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  • Una rilettura (post)romantica di Catullo

    Una rilettura (post)romantica di Catullo

    La passione del compositore Carl Orff (1895-1982) per la classicità, che risale all’età scolare, si indovina facilmente anche solo scorrendo i titoli della sua produzione: Orpheus, 1925; Antigonae, 1949; Trionfo di Afrodite, 1953; Oedipus der Tyrann, 1959; Prometheus, 1968; De temporum fine comoedia, 1973. Tale passione si accompagna a quella ancora più precoce (visto che data dall’infanzia) per il teatro, campo in cui Orff ha di fatto quasi esclusivamente concentrato i suoi sforzi compositivi. Nel 1930 dalle mani del musicista trentacinquenne escono due serie di Chorsätze a cappella, in cui vengono messe in musica alcune liriche catulliane. In particolare: nella serie denominata Catulli Carmina I, vengono intonati i carmina 85, 5, 51, 41, 8, 87 e 75 (in quest’ordine); nella serie denominata Catulli Carmina II (del 1931), il 46, il 101 e il 31. In questi due cicli il compositore, oltre a rivelare la sua predilezione per il poeta veronese, per la prima volta si serve del latino come lingua per i testi da musicare (qualche precedente era reperibile solo negli esercizi scritti per la scuola, il cosiddetto Schulwerk). Il primo dei due cicli è anche l’antecedente diretto di un’opera di più ampio impegno compositivo, completata solo nel 1943 e rappresentata all’Opera di Lipsia – rimaneggiata in una nuova veste – con il nome di Ludi scaenici Catulli Carmina. Per questa composizione Orff aveva  musicato anche i carmina 58, 70, 109, 73 e 32.

    Prima di analizzare le particolarità di quest’opera, pare opportuno chiarire quale sia la natura della forma compositiva cui il compositore si riferisce con l’indicazione di ludi scaenici. Infatti, come aveva già sottolineato Werner Thomas, amico e collaboratore di Orff, questa dicitura allude al Theatrum emblematicum barocco, in cui l’argomento tende ad assumere carattere antipsicologico e il coro a rivestire funzione didattica di commento. In effetti Orff, pur non avendo mai confermato questo riferimento, aveva già fatto uso delle Imagines magicae di origine barocca nella Lukaspassion (1932) e aveva lavorato fino al 1933 alla rielaborazione della commedia gesuitica Philotea (1643) di Johannes Paullinus, opera peraltro mai rappresentata vivente l’autore e la cui partitura è andata in seguito perduta. Per parte sua, Orff – riferendosi alla scena dei Ludi – preferì sempre richiamarsi semmai alla forma della commedia madrigalesca (sui precisi caratteri della quale, bisogna dire, regna un po’ di confusione), della quale verrebbero a suo dire recuperate le figure dei ballerini e il coro che canta a cappella. Ad ogni modo, al di là del riferimento più o meno esplicito a questo o a quel modello, è fuori di dubbio che i Catulli Carmina sono un prodotto dello studio e del recupero erudito, da parte di Orff , di forme del teatro barocco.

    Nel 1953 i Carmina vennero uniti con i precedenti Carmina Burana (risalenti al 1936) e il già ricordato Trionfo di Afrodite, realizzato invece per l’occasione. Le tre cantate vennero a costituire uno spettacolo unitario, andato in scena per la prima volta – con il titolo di I Trionfi  – al Teatro alla Scala di Milano. I tre testi condividono la stessa concezione scenica; in essi l’azione o manca del tutto o, se anche è presente, è in un certo senso simbolica e ambisce a significare qualcosa di universale, perché originario, elementare, e come tale comune a tutti e sempre valido. Per raggiungere questo effetto Orff si serve del suo personalissimo stile, che definisce “fatto musicale originario” (Urgrundmusik), in cui parola, suono e gesto scenico esprimono la stessa cosa. In questo senso, però, i Catulli carmina presentano almeno un paio di particolarità rispetto al resto del trittico. La prima è la presenza di un’orchestra che, quando presente, è di sole percussioni (prima volta per Orff) e che, raccogliendo un coacervo di strumenti extraeuropei già sperimentati in ambito didattico, contribuisce a creare un forte senso di alienazione spazio-temporale nell’ascoltatore. Poi, altra eccezione, i carmina presentano una struttura di teatro nel teatro, in cui la vicenda amorosa del poeta Catullo viene offerta di exemplum a un gruppo di giovani innamorati, che assistendovi dovrebbero liberarsi della propria passione. Per questo, nella composizione Catullo viene a essere contemporaneamente poeta, visto che fornisce lui stesso i testi del ludus, e personaggio, agendo, per così dire, il suo dramma.

    Il testo della cornice narrativa (Praelusio ed Exodium), entro la quale si inserisce poi la vicenda catulliana (Actus I, II e III), è tutto di mano di Orff (latino incluso), e suggerisce una buona conoscenza della letteratura e della cultura antica, da Plauto agli elegiaci (Properzio, Ovidio, senza contare, ovviamente, Catullo), all’imperatore Adriano. Orff fa anche uso di proverbi, e addirittura perfino delle epigrafi pompeiane (CIL IV, 9123 e CIL IV, 7621), probabilmente ritrovate nelle Pompeianische Wandinschriften di Hieronymus Geist (1936), o nell’edizione ad usum scholarum di Ernst Diehl (1910). Sulla scena appaiono due cori, iuvenes e iuvenculae, che dopo essersi reciprocamente dichiarati amore eterno (eis aiona, tui sum), cominciano a indirizzarsi inviti amorosi, a tratti esplicitamente erotici, innescando un entusiastico gioco linguistico fondato su un lessico di sapore elegiaco, pieno di diminutivi e vezzeggiativi (O tua blandula, blanda blandicula, tua labella ad ludum prolectant; O tua mentula cupide saliens, peni peniculus, velut pisciculus, is qui desiderat tuam fonticulam).

    (iuvenes et iuvenculae)

    Interviene però un coro di senes, che prima deride le parole dei giovani, poi definisce ingenuo tanto entusiasmo. Con l’obiettivo di istruire i giovani sull’illusorietà del sentimento amoroso, i vecchi introducono allora la vicenda del poeta Catullo.

    (senes)

    Ecco dunque comparire sulla scena il personaggio Catullo (Actus I), che si esprime solo tramite le parole delle sue liriche. Tuttavia, come accennavo prima, davanti agli occhi degli spettatori si trovano contemporaneamente due Catullo: il personaggio, che, essendo presentato dai senes (e quindi da Orff) col preciso obiettivo di avvalorare il loro punto di vista, risulta almeno in parte rivisitato, aggiustato per il fine narrativo; e il poeta, che, oltre a fornire i testi al personaggio, offre sfumature più numerose di quest’ultimo, potenzialmente variabili con il variare della conoscenza del Liber che ogni singolo spettatore può avere. Mi sembra quindi opportuno evidenziare alcuni esempi che possano dare conto dell’operazione che Orff ha compiuto intessendo un gioco ironico, consapevole o meno, con gli spettatori, che permette ancora una volta di problematizzare il rapporto della classicità con le epoche successive.

    Il racconto inizia con un coro che declama il carme 85, il celebre Odi et amo. Seguono la presentazione del protagonista e dell’amata Lesbia, e il loro duetto d’amore (scene I, II e III).

    (Odi et amo)
    (Vivamus, mea Lesbia, atque amemus)
    (Ille mi par esse deo videtur)

    Nella scena IV compare Celio, amico del poeta, al quale questi, offeso e preoccupato per aver assistito al mimo di Lesbia che danza insieme ad altri uomini, declama il carmen 58. L’identificazione di questo Celio risulta meno lineare di come è data dal compositore. Infatti, l’atteggiamento che il poeta tiene sulla scena nei suoi confronti porterebbe a riconoscervi il Caelius, flos Veronensum iuvenum del carmen 100, amico provato di Catullo, perfettamente a conoscenza delle sue sofferenze d’amore. Proprio in tal senso andrà dunque letto il Lesbia nostra del testo catulliano. Eppure, è ben nota la tendenza di parte della critica a interpretare quel nostra in senso letterale, riconoscendo in Celio il Marco Celio Rufo, oratore italico, non veronese, difeso da Cicerone nella Pro Caelio, anch’egli vittima dell’amore per Lesbia. Il riferimento ciceroniano è un’interessante prova extra-testuale, tanto più se si accetta che questo Celio sia il medesimo Rufo del carmen 77, lì definito amico ma traditore del poeta. Ancora più fitta si fa però la questione a problematizzare l’identità del Rufo del carmen 77, che certamente potrebbe essere l’oratore, ma che potrebbe anche essere tutt’altra persona. Dunque, nella migliore delle ipotesi i Celio in certo qual modo legati alle sorti di Lesbia e Catullo nel Liber sono almeno due, mentre nei Ludi scaenici Orff sembra riassumere nello stesso personaggio sia l’amico confidente, sia il traditore, che prenderà il posto di Catullo tra le braccia della donna amata nell’Actus II (scena VII). Dopotutto, è topica nel repertorio operistico e letterario la figura dell’amico presunto leale, salvo poi rivelarsi infido nel corso della vicenda. Ad ogni modo, l’operazione di Orff risulta arbitraria, e tanto basti.

    (Caeli, Lesbia nostra)

    Un’ulteriore interpretazione dei dati “biografici” contenuti nel Liber è riconoscibile procedendo oltre. Scoperto il tradimento di Lesbia e di Celio, in sogno (scena VI) e nella realtà (scena VII), il personaggio Catullo apre l’Actus III con spirito mutato. Intona nuovamente l’Odi et amo con cui si era aperto il ludus, ma questa volta alla fine del carmen, anziché presentarsi Lesbia, fanno la loro comparsa Ipsitilla (scena IX) e Ameana (scena X). Le due avventure amorose del protagonista vengono offerte agli spettatori come tentativi fallaci di consolarsi dell’abbandono della donna amata. Nella scena di Ispitilla (carmen 32) vi è ancora qualche traccia di affetto, deducibile sia dalla dinamica, che oscilla tra il piano e il pianissimo, sia dal fatto che viene inscenata la scrittura di una lettera privata indirizzata dal poeta alla donna. Questi due indizi potrebbero sottendere una relazione intima tra i due, ferma restando l’estrema fisicità che la lettera dipinge. In ben altri termini è presentata la vicenda di Ameana (carmen 41), dove non vi è nemmeno un tentativo pur fittizio di dolcezza. Piuttosto, i toni sono quelli di una pubblica duplice accusa rivolta alla donna, quella di essere puella defututa, e per di più disonesta. Ciò che mi interessa mettere in evidenza rispetto a questi episodi è però l’ordine in cui Orff sceglie di presentarli, immaginandoli entrambi successivi alla deludente esperienza con Lesbia, e consecutivi tra loro.

    (Amabo, mea dulcis Ipsitilla)
    (Ameana, puella defututa)

    Inutile segnalare che, invece, leggendo il Liber non vi è alcuna possibilità di sapere se i due episodi vadano pensati in quest’ordine, né se siano davvero successivi all’amore per Lesbia. Eppure, questa è la scelta del compositore, ed è ancora una volta una scelta squisitamente drammaturgica. Anche questa struttura narrativa, come quella dell’amico traditore, e forse anche più di quella, risulta infatti piuttosto nota. Il tentativo di vendicarsi della donna amata intrecciando relazioni di ripicca inesorabilmente fallaci è già motivo tibulliano (I, 5) e percorre tutta la letteratura occidentale, fino ai giorni nostri (nel repertorio operistico, ad esempio, si ricordi il cambio Lola/Santuzza negli affetti di Turiddu, in Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, 1890). Anche la presenza di più di una relazione amorosa, tra l’altro di tono sempre meno romantico, era già stata sondata – per esempio – da Jacques Offenbach nei suoi Les Contes d’Hoffmann (1881). Lì pure un poeta, artista e campione del romanticismo tedesco, offriva se stesso come exemplum ad alcuni giovani studenti, chiarendo come fosse stata la sequenza di tre amori, quelli per Olympia, Antonia e Giulietta, a portarlo a perdere l’anima e a scegliere, alla fine, di dedicarsi solo all’arte, preferendola anche alla tanto attesa, bellissima Stella. Le somiglianze con il Catullo orffiano sono, in questo caso, suggestive, ma non ci è dato sapere se il compositore avesse presente questo antecedente – e in fondo poco importa. Importa semmai notare che provando, come altri prima e dopo di lui, a riordinare la biografia catulliana a partire dagli indizi forniti dal Liber, indizi che egli riteneva sempre biografici, Orff abbia compiuto questa operazione seguendo uno schema tipico delle biografie sentimentali, alla formazione del quale sicuramente Catullo e gli elegiaci latini hanno contribuito e dal quale lo stesso Offenbach, e molti altri, possono più o meno involontariamente avere attinto.

