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  • Un’idea di canone II

    Un’idea di canone II

    Torno sul bel post di Isabella Canetta e sulla discussione che ha suscitato, perché mi pare che l’intervento solleciti uno dei nodi centrali dei nostri studi e dello spazio da concedere al latino e a chi insegna latino nella scuola. Chiedo scusa se farò prima un discorso musicale, il cui senso e collegamento con quanto ci interessa si spiegherà solo alla fine. A chi abbia la pazienza di leggere, chiedo, appunto, la pazienza di arrivare fino in fondo.

    Nel mese di settembre il Teatro alla Scala di Milano ha messo in scena alcune recite dell’opera Alì Babà di Luigi Maria Cherubini (1760-1842). Cherubini, fiorentino di nascita e di prima carriera, fu un cervello in fuga, attivo a Londra e a Parigi, dove si trasferì nel 1787 e dove rimase fino alla morte. Alì Babà, in realtà Ali-Baba ou les quarante voleurs, è un’opera francese, in francese, rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1833. Dal 1822 al 1842, anno della morte, Cherubini fu l’amato/odiato direttore del Conservatorio parigino; ma la sua ultima composizione operistica di peso, prima dell’Ali-Baba, risaliva al 1813, ed era stata Les abencerages, su libretto ricavato da Chateaubriand. In mezzo solo due opere comiche di poco interesse e successo. Perché insistere su questo? Chi conosca Ali-Baba, da questa edizione scaligera o dalla sua sola precedente ripresa in tempi moderni, ancora alla Scala, nel 1963 (di quello spettacolo esiste, per fortuna, una registrazione dal vivo), sa che nel 1833 un’opera del genere era fuori tempo. Ali-Baba è infatti un’opera turchesca, come si usava nella seconda metà del Settecento; priva di vere arie, o quasi, con un grande impegno verso il declamato; con cori e danze inserite direttamente nel testo; con una certa seriosa austerità, alla latina direi una certa gravitas, pur nell’argomento complessivamente comico. Volendo trovare, nella mia memoria di ascoltatore, uno spettacolo affine a quello cui ho assistito alla Scala, evocherei un’opera vista alla (defunta) Piccola Scala agli inizi degli anni Ottanta, Les pèlerins de la Mecque, opera-comique di Gluck, un musicista di cui abbiamo già avuto occasione di parlare. Ma Les pèlerins è un’opera del 1763, andata in scena (dopo una serie di peripezie che qui non ci interessano) nel 1766. Cioè, settant’anni prima dell’operazione tentata da Cherubini. In quei settant’anni si inseriscono tutta la parabola del Mozart operista; tutta la parabola della generazione di mezzo, quella degli Spontini, dei Mayr, di Cherubini stesso; tutta la parabola del genio rossiniano, la cui carriera si chiude con il Guillaume Tell del 1829. Sei anni prima dell’Ali-Baba, nel 1827, Bellini e il suo tenore di riferimento, Giovan Battista Rubini, avevano creato, con Il Pirata, la figura dell’eroe romantico. Nel 1831, pochi mesi prima della nostra opera, Bellini aveva scritto Norma; nel 1833 Donizetti aveva già scritto Anna Bolena, Elisir d’amoreLucrezia Borgia; due anni più tardi raggiungerà la sua punta massima con Lucia di Lammermoor (da Walter Scott). Insisto su Scott, come prima ho fatto per Chateaubriand, e ora faccio ricordando che le zuffe pro o contro Hernani, il drammone romantico di Victor Hugo, risalgono al 1831, proprio per segnalare questo: il Settecento di Gluck nel 1833 era un mondo tramontato, e tramontato più volte, da più stagioni culturali e generazionali. Riproporlo sulle scene dell’Opera dovette fare uno stranissimo effetto, e infatti tradizione vuole che una voce di spettatore (poi auto-identificatosi in Hector Berlioz) a ogni alzata di sipario gridasse a gran voce la propria disponibilità a pagare un prezzo sempre maggiore in nome di qualche idea musicale da rintracciare nell’opera; salvo, all’ultimo atto, affermare sconsolata di non essere abbastanza ricca per permettersi la posta che, a quel punto, era necessario mettere in palio.

