ad esempio, non vi fa cenno, in Valerio Flacco, invece, le donne combattono contro gli Argonauti che si avvicinano all’isola. La notizia cui allude l’Issipile di Ovidio si ritrova solo in Apollonio Rodio, per quanto ne sappiamo: ed è perciò questo il segnale che, come l’epistola VII va letta sulla falsariga dell’Eneide, o la X su quella di Catullo (e la I su Omero ecc.), così questa dipende da Apollonio. Issipile, peraltro, è una signora facile alla costruzione mitografica anche nel resto dell’epistola. L’impresa di Giasone, della quale naturalmente lei ha solo notizie lontane e di riporto, la racconta nel testo per ben tre volte, in termini sempre diversi: la prima, di cui assegna la conoscenza a una generica fama, è tutta favorevole a Giasone (vv. 9-14): i buoi sputa-fuoco di Marte si sono lasciati aggiogare dall’eroe, i giganti si sono uccisi fra loro, il serpente/dragone, pur sempre vigile, è stato vinto dalla destra del giovane. La seconda, assegnata all’hospes tessalo è una ricostruzione un po’ meno gloriosa (vv. 31-40): ritroviamo le stesse azioni di prima, solo amplificate nella misura, con i boves Martis che arano il terreno docili, i terrigenae che si uccidono civili Marte, il serpente che si lascia incantare… Solo che, chiaramente, l’ultima e più gloriosa azione non è più merito di Giasone, mentre fa capolino, sia pure con un ruolo non ancora ben definito, la venefica paelex che lo accompagna, cioè Medea. La terza ricostruzione è, per Giasone, la meno onorifica di tutte. Qui l’eroe non solo è scomparso da qualsiasi azione gloriosa; ma ogni azione è assegnata all’intervento di Medea (vv. 97-98): è lei che coegit tauros iuga ferre, è lei che feros angues mulsit, in maniera oramai aperta e definitiva.

    Torno però, per concludere, a quanto avevo lasciato in sospeso, cioè la descrizione del soggiorno di Giasone a Lemno. Dopo il dettaglio che avevo segnalato (l’assemblea delle donne che decidono se e come accogliere gli Argonauti), dettaglio che – lo ripeto – serve sostanzialmente a mettere in evidenza la fedeltà di Ovidio ad Apollonio, Issipile rievoca la partenza degli Argonauti da Lemno, e in particolare l’atteggiamento tenuto da Giasone. In Apollonio la scena è questa: c’è un breve discorso di commiato, in cui l’eroe non promette nulla, ma ringrazia e saluta Issipile e le fa promettere che, in caso di nascita di un figlio, lo manderà appena possibile in Tessaglia, dai genitori dell’eroe, a Iolco. Poi Giasone sale sulla nave, primo di tutti gli Argonauti, dando il buon esempio agli altri. Quindi, la nave salpa, senza che nessuno dei suoi marinai si volti mai indietro. Ecco invece la descrizione che del soggiorno di Giasone a Lemno e della partenza del giovane fa ora Issipile (vv. 55-72):

    Urbe virum vidi tectoque animoque recepi.
         Hic tibi bisque aestas bisque cucurrit hiems. 
    Tertia messis erat, cum tu dare vela coactus 
         inplesti lacrimis talia verba tuis: 
    “Abstrahor, Hypsipyle. sed dent modo fata recursus;
         vir tuus hinc abeo, vir tibi semper ero. 
    Quod tamen e nobis gravida celatur in alvo, 
         vivat et eiusdem simus uterque parens!”
    Hactenus. et lacrimis in falsa cadentibus ora 
         cetera te memini non potuisse loqui. 
    Ultimus e sociis sacram conscendis in Argon; 
         illa volat, ventus concava vela tenet.
    Caerula propulsae subducitur unda carinae:
         terra tibi, nobis adspiciuntur aquae. 
    In latus omne patens turris circumspicit undas; 
         huc feror et lacrimis osque sinusque madent. 
    Per lacrimas specto cupidaeque faventia menti 
         longius adsueto lumina nostra vident. 