    Per concludere, vorrei sottolineare un’altra scelta, più sottile, che mi sembra sottesa alla narrazione di Orff e che denuncia, come le altre, un certo grado di lavoro sul materiale catulliano di riferimento. Conclusi i tentativi di consolarsi tra le braccia di altre donne, e dopo aver intonato il carmen 8 (scena XI) per farsi forza nel chiudere i rapporti con Lesbia, il personaggio Catullo incontra nuovamente sulla scena la donna accompagnata da Celio, e finalmente la vicenda sembra prendere un’altra piega. Infatti, lei gli va incontro pronunciando il suo nome, mentre lui la respinge. Segue l’intonazione dei carmina 87 e 75 in un’unica soluzione, come già apparivano nel Chorsatz. In quest’ultima scena (XII), il protagonista pronuncia le dure conclusioni verso le quali lo hanno portato le estenuanti vicissitudini con la donna amata. Egli la accusa di essere venuta meno al foedus amicitiae, cui lui si sarebbe invece mantenuto irreprensibilmente fedele (così almeno dice), e pronuncia la celebre distinzione tra amare e bene velle, sostenendo che nec iam bene velle queat tibi, si optima fias, nec desistere amare, omnia si facias. Insomma, alla conclusione del ludus Orff sembra voler condividere questa distinzione catulliana, che di fatto assume i caratteri di un punto d’arrivo per il suo protagonista. Anche in questo caso, però, mi pare che l’antinomia catulliana venga adattata alle esigenze del compositore. Infatti, nel modo in cui la presenta Orff sembrano perdersi le implicazioni che i termini bene velle e amare portavano con sé sul piano socio-familiare del mondo latino, limitandosi a significare delle sfumature sentimentali e un punto di vista diverso dall’inizio per il personaggio Catullo, divenuto in un certo senso più consapevole. Del resto, questa era la posizione portata avanti dai senes, e la ragione stessa di proporre l’exemplum catulliano. D’altra parte, il riferimento culturale sembra essere sempre quello della biografia sentimentale: Catullo che respinge Lesbia, non è diverso da Hoffmann che respinge Stella alla fine dei Contes.

    Tornando a Orff, pare legittimo pensare che in questo quadro dei Trionfi il compositore, coerentemente con la concezione scenica dell’intero trittico, abbia voluto dipingere principalmente l’aspetto individuale e romantico dell’amore, con l’obiettivo di rappresentare un universale umano, pur mediato, come abbiamo visto, da un post-romanticismo narrativo in cui ancora trovava ispirazione all’altezza degli anni Quaranta. Infatti, la complessità apparentemente perduta dell’antinomia catulliana tra amare e bene velle ritorna con tutto il suo spessore, e con un esito inedito anche per il poeta latino, nel Trionfo di Afrodite, insieme con il recupero, da parte del compositore, della poesia di Saffo, di Euripide e dei carmina docta 61 e 62. Proprio l’ultimo quadro dei nostri carmina, l’exodium proposto alla fine dell’episodio di teatro nel teatro, introduce di nuovo i due cori di giovani che, dopo aver ripetuto l’eis aiona iniziale, aprono il rito nuziale inscenato nel Trionfo d’Afrodite e negli epitalami catulliani, con le parole Accendite faces.

    (Exodium)

    La passione tumultuante si è placata, il Trionfo successivo celebrerà la forza d’Amore incanalato in una relazione matrimoniale. L’amante di Lesbia deve farsi da parte…

    © Michele Genovese, 2019 (foto di Marcello Ferrario, 2009)

  • E l’assassino è…Sofocle

    E l’assassino è…Sofocle

    Che i romanzi polizieschi amino flirtare con il mondo classico è cosa nota, e mi permetto di rimandare a una pubblicazione di qualche anno fa, nata dai bellissimi incontri organizzati dal prof. Maurizio Grimaldi al Liceo “G.B. Vico” di Nocera Inferiore, in occasione del Certamen Vergilianum che da oltre vent’anni vi si tiene alla fine di Aprile. L’intervento, pubblicato negli atti del 2015, è reperibile anche sul sito “Academia.edu”, all’indirizzo https://www.academia.edu/25957587/Delitti_virgiliani.

    Se poi l’autore è Colin Dexter, 1930-2017, ideatore della fortunata serie che ha per protagonista l’ispettore Morse, la cosa è ancora più facile. Non solo perché Morse opera a Oxford, luogo della classicità per eccellenza; ma anche perché Dexter, laureato in Classics, è stato per anni insegnante di latino e greco nelle scuole superiori inglesi, prima di passare a lavori legati all’amministrazione oxoniense, a causa di una progressiva sordità e altri problemi di salute. La serie dell’Ispettore Morse, tredici romanzi in tutto, scritti fra il 1975 e il 1999 (cui si affianca una fortunata serie televisiva, realizzata anch’essa con la supervisione di Dexter), non manca perciò di far sfoggio di dottrina classica, anche perché tale dottrina è il mezzo attraverso il quale l’ispettore segnala la propria distanza dal volenteroso, ma povero di cultura, sergente che sempre l’accompagna, il mite e paziente Robert (Robbie) Lewis.

    Dal quinto romanzo della serie, The Dead of Jericho (tutti i testi sono stati tradotti in italiano, prima per Longanesi e Mondadori, ora per Sellerio; i tredici romanzi sono stati trasferiti nella serie televisiva, che conta però anche una ventina di episodi originali), ricavo la lunga citazione, in inglese, che costituisce la sostanza di questo post e ne spiega il titolo. Alcune avvertenze: Jericho è un quartiere di Oxford, realmente esistente. Il romanzo sviluppa le indagini relative al suicidio, apparentemente senza spiegazione, della bella Anne Scott, un’insegnante che dà lezioni private e ripetizioni di tedesco a casa sua, e poi quelle relative alla morte di un suo vicino, coinvolto in un tentativo di ricatto che porta alla sua violenta uccisione. E’ però la sorte di Anne quella che ci interessa. Morse è colpito subito dalla biblioteca domestica della donna, dove, accanto agli strumenti del mestiere, figura un gran numero di classici greci e latini, letti nella meravigliosa “Penguin Collection”. Nella pagina che riporto, Morse è al pub con il sergente Lewis – una scena che si ripete spesso nei romanzi: la birra e la musica di Wagner sono le passioni non tanto segrete dell’ispettore – e lì rivela le ragioni del suicidio di Anne, o almeno quelle che ritiene tali (i romanzi di Dexter non hanno mai finali banali, e le conclusioni di Morse non sono sempre confermate dai fatti; altro non dico). Della lunga citazione segnalo per ora soltanto la battuta finale, un omaggio a tutti coloro che hanno a che fare con i classici…

    ‘There are three basic views about human life,’ began Morse. ‘One of them says that everything happens by pure chance, like atoms falling through space, colliding with each other occasionally and cannoning off to start new collisions. According to this view there’s nothing in the scheme of things that has sorted us out – you and me, Lewis – to sit here in this pub, at this particular time, to drink a pint of beer together. It’s all just a pure fluke-all just a chancy set of fortuitous circumstances. Then you get those who reckon that it’s ourselves, as people, who determine what happens -at least to some extent. In other words, it’s our own characters that affect the way things turn out. Sooner or later our sins will find us out and we have to accept the consequences. And then there’s another view: the view that it doesn’t matter a bugger what particular circumstances are, or what individual people do. The future’s fixed and firm -just like the past is. Things are somehow ordained from on high-pre-ordained, that’s the word. There’s a predetermined pattern in life. What’s going to be-is going to be; and whatever you do and whatever your luck is, you just can’t avoid it. If your number’s up -your number’s up! Fate -that’s what they call it.’

    ‘What do you believe, sir?’

    ‘Me? Well, I certainly don’t go for all this “fate” lark. It’s a load of nonsense. I reckon I come somewhere in the middle of the other two. But that’s neither here nor there. What is important is what Anne Scott believed; and it’s perfectly clear to me that she was a firm believer in the fates. She even mentioned the word, I remember. And then there was that particular row of books just above the desk in her study-all those Penguin Classics, Lewis. It’s pretty clear from the look of some of those creased black spines that the works of the Greek tragedians must have made a deep impression on her, and some of those stories-well, let’s be more specific. There was one book she’d been rereading very recently and hadn’t put back on the shelf yet. It was lying on her desk, Lewis, and one of the stories in that book-‘

    ‘I think I’m getting a bit lost, sir.’

    ‘All right. Listen! Let me tell you a story. Once upon a time -a long, long time ago, in fact -a handsome young prince came to a city and quite naturally he was entertained at the palace, where he met the queen of that city. Soon these two found themselves in each other’s company quite a bit, and the prince fell in love with the beautiful and lonely queen; and she, in turn, fell in love with the young prince. And things were easy for them. The prince was a bachelor and he found out that the queen was a widow-her husband had recently been killed on a journey by road to one of the neighbouring cities. So they confessed their love-and then they got married. Had quite a few kids, too. And it would’ve been nice if they’d lived happily ever after, wouldn’t it? But I’m afraid they didn’t. In fact, the story of what happened to the pair of them after that is one of the most chilling and terrifying myths in the whole of Greek literature. You know what happened then, of course?’

    Lewis looked down at his beer and reflected sadly upon his lack of any literary education.

    ‘I’m sorry, I don’t, sir. We didn’t have any of that Greek and Latin stuff when I was at school.”

    Morse knew again at that moment exactly why he always wanted Lewis around. The man was so wholesome, somehow: honest, unpretentious, humble, almost, in his experience of philosophy and life. A lovable man; a good man. And Morse continued in a gentler, less arrogant tone.

    ‘It’s a tragic story. The prince had plenty of time on his hands and one day he decided to find out, if he could, how the queen’s former husband had died. He spent years digging out eye-witnesses of what had happened, and he finally discovered that the king hadn’t died in an accident after all: he’d been murdered. And he kept working away at the case, Lewis, and do you know what he found? He found that the murderer had been -‘ (the fingers of Morse’s left hand which had been gesticulating haphazardly in front of him, suddenly tautened and turned dramatically to point to his own chest) ‘-that the murderer had been himself. And he learned something else, too. He learned that the man he’d murdered had been-his own father. And in a blinding, terrifying flash of insight, Lewis, he realized the full enormity of what he’d done. You see, not only had he murdered his own father – but he’d married his own mother, and had a family by her! And the truth had to come out – all of it. And when it did, the queen went and hanged herself. And the prince, when he heard what she’d done, he -he blinded himself. That’s it. That’s the myth of Oedipus.’

    Morse had finished, and Lewis felt himself strangely moved by the story and the way his chief had told it. He thought that if only his own schoolteachers had been able to tell him about such top-of-the-head stuff in the way Morse had just done, he would never have felt so distanced from that intimidating crew who were listed in the index of his encyclopaedia under ‘Tragedians’.

    Nel romanzo, Anne si è sposata giovanissima a un marito morto poi in un incidente stradale, provocato da un neopatentato, ancora inesperto di guida. A quel neopatentato, forse senza saperlo, Anne ha dato ripetizioni di tedesco, in prospettiva di quello che corrisponde, più o meno, al nostro esame di maturità. Oppressa dalla vedovanza lei, dal fascino della propria insegnante lui (un classico dell’erotismo adolescenziale), è finita che i due non si sono limitati alle lezioni di tedesco, e poiché da cosa nasce cosa, giusto il giorno del proprio suicidio Anne ha appreso, dalle analisi ufficiali, di essere rimasta incinta del giovane. Non solo: in una conversazione accidentale, la sera prima Anne ha saputo che il giovane potrebbe essere suo figlio – il figlio avuto dal legittimo marito, ma che la coppia aveva affidato a un istituto di adozione, perché, sposatisi troppo giovani, non avevano i mezzi materiali per crescere il bambino. Insomma, ecco qua Edipo, Laio e Giocasta in una versione moderna, come spiega al suo assistente (e ai lettori) Morse:

    ‘You can appreciate, Lewis, how Anne Scott’s intimate knowledge of this old myth was bound to affect her attitudes and actions. Just think! As a young and beautiful undergrad here, she had met a man and married him, just as in the Oedipus myth Queen Jocasta married King Laius. Then a baby arrived. And just as Jocasta could not keep her baby because an oracle had told her that the baby would kill its father -so Anne Scott and her husband couldn’t keep their, because they had no permanent home or jobs and little chance of bringing up the boy with any decent prospects. Jocasta and Laius exposed the infant Oedipus on some hillside or other; and Anne and her husband did the modern equivalent-they found a private adoption society which took the baby off their hands immediately. I don’t know much about the rules and regulations of these societies, but I’d like to bet that in this case there was a provision that the mother was not to know who the future foster-parents were going to be, and that the foster-parents weren’t to know who the actual mother was.

    ‘When Laius, Jocasta’s husband, was killed, it had been on the road between Thebes and Corinth -a road accident, Lewis! When Anne Scott’s husband died, it had also been in a road accident, and I’m pretty sure that she knew all about it. But, in itself, that couldn’t have been a matter of great moment. It had been an accident: the inquest had found neither party predominantly to blame. If experience in driving means anything, it means that you have to expect learner drivers like Michael Murdoch [il giovane nella parte involontaria di Edipo, ndr] – to do something daft occasionally; and in this case, Anne Scott’s husband wasn’t careful enough to cope with the other fellow’s inexperience. But do you see how things are beginning to build up and develop, Lewis? Everything is beginning to assume a menacing and sinister importance. Young Michael Murdoch was visiting Anne Scott once a week for special coaching; and as they sat next to each other week after week I reckon that sheer physical proximity got a bit too much for both of them. The young lad must have become infatuated by a comparatively mature and attractive woman -a woman with a full and eminent figure; and the woman herself, who had probably only been in love once in her life, must surely have felt the attraction of a young, virile lad who worshipped whatever ground she chose to tread. Then? Well, then the trouble starts. She misses a period – and then another; and she goes off to the Jericho Clinic – where they tell her they’ll let her know as soon as they can. As the days pass, Anne Scott must have felt that the fates were conspiring against her. Michael Murdoch was the very last person in the world she was going to tell her troubles to: he’d finished his schooling, anyway, and so there was no longer any legitimate reason for them seeing each other. Perhaps they met again once or twice after that – I just don’t know. What is perfectly clear is that Anne Scott was growing increasingly depressed as the days dragged on. Life hadn’t been very kind to her, and looking back on things she saw evidence only of her failures:  her hasty adolescent marriage that had been short-lived and disastrous; other lovers, no doubt, who’d given her some physical gratification, but little else; and then Michael Murdoch …’

    ‘So,’ resumed Morse, lapping his lips into the level of his pint, ‘Anne Scott’s making a bit of a mess of her life. She’s still attractive enough to middle-aged men like you and me, Lewis; but most of those are already bespoke, like you, and the ones that are left, like me, are a load of old remaindered books – out of date and going cheap. But her real tragedy is that she’s still attractive to some of the young pupils who come along to that piddling little property of hers in Jericho. She’s got no regular income except for the fees from a succession of half-wits whose parents are rich enough and stupid enough to cough up and keep hoping. She goes out quite a bit, of course, and occasionally she meets a nice enough chap but… No! Things don’t work out, and she begins to think-she begins to believe -that they never will. She’s got a deeply pessimistic and fatalistic streak in her make-up, and in the end, as you know, she abandons all hope. But she was a pretty tough girl, I should think, and she’d have been able to cope with her problems -if it hadn’t been for that shattering revelation at the evening.