    Perché questa lunga tirata? Ali-Baba non è certo entrato nel canone, la sua vita è stata stentata sia nell’Ottocento, sia nel Novecento. Eppure, è opera gradevole, e il pubblico delle recite cui ho assistito è uscito da teatro soddisfatto e plaudente. Nella vacua eleganza dello spettacolo offerto dalla Scala, la serata è parsa povera di grandi contenuti, ma non priva di una sua dignità formale, premiata dagli applausi. Perché in musica non vige il concetto di canone; vige il concetto di repertorio. A un ascoltatore distratto, Ali-Baba suona come un’opera settecentesca, gradevole e ben fatta. La distanza che ci separa tanto dal Settecento quanto dall’Ottocento fa sì che non si avverta più la contraddizione in termini cronologici che aveva fatto indignare Berlioz e rendere freddi i primi ascoltatori dell’opera, determinandone la successiva sparizione. Certo, chi ragiona sulle date rimane, anche oggi, sconcertato; chi non vi ragiona, va a teatro e sente un’operina gradevole e relativamente ben rappresentata. E, badate bene, non è detto che si tratti di due persone differenti, un pubblico colto e un pubblico ignorante. La reazione, mista, può essere presente anche nell’animo di uno stesso spettatore.

    Questo è il repertorio: un grande contenitore dove chi vuole pesca ciò che gli interessa; e ne può fruire accostandolo a cose diverse, badando più a un godimento estetico che a una cognizione storica (proprio per questo, per soddisfare quanti più gusti possibili, qualsiasi teatro di buon senso, nel suo cartellone, mescola opere di epoche, gusti, generi diversi). Un canone, come ha giustamente scritto Isabella Canetta, è un’altra cosa, e necessita di almeno tre elementi: un’autorità che lo imponga; un numero ristretto di pezzi a costituirlo, sempre gli stessi, accettati da tutti; una obbligatorietà imposta dall’autorità di cui sopra e dal consenziente ossequio di chi a quella autorità si sottomette. Edward Sorel nella sua vignetta metteva in luce perfettamente tutto questo: c’è Bloom-Mosè, che si considera interprete diretto delle parole di Dio; ci sono le Tavole delle Leggi, dalle quali non si può tralignare; ci sono dodici nomi, e solo dodici, gli unici eletti in tutta la letteratura americana; e ci sono i lettori di Bloom/Ebrei in fuga verso la Terra Promessa, disposti, almeno per un poco, a sottostare a quelle leggi e a quelle tavole. Il repertorio ha struttura in parte diversa:  dipende anch’esso da autorità che lo impongono, ma è più inclusivo, ammette un numero maggiore di elementi e una loro maggiore mobilità. Non ha carattere obbligatorio: vige, per esso, la legge dell’auctoritas, ma anche quella della semplice  casualità. Mi spiego di nuovo con esempi musicali: di Ali-Baba fu nota, per anni (e una semplice verifica su youtube lo dimostra) la sola ouverture. La ragione di questo sta nell’esecuzione che di essa diede Arturo Toscanini in uno dei concerti radiofonici da lui tenuti in America. Con quei concerti Toscanini ha creato per anni un repertorio direttoriale: ciò che lui ha diretto, è stato diretto anche da altri, in molti casi presumibilmente ignari di come Ali-Baba si sviluppasse dopo l’ouverture, di che tipo di opera fosse, di che cosa trattasse. Ma non importava: importava l’ouverture in quanto tale, in quanto brano “toscaniniano”, da eseguire perché l’aveva eseguito Toscanini. Viceversa, ciò che Toscanini non ha diretto ha faticato ad entrare in repertorio: ad esempio Mahler, ad esempio Shostakovich. Un direttore del calibro di Herbert von Karajan, che pure fu a sua volta un dittatore del podio e delle scelte musicali per almeno trent’anni, diresse in tutta la sua vita una sola sinfonia di Shostakovich (la Decima) e solo quattro su dieci di Mahler (quarta, quinta, sesta e nona). Quando Claudio Abbado nel 1982 inaugurò la Filarmonica della Scala con la Terza di Mahler, fece scalpore. Solo una decina di anni più tardi, Riccardo Chailly, allora direttore dell’Orchestra Verdi di Milano, poté invece imporre senza difficoltà che ogni concerto inaugurale di quella orchestra comprendesse almeno una sinfonia di Mahler. Era la fine degli anni Novanta: fino a quella data, le sole discografie integrali di sinfonie mahleriane erano quelle di Kubelik e di Bernstein; oggi, quasi ogni direttore che si rispetti ha la sua. Identico discorso per Shostakovich. E il repertorio non varia solamente nel tempo, varia anche nello spazio: fuori d’Italia, centro del repertorio operistico è senz’altro Wagner, e non solo nei Paesi di lingua tedesca; in Italia, lo è Verdi, e quando la Scala si inaugura con un’opera wagneriana, per quanto eccelsa essa sia, si possono dare per scontati i mugugni e gli alti lai. A Torino, la sindachessa cittadina ha cacciato in malo modo un ottimo direttore, colpevole di non dirigere abbastanza Traviate e Barbieri di Siviglia ogni anno! La biografia di Joan Sutherland scritta da Norma Major insegna quante difficoltà abbia avuto la cantante a imporre, a Londra e in America, suoi territori d’elezione, opere come SonnambulaNormaPuritani e la stessa Lucia di Lammermoor che in Italia, pochi anni prima, Maria Callas aveva in normalissimo repertorio, e come lei un numero elevato di altre, meno eccelse cantanti. E questo perché i recensori degli spettacoli della Sutherland sottolineavano certo sempre la grandezza della cantatrice, ma anche l’inutile spreco di tante doti in composizioni di autori come Bellini, Donizetti, il primo Verdi, che in Italia erano considerati il fulcro del repertorio, ma in Inghilterra erano visti come dei poveri dilettanti, inesperti di armonia…