    Giasone è costretto a partire, non volendolo (in effetti, anche in Apollonio è Eracle, unico a non avere legami sentimentali sull’isola, che spinge alla partenza; ma Giasone accoglie prontamente l’invito), e viene molto rimarcata la mancanza di entusiasmo dell’eroe (coactus, abstrahor, implesti lacrimis sinum ecc.). Nel suo discorso, Giasone dà per certa l’esistenza di un figlio, pur non ancora partorito. Il figlio, naturalmente, rinforza il legame familiare fra i due, facendone dei veri coniuges. Giasone si allontana proclamandosi per sempre vir di Issipile (in Apollonio si guarda bene dal fare alcuna promessa). Egli, nel complesso, mostra quindi una grande emozione, mentre è piuttosto freddo e burocratico in Apollonio. Giasone sale inoltre sulla nave per ultimo, anziché non per primo, e dopo la partenza continua a tenere lo sguardo fisso verso terra e verso Issipile. Fra i due si instaura così un lungo legame di sguardi, che ricorda le coppie di più teneri amanti (nelle Metamorfosi Ovidio recupera questo dettaglio per la coppia di sposi ideali, Alcione e Ceice; nella poesia decadente ricordo solo il caso parallelo de LAmore dei tre re di Sem Benelli).

    Sono queste delle semplici varianti mitografiche? È una risposta possibile. Siamo di fronte a quel processo di trasformazione del materiale epico in materiale elegiaco che è tipico di Ovidio? Certamente anche questo, ma senza dimenticare che la trasformazione qui non la compie il narratore/Ovidio, ma un personaggio che parla. E Issipile vive, soffre, scrive la sua lettera, e nella lettera scrive cose di fuoco in nome della scena che abbiamo appena letto. Del suo essersi impressa nel (sub?)cosciente della donna. Del di lei crederla vera. Della convinzione di Issipile di essere, grazie ad essa, la legittima uxor di Giasone, e come tale di potersi presentare. In altre parole: di una verità “altra” che la donna si è costruita, cosciente o incosciente, senza che il confine fra le due cose possa essere delineato con troppa sicurezza – una verità “altra” che nel momento in cui lei scrive si è rivelata chiaramente fasulla (e infatti Issipile scrive la sua lettera), ma che diventa il falso (o la bugia?) nella quale Issipile fin lì si è rifugiata, costruendo attorno ad essa tutto un mondo, in cui cercare la sopravvivenza. Effetto, ancora una volta, di uno shock, e di quella che per la poesia di primo secolo a.C. mi sembra la sola, possibile ragione di shock: l’amore, che è furor, morbus, ignis, e che proprio per questo tutto spiega e tutto giustifica. In questa ottica andrà inserito dunque il discorso sulla mitomania dei personaggi catulliani, virgiliani, ovidiani. 

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Mitomania e mitomani II

    Mitomania e mitomani II

     

    Chi possiamo allora considerare mitomane nella letteratura latina? Una ventina d’anni fa, un geniale volume di Gian Biagio Conte, L’autore nascosto, Bologna 1997, ha riconosciuto la mitomania in Encolpio, il narratore in prima persona del Satyricon di Petronio. La formula ha avuto successo, ed è oggi un locus communis della critica su quel testo. Ma è la mitomania del personaggio un’invenzione da assegnare davvero a Petronio? Qui proporrò due esempi di mitomania nella poesia del I secolo a.C., la prima che ci sia documentata per intero nella tradizione latina. Nel prossimo e ultimo post della serie, mi occuperò invece di poeti “mitografi”, che però assegnano vistosi tratti mitomani ad alcuni dei loro personaggi.