    ‘She’d been reading the Oedipus story again in the Penguin translation-probably with one of her pupils-and the ground’s all naked and ready for the seeds that were sown that fateful evening. Adoption and birthdays-they were the seeds, Lewis, and it must have been the most traumatic shock of her whole life when the terrible truth dawned on her: Michael Murdoch was her own son. And as the implications whirled round in her mind, she must have seen the whole thing in terms of the fates marking her out as another Jocasta. Everything fitted. Her husband had been killed – killed in a road accident-killed by her own son -a son with whom she’d been having sex -a son who was the father of the child she was expecting. She must have felt utterly powerless against the workings of what she saw as the pre-ordained tragedy of her own benighted life. And so she decides to do the one thing that was left open to her: to stop all the struggling and to surrender to her fate; to co-operate with the forces that were now driving her inexorably to her own death -a death she slowly determines, as she sits through that long and hopeless night, will be the death that Queen Jocasta chose. And so, my old friend, she hanged herself …

    Da qui la battuta finale:

    “The whole wretched thing’s nothing less than a ghastly re-enactment of the old myth as you can read it in Sophocles. And as I told you, if there was one man guilty of Anne Scott’s death, that man was Sophocles”.

    I classici diventano vita, perché la vita varia nelle forme, ma rimane sempre uguale nella sostanza; per questo, essi possono fornire infinite occasioni di narrazione e ri-narrazione, bisognose di essere attualizzate, ma non di essere modificate, perché sempre identica è la sostanza del vivere umano. Nello stesso tempo, i classici sono uno strumento ermeneutico della nostra esistenza, alla quale forniscono gli archetipi capaci di darle significato (tragico, nel caso di Anne; esegetico, per Morse). Tutto ciò però, pensa sconsolato Lewis, solo a patto che qualcuno abbia saputo renderceli vivi, evitando così di farli apparire come un vecchiume senza senso e intimidatorio. Un augurio per tutti!

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • L’ultimo volo di Icaro

    L’ultimo volo di Icaro

    E’ assioma più volte verificato tra le pagine di questo sito che la musica, più di altre arti (letteratura, pittura, cinema), abbia conservato uno stretto legame con la mitologia classica e con il repertorio di sapere che da essa deriva. Le ragioni sono incerte, forse andranno cercate in un bisogno di valorizzazione e di giustificazione culturale: anni fa avevo osservato in un articolo l’impressionante quantità di riferimenti classici presenti nella letteratura poliziesca, specie quella d’annata, quando le detective stories erano ancora considerate un genere minore, di cui un po’ vergognarsi, frequentato più per ragioni economiche che come esibizione di bravura stilistica e compositiva; ed è possibile che qualcosa del genere avvenga anche con la musica cosiddetta colta, oggi un genere indubbiamente minoritario e di nicchia. Può essere, invece, che in musica, più che nelle altre discipline, sia forte il senso della tradizione, e minore quindi le possibilità – o forse anche solo la necessità – di esplorare nuovi campi e territori, maggiormente interessando la possibilità di confrontarsi con nuovi mezzi su temi del passato. E ancora: è possibile che ancorarsi a miti e storie ben conosciute sia una sorta di contrappeso al carattere astratto che, per sua natura, la musica tende ad avere. La discussione è aperta. Ma, per fare un esempio, colpisce osservare come in questa estate, abbastanza scialba di grandi avvenimenti musicali, degli otto spettacoli presentati da un Festival che è certo la quintessenza della conservazione, quello di Salisburgo, a parte tre incentrati sulle presenze di singoli divi, gli altri cinque erano tutti dedicati a un personaggio mitologico classico – in un festival che, per definizione, ha sempre rifuggito dalle scelte tematiche unitarie: Idomeneo (Mozart), Orfeo (Offenbach), Edipo (Enescu), Medea (Cherubini) e Salome (Strauss), che viene dalla classicità biblica per via di Oscar Wilde, ma sempre personaggio classico è.

    Questo post lo vorrei però dedicare a un brano eseguito in uno dei concerti “Proms” della BBC. Cosa siano i Proms (abbreviazione di Promenade) ho già avuto occasione di dirlo in un altro post: una serie di concerti promossi dalla rete nazionale inglese con le sue orchestre, ed orchestre ospiti. Occupano tutte le giornate dalla metà di luglio alla metà di settembre; si svolgono perlopiù (ma non solo) alla Royal Albert Hall; hanno una tradizione più che centenaria (dal 1895); vengono trasmessi per radio (tutti), per televisione (molti); alternano brani sinfonici (prevalenti), a opere liriche, musical, incontri di musica pop. Uno dei compiti culturali dei Proms è presentare testi inediti, o inediti quanto meno per la Gran Bretagna. E’ appunto questo il caso del brano che mi ha colpito, e che si intitola Icarus. Autrice è una compositrice russa, divenuta cittadina americana, Valerija L’vovna Auėrbach, detta Lera Auerbach (nessuna parentela, ovviamente, con Erich). La Auerbach è nata nel 1973 in una città nella regione degli Urali, ai confini con la Siberia, da una famiglia di musicisti. Ha studiato in patria, perfezionandosi poi alla Manhattan School of Music e alla Juilliard School di New York, la città dove si è trasferita nel 1991 e dove tuttora vive. Ha debuttato come compositrice con un suo brano eseguito alla Carnegie Hall da Gideon Kremer e dal suo gruppo, la “Kremerata Baltica”, nel 2002. Da allora è autrice di un vasto numero di composizioni, molte a carattere cameristico, ma anche due sinfonie, un balletto (dedicato alla Sirenetta di Andersen: il balletto, nel 2005, inaugurò dopo le ristrutturazioni l’Opera di Copenhagen), due opere liriche, un Requiem ortodosso, un oratorio, vari concerti per strumenti e orchestra.

    Icarus è un brano del 2006, che nei concerti Proms è stato eseguito per la prima volta nel Regno Unito. La prima esecuzione del brano risale invece al 2011, al bellissimo festival di Verbier, sulle montagne svizzere del Vallese. Il brano è derivato dall’ultimo movimento della sinfonia nr. 1 della Auerbach, intitolata Chimera, anch’essa datata 2006. Ha avuto varie esecuzioni, negli States (Boston e Chicago), in Canada (Winnipeg), in Ungheria (Budapest) e in Belgio (Bruxelles), forse anche altrove. Nella prima sezione viene descritta, a mio parere, la concitazione e l’eccitazione della fuga; è un brano agitato, che poi d’un tratto si placa, fino a lasciare spazio, in una sorta di seconda sezione, a un bell’assolo del violino primo: un po’ come se si descrivesse, credo, la gioia e la pace di un volo che ormai sembra assicurato e tranquillo. Questa sezione non dura a lungo: un movimento a spirale dell’orchestra dà spazio alla rapida e vorticosa caduta di Icaro. Una quarta sezione, dominata dagli ottoni, illustra il lutto per la morte del giovane; una quinta e ultima, più lenta e solenne, introdotta dal pizzicato dei violini, con ampio spazio concesso di nuovo al violino solista e all’oboe, rappresenta, a mio parere, il cordoglio ufficiale per Icaro, una sorta di funerale sul suo cadavere. I toni sono ancora molto seri, scuri, ma nello stesso tempo è come se il dolore fosse già stato distanziato e, in certa misura, elaborato, e il corteo funebre alla fine si allontanasse poco a poco, lasciando la scena vuota. Si muore sempre da soli…

    Va detto che la Auerbach fornisce della musica un’immagine leggermente diversa (il suo intervento, che corrisponde alle note di sala del concerto tenutosi a Boston nel 2016, si legge alla pagina https://blog.bostonphil.org/auerbach-icarus): “The title Icarus was given to this work after it was written. All my music is abstract, but by giving evocative titles I invite the listener to feel free to imagine, to access his own memories, associations. Icarus is what came to my mind, listening to this work at that time. Each time I hear the piece—it is different. What is important to me is that it connects to you, the listener, in the most individual and direct way, that this music disturbs you, moves you, soars with you, stays with you. You don’t need to understand how or why— just allow the music to take you wherever it takes you. It is permissible to daydream while listening or to remember your own past. It is fine not to have any images at all, but simply experience the sound”. E così, dunque, sia!

    (Auerbach, Icarus, Londra 2019)

    © Massimo Gioseffi. La partitura di Icarus è copyright delle edizioni Hans Sikorski (Schirmer per Canada e USA)

  • Nel nome di Augusto – Festina lente

    Nel nome di Augusto – Festina lente

    Come consuetudine, “Latinoamilano” celebra l’imminente Ferragosto con un omaggio musicale ispirato alla figura di Augusto o alla cultura augustea. Quest’anno abbiamo scelto una composizione di Arvo Pärt, compositore estone nato nel 1935 e tuttora in attività, che porta per titolo il motto Festina lente, che era, nella forma greca σπεῦδε βραδέως, la frase del cuore dell’imperatore a detta di Svetonio, Augusto, 25. Nel caso di Pärt, più che un richiamo all’antica figura, dietro al titolo è da vedere presumibilmente un’indicazione cronometrica per l’esecutore. Il brano è un pezzo per orchestra d’archi, e risale al 1988. Qui l’ascoltiamo in un’esecuzione particolarmente intensa, del 2011, come parte di un concerto commemorativo della strage delle Twin Towers a New York.

    (Festina lente, 1988)

    E’ questa l’occasione anche per spendere qualche parola intorno a Pärt, musicista schivo e solitario, balzato agli onori del successo e della cronaca agli inizi degli anni Duemila. Dopo gli studi a Tallin e le prime composizioni entro il sistema sovietico e la dodecafonia e l’atonalità allora imperanti, Pärt costituisce uno dei primi tentativi di liberarsi da quel credo e recuperare l’insegnamento del passato. Per questo, è amato o odiato quasi del pari… Fra le sue composizioni, punto di svolta è il bellissimo Cantus, scritto nel 1976 e dedicato alla memoria di Benjamin Britten, morto giusto quell’anno. In Britten, di cui si avverte qualche eco nella composizione, Pärt riconosceva una sorta di fratello maggiore, che, lontano dalla dodecafonia propriamente detta, aveva cercato un linguaggio moderno. Cantus è probabilmente la composizione più nota di Pärt, l’unica – ad esempio – ad essere mai stata eseguita dall’orchestra scaligera (nel 2000 e nel 2008).

    (Cantus, 1976)

    Pärt ha però un vastissimo catalogo di composizioni, fra le quali spiccano quattro sinfonie (datate rispettivamente 1963, 1966 e 1971 le prime tre, ancora nel pieno del periodo dodecafonico; 2004 la quarta, salita all’onore delle cronache perché dedicata al miliardo russo Michail Borisovič Chodorkovskij, arrestato l’anno prima per frode fiscale e poi condannato per vari reati finanziari, amnistiato nel 2013, ma considerato – da Amnesty International e altre organizzazioni – vittima di un processo politico intentatogli da Vladimir Putin); vari concerti per strumenti solistici e orchestra; diversi pezzi per pianoforte o organo; numerose composizioni per coro, a cappella o con accompagnamento orchestrale; molti componimenti di ambiente ecclesiale (Messe, oratori, cantate, un Magnificat, un Te Deum, uno Stabat Mater, un Miserere); ecc. Due elementi sono costanti nella produzione di Pärt, l’impegno anche politico della propria musica; l’interesse per il canto gregoriano e lo sfondo spesso religioso (di religione ortodossa) delle composizioni. Fra i vari titoli, ne ricordo ancora due, di particolare impegno e fortuna: Spiegel im Spiegel (“Specchio nello Specchio”), per violino, violoncello e pianoforte, del 1978, una sorta di riassunto del pensiero musicale di Pärt; e Fratres, una composizione originariamente scritta per violino e pianoforte in dialogo fra loro, ma poi continuamente riscritta e riadattata a strumenti e combinazioni sempre diverse. Caratteristica della musica di Pärt è l’utilizzo di un’armonia semplice, fondata di norma sull’accordo di tre note, e la riduzione ai minimi termini del materiale di contorno, in una ripetizione “minimalista” dell’accordo di partenza. Dalla sua ampia produzione offro qui due pezzi corali (l’accompagnamento si può fare con qualsivoglia strumento: piano, organo, chitarra – lo stesso autore ne ha curato le varie edizioni), come proposta per i molti cori attivi nelle scuole. Il primo è una ninna nanna sul facile testo Kusse, kusse, kallike, continuamente ripetuto; il secondo è la versione tedesca del Padre Nostro (Vater Unser).