    Vengo a stringere il troppo lungo ragionamento. Un repertorio è più ampio; meno fisso; meno legato all’autorità che lo impone (pur essendo legato anch’esso a fenomeni di auctoritas, di cultura generale, di gusto personale), meno assertivo di un canone. Ne traggo due considerazioni. La prima, storica. Sia Isabella Canetta che Silvia Stucchi nelle loro osservazioni su Quintiliano parlano di “canone”. Io credo che quello di Quintiliano sia un “repertorio”, non un “canone”: un elenco di ciò che si può leggere, non un obbligo alla lettura, che Quintiliano voglia davvero imporre ai suoi lettori. Mancano, del canone, la misura ristretta; l’assertività assoluta e l’autorità impositiva di chi lo emana; il carattere esclusivo, anziché inclusivo, dei nomi fatti. Seconda considerazione, di interesse più pratico e immediato. La scuola italiana vive una contraddizione in materia di canone (non è la sua sola contraddizione, del resto). Da un lato, infatti, le nuove disposizioni ministeriali, che tanto nuove magari non sono più, ma che non sono mai state troppo seriamente applicate, vorrebbero un allargamento dei testi, dal canone al repertorio, nella direzione di un apprendimento della civiltà, e non della letteratura. Dall’altra parte, però, quelle stesse disposizioni stabiliscono, con formule ambigue e forse anche un po’ ipocrite, che lasciano libertà di variare, ma puniscono poi i tentativi di variazione, un canone – questo sì – di autori da privilegiare, e perfino una scaletta cronologica circa il loro approccio da parte delle classi liceali…