    Andiamo con ordine, principiando dalla seconda egloga di Virgilio. In essa, com’è noto, Coridone canta il suo amore infelice per il giovane Alessi. Alessi è bello, vive in città, è il favorito del padrone; Coridone è un pastore che può offrire solo umili doni. Tuttavia, dal testo (nella sostanza, un canto di Coridone che si propone al suo amato per convincerlo a raggiungerlo nei campi, così da condividere la vita con lui) sembra che Coridone possa offrire molto, promette fiori e frutta a volontà, ha molte greggi, sa cantare con abilità, si dice bello e bravo. Solo che Alessi non lo ascolta, quindi nel finale Coridone dice di abbandonare ogni speranza e di volersi cercare un altro amante. La critica antica vedeva nelle egloghe delle vicende che rispecchiassero fatti biografici dell’autore: nella seconda egloga intravedeva quindi Virgilio innamorato del giovane Alessandro/Alessi, schiavo di Asinio Pollione. Oggi preferiamo considerare l’egloga soprattutto in relazione ai suoi modelli, in particolare l’idillio undicesimo di Teocrito, che narra l’amore di Polifemo per Galatea. Polifemo è un ciclope rozzo e mostruoso, non ha alcuna speranza con la bella Galatea, ma trova conforto nel canto. Questa storia viene utilizzata da Teocrito per consolare l’amico Nicia, medico, anche lui innamorato senza fortuna. Nell’egloga, tuttavia, Coridone non trova consolazione, ma solo uno sfogo; Virgilio sottolinea il dramma dell’amore di Coridone come passione bruciante, che si fa furor morbus, che non lascia tregua nemmeno nelle giornate più afose dell’anno (in Teocrito c’è invece una forte tinta comica, data dal fatto che Polifemo è notoriamente brutto e mostruoso, e solo lui può credersi bello, senza rendersi conto di quello che è). Anche in Virgilio, peraltro, Alessi, che vive in città, non può essere attirato dalla campagna: Coridone è rusticus e perdente da subito; anzi, Alessi è tuttora in città, e dunque il canto, seppure nominalmente rivolto a lui, da lui non viene nemmeno ascoltato, e per questo, per quanto Coridone possa usare belle parole, per quanti auto-elogi egli si possa fare, Alessi non lo raggiunge e non lo raggiungerà mai. Dunque, in definitiva, il canto di Coridone non serve a nulla, e sa fin dal principio di non servire a nulla (condizione essenziale perché si dia la mitomania). O meglio: serve solo al bisogno di rivalsa di Coridone, al suo – se vogliamo – narcisismo ferito. Il mondo descritto da Coridone è infatti un mondo assolutamente realistico, fatto di azioni e figure concrete, come concretamente descritte:sono le azioni e le situazioni che vediamo avvenire tutti i giorni (anche i nostri) nella campagna d’estate. Questo mondo assume però tratti irreali quando Coridone perde la ragione e inizia a mentire su se stesso. In quell’occasione c’è come un cortocircuito, i conti cominciano a non tornare più, non sappiamo nemmeno più dove ci troviamo, se in Sicilia o in altra parte d’Italia, la campagna e la natura perdono i loro tratti realistici, si vanno componendo (nelle parole di Coridone) come realtà altra e diversa dal reale, ma una realtà nella quale Coridone si presenta come totalmente immerso e alla cui esistenza sembra credere profondamente (altra condizione necessaria della mitomania, come dicevo nel primo post).

    L’egloga si compone di 73 versi; 68 costituiscono il canto di Coridone, i cui tratti, in modo un po’ sommario, ho delineato finora: ma i primi cinque versi sono pronunciati da un narratore esterno, e svolgono la funzione di introduzione. Il lamento di Coridone ha inizio solo dal v. 6. Cosa ci dice il narratore in quei cinque versi? Ecco il testo:

    Formosum pastor Corydon ardebat Alexin,
    delicias domini, nec quid speraret habebat.
    Tantum inter densas, umbrosa cacumina, fagos
    adsidue veniebat. Ibi haec incondita solus
    montibus et silvis studio iactabat inani.

    Vediamo di ricapitolare le informazioni:

    1. pastor, al v. 1, può significare poco, ma dominus al v. 2 è certo quello di Alessi. L’assenza di specificazione fa pensare tuttavia a un possibile padrone comune ai due pastori; in questa direzione sembra andare anche, nel canto di Coridone, la successiva allusione a un Iollas, v. 57, rivale del protagonista, ma ricco e potente, che potrebbe coincidere con il dominus citato qui. In ogni caso, dall’unione dei due passi si ricava che Coridone non è ricco, ha una differenza sociale anche con Alessi (da Finley in poi abbiamo imparato che non tutti gli schiavi sono uguali, e le gerarchie pesano anche fra di loro – le Bucoliche, già dalla prima egloga, lo ribadiscono con grande chiarezza): uno infatti vive nella domus del padrone (in città?), come deliciae domini; l’altro sta fra i faggi (in campagna) – la distanza di Alessi dalla campagna è un tema insistito anche nel seguito dell’egloga. Infine, la forte sottolineatura di formosum, a inizio di verso e di egloga, presuppone anche una differenza estetica fra Coridone ed Alessi, cui l’aggettivo si riferisce;
    2. Alessi non è lì, e Coridone anzi è solo;
    3. Coridone si trova sotto l’ombra di alcuni faggi, in una collocazione usuale per i cantori virgiliani (Tityre tu patulae…);
    4. Coridone ogni giorno si presenta nella medesima situazione (l’imperfetto in veniebat, l’avverbio adsidue), a ripetere il suo canto (situazione topica, non casuale e avvenuta una tantum);
    5. Coridone non ha speranza di successo (due volte, v. 2 e v. 5);
    6. ma il canto è la sua sola consolazione (tantum).