    (Ninna nanna estone – versione per archi)
    (Ninna nanna estone– versione per piano)
    (Vater Unser)
  • Racine, Virgilio & co.

    Racine, Virgilio & co.

    Qualche settimana fa ho potuto finalmente mettere le mani sul romanzo Titus n’aimait pas Bérénice di Nathalie Azoulai, libro che molto ha fatto parlare di sé in Francia, dove ha ottenuto il premio Médicis nel 2015, ma non è stato ancora tradotto in italiano. Mentre lo cercavo febbrilmente tra gli scaffali della libreria francese di Tel Aviv, pensavo di impadronirmi di un esempio di ricezione della cultura classica nel mondo ebraico, proprio in corrispondenza del momento di massimo conflitto tra il mondo pagano greco-romano e la cultura ebraica. Non ho trovato ciò che cercavo; il libro mi ha sorpreso in positivo, aprendo tutt’altra strada da quella che avevo immaginato. Ne offro una breve recensione, accompagnata da alcune idee che mi sembrano centrali quanto al modo in cui funziona il meccanismo della tradizione/ricezione, in particolare nella cultura ebraica.

    Il romanzo (390 pp.) si apre in un bar dove un certo Titus decide di lasciare la propria amante: “Titus quitte Bérénice pour ne pas quitter Roma, son épouse légitime […] Titus s’avance vers Roma et dit, reprends-moi, et Roma, qui ne supporte pas qu’il abandonne ainsi le château de leurs années, le reprend”. A prima vista sembra che Berenice, la protagonista, proietti la storia di Tito e Berenice sulla sua vicenda. Persino i nomi non sono credibili: davvero la moglie legittima si chiama Roma? In realtà, la vicenda prende poi un’altra piega: non è tanto la vicenda di Tito e Berenice a costituire una spiegazione e consolazione per la Berenice d’oggi, abbandonata dal suo amante: è invece la costruzione dei personaggi di Jean Racine (1639-1699) e, in definitiva, Jean Racine stesso a costituire, per Berenice, la chiave “pour se remettre du chagrin d’amour”. A fronte delle banalità che le vengono dette per consolarla del suo amore finito, solo una frase risuona chiara al suo orecchio: Dans l’Orient désert quel devint mon ennui! (Racine, Bér. 234). Nasce l’ossessione di Berenice per Racine, giacché “Elle trouve toujours un vers qui épouse le contour de ses humeurs, la colère, la catatonie… Racine, c’est le supermarché du chagrin d’amour, lance-t-elle pour contrebalancer le sérieux que ses citations provoquent quand elle les jette dans la conversation”. Comincia a leggere tutte le tragedie di Racine, a cercarne i fili tesi della lingua, una lingua “unique”. Trae le sue conclusioni: “si elle pourra comprendre comment ce bourgeois de province a pu écrire des vers aussi poignants sur l’amour des femmes, alors elle comprendra pourquoi Titus l’a quittée”. Anche se la storia della nostra Berenice ricomparirà più avanti nel libro, la rotta della narrazione cambia del tutto: Berenice va a visitare le rovine dell’abbazia di Port-Royal, dove Racine venne educato. Comincia qui per il lettore un viaggio a fianco di Racine, a partire dagli anni della scuola.

    Il romanzo segue le vicende dell’autore francese fino alla morte e anzi oltre, fino alla distruzione dell’abbazia di Port-Royal (1713). In questa biografia ‘sentimentale’ di Racine si intravedono tre grandi sezioni: I) l’educazione; II) la competizione a teatro, cioè l’inizio della sua carriera di poeta ai tempi di Molière e Corneille; III) i giorni della corte. Nathalie Azoulai riesce a trasformare in narrazione il ‘dietro le quinte’ dell’opera di Racine, in maniera assai convincente: se il materiale non mancava per la vita di corte e i suoi intrighi, i giorni della scuola a Port-Royal erano certamente più difficili da drammatizzare. La scrittrice ci riesce, proponendo uno sguardo allo specchio: ciò che lei cerca di fare con Racine è esattamente ciò che Racine ha fatto nelle sue opere, cioè trasformare un conflitto, storico o mitologico, in un dramma, in un’azione scenica. La Azoulai non cade nella facile illusione di intessere una storia legata ad ognuna delle dodici tragedie di Racine, ma punta tutto sull’humus da cui nascono le tragedie: le letture di giovinezza del poeta, che ‘creano’ il suo modo di vedere il mondo. Da dove infatti poteva venire a un ragazzino rimasto orfano in tenera età la capacità di analizzare in profondo i sentimenti e riproporli in scena? La risposta della Azoulai è indubbiamente dall’educazione di Racine, che si può ben definire una education séntimentale; senza contare che, come richiede ogni dramma, ogni periodo della sua vita, compreso questo, è innervato da un conflitto. Il risultato è una lode non banale del potere della letteratura sull’animo umano, sulla durata di tale potere (nella vita di una persona, ma a ben guardare anche nella vita di una nazione o persino della cultura mondiale) e sulla capacità della letteratura di farsi chiave di interpretazione del reale.

    Quali sono dunque i testi su cui Racine si forma? E quale il conflitto? Naturalmente ci sono le Bucoliche e le Georgiche di Virgilio, Plutarco, Tacito, Quintiliano, l’Odissea, Seneca, i tragici greci. Questi testi vengono inseriti nella vicenda come parte di un reale programma di studio del tempo. Dove nasce il conflitto? Questi testi sono la chiave linguistica per Racine per aprire scrigni più reconditi o, anzi, perfino chiusi a Port-Royal, cioè il libro IV dell’Eneide e le Etiopiche di Eliodoro di Emesa. Due sono le strade, a mio parere, che hanno portato la Azoulai a integrare questi testi nel romanzo come attori fondamentali dell’educazione sentimentale del drammaturgo: da una parte, per Virgilio, la préface alla Bérénice dello stesso Racine; dall’altra, per Eliodoro, un aneddoto noto dalla Histoire de l’Académie Française di Valincour.

    Racine infatti, dovendosi giustificare nella préface all’edizione a stampa della tragedia (quasi un novello Terenzio) per la scelta di un tema apparentemente poco tragico come la separazione di Tito e della principessa giudaica Berenice, sceglie la vicenda di Enea e Didone come paradigma massimo delle passioni causate dall’abbandono: “Cette action [la vicenda di Tito e Berenice] est très fameuse dans l’histoire, et je l’ai trouvée très propre pour le théâtre, par la violence des passions qu’elle y pouvait exciter. En effet, nous n’avons rien de plus touchant dans tous les poètes, que la séparation d’Enée et de Didon, dans Virgile. Et qui doute que ce qui a pu fournir assez de matière pour tout un chant d’un poème héroïque, où l’action dure plusieurs jours, ne puisse suffire pour le sujet d’une tragédie, dont la durée ne doit être que de quelques heures ? Il est vrai que je n’ai point poussé Bérénice jusqu’à se tuer comme Didon, parce que Bérénice n’ayant pas ici avec Titus les derniers engagements que Didon avait avec Enée, elle n’est pas obligée comme elle de renoncer à la vie” [il corsivo è mio]. Nonostante le sue dichiarazioni, per scatenare ulteriormente i flutti tempestosi delle passioni, Racine introduce nella vicenda il tentato suicidio di Berenice (Bér. 1227-1240).

    Eliodoro, a sua volta, fornisce il tocco romantico – proibito – dell’incontro tra i due giovani, Teagene e Cariclea, nel terzo libro, di cui Jean legge alcuni passi (nella traduzione di Pierre Grimal del 1958 nel testo della Azoulai: anacronismo dettato dall’impossibilità di somministrare ai lettori la traduzione cinquecentesca di Jacques Amyot [1548] senza spezzare l’inganno letterario – Racine lesse il testo direttamente in greco). Valincour, nella sua Histoire de l’Académie Française, di cui Racine fece parte, riporta l’aneddoto del ritrovamento del libro proibito ben due volte tra gli oggetti personali di Racine, aneddoto che viene drammatizzato anche dalla Azoulai: che cosa avrà voluto dire per Jean il bruciare delle gote di fronte alla vergogna di essere scoperto in flagrante e di fronte al rogo del libro sequestratogli? Certamente rimane segnato dall’idea continua di conflitto, a partire proprio dal conflitto tra i testi da imitare e il pericolo che essi pongono agli occhi degli insegnanti. Come può un testo classico, frutto di un’epoca canonizzata dalla scuola, costituire un pericolo?

    Il conflitto tocca ogni momento della vita di Jean e anima ogni scenario creato dalla Azoulai con vero tocco drammatizzante. Sottolineo ‘drammatizzante’ perché raccontare la trama del romanzo risulta piuttosto difficile: esso non si basa su una grave situazione di conflitto che genera lo sviluppo degli eventi, ma su tre conflitti ‘minori’, sui quali la Azoulai punta il riflettore di volta in volta, mentre segue la vita di Racine: il conflitto ai tempi della scuola tra l’insegnamento rigido impartitogli e la libertà di leggere testi proibiti e fare domande scomode quanto brucianti; la competizione iniziale con Corneille e Molière a corte; la tensione tra la assoluta, quasi erotica, fedeltà a un re cattolico e la sua educazione giansenista di gioventù.

    Questi conflitti ‘tenui’, interiori ma vessanti, sono a mio avviso proprio ciò che più significativamente connette il romanzo alla scrittura della Bérénice. Infatti, tornando alla préface della tragedia, si nota come la competizione tra i drammaturghi del tempo, ben messa in scena dalla Azoulai, richiedeva un’ardente difesa in risposta alle accuse che venivano mosse a Racine. La scelta è una scelta di imitazione della semplicità degli antichi, da Sofocle a Orazio: “Il y avait longtemps que je voulais essayer si je pourrais faire une tragédie avec cette simplicité d’action qui a été si fort du goût des anciens. Car c’est un des premiers préceptes qu’ils nous ont laissés : “Que ce que vous ferez, dit Horace, soit toujours simple et ne soit qu’un”. Ils ont admiré l’Ajax de Sophocle, qui n’est autre chose qu’Ajax qui se tue de regret, à cause de la fureur où il était tombé après le refus qu’on lui avait fait des armes d’Achille. […] Il y en a qui pensent que cette simplicité est une marque de peu d’invention. […] Car pour le libelle que l’on fait contre moi, je crois que les lecteurs me dispenseront volontiers d’y répondre”.

    L’imitazione dei grandi testi antichi spinge il drammaturgo a tentare una strada di non sicuro successo, in cui dovrà spendere ogni forza per rendere drammatico e apparente il conflitto delle volontà. Non a caso alla préface egli prepone – epigrafe o esegesi? – la concisissima descrizione di Svetonio: Titus, reginam Berenicen, cum etiam nuptias pollicitus ferebatur, statim ab urbe dimisit invitus invitam. Le parole invitus invitam catturano essenzialmente il dilemma di Tito: egli non vuole, ella non vuole. Come il fato di Enea, richiamato da Racine, ordina la partenza, Roma ordina l’esilio di Berenice. Questa icastica espressione di conflitto interiore torna ossessivamente nel romanzo ed è questo il secondo aspetto in cui la trama-cornice si riflette nella trama della vita di Racine: l’ossessione per le parole. L’ossessione di Berenice per i versi di Racine si riflette infatti nell’ossessione del giovane Jean per le parole di Virgilio: la regola imposta dal maestro Lancelot di “disséquer les textes” (p. 33) lo porta (e porta il lettore) a riflettere a lungo alle traduzioni del locus classico Ibant obscuri sola sub nocte per umbram (Aen. VI, 381): come rendere la concisione del latino in francese? Ma sono soprattutto i segni dell’amore bruciante e della sua presagita sofferenza da parte di Didone a tenere sveglio Jean, proprio quella sofferenza che egli richiama quando introduce la sua Bérénice: pallida morte futura (Aen. IV, 644) e caeco carpitur igni (IV, 2). Del primo, Jean ancora non riesce a intravedere una traduzione perfetta che renda ogni aspetto del latino; del secondo, si domanda a quale realtà fisiologica l’ignis rimandi: arriva a chiedere al suo maestro Jean Hamon (1618-1687) a quale temperatura possa arrivare il sangue di una donna (dettaglio sapientemente costruito dalla Azoulai sulla base della scienza medica del tempo). A mio parere i due versi evidenziano con precisione i due livelli di elaborazione della poesia: da una parte la necessità di una lingua introspettiva e selecta, dall’altra l’esplorazione della realtà profonda dei sentimenti da esprimere.

    Come ho detto, mi attendevo qualcosa di ben diverso dal romanzo: immaginavo che la scrittrice sarebbe tornata indietro direttamente alla vicenda iniziale, alla separazione fra il neo-imperatore Tito e la principessa Berenice. La scelta diversa, ingannevole della Azoulai non mi ha però deluso e mi ha portato a confermare alcune idee sui meccanismi della ricezione del mondo classico nella cultura ebraica. Tale riflessione vale forse più specificamente per la cultura ebraica di Israele, ma mi pare che si possa anche ampliare lo sguardo sulla cultura ebraica mondiale mantenendo la medesima conclusione. Il senso di marginalità, di minoranza (tanto più forte nella Francia dell’ultimo decennio, che ha visto una fuga massiccia della sua popolazione ebraica) causa, a mio parere, una sorte di spinta centripeta nelle espressioni di ricezione: la ricezione di un mondo tanto ‘altro da sé’ quanto il mondo pagano antico passa preferenzialmente per un punto di contatto ‘a metà strada’, di solito nella cultura europea moderna, vuoi nell’arte o nella letteratura. Tale punto di contatto non è funzionale all’incontro col classico in sé, ma alla creazione di un terreno comune col lettore occidentale: un terreno in cui il classico diventa prima di tutto immaginario culturale, piuttosto che realtà storica determinata. Questo aspetto è tanto più visibile nella cultura ebraica, in cui il rimando alla cultura europea dell’età moderna è un modo di negoziare la posizione nella cultura europea o, meglio ancora, occidentale, di Israele. Rispetto a questa tendenza generale, conosco solo due aree che fanno eccezione, cioè con le quali l’interazione è diretta e non mediata: la filosofia occidentale (in cui il pensiero antico è basilare e fondamentale in senso storico e logico) e la psicoanalisi, un campo di grande produttività per la ricezione del classico (in cui il punto d’origine è immediatamente riconoscibile nella persona di Freud e nei suoi scritti). Ma di questo bisognerà parlare in un’altra occasione.