    Ecco allora la domanda: spostare l’accento dal canone al repertorio cosa può produrre di nuovo? quali vantaggi e quali rischi? Un rischio, lo dico subito io stesso, è l’effetto Ali-Baba, la perdita di vista, cioè, che un testo del 1833 che sembra un testo del 1763, è un testo che ha in sé qualcosa che non funziona, oppure qualcosa di provocatorio: ma perdere di vista la continuità storica vuol dire rischiare di fruire di un’opera del 1833 come se fosse un’opera del 1763, senza porsi dei problemi che invece andrebbero posti. Un vantaggio, però, sarebbe l’allargamento di testi e di possibilità di ricerca e autonoma sperimentazione, anche nelle singole classi e nelle singole scuole: in un cartellone di teatro, si sa, tutto deve convivere con tutto, se il teatro vuole sopravvivere, e sarà il pubblico a decidere a che cosa assistere e a che cosa no, scegliendo liberamente sulla base del proprio gusto; ma non può essere il teatro a scegliere per il suo pubblico, se non vuole rischiare di assottigliarlo, alienandosene ampia parte. E questo anche a scegliere ciò che tutti fanno e tutti conoscono, come una sorta di dovere imprescindibile: perché, con buona pace della sindachessa torinese (che varie volte si è espressa in questa direzione), un teatro fatto di soli Barbieri di Siviglia e di sole Traviate non è un teatro che si apre al grande repertorio popolare. E’ un teatro che si chiude, e si avvita su se stesso, e in breve muore.

    La scuola deve guardare a un livellamento sociale del sapere, e deve rispondere alle domande di chi la frequenta, e di chi valuterà un giorno chi la frequenta. Ma siamo sicuri che la metafora utilizzata per il teatro non valga anche per la scuola italiana in generale, per il canone dei testi latini in particolare? Concentrarsi sempre sugli stessi autori, gli stessi testi, leggere sempre e soltanto le poesie su Lesbia, la prima ecloga o il Carpe diem, non rischia di svilire gli autori antichi, di fornirne un’immagine parziale e dunque  errata e, nel nome di un canone da rispettare, di uccidere la libertà e l’ampiezza del repertorio? Sì, certo, a non leggere queste cose si rischia. Perché se non lo si fa, lo studente rischia che alla maturità gli venga chiesto qualcosa che non sa, rischia di non saper rispondere a domande banali, rischia di non conoscere gli autori canonici, appunto, e i passi ritenuti canonici. Ritenuti da chi? Su questo, sollecito risposte.

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

     

     

    Luigi Maria Cherubini – Ouverture da Ali-Baba, New York 1949, NBC Orchestra, dir. Arturo Toscanini (registrazione radiofonica di dominio pubblico)

     

     

  • Nel nome di Augusto 2

    Nel nome di Augusto 2

    A ferragosto 2017 abbiamo celebrato la ricorrenza e il periodo festivo dando voce a un’avversaria (e vittima) di Augusto, Cleopatra – la Cleopatra di Samuel Barber = https://users.unimi.it/latinoamilano/articles/2017/08/14/nel-nome-di-augusto/. Oggi celebriamo l’agosto 2018, con qualche ritardo rispetto alla data originariamente pensata, dando voce a un’altra vittima, questa volta indiretta, di Augusto, ossia a Didone. Fra le molte morti / i molti lamenti di Didone che fanno parte del repertorio musicale, e non solo lirico, è parso giusto iniziare da Hector Berlioz, 1803-1869. Nell’opera Les Troyens, che risale al 1858 (ma che non fu mai rappresentata per intero finché rimase in vita l’autore), vistosamente ricavata da Virgilio, Berlioz non si limita infatti a musicare una vicenda narrata dal poeta antico; Les Troyens sono, a tutti gli effetti, un enorme, continuo commento al testo antico. Berlioz era persona dotta, con tenaci passioni letterarie: Virgilio, Shakespeare, Goethe e Byron costituirono per lui una galassia di autori sui quali tornare continuamente a ragionare e riflettere. Ma di questo vorrei parlare più diffusamente in un’altra occasione. Qui mi limito a riportare, come ho fatto l’anno scorso, l’addio alla vita di Didone: il recitativo accompagnato “Ah! Je vais mourir…” e l’aria “Adieu, fière cité”, che corrispondono a quella sorte di autoepitafio che la Didone virgiliana pronuncia ai vv. 651-662 del IV libro. Eccone il testo integrale:

    Ah! Je vais mourir…
    Dans ma douleur immense submergée…
    Et mourir non vengée!
    Mourons, pourtant!
    Oui, puisse-t-il frémir
    A la lueur lointaine de la flamme de mon bûcher.
    S’il reste dans son âme quelque chose d’humain,
    Peut-être il pleurera sur mon affreux destin!
    Lui, me pleurer!
    Enée! Enée! Oh! mon âme te suit,
    A son amour enchaînée,
    Esclave elle l’emporte en l’eternelle nuit.
    Vénus, rends-moi ton fils!
    Inutile prière
    D’un coeur qui se déchire…
    A la mort tout entière,
    Didon n’attend plus rien que de la mort.

    Adieu fière cité, qu’un généreux effort
    Si promptement éleva florissante!
    Ma tendre soeur qui me suivis, errante;
    Adieu, mon peuple, adieu!
    Adieu, rivage vénéré,
    Toi qui jadis m’accueillis suppliante;
    Adieu, beau ciel d’Afrique, astres que j’admirais
    Aux nuits d’ivresse et d’extase infinie;
    Je ne vous verrai plus, ma carrière est finie.

    L’esecuzione risale a un concerto del 4 gennaio 1966. L’orchestra è quella della radiotelevisione francese (Orchestre Philarmonique de l’ORTF) diretta da Jean-Claude Hartemann, 1929-1993. La voce è invece quella splendida, sensuale, e di bellissima dizione di Régine Crespin, 1927-2007, uno dei miti del canto lirico del XX secolo, donna di grande fascino ed intelligenza, anche se, come spesso succede, più nota all’estero che in Italia, nonostante fosse di madre italiana. Alla Scala, per dire, cantò solo nella Fedra di Ildebrando Pizzetti nel 1959 e come Sieglinde nella Walküre di Wagner, in quattro recite del 1968… Qui si ammireranno la chiarezza di elocuzione, le mezze voci espressive, la capacità di trasformare ogni nota in qualcosa di significativo (l’Ah! iniziale, ad esempio, o i due diversi Adieu al v. 4 dell’aria propriamente detta), la  dignità concessa alla regina cartaginese, che non contrasta con le intenzioni espressive di Virgilio (e di Berlioz). 

     

     

  • Persefone elettronica

    Persefone elettronica

    Sempre alla ricerca di riprese di miti classici nella musica del tardo Novecento o del nuovo secolo, segnalo oggi una composizione che si intitola Pulse Persephone, diciamo “Il battito di Persefone”, se ne interpreto correttamente il nome. Ne è autrice Daphne Oram (1925-2003), una pioniera della musica elettronica inglese. Educata al Royal College of Music di Londra, la Oram divenne nel 1944 un tecnico audio della BBC, con il compito, da lei progressivamente assunto (e faticosamente conquistato sul campo) di provvedere prima agli effetti sonori di specifici programmi radiofonici; poi, dal 1958 in avanti, di creare uno studio radiofonico dedicato all’elettronica, intitolato “BBC Radiophonic  Workshop” (pare che gli alti papaveri della BBC avessero posto come condizione che non venisse citata in nessun modo la parola “Music”). Negli anni di lavoro alla BBC la Oram compose la sua opera più famosa, del 1949 (data pionieristica rispetto a tutta la storia della musica elettronica che si racconta comunemente), Still Point, recentemente proposta da uno di quei magnifici concerti che la BBC offre lungo tutta l’estate alla Royal Albert Hall di Londra, con il nome di Proms (in realtà, Promenades: serie di concerti a prezzi popolari fondata nel 1895 con l’intento di consentire a chiunque di usufruire di uno spettacolo di alto livello artistico in un’atmosfera informale). Qui se ne può sentire, per chi volesse, l’esecuzione offerta il 23 luglio scorso dalla London Contemporary Orchestra diretta dal giovanissimo Robert Ames (1985-), in un concerto che – secondo l’uso inglese – mescolava “classici” della musica elettronica e composizioni realizzate apposta per l’occasione:

    https://www.youtube.com/watch?v=xxDJjHGw61U&t=205s

    La composizione sulla quale appunto il mio interesse risale invece al 1965. La Oram, poco dopo avere ottenuto lo studio radiofonico che l’interessava, abbandonò la BBC – pare, per una suggestione nata dall’incontro con Edgard Varèse – e decise di dedicarsi a una carriera in proprio di compositrice, studiosa e docente di musica, realizzando uno studio nella sua casa nel Kent. A questo periodo risale la composizione che mi interessa, sulla quale pochissimi altri dati sono riuscito a reperire. Venne presentata a Londra, nell’ambito di una mostra tenutasi alla Royal Academy of Arts, e intitolata ai “Tesori del Commonwealth”. Attraverso il richiamo al battito del cuore sotterraneo di Persefone, imprigionata nell’Ade, ma desiderosa di recuperare la Terra, la Oram utilizzò suoni di varia natura, a suo dire provenienti da varie nazioni del Commonwealth, “masterizzati” tutti assieme in un sintetizzatore elettronico – un anno più tardi, nel 1966, la Oram avrebbe realizzato il proprio strumento elettronico, chiamato “Oramics Machine”. Come scrive Curtis Roads, in Composing Electronic Music. A new Aesthetics, Oxford 2015, p. 319, la composizione si segnala per il suo tono pensoso, a dimostrazione del fatto, ben noto in tutta la storia della Musica del resto, che il suono può essere descrittivo (“representational”) e dotato di significato, e perciò, anche quando appaia del tutto astratto, è in grado di “establish a mood or atmosphere within seconds, setting the stage for narrative”. La Oram non era nuova a tentativi del genere: Jo Hutton, nell’articolo “Radiophonic Ladies”, ad esempio, ricorda come già nel radiodramma Private Dreams, Public Nightmares di Frederic Bradnum, di cui la Oram aveva curato con Desmond Briscoe gli effetti sonori nel 1957 alla BBC, la frase “darkness and the pulse of my life blood intertwined” del dramma fosse accompagnata da un effetto simile a quello prestato qui a Persefone, un battito imitativo del battito cardiaco e una scala musicale discendente. Quanto al mito di Persefone, è fra quelli preferiti dalla compositrice. Nel volume An Individual Note of Music, Sounds and Electronics (Londra 1972, repr. 2016: ma io ho consultato l’edizione originale, reperibile in internet), che raccoglie gli scritti teorici e la filosofia della compositrice, il mito di Persefone chiude le pagine del libro. Le ragioni della sua citazione sono abbastanza discutibili, poiché alla compositrice interessa soprattutto il nome del re Celeo, che offrì ospitalità a Demetra in cerca di Persefone e officiò i riti di Eleusi, per l’affinità fonica che quel nome ha con il principio fondante della musica, chiamato dalla Oram CELE, e che, in contrapposizione con il suo opposto ELEC, a dire della compositrice regola e controlla gli impulsi della vita. Molto di più non ho capito, e forse non vale la pena capire. Resta infatti la composizione, assai breve e interessante; e resta, una volta di più, la traccia, pur discutibile, della cultura classica sulla musica contemporanea. A p. 125 del volume, fra una citazione di Orazio (ars 311) e una di Francis Bacon (New Atlantis, del 1624), la Oram rievoca brevemente il mito, sottolineandone il valore di rinascita e conciliazione degli opposti: grazie al ritorno sulla terra di Persefone, propiziato dalla saggezza e dalla cordialità di Celeo, “the essence of life, in all its richness, returned”. Ma tanta felicità non era possibile senza il passaggio, angosciato, attraverso il dolore della perdita e della morte. Che è quanto la Oram credo abbia voluto rappresentare qui.