    Cosa ci dice invece Coridone nel suo canto?

    1. è ricco (vv. 21-22), bello (vv. 25-27) e ottimo cantore, vv. 23-24 – il narratore aveva invece parlato di incondita carmina;
    2. parla ad Alessi rivolgendoglisi in seconda persona, come se questi potesse ascoltarlo ed essere più o meno convinto dalle sue parole;
    3. vaga sconsolato nella campagna assolata, sotto la calura più ardente, nell’ora più terribile di un meriggio estivo, mentre è in corso la mietitura, e quando solo le cicale continuano a cantare fra i cespugli, mentre perfino le lucertole sono andate in estivazione (il narratore, invece, ci ha detto che Cordone è sotto i faggi e da lì non si muove, e l’indomani, come ogni giorno, tornerà sotto i faggi…);
    4. alla fine, Coridone dice di rinunciare, v. 73: il giorno dopo andrà in cerca, e certamente troverà, un altro e diverso Alessi (alius; il narratore ci ha detto che il giorno dopo sarà di nuovo lì, come tutte le giornate);
    5. la decisione del punto precedente scaturisce però dall’idea, fattasi chiara in lui, di non avere nessuna speranza di successo;
    6. in ogni caso, entro la fine del canto sa di poter trovare comunque una consolazione (un alius Alexis).

    Come si vede, le affermazioni del narratore sono “smentite” da Coridone punto per punto, o meglio sono contraddette dal canto di Coridone che fa delle affermazioni totalmente dissimili, spesso diametralmente contrapposte a quelle del narratore. Ma nella concezione antica, di stampo epico, è il narratore ad essere onnisciente, mentre il personaggio può anche mentire – e Coridone qui certo mente. Ecco perché il narratore all’inizio fa le affermazioni che sappiamo, ecco perché l’egloga non può riassumersi nel solo canto di Coridone, come pure ci aspetteremmo. In questo modo, il narratore fin dall’inizio ci mette in guardia dal non credere a Coridone e ne smentisce a priori tutte le affermazioni successive (facendo capire che sono solo parte di un canto, e un canto di un malato cronico). Ma quella di Coridone si può considerare una semplice menzogna a fine seduttivo, sul modello di quelle ovidiane? Direi di no, per alcune ragioni:

    – Coridone non sta realmente tentando di convincere Alessi, e anzi fa capire di sapere benissimo che non può convincere Alessi, perché Alessi non è presente, e dunque non lo ascolta. Il canto non viene raccolto da nessuno, e quindi non giungerà mai all’amato;

    – Coridone presenta ovviamente, come ogni innamorato che si rispetti, sé, le proprie azioni e il proprio mondo, abbellendo la realtà dei fatti: ma nel corso dell’egloga lui non si limita a qualche abbellimento, ma giunge a una serie di iperboli, di esagerazioni (canto meglio di Anfione, un mitico cantore; sono stato allievo diretto di Pan, il dio pastorale; vengo riconosciuto dai pastori come il solo degno di possedere la fistula che gli fu propria; sono più bello di Dafni, il bello per eccellenza del mondo bucolico; sono ricchissimo, mille pecore tutte di mia proprietà – si pensi, al confronto, alla modestia di Titiro nella prima egloga), e perfino di palesi falsificazioni (i doni proposti: mi limito a ricordare il bouquet di fiori realizzato direttamente dalle ninfe, vv. 45-50, fatto di piante che fioriscono in stagioni diverse). Tutte prove di una perdita di contatto con la realtà dei fatti (altrove, come detto, al contrario vivamente rispettata).