    © Giacomo Loi

    Foto di copertina di Johan Persson, Londra 2012. Anne-Marie Duff interpreta Bérénice di Jean Racine

  • Offenbach 200 – Orphée aux Enfers

    Offenbach 200 – Orphée aux Enfers

    Riprendiamo il discorso intorno a Jacques Offenbach, presentando la prima delle sue operette ambientate nel mondo classico. Si tratta di Orphée aux Enfers, rappresentata al Théâtre des Bouffes-Parisiens nel 1858, il locale da lui fondato tre anni prima. Nella vicenda artistica di Offenbach, l’Orphée segna un punto di non ritorno, non solo per lo straordinario successo che arrise al testo, ma anche perché, con esso, il musicista aveva potuto superare una serie di leggi risalenti all’età napoleonica, che impedivano a teatri musicali diversi dall’Opéra di mettere in scena spettacoli complessi, di lunga durata o con più di quattro personaggi in scena – che è appunto l’organico delle prime operette offenbachiane. L’Orphée, scritto su libretto di Hector Crémieux e Ludovic Halévy (quest’ultimo nipote di un compositore famoso, e noto per la sua successiva collaborazione con Henri Meilhac, che lo porterà a firmare, nel 1875, il libretto della Carmen di Georges Bizet), prevede invece un gran numero di personaggi, due atti e quattro scene di diversa ambientazione, per una durata complessiva intorno alle due ore di musica. Colpo di genio dello spettacolo è di immaginare Orfeo ed Euridice come una coppia borghese, giunta vicina al punto di rottura del matrimonio: lei, stanca e annoiata dalle arie che si dà lui (violinista alla locale Opéra), sogna flirt e tradimenti, e si getta ben volentieri fra le braccia di Aristeo. Lui, a sua volta stanco di una moglie capricciosa e civettuola, spera solo di liberarsene per correre fra le braccia della ninfa Maquita (nome spagnolesco, da sciantosa di locale alla moda). Altra idea geniale è immaginare che Aristeo sia in realtà Plutone travestito da figura umana: in questo modo l’abbraccio di Euridice con il suo amante, quando finalmente si realizza, comporta inevitabilmente la morte dell’eroina. Inoltre, lo spettacolo prevede la partecipazione di un personaggio denominato “L’Opinione pubblica”. E’ lei che obbliga Orfeo alla grande impresa del riscatto di Euridice: se Orfeo è il cantore mitico che dice di essere, egli deve tentare l’impresa, anche se in realtà non ne avrebbe nessuna voglia. Viene così anticipato molto teatro novecentesco, specie d’ambito francese (Anhouil, Gide, Cocteau), nel quale l’insuccesso di Orfeo è iscritto nell’impresa stessa ed è un atto voluto, una libera scelta dei personaggi, e non un elemento drammatico che mette in evidenza l’impotenza dell’uomo e l’inesorabilità delle leggi divine.

    All’alzata del sipario siamo a Tebe. Un breve preludio ci introduce alla situazione, presentando una musica malinconica, che delinea prima un clima bucolico di sapore vagamente arcaico, poi uno spazio più aulico.

    (preludio)

    Euridice canta la propria gioia in un’arietta elegante e vaporosa, ricca di abbellimenti vocali, mentre, assente il marito, prepara mazzi di fiori per Aristeo, le berger joli qui loge ici (è un vicino di casa), in attesa che questi la raggiunga.

    (couplets di Euridice)

    Anziché Aristeo arriva però Orfeo, e vediamo così i due sposi litigare furiosamente. Orfeo intuisce il tradimento della moglie, e per vendicarsi promette di suonarle il suo ultimo concerto per violino, della durata di un’ora e un quarto. Euridice dapprima si dispera, poi lo deride, infine prega gli dei di liberarla da un tale marito, mentre lui elenca uno dopo l’altro tutta una serie di termini musicali.

    (duetto Orfeo/Euridice)

    Quando infine arriva Aristeo, la sua canzone è tenera e pastorale, quasi effeminata (l’interprete è un tenore di carattere, che si immagina abituato a ruoli comici), salvo svelare la propria fiera natura nel finale.

    (chanson di Aristeo)

    L’abbraccio dei due amanti porta alla morte di Euridice, espressa con una melodia delicata, che fa il verso all’opera seria. Aristeo/Plutone lascia un beffardo messaggio per Orfeo: Je quitte la maison parce que je suis morte / Aristée est Pluton et le diable m’emporte! Quando Orfeo lo trova, si dà alla pazza gioia, ringrazia Giove e tutti gli dei e proclama la sua felicità di uomo finalmente libero.

    (couplets della morte di Euridice)

    A questo punto interviene però l’opinione pubblica, che obbliga alla grande impresa. Per riuscire in essa, l’Opinione guida Orfeo verso l’Olimpo, così da chiedere aiuto a Giove. La scena si trasferisce dunque lì, dove le cose non vanno molto meglio: gli dei sono pigri, neghittosi, passano le giornate dormendo o compiendo atti contro la comune moralità. Atteone, ad esempio, è appena stato trasformato in cervo, ma non da Diana, come vuole il mito, bensì da Giove stesso, che scorgendo una certa disponibilità di Diana verso un comune mortale ha pensato bene di intervenire e rimettere a posto le cose (e la mitologia). Proprio quest’opera moralizzatrice di Giove, provoca però un’accusa nei suoi confronti: come può dedicarsi a una simile azione lui, quando è ben noto come seduttore di donne mortali? Non si è forse dato da fare, anche di recente, con la bella Euridice? Sull’Olimpo è infatti giunta notizia del rapimento della donna ad opera di un dio, e tutti naturalmente pensano a Giove, non a Plutone. Contro il padre degli dei si scatena così una rivolta delle altre divinità, che lo accusano di ipocrisia.

    (coro della rivolta)

    Quando Orfeo arriva a chiedere aiuto per recuperare la sposa, Giove si sente perciò obbligato ad assecondarlo, anche se né lui ne ha troppa voglia, né Orfeo (che pure cita, parodiandola, l’aria più famosa di Gluck, Che farò senz’Euridice) arde dal desiderio di recuperare la sposa. Incuriosito dall’audacia di Plutone, e dalla fama di bellezza di Euridice, Giove alla fine decide però di fare perfino qualcosa di più del richiesto, promettendo di aiutare in prima persona lo sposo ‘desolato’ e partendo a sua volta per gli Inferi, accompagnato dal coro inneggiante degli dei, ora riconciliatosi con il loro sovrano.

    (finale del I atto)

    Nell’Ade le cose non vanno troppo bene. Plutone si è già stancato della nuova conquista ed Euridice è annoiata dalla vita nell’oltretomba, ancora più monotona di quella terrena, con la sola compagnia di un eunuco di nome John Styx, che le fa la guardia e non la lascia civettare come vorrebbe. In breve, la donna rimpiange perfino il marito: Ah! quelle triste destinée me fait ici le dieu Pluton!

    (lamento di Euridice)

    Intanto arrivano Giove e Plutone; questi nega di avere con sé Euridice, che Giove cerca vanamente per tutto l’appartamento (la garçonnière) che il fratello gli mostra. In aiuto del padre interviene però il piccolo Cupido, che gli promette di mutare la sua forma in qualcosa di veramente capace di garantire pieno successo alla ricerca. Giove già gongola, prima di scoprire che si sta per trasformare in mosca, sia pure una mosca dalle ali d’oro. In effetti, il dio giunge così a trovare facilmente Euridice, e può sedurla con il suo charme. E’ qui che, come spesso nel teatro di Offenbach, la parola perde di significato, trasformandosi in puro suono, il fastidioso (ma seduttivo) ronzio di una mosca…

    (duetto della mosca)

    Plutone, che ha capito quanto sta succedendo, vorrebbe dare la caccia all’insetto importuno, ma ad opera di Giove e di Cupido si trova presto circondato da una ridda di altre mosche che gli volano intorno e impediscono la sua ricerca.

    (galop delle mosche)

    Piccato, Plutone offre allora un grande banchetto a tutti gli dei: l’idea è che anche Giove vi dovrà intervenire, ovviamente con la sua normale immagine, e quindi si troverà costretto ad abbandonare, almeno per poco, Euridice. Alla festa, Euridice inneggia al giovane Bacco; Plutone cerca di riuscire a trattenere con sé la donna, sottraendola alle attenzioni di Giove; questi vorrebbe invece trasformarla in baccante, per fuggire con lei. Nel pieno del festino, Plutone offre uno spettacolo di danza ai suoi ospiti: è la scena, che già conosciamo, del Galop infernale.

    (galop infernale)

    Intanto arriva Orfeo, di cui ci eravamo un po’ dimenticati, sempre accompagnato dall’Opinione pubblica. Giove, che li riconosce immediatamente e sa che cosa vogliono, pensa che questa sia una buona occasione per uscire dall’imbarazzo, e quindi concede immediatamente Euridice al marito, sia pure con il divieto di voltarsi a guardarla per tutto il tragitto di ritorno dall’Ade. Al primo rumore opportuno, però, Orfeo è ben lieto di girarsi per vedere che cosa stia succedendo, perdendo così di nuovo la moglie, e questa volta definitivamente. Per mettere ordine al caos che si è venuto a questo punto a creare, Giove prende una decisione salomonica: Euridice non sarà né sua né di Plutone, ma si trasformerà in una baccante, e come tale vivrà al seguito del giovane Bacco. La donna, in cerca di novità, accetta prontamente, e tutti i presenti inneggiano alla soluzione.

    (finale del secondo atto)
  • Offenbach 200

    Offenbach 200

    Il 20 giugno da poco passato si sono celebrati i duecento anni dalla nascita del compositore francese (anche se nato a Colonia, in Germania), Jacques Offenbach. Spiace dire che in Italia, salvo la RAI, cui va un plauso, nessuno dei maggiori teatri ha ricordato la ricorrenza. Un peccato, perché Offenbach è stato un genio (Rossini lo ribattezzò “Le petit Mozart des Champs-Elysées“), che ha inciso sulla storia della musica, ma anche sul quotidiano a lui contemporaneo, sulla nostra visione del classico, e, in minor misura, sul nostro quotidiano. Ne offro solo una prova: nel 2015 tutti ci siamo indignati e commossi per le novanta vittime dell’attentato al teatro Bataclan di Parigi. In pochi ci siamo chiesti l’origine di questo strano nome. Ba-ta-clan, scritto in realtà così, è il titolo di un’operetta di Offenbach, del 1855, ambientata in Cina, e i cui personaggi hanno tutti nomi “esotici” di invenzione, fatti di singole sillabe scandite da un trattino (bataclan è però il titolo di una canzone militaresca, una parodia del più diffuso rataplan). Quando nel 1865 fu inaugurato il teatro dalla forma di pagoda cinese, venne spontaneo intitolarlo come l’operetta di Offenbach, tale era la fama del compositore. Cito ora due fenomeni musicali per i quali tutti siamo debitori di Offenbach, anche se forse senza averne coscienza. Nell’operetta Orphée aux Enfers, del 1858, Offenbach doveva rappresentare la discesa di Orfeo agli Inferi e l’incontro con le Furie. E’ un tema già discusso, partendo da Gluck, in un altro post. Gluck, come sappiamo, nella versione viennese del 1762 del suo Orfeo aveva limitato al massimo le azioni delle Furie; nel 1774, dodici anni dopo, rivedendo il testo per Parigi, aveva invece dato loro un veemente balletto, a indicare i movimenti scomposti e, appunto, furiosi, di queste divinità. Eccolo:

    Come aveva fatto una trentina abbondante di anni prima Carl Maria von Weber con un ballo tipicamente contadino e popolare, il valzer, da lui sdoganato in una festa contadina e popolare all’interno di una sua opera, e poi, grazie a quel precedente, trasformato in ballo “colto” e nobile – Offenbach, alla ricerca di un ritmo adeguato per il suo inferno, sceglie un ballo di incerta origine e dubbio valore sociale, che si danzava in oscuri locali parigini, il Can Can. Offenbach in partitura indica in realtà il brano come Galop, la stretta finale (e quindi vorticosa) della quadriglia, un ballo accettato e comunemente praticato dall’alta società. Ma la celebrità di questo Galop infernal fu tale, che da allora in poi questo divenne il Can Can per eccellenza (la cui grande stagione è più tarda, risale agli anni Novanta del XIX secolo: a quella data si collocano sia gli schemi dei passi fissati dalla ballerina Louise Weber, sia i manifesti di Toulouse-Lautrec per il Moulin Rouge e altri locali parigini). Attraverso la sua composizione, cioè, Offenbach ha dato non solo visibilità e forma definitiva e irrinunciabile al ballo, ma è anche divenuto il simbolo della Belle époque di fine secolo, pur essendo lui morto nel 1880. Ancora nel film del 1960 di Walter Lang, Can-Can appunto, è sulla musica di Offenbach che i protagonisti ballano la loro danza proibita. Di quel Galop offro qui una versione da concerto, in attesa di ritrovare la scena al suo proprio posto:

    L’altra composizione di Offenbach che tutti conosciamo, anche se non sempre sappiamo trattarsi di cosa sua, è la celebre Barcarolle dai Contes d’Hoffmann, l’opera postuma del nostro musicista. Nell’opera è una serenata a due voci. Ne mostro innanzitutto uno dei tanti esempi di riutilizzo: due coniugi che si erano conosciuti a teatro, a una rappresentazione dell’opera di Offenbach, ma sono stati poi drammaticamente separati dalla vita, per un momento si ritrovano uniti grazie a quella musica. Altro non credo di dover aggiungere, limitandomi a riportare il link per il video :
    https://www.youtube.com/watch?v=sRvgm9qnwKQ

    Ecco però il brano originale nella sua interezza. Siamo a Venezia, di notte, in estate, e l’andamento della barcarola vorrebbe imitare il movimento sussultorio di una gondola, evocando un’atmosfera sensuale e malinconica. A cantare è la bellissima cortigiana Giulietta (la seconda voce che si ode nel brano); al suo fianco, a dare inizio alla melodia, è il giovane Nicklausse che, come tutti gli adolescenti, è raffigurato da una voce femminile di mezzosoprano. Questo il testo cantato: Belle nuit, ô nuit d’amour / souris à nos ivresses. / Nuit plus douce que le jour / ô, belle nuit d’amour! / Le temps fuit et sans retour / emporte nos tendresses / Loin de cet heureux séjour / le temps est sans retour / Zéphyrs embrasés / versez-nous vos caresses / Zéphyrs embrasés / donnez-nous vos baisers! Ah!

    Rimettiamo però ora un po’ di ordine nelle cose. Nato, come dicevo, in Germania, Offenbach si trasferisce a quattordici anni a Parigi e vi studia il ‘violoncello. Divenuto strumentista all’Opéra-Comique, acquisisce fama di virtuoso. Passato alla direzione d’orchestra, nel 1855 affitta un teatro sugli Champs-Elysées (da qui, il suo nomignolo), che chiama Bouffes Parisiens. Inutile seguire la sua carriera manageriale. Autore di due opere – una, come s’è detto, postuma – e varie composizioni ballettistiche e strumentali, Offenbach è ricordato soprattutto per le sue circa cento operette. Si vuole anzi che la parola l’abbia coniata lui, differenziando così le proprie composizioni dalle già affermate opéra-comiques. Si tratta di testi spesso brevi – non sempre! – di carattere comico quando non apertamente satirico, che alternano brani parlati a brani musicati, con ampio spazio anche ai numeri di danza. Vittima principale delle composizioni di Offenbach è la società del secondo Impero, quello di Napoleone III, incluso lo stesso Napoleone III. Dopo la sconfitta di Sedan, la caduta dell’Impero, l’esperienza della Comune, la carriera di Offenbach proseguì fra alti e bassi, ma meno gloriosamente di un tempo, fino alla morte avvenuta, come detto, nel 1880.

    Nei testi di Offenbach si riconoscono alcuni procedimenti ripetuti (tralascio l’analisi delle strutture musicali, anch’esse in genere immediatamente riconoscibili). Uno è la trasformazione in quotidiano di ciò che sarebbe sublime: ne La belle Hélène, 1864, di cui ci occuperemo in seguito più nello specifico, Elena è una “desperate housewife” che teme di vivere una vita banalmente borghese, e Paride viene raffigurato come un seduttore di quartiere, nelle cui braccia la donna è fin troppo ansiosa di cadere.

    Un altro procedimento è la parodia di situazioni celebri: nell’operetta già citata Elena invoca sempre la fatalité come responsabile della sua caduta, ancora prima che essa avvenga, quando è solo un desiderio inappagato. Ecco, ad esempio, come si rivolge alla dea Venere, colpevole a suo dire di faire ainsi cascader la vertu:

    Queste le parole cantate: On me nomme Hélène la blonde, la blonde fille de Léda. J’ai fait quelque bruit dans le monde: Thésée, Arcas et caetera. Et pourtant ma nature est bonne, mais le moyen de résister alors que Vénus, la friponne, se complaît à vous tourmenter. Dis-moi, Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu? Nous naissons toutes soucieuses de garder l’honneur de l’époux, mais des circonstances fâcheuses nous font mal tourner malgré nous! Prendez l’exemple de ma mère, quand elle vit le cygne altier, Qui, vous le savez, est mon père, pouvait-elle se méfier? Dis-moi, Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu? Ah, malheureuses que nous sommes! Beauté, fatal présent des cieux! Il faut lutter contre les hommes, il faut lutter contre les Dieux. Vous le voyez tous, moi je lutte, je lutte et ça ne sert à rien, Car si l’Olympe veut ma chute? Un jour ou l’autre il faudra bien. Dis-moi Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu?

    Altre volte la parodia si concentra su un preciso testo, poetico (Hugo, ma non solo) o musicale. Ne La Perichole, 1868, nel Perù del XVIII secolo il Viceré per fare sua la protagonista, una sorta di Madame Pompadour dei poveri, l’ha fatta sposare a un marito di comodo, che viene accolto con sommo disprezzo dai nobili di corte. La situazione ricorda quella de La Favorite di Gaetano Donizetti, andata in scena a Parigi nel 1840 e rimasta da allora in repertorio. Lì il protagonista dell’opera, Fernand, ottiene dal re di Castiglia Alfonso XI la mano di Lèonor de Guzman, ignorando che sia stata l’amante ufficiale del re, che pensa così di darle una vaga onorabilità. Ad avvisare Fernand sono i cortigiani inorriditi, che lo ritengono complice della manovra. Lèonor, abbandonata all’altare, dopo il pentimento, lunga macerazione e auto-punizione, ritrova Fernand e ne ottiene il perdono giusto prima di morire fra le sue braccia. La scena dei cortigiani viene trasferita di peso ne La Perichole, ripetendone musica e, con pochissimi adattamenti, perfino le parole. In questo modo, uno stesso pubblico andava all’Opéra, quella seria, a piangere sui destini di Lèonor; passava poi ai Bouffes Parisiens per ridere della medesima situazione.

    Altro meccanismo è quello che confonde volutamente alto e basso. Ecco come si esprime il gran Augure di Venere nella già ricordata Belle Hélène, presentandosi prima in tono grave e solenne, poi, nel ritornello Je suis gai [“allegro”], soyons gai, accelerando il ritmo, ma perdendo qualcosa in dignità, fino ad arrivare a uno spiazzante jodel:

    Ancora: Offenbach lavora spesso sulla parola, puntando a una sua sistematica e scientifica demolizione a scopo comico. E’ una lezione appresa da Rossini, dal famoso finale primo de L’italiana in Algeri. Lì tutti i personaggi lamentano di avere nella testa chi un campanello che suonando fa din…din, chi un martello che fa tac…tac, o un cannone che fa bum..bum, e chi si sente una cornacchia che fa cra…cra, fino a dissolvere il tutto in un insieme di suoni che formano un irresistibile nonsense che fa andare sossopra il cervello dei personaggi e li porta vicini, alla fine, a naufragare:

    Ne La Belle Hélène l’indovino Calcante, prezzolato, propone che Menelao per espiare certi presagi dall’apparenza nefasta passi un mese a Creta, lasciando così campo libero a Paride e a Elena. Menelao alla fine accetta, perché d’accordo con Agamennone pensa invece di tornare anzi tempo, e sorprendere l’eventuale infedeltà della moglie (al momento, non ancora consumata). Ecco cosa succede dell’invito, più volte ripetuto, pars pour la Crête:

    Altro elemento essenziale dello scrivere di Offenbach è il rovesciamento improvviso delle attese. Ne La Perichole la protagonista è davvero innamorata dell’uomo cui è stata fatta sposare per scherno, e non ha nessun interesse se non economico per il Viceré. Ecco allora come si rivolge, a breve distanza nel testo originale, al suo compagno, una volta appellandolo di nigaud (“sciocco”) e arrivando a filosofeggiare Ah! que les hommes sont bêtes!; la seconda volta tracciandone uno spiazzante ritratto così formulato: Tu n’es pas beau, tu n’es pas riche, / Tu manques tout à fait d’esprit. / Tes gestes sont ceux d’un godiche / D’un saltimbanque dont on rit. / Le talent, c’est une autre affaire / Tu n’en as guère, de talent. / De ce qu’on doit avoir pour plaire / Tu n’as presque rien… et pourtant…Je t’adore, brigand / J’ai honte à l’avouer, / Je t’adore et ne puis vivre sans t’adorer.



    Da ultimo: nelle operette di Offenbach ci sono riferimenti alla contemporaneità che a noi possono sfuggire. Il Viceré del Perù è raffigurato come gran cacciatore di gonnelle (così si diceva di Napoleone III), che promuove le sue amanti a titoli nobiliari abbastanza improbabili (anche questo si diceva di Napoleone III), che usa come schermo i mariti delle donne da lui concupite e lascia fare loro, in compenso dei torti matrimoniali, affari poco chiari (pure questo si adattava, pare, a Napoleone III). In un’aria che torna più volte nell’operetta, si dice anche che tutto ciò che è spagnolo ha maggiori probabilità di fortuna e Napoleone, tramite la moglie Eugenia de Montijo, era accusato di avere fatto la fortuna del partito spagnolo a Parigi… Di questi elementi offro una profetica testimonianza attraverso un’ulteriore operetta di Offenbach, La Grand duchesse de Gérolstein (1867). Gerolstein è una cittadina tedesca, che però non è mai stata sede di granducato. Quello che Offenbach ridicolizza qui sono le pretese imperialiste della Francia di Napoleone, alla vigilia della disastrosa campagna contro la Prussia. La nostra granduchessa ha delle mire militari, ma, come dice nella sua aria, sogna un grande esercito perché Ah! Que j’aime les militaires, / Leur uniforme coquet, / Leur moustache et leur plumet! / Ah! Que j’aime les militaires! / Leur air vainqueur, leurs manières, / En eux, tout me plait! / Quand je vois là mes soldats / Prêts à partir pour la guerre, / Fixes, droits, l’oeil à quinze pas, / Vrai Dieu! Je suis toute fière! / Seront-ils vainqueurs ou défaits?… / Je n’en sais rien… ce que je sais… Non a caso, il suo capo di stato maggiore è il generale Bum Bum, un nome che è una certezza, la cui presentazione musicale non ha bisogno, credo, di vederne riportate le parole…

    © Massimo Gioseffi, 2019 (to be continued)

  • Arcadia sull’Hudson

    Arcadia sull’Hudson

    Riprendo il ciclo di post dedicati all’Arcadia, con una prospettiva un po’ inusuale, almeno a occhi europei. Trovatomi a New York per un convegno su temi bucolici, ho scoperto l’esistenza di una scuola pittorica che si chiama “Hudson River School”, un movimento artistico sviluppatosi in America nel cinquantennio che va, grosso modo, dal 1825 al 1875, in parallelo all’opera di letterati come Henry David Thoreau (1817-1862) e Ralph Waldo Emerson (1803-1882). Devo all’amico Carlo Bottone, allora risiedente a New York, sia la visita alle sale del Metropolitan Museum dedicate a questa scuola pittorica, sia una gita (che molto consiglio a chi si trovasse da quelle parti) lungo le rive dell’Hudson, un piacevole complemento e diversivo dal caos organizzato della metropoli americana. Un ricordo per me indelebile e graditissimo.

    A chi volesse notizie precise e scientifiche su quella scuola pittorica, segnalo gli ottimi siti del Metropolitan Museum – che offre 54 dipinti, tutti commentati, e altro materiale informativo – e della Wadsworth Collection (un museo di Hartford, nel Connecticut), consultabili alle pagine https://www.metmuseum.org/toah/keywords/hudson-river-school/ e https://www.thewadsworth.org/collection/hudson-river-school/. Io qui non voglio esibire una dottrina che non ho, e che del resto in rete si può recuperare abbastanza facilmente. Dalle considerazioni intorno a quei dipinti – quelli che ho visto, quanto meno – vorrei ricavare tre suggestioni, che a me paiono tre forme del riuso arcade operato dai pittori di quella scuola.

    Il primo caso: ci sono dipinti che, pur rappresentando paesaggi più o meno reali della Valle dell’Hudson, sarebbero illustrabili con versi virgiliani, anche se la loro origine non è mai da cercare in Virgilio ma in una (presunta) osservazione dal vero e/o in una riproduzione di modelli pittorici inglesi – Turner e Constable in prima linea. Dico presunta osservazione dal vero, sia perché i dipinti raffigurano, quando hanno un’indicazione precisa, più i luoghi vicini alle sorgenti del fiume, nella zona delle Adirondack Mountains, che non quelli nei dintorni di New York, e io quei luoghi non li ho visti; sia perché, pur conservando ancora oggi la valle, man mano ci si allontana da Manhattan, un aspetto prettamente bucolico, il paesaggio in centocinquanta anni si è comunque alterato, ed è difficile capire quanto quei dipinti siano fotogrammi reali, e quanto pesi su di loro il velo dell’idealizzazione, assai forte nella poetica di questi pittori. Ecco così, ad esempio, una perfetta illustrazione del virgiliano ipsae lacte domum  referunt distenta [uberacapellae, IV 21, nel dipinto di Asher Brown Durand intitolato River Scene e datato 1854 (in realtà sono boves e non capellae, ma il resto cambia poco); oppure, ecco l’ille meas errare boves, ut cernis di I, 9, raffigurato dal quadro Autumn Oaks di George Inness, ca. 1878; il grandioso panorama proposto da The Beeches, ancora di Durand, datato 1845, in cui il pastore che, giustamente, agit gregem secondo i precetti virgiliani richiama di nuovo in mente la prima egloga, pur ridotto com’è a elemento miniaturizzato sullo sfondo di questi alberi maestosi; o, sempre di Durand (1853), le mucche che si abbeverano inter flumina nota di High Point, Shandaken Mountains (una località dello Stato di New York, vicino alla attuale città di Olive). 