    – ma poi c’è il punto 5, che per me è quello determinante: nel passato di Coridone c’è uno shock amoroso riconosciuto e ammesso, una situazione disperata che affiora nei (pochi) momenti di lucidità che ancora gli rimangono. Proprio in questi momenti Coridone arriva a riconoscere la situazione disperata della sua posizione, per poi contraddirla subito dopo con un’altra palese bugia, la decisione di rinunciare ad Alessi. Il che ci dice che anche il resto siano bugie senza scampo, un accumulo prolungato e continuo di menzogne.  Alcune facili da smascherare; altre che si lasciano smascherare solo grazie alle parole del narratore, oppure per deduzione logica, ma a partire da quelle parole iniziali.

    Coridone si presenta così sì come un mentitore a scopo seduttivo. ma senza un fine reale: la sua è una menzogna continua, coerente, consistente, a volte smascherata dalla propria stessa riconquistata lucidità (all’interno del canto; dal narratore, per il lettore esterno che non abbia capito subito). Quando Coridone si smaschera, le sue parole di poco prima divengono una menzogna riconosciuta come tale perfino da lui, che pure ne è l’autore. Ma, in ogni caso, subito dopo la prima bugia viene seguita da un’altra menzogna, diversa e però “coerente” con la situazione complessiva (invenies alium Alexim, v. 73). Anche questa nuova bugia, però, è  contraddetta dalle parole incipitarie del narratore (adsidue veniebat, che già ci dicono che Coridone non troverà nessun altro Alessi…).

    Le Bucoliche creano un mito, nel quale l’Amore e i suoi effetti hanno larga parte. Mi piaceva iniziare da quest’egloga, perché in quest’egloga mi pare che la mitomania del personaggio qui sia più chiara che mai. Mi sono concentrato sulla seconda egloga: non sarebbero cambiati i conti se avessimo guardato all’ottava, o alla decima (le tre egloghe amorose del Liber). Il concetto è sempre lo stesso: una vicenda che si snoda attraverso una serie di passaggi comuni, e che si ripete in ognuna delle tre egloghe. C’è una forte passione, poi il brusco risveglio di uno shock; a tutto ciò fa seguito la reazione mitomane di un cantore entro il suo canto; mentre il narratore, con piccoli segnali, ci assicura della falsità di tutto ciò che il personaggio ci dice. La seconda egloga è solo l’egloga che meglio delle altre mette in luce il procedimento. Grazie alla sua posizione quasi incipitaria, il lettore del resto del Liber è avvisato, e può provvedere da solo a ragionare ogni qual volta la situazione si ripropone nel corso del Liber.

    Ma anche Virgilio ha forse un precedente, anche se questo nulla toglie alla originalità di Virgilio e alla chiarezza con la quale porta alle estreme conseguenze questa possibilità narrativa. Tutti conosciamo la vicenda di Catullo e Lesbia, scandita da carmina famosissimi. Pertanto, la do per scontata. Do per scontato anche queste considerazioni:

    – entro la vicenda noi abbiamo un punto di vista univoco, quello di Catullo; nessun narratore esterno e nessuna testimonianza antica ci permettono di verificare l’esattezza o meno di quanto Catullo dice;

    – anche Catullo si descrive come vittima di uno shock amoroso, che ha portato a una perdita almeno parziale di lucidità (situazione tematizzata dal poeta stesso: Miser Catulle desinas ineptire, carm. VIII)

    – ovvia la distinzione fra Catullo-autore reale e Catullo-personaggio, ma qui è Catullo-personaggio che interessa. Solo, rispetto alla seconda egloga, il cortocircuito è più complicato che in Virgilio, e più difficile quindi da valutare, perché Catullo è Catullo, autore e personaggio, laddove Coridone è personaggio, distinto da Virgilio autore e “narratore”;

    – la situazione così delineata è questa: il poeta è una vittima, per avere proposto un accordo, un patto, un foedus che si immaginava stabile (fides), ma che la controparte ha brutalmente tradito, venendo meno a ogni investimento sentimentale ed emotivo e facendo crollare speranze e certezze.