    (Durand, River Scene, 1854)
    (Inness, Autumn Oaks, 1878)
    (Durand, The Beeches, 1845)
    (Durand, The Beeches, 1845, part.)
    (Durand, High Point – Shandaken Mountains, 1853, part. )

    Vengo alla seconda tipologia di intervento, che è quella della illustrazione di presunti luoghi geografici dell’Arcadia, in genere più facilmente inventati che conosciuti dal vero (la Grecia di inizio Ottocento non è ancora una meta turistica troppo sicura). Ecco ad esempio Evening in Arcady di Thomas Cole (1845); oppure, dello stesso pittore, ecco Dream of Arcady, del 1838. Sono paesaggi ideali, non diversi da quanto avevano fatto, con l’Italia, i Poussin e i Lorrain in un’altra, più antica stagione, e non diversi da quanto, per certe regioni dell’Italia (la valle di Tivoli e la Sicilia) fanno ancora gli stessi pittori della scuola dell’Hudson. Riporto, a titolo di esempio, una veduta di Taormina dove, sotto al maestoso panorama dell’Etna, si alternano rovine vere e di invenzione (l’autore è sempre Thomas Cole, 1843).

    (Cole, Evening in Arcady, 1845)
    (Cole, Dream in Arcady, 1838)
    (Cole, View of Taormina, 1843)

    Il nome di Thomas Cole, 1801-1848, riporta alla terza e forse più importante tipologia. A lui si deve un ciclo pittorico di cinque dipinti, pensati unitariamente, con il titolo di The Course of the Empire, 1833-1836. I quadri sono monumentali (100 cm per 161, ma quello centrale 130 per 193 cm) ed erano stati pensati per essere disposti in un pannello che li racchiudesse tutti, da esibire poi nella casa del committente, tale Luman Reed. Ognuno ha un sottotitolo: Stato selvaggio; Stato arcadico o pastorale; La consumazione dell’impero (quello centrale e più grande); Distruzione e Desolazione. L’idea di fondo consiste nel rappresentare un’identica scena naturale nel suo evolversi: dallo stato di Natura, libero e felice; a quello arcade, in cui l’uomo è ancora perfettamente inserito nel ciclo della Natura; alla costruzione della civiltà, di cui si fa simbolo una fiorente città dai tratti romani; alla distruzione che la civiltà inevitabilmente comporta, perché sedentarietà, fissazione dei confini naturali, costruzione di edifici e case significano il fondarsi di un capitalismo che porta a dissidi, guerre, dissoluzioni. Come sappiamo da un post precedente, è l’idea, espressa nella vita di Virgilio scritta da Elio Donato, che le Bucoliche raffigurerebbero lo stato primitivo ma felice della società, perché i pastori hanno greggi proprie, ma non impongono divisioni al terreno, sul quale le greggi devono poter pascolare senza confini. Con la nascita dell’agricoltura e quindi delle Georgiche, si arriva alla divisione dei campi e al formarsi della proprietà privata, perché i campi non sono di tutti, ma, quando va bene, sono di chi li lavora. Questo sfocia poi nelle guerre e nelle distruzioni, di cui si sarebbe fatta immagine l’Eneide. Che in Virgilio ci fosse un simile progetto naturalmente è assai discutibile; così come non credo che Cole conoscesse Virgilio o Donato (benché, se conosceva Virgilio è anche possibile e addirittura facile che lo leggesse con il commento e attraverso il filtro di Donato, che spesso accompagnava le antiche edizioni virgiliane. Ma non ho nessun dato a riguardo di una possibile conoscenza di Virgilio da parte del nostro pittore, e non è cosa che si possa dare per scontata). Resta da segnalare come, in Virgilio sì e no, in Donato in modo più esplicito, in Cole pure, una medesima critica al mondo contemporaneo e alla società cosiddetta civile, e alle forme del vivere civile, passi sempre attraverso i medesimi luoghi, e un medesimo utilizzo dell’idea pastorale, se non proprio arcade. Questa è per me, delle tre forme di riuso prospettate dal post, quella sicuramente più interessante di tutte.

    (Cole, The Savage State ca. 1836)

    (Cole, The Arcadian or Pastoral State, ca. 1836)

    (Cole, The Consummation of the Empire, ca. 1836)

    (Cole, The Destruction, ca. 1836)

    (Cole, Desolation,ca. 1836)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Alida Airaghi – Euridice

    Alida Airaghi – Euridice

    In un convegno organizzato presso il Liceo “Gonzaga” di Milano, oggi ho assistito a una relazione che aveva per argomento la poetessa italiana Alida Airaghi, 1953-vivente. Oggetto della comunicazione era il componimento “Euridice”, risalente al 1998, ma pubblicato nel 2000, nel volume Litania Periferica, Manni Editore, Lecce, e ristampato poi nell’antologia Nuovi poeti italiani, VI, Torino, Einaudi, 2012.

    Non fingerò di avere qualche sapere specifico su questa poetessa, a me fino a oggi, lo confesso, del tutto sconosciuta (mea culpa), ma i cui versi mi hanno molto colpito. Quello che so è quanto si apprende dalla voce a lei dedicata dall’immancabile wikipedia; il poco che, per ragioni di tempo, è stato detto dalla relatrice odierna, l’ottima Alessandra Terrile, che ringrazio; quello che si apprende dal sito della poetessa, da cui ho ricavato anche il testo che trascrivo (http://www.alidaairaghi.com/). Lì si legge che Alida Airaghi è nata a Verona nel 1953 e risiede a Garda. Dopo la laurea in lettere classiche a Milano, è vissuta e ha insegnato a Zurigo dal 1978 al 1992, come dipendente del Ministero degli Affari Esteri. Ha sposato il poeta friulano Siro Angeli, 1913-1991, da cui ha avuto le figlie Daria e Silvia. Collabora a diverse riviste, quotidiani e blog italiani e svizzeri. Il resto è l’elenco delle sue molte pubblicazioni, lungo un arco temporale che va dal 1984 al 2018.

    Euridice è una raccolta di nove sonetti, fortemente ritmici, nei quali viene raccontato il mito di Orfeo. A parlare è il mitico cantore che, persa la moglie, per sette sonetti progressivamente si avvicina all’idea dell’impresa mitica; nell’ottavo l’ha già compiuta, e accetta le condizioni imposte dalle divinità dell’Ade; nel nono elabora il lutto, decidendo di voltarsi a guardare Euridice.

    Ecco dunque il testo:

    EURIDICE

    I

    Niente succede a caso, niente.
    Che io ti abbia trovata, Euridice,
    che tu sia apparsa a me – felice
    di essere scoperta tra la gente –

    un giorno non qualunque
    di un non qualunque anno,
    pronta a svelarmi inganno e disinganno;
    per cui nel riconoscerti «Dunque

    sei tu», nient’altro, e basta:
    una stretta di mano, la mano
    nella mia tiepida appena, casta,

    e la voce che trema e non osa
    dire quello che sa, ma piano
    suggerisce altre cose, altra cosa.

    II

    E’ stata quindi una necessità
    incontrarti, te tra millecento
    che potevo, te pioggia sole vento
    e subito me stesso, mia metà.

    Più mia del mio sorriso e della pena,
    più mia della parola, di ogni gesto.
    Nome che chiamo, nome manifesto,
    sangue che pulsa lento nella vena.

    Perché sei tu e non altra, tu, Euridice,
    compagna e sposa mia, sorella mia,
    incisa nella pelle, cicatrice,

    che mi riempi pensiero, bocca, sesso,
    e non capisco ancora come sia
    che perdo me nel ritrovarti, adesso.

    III

    Ascoltatemi, animali e voi piante,
    tu cielo – monti torrenti scarpate –
    voi cose sospese e interrate,
    cose che mi girate intorno, tante.

    Di certo non avrei mai creduto
    di afferrare l’esistente con un dito:
    se mi sento diventare infinito
    e poi limite e fine, sordo e muto.

    Euridice, continuo a nominare,
    Euridice che canto e che invento,
    Euridice, mio eterno pensare.

    Siamo in due, siamo due e uno solo:
    esserti fuori o dentro è tormento
    in cui affondo. E poi volo.

    IV

    Può finire un amore, può cessare
    di scorrere il sangue, così improvvisamente,
    bloccarsi un corpo, tacere una mente,
    e dicono non ci sia nulla da fare.

    Io ti scuoto e ti scuoto, Euridice,
    non è possibile che non mi rispondi
    lì dove sei finita e ti nascondi,
    tornata sottoterra, mia radice.

    Ê uno scherzo, non può essere vero
    che rimanga di te solo il dolore:
    tutto intorno più nero del nero.

    Per questo alzati, cara, non fingere
    un silenzio adirato, accusatore.
    Non restartene lì come una sfinge.

    V

    Andrò da maghi a vendermi il destino,
    carte false farò con fattucchiere,
    annegato nell’acqua di un bicchiere
    perché non ci sei più, non ti ho vicino.

    Maledetti gli dei; quell’uno solo
    che ha deciso dall’alto del suo alto
    –  indifferente a tutto, ad ogni soprassalto
    del cuore, trionfante nel suo ruolo –

    di lasciarti morire, Euridice,
    che non gli hai fatto niente,
    mia figlia e sposa, amica mia, nutrice:

    lo maledico con tutto me stesso,
    dio colpevole e te innocente,
    per quello che ha voluto, che ha permesso.

    VI

    Se provassi a pregare, se riuscissi
    a convincerlo? Lui può fare
    che sia quel che non è, può fermare
    la terra, il sole, inventare un’eclissi.

    Dio degli dei, dio dei viventi, dio,
    non c’è un motivo vero, una ragione
    per cui la vita mi diventi prigione,
    e quello che era mio non sia più mio.

    Ti scongiuro, signore dell’abisso,
    ti imploro, lascia che ritorni
    a fare uno di me che sono scisso.

    Del tutto vero quello che si dice:
    sono pronto a dannare i miei giorni
    per riportarla a me, Euridice.

    VII

    Verrò a prenderti, cara, verrò
    a liberarti, Euridice sprofondata
    in un sonno ingannatore; mia malata,
    rinuncerò a curarti, se vedrò

    che ti avvolgi in un buio più profondo.
    Cosa ti tiene, che cosa ti trattiene
    laggiù, lontana dal mio bene:
    hai paura di perderlo nel mondo?

    Ma io scendo, comunque, a salvarti:
    perché la vita vera è qui, è ora,
    nel mio presente, nel mio sempre pensarti.

    Non c’è assoluto che sia meglio
    di noi, del mio volerti ancora.
    Ed è un incubo il sonno in cui sto sveglio.

    VIII

    Sono pronto a fare una promessa,
    barattando il mio sguardo col respiro
    di te viva, il mio silenzio-capogiro
    col tuo nome: Euridice principessa.

    Giuro che non ti sfioro con gli occhi,
    con le mani, che non mi avvicino
    col mio corpo teso di bambino
    incantato dal paese dei balocchi:

    purché tu, semplicemente, sia
    rimarrò muto, cieco e sospeso
    vivendo viva e vera la magia

    del tuo ritorno; impazienza
    di averti, avendoti preteso,
    mia ombra inconsistente, mia esistenza.

    IX

    Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina.
    Ma non ti guardo, taccio, sono bravo.
    Ai tuoi occhi sarò padrone e schiavo,
    Euridice, mia madre e bambina.

    Come vorrei mi prendessi la mano,
    toccarti un braccio, sfiorarti la bocca:
    so che non devo, so cosa mi tocca
    se non resisto a starti lontano.

    Sei silenziosa e ferma al mio fianco,
    oppure ti nascondi, resti indietro;
    segui ubbidiente il mio passo stanco

    e nel tuo passo leggero ti ascolto.
    Tu, trasparente pensiero di vetro:
    voglio appannarti. Ecco, mi volto.

  • Et in Arcadia ego…

    Et in Arcadia ego…

    Et in Arcadia ego è il titolo di una costante iconografica diffusa soprattutto nella pittura del XVII secolo. Da quel titolo, divenuto proverbiale, nel 1936 il critico e letterato Emilio Cecchi trasse lo spunto per le proprie memorie relative a un viaggio compiuto in Grecia due anni prima, nel 1934; il libro, tuttora reperibile in commercio, descrive la visita di Corfù, Creta e in particolare Cnosso, Delfi, Micene, Corinto e parte del Peloponneso, e infine Atene, in cerca delle più importanti tracce artistiche e archeologiche. E’ un’interessante testimonianza sulla Grecia dei tempi andati, nella quale – va sottolineato – il gusto del pittoresco, dello stereotipo folclorico e folcloristico, si mescola in continuazione con folgoranti intuizioni delle tracce lasciate dalla storia più moderna. Quanto all’iconografia propriamente detta di Et in Arcadia ego, essa è stata fatta oggetto di studio nel bel volume di Petra Maisak, Arkadien. Genese und Typologie einer idyllischen Wunschwelt, Frankfurt a.M./Bern 1981. Qui mi occuperò solo delle due attestazioni più comuni del tema: il dipinto di Poussin conservato al Louvre di Parigi, e datato 1639; il dipinto di Guercino, oggi facente parte della collezione di Palazzo Barberini a Roma, datato 1618-1622 (la datazione precisa è incerta, ma oscilla fra questi due estremi). Si tratta di due riletture dello stesso tema: a indicare la propria presenza in Arcadia, supposta come un’isola felice secondo una vulgata che non è di Virgilio, ma che risale a un certo modo tipicamente rinascimentale di interpretare e semplificare le egloghe di Virgilio, è la morte. Per quanto piacevolmente si possa vivere in Arcadia, i pastori scoprono, con curiosità e sgomento, che anche in quella sorte di paradiso terrestre ha spazio la morte. Erwin Panofsky nel 1939 scrisse un celebre saggio per mettere in evidenza l’ambiguità dell’espressione, che può riferirsi sia a un generico e generale Memento mori, sia alla persona specifica della quale si scopre la tomba (e che in questo caso si immagina essere l’artista che ha realizzato il dipinto). Come a dire: anche in Arcadia si trova la morte; oppure, anch’io, benché arcade e quindi eccelso nelle mie capacità artistiche, ho trovato la morte. Poussin sintetizza tutto questo in una scena ariosa e monumentale, che descrive il rinvenimento di un sarcofago di dimensioni da mausoleo (che, se accettiamo la prima interpretazione del titolo, potrebbe essere il sepulchrum Bianoris citato da Virgilio nella nona egloga, v. 60; oppure, la tomba di Dafni, rievocata – ma con diverso epitaffio – nella quinta egloga, vv. 42-44). Come che sia, i pastori, incuriositi e stupefatti, misurano le dimensioni dell’ampia costruzione, ne leggono l’iscrizione, mettendo un dito nelle lettere incise, così da seguirne più agevolmente la struttura; indicano la tomba a una figura femminile enigmatica (secondo alcuni una pastorella; secondo altri, una dea, o forse la Sibilla abitatrice anch’essa, in Virgilio, di antiquae silvae), e per suo tramite a noi. Una precedente versione dell’opera, più piccola di dimensioni e più raccolta nell’iconografia, mostra invece una tomba seminascosta, e non en plein air, e un atteggiamento più vivo e meno teatrale nei diversi pastori. Questo secondo (ma cronologicamente primo) dipinto, oggi conservato a Chatsworth House, nel Derbyshire, è fatto comunemente risalire al 1627, e sembra quindi una reazione abbastanza immediata e vicina al dipinto di Guercino, specie ricordando che Poussin, trentenne, nel 1624 era venuto a Roma, ospite proprio di quel cardinale Antonio Barberini nei cui appartamenti il dipinto di Guercino probabilmente già si conservava, sebbene Panofsky abbia individuato il committente dell’opera in Giulio Respigliosi, futuro papa Clemente IX, amico e collaboratore del Barberini (e anche sebbene il dipinto non sia citato nei cataloghi di Palazzo Barberini prima del 1644).

    (Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego o I pastori arcadi, 1639, Parigi, Museo del Louvre)
    (Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego, 1627, Chatsworth House)

    Quanto al dipinto di Guercino, la scena lì è più cupa. Due pastori rinvengono un teschio, sotto il quale appare l’iscrizione che conosciamo. L’ambiente è poco propizio: le selve incombono scure, tenebrose; non c’è affabilità di paesaggio, e solo sullo sfondo si apre un’immagine di luce, in un chiarore che ha però qualcosa di pretemporalesco. Anche i due pastori, perfettamente vestiti, senza figure femminili di accompagnamento (come invece avveniva nell’uno e nell’altro dipinto di Poussin), senza pose monumentali o teatrali, drappeggi pesanti e neoclassici, atteggiamenti da numi olimpici più che da pastori reali o realistici, mostrano una serietà e una seriosità che ben si adatta al messaggio complessivo del quadro, qui sicuramente da interpretare nella direzione di una presenza della morte perfino nei territori dell’Arcadia. Il teschio è elemento ricorrente nelle nature morte del XVII secolo e nel programma iconografico che va sotto il titolo di Vanitas vanitatum, del quale si conservano in tutti i musei numerose attestazioni; sul teschio di Yorick, lo ricordiamo, pochi anni prima, nel 1602, William Shakespeare aveva fatto pronunciare ad Amleto il suo Alas, poor Yorick ! I knew him, Horatio!. 

    (Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Et in Arcadia ego, ca. 1620, Roma, Galleria Nazionale d’arte antica, sede di Palazzo Barberini)

    Esiste però anche un’altra interpretazione dell’Arcadia, più in linea con la visione tradizionale dell’Arcadia come terra felice, di canti, amori, luminosi paesaggi, contrasti sanati. Ne offro due esempi. Il primo è un quadro del pittore russo Konstantin Makovsky, realizzato nel 1890, e oggi parte di una collezione privata. Nato a Mosca nel 1839, Makovsky è il tipico pittore ottocentesco (leggermente attardato, magari, rispetto alla tradizione dell’Europa occidentale), che si concentra prima su temi storici della Grande Patria Russa, poi su cartoline di genere, che dovrebbero cogliere l’anima folclorica e il vero spirito della suddetta Grande Patria. Arcadia felix, il quadro che ci interessa, fa un po’ eccezione nella sua produzione. L’Arcadia è vista come terra di pastori che suonano e cantano (sono ben in evidenza gli strumenti musicali: nei dipinti di Guercino e Poussin, se mancavano le greggi, mancavano però anche i ferri del mestiere di musici), che ballano e danzano, fra ninfe compiacenti e discinte, corpi giovani ed allettanti, elementi della tradizione dionisiaca (la tigre/pantera sulla destra del quadro), declinata in chiave erotico-sentimentale (a reggere le briglia dell’animale selvatico non è Bacco, ma un Amorino). Siamo davanti a una raffigurazione sincretica e simbolica dell’età dell’oro, con tanto di contrasti di Natura ormai felicemente appianati, più che a una rappresentazione dell’Arcadia, o anche solo del mondo virgiliano, o di ciò che del mondo virgiliano si poteva banalmente pensare.

    (Konstantin Makovsky, Arcadia felix, 1890, collezione privata)

    L’ultimo quadro che presento è opera del pittore americano Thomas Eakins. Nato nel 1840, Eakins, a parte un viaggio di studio in Europa, visse pressoché sempre nella nativa Filadelfia, della quale ritrasse scene e personaggi famosi (incluso il padre, insegnante di materie classiche). Arcadia, il dipinto che qui ci interessa, esiste anch’esso in due versioni. Nella prima, risalente al 1883 e oggi conservata al Metropolitan Museum di New York, la futura moglie del pittore, Susan Macdowell, il piccolo nipote Ben Crowell (figlio di una sorella) e un giovane allievo, James Laurie Wallace, tutti e tre piuttosto discinti, abitano, perdendosi in esso, un immenso paesaggio bucolico. I due giovani suonano uno strumento (rispettivamente, il flauto di Pan e la zampogna), mentre la donna, estasiata, di spalle allo spettatore, ma rivolta verso i due suonatori, ascolta, ninfa beata, il concerto a lei riservato. Nella seconda versione, ritenuto in genere un bozzetto preparatorio del quadro maggiore, appare invece solo la donna, drappeggiata in abito antico. Il quadro oggi fa parte di una collezione privata, e si data ovviamente agli stessi anni del dipinto maggiore. In vari musei americani si conservano anche diverse fotografie preparatorie, realizzate da Eakins per poter disporre nello studio di modelli adeguati, secondo una tecnica di cui proprio lui è considerato il principale inventore. Dell’Arcadia, anche qui più tradizionale che realmente virgiliana, viene sottolineato, nei dipinti, la capacità di realizzare una perfetta sintonia uomo/Natura, al punto che l’elemento umano, pur al centro del quadro, si perde nella complessità del paesaggio, che lo assume e quasi lo assorbe in sé.

    (Thomas Eakins, Arcadia, 1883, Metropolitan Museum of New York)
    (Thomas Eakins, An Arcadian, ca. 1883, collezione privata)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Laudes Marianae

    Laudes Marianae

    L’imminente festività da “ponte lungo” invita a una celebrazione musicale, che riguardi anche il latino. Naturalmente, non è la festività in sé che interessa, che tocca il personale di ciascuno. Ricordiamo solo, a titolo di cronaca, che l’Immacolata Concezione è idea oggetto di disputa per tutto il Medioevo; fatta propria dalla Controriforma; molto frequente nella pittura di ambito spagnolo e italiano del Seicento (Velázquez, Murillo, Zurbarán); elevata a dogma da Pio IX nel 1854.

    Qui vorrei proporre alcuni testi mariani, in latino, musicati da musicisti attivi in Gran Bretagna, in un ambiente quindi a maggioranza anglicana e perciò ostile al dogma, che è accolto solo dalla Chiesa Cattolica (dei compositori che citeremo, però, MacMillan è sicuramente cattolico, Howells è sicuramente anglicano). Un buon esempio, mi pare, di convivenza, se non proprio di ecumenismo, convivenza facilitata probabilmente dal latino, il veicolo in cui questi testi si esprimono,  ma anche dalla forza inerziale che il latino e la musica portano con sé, e che probabilmente spiega il perché di una maggiore conservazione di legami tra questa lingua e questa Arte, fra tutte le Arti oggi riconosciute: un tema su cui riflettere anche successivamente.

    Il primo brano che propongo viene dal cosiddetto “Novecento storico” e risale al 1916. Ne è autore Herbert Howells, 1892-1983, celebre organista prima a Salisbury, poi al St. John’s College di Cambridge. La sua composizione più importante si intitola Hymnus Paradisi, e risale al 1950. La Laus che qui presento si intitola Salve Regina, e fa parte di una raccolta di quattro Anthems in onore di Maria, cui sono stati poi dedicati anche un Magnificat del 1950 e uno Stabat Mater del 1963. Ecco prima il testo della Laus, poi la composizione che ci interessa:

    Salve, Regina, Mater misericordiae, / vita, dulcedo, et spes nostra, salve. / Ad te clamamus, exsules filii Hevae, / ad te suspiramus, gementes et flentes / in hac lacrimarum valle. / Eia ergo, advocata nostra, illos tuos / misericordes oculos ad nos converte. / Et Jesum, benedictum fructum ventris tui, / nobis, post hoc exsilium, ostende. / O clemens, O pia, O dulcis Virgo Maria.

     

    I prossimi brani sono tutti opera di compositori ancora viventi. Incomincio con due messe in musica della celebre Laus dal titolo Ave maris stella. Ne riporto il testo: 

    Ave maris stella, / Dei Mater alma / atque semper virgo / felix coeli porta. // Sumens illud ave / Gabrielis ore / funda nos in pace / mutans Evae nomen. // Solve vincla reis, / profer lumen caecis, / mala nostra pelle, / bona cuncta posce. // Monstra te esse matrem, / sumat per te preces / qui pro nobis natus / tulit esse tuus. // Virgo singularis / inter omnes mitis, / nos culpis solutos / mites fac et castos. // Vitam praesta puram, / iter para tutum / ut videntes Jesum / semper collaetemur. // Sit laus Deo Patri, / summo Christo decus, / Spiritui Sancto / tribus honor unus. // Amen.

    Autore della prima intonazione è Owain Park. Nato a Bristol nel 1993, laureato in composizione ed orchestrazione a Cambridge; già corista nella sua città natale, è autore di numerosi testi, fra i quali l’opera da camera “The Snow Child”, rappresentata al Festival di Edimburgo del 2016.

     

    Autore del secondo brano è il più celebre James MacMillan, scozzese, nato nel 1959. Dopo gli studi a Edimburgo e Durham, è divenuto famoso a partire dai primi anni Novanta. E’ autore di opere liriche, concerti, sinfonie e brani genericamente sinfonici, fra i quali spiccano Britannia! (del 1994) e il concerto per percussioni Veni, veni, Emmanuel, del 1992. Ai Proms del 2017 (i concerti estivi della BBC) è stato eseguito un suo European Requiem, appositamente commissionato per l’occasione e dedicato alle vittime dei diversi attentati degli ultimi anni. Ecco la Laus che ci interessa:

     

    Chiudo questa carrellata con Matthew Martin. Nato nel 1976, ha studiato a Oxford (dove attualmente insegna composizione al Magdalen College) e a Londra; ha vinto importanti premi; è autore di uno Stabat Mater del 2014 piuttosto eseguito, e di un ciclo di composizioni su testi di Petrarca, risalente al 2016. Qui presento il suo Magnificat, di cui riporto, come di norma, prima il testo e poi l’esecuzione:

    Magnificat / anima mea Dominum / et exultavit spiritus meus / in Deo salutari meo / quia respexit humilitatem ancillae suae, / ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes / quia fecit mihi magna, qui potens est: / et Sanctum nomen eius / et misericordia eius a progenie in progenies / timentibus eum. / Fecit potentiam in brachio suo, / dispersit superbos mente cordis sui, / deposuit potentes de sede, / et exaltavit humiles; / esurientes implevit bonis, / et divites dimisit inanes. / Suscepit Israel, puerum suum,  / recordatus misericordiae suae, / sicut locutus est ad patres nostros, /  Abraham et semini eius in saecula. / Gloria Patri et Filio / et Spiritui Sancto / sicut erat in principio et nunc et semper / et in saecula saeculorum. Amen.