    Meno noti sono i carmina per Giovenzio. Ci sono certo elementi differenti: Giovenzio è maschio, e gli amori omosessuali nel mondo antico sono amori contro il tempo, dunque il foedus non è proponibile come accordo di vita, ma è proponibile comunque nel breve tempo in cui la liaison è possibile. Ciò si vede nella presenza di molti temi comuni, anzi a volte addirittura identici (è noto che per Giovenzio scrisse un altro “carme dei baci”, molto simile a quello scritto per Lesbia). Anche lo status sociale dei due amati è differente: Lesbia è donna di alta società, Giovenzio è schiavo o ex-schiavo o, se libero fin dalla nascita, è comunque un puer sottoposto a tutela (lo prevedono l’età degli amori, ma soprattutto i carmina stessi di Catullo). Queste le differenze principali, ma la vicenda ha poi lo stesso svolgimento: un foedus spezzato, un poeta che si sente tradito, una parte del tutto innocente (Catullo), una che non si capisce come abbia potuto fare le scelte che ha fatto (Giovenzio).

    Vorrei chiudere con un altro carme, scritto per un amico, il XXX. Eccone il testo: 

    Alfene immemor atque unanimis false sodalibus,
    iam te nil miseret, dure, tui dulcis amiculi?
    iam me prodere, iam non dubitas fallere, perfide?
    nec facta impia fallacum hominum caelicolis placent.
    quae tu neglegis ac me miserum deseris in malis.
    eheu quid faciant, dic, homines cuive habeant fidem?
    certe tute iubebas animam tradere, inique, me
    inducens in amorem, quasi tuta omnia mi forent.
    idem nunc retrahis te ac tua dicta omnia factaque
    ventos irrita ferre ac nebulas aereas sinis.
    si tu oblitus es, at di meminerunt, meminit Fides,
    quae te ut paeniteat postmodo facti faciet tui.

    Questo è il carmen per un amico, e non per un amante, ma l’amico viene presentato con tutti i termini con cui si potrebbe presentare un amante – il latino facilita, perché molto forte è l’interferenza lessicale fra i due ambiti; anche in italiano c’è un lessico comune, ma qui è più forte, basti pensare a frasi come inducere in amorem, ma anche tradere animam, e direi perfino omnia tuta esse, oltre all’immagine dei giuramenti portati via dai venti e dalle nubi, tipica metafora di ambito amoroso. Anche qui c’è una fides che il poeta sente tradita (perfidus, v. 3, e poi tutti i termini dell’inganno: falsus, fallax, lo stesso verbo fallere ecc.) e che ha spezzato un legame praticamente di famiglia (unanimi si usa per i parenti stretti, c. 9 i fratelli di Veranio; Aen. IV Anna, sorella di Didone). L’episodio che ha dato origine a questo litigio non ci è chiarp, ma forse non è nemmeno mportante (immemor v. 1; negligere, v. 5; retrahere, v. 9 fanno pensare che Alfeno non sia stato presente nel bisogno dell’amico, un peccato tutto sommato veniale). L’immagine finale che esce da tutto ciò coincide con quanto ho detto prima:  c’è un poeta senza colpe personali, vittima di un amico ingiusto e capace di scelte incredibili, che aveva fatto credere all’esistenza di un accordo, un patto, un foedus che si immaginava stabile, ma che poi ha brutalmente tradito, venendo meno a un investimento sentimentale ed emotivo e facendo crollare speranze e certezze.

    Insomma, questa è l’idea: ecco tre situazioni che sono, in realtà, una stessa situazione. Solo che il ripetersi per ben tre volte di una medesima vicenda è cosa sospetta, che dà adito a qualche sospetto. Davvero è stato così sfortunato in tutte le sue relazioni Catullo, o c’è piuttosto qualcosa che non funziona in lui? C’è un sovra-investimento sentimentale, certamente, che lo espone alla delusione, alla frustrazione, a un senso di inevitabile vittimismo e a una sorta di mania di persecuzione, che poi origina come rivalsa una mitomania che si esplica nella ricostruzione ex post dei fatti… Basta tutto questo a definire il personaggio Catullo un mitomane? La discussione qui può essere aperta.

    (segue)

     

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

    Illustrazione di Gottfried Franz, 1895, per Il Barone di Münchhausen di Rudolf Erich Raspe