     

    Alla bibliografia indicata finora aggiungerei ancora il volume di Louis Niebur, Special Sound. The Creation and Legacy of the BBC Radiophonic Workshop. Alla morte della Oram, nel 2003, è stato costituita una Fondazione a lei intitolata. che detiene diritti e materiali relativi alla compositrice, il cui sito (http://daphneoram.org/) è ricco di informazioni di vario genere. Infine, ricordo che la Oram curò gli effetti sonori elettronici del film The Innocents – in italiano, Suspence, 1961 – che il regista Jack Clayton trasse dal romanzo di Henry James, The Turn of the Screw. Io lo vidi bambino e, nonostante una meravigliosa Deborah Kerr che vi recitava nel ruolo dell’Istitutrice, mi spaventai al punto di non averlo voluto rivedere mai più. James naturalmente ci faceva la sua parte. Ma anche la colonna sonora, a mio ricordo, era piuttosto agghiacciante…

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Quel che resta d’Orfeo

    Quel che resta d’Orfeo

    I miti antichi, si sa, sono duri a morire! Per questo il teatro contemporaneo continua a fare ricorso ad essi, come a una miniera inesauribile di storie sempre vere e sempre riattualizzabili. E’ quello che è successo, quest’inizio di estate, con il mito di Orfeo, messo al centro di uno spettacolo multiculturale, “Orfeo & Majnun”, andato in scena al teatro de la Monnaie (Bruxelles) a fine giugno, e al festival di Aix-en-Provence nella prima metà di luglio. La recita inaugurale del festival è disponibile, per un po’ di tempo, in streaming su youtube, e gli interessati potranno prenderne visione diretta a questo indirizzo:

    https://www.youtube.com/watch?v=6TznzgH__Ps

    L’idea di base è quella di mettere assieme due storie fondanti, rispettivamente, l’Occidente e l’Oriente (arabo): il mito di Orfeo ed Euridice e quello di Qays e Layla. Qays è un poeta che ama, ricambiato, Layla. Ma la famiglia di lei si oppone alle nozze, e il padre della ragazza la fa sposare a un ricco possidente. Layla però muore, mentre Qays impazzisce e canta il proprio dolore alle greggi di cui era pastore, fino a venir meno per il desiderio inappagato. Il nome “majnun”, che egli assume prima di morire, significa appunto “folle”. Del mito di Orfeo non metto ovviamente conto di parlare in questa sede. Il testo dello spettacolo è stato affidato a due librettisti, Airan Berg e Martina Winkel, che sono responsabili anche della messa in scena. Tre i compositori che si sono divisi il compito della parte musicale: il palestinese Moneim Adwan, classe 1970; il belga Howard Moody (1964), già autore di opere per la Monnaie e Glyndebourne, e Dick van der Harst (1959). Ognuno dei tre porta la propria esperienza alla partitura, che alterna lingue (inglese, francese, arabo) e stili differenti (musica mediorientale; musica classica propriamente detta; echi di jazz). Le due vicende sono raccontate in parallelo; una voce narrante, l’attrice Sachli Gholamalizad, interviene più volte, in francese, mettendo ordine a una rappresentazione altrimenti non sempre facile da seguire. 

    Quale il giudizio da spettatore? La discussione è aperta. Diciamo che, ovviamente, l’operazione multiculturale ha un’importanza che trascende i valori scenici e musicali del testo, e questo si avverte, ad esempio, dalle recensioni “ufficiali” dello spettacolo, tutte improntate al “politically correct” che in simili occasioni si impone come indispensabile. A mio parere – confutabile da tutti quanti avranno la pazienza di vedere l’opera e lasciare il loro giudizio – c’è però qualcosa di non perfettamente compiuto. Lo spettacolo è elegante, ma poco vivo, tanto che, contro le regole, il semplice ascolto prevale sulla visione. Proiezioni, burattini, animali semoventi (si fa per dire), come in una Zauberflöte dei poveri, sono tutte cose già viste e fanno rimpiangere la ben diversa vivacità dei Muppets, che nella lontana serie Who’s Afraid of Opera duettavano con Joan Sutherland (1972). I cantanti “arabi”, chiamiamoli così, non sono cantanti lirici propriamente detti e l’impostazione della loro voce obbliga i teatri a un’amplificazione visibile e dichiarata; stesso discorso per gli interventi della narratrice. Di conseguenza, anche Orfeo ed Euridice, un baritono e un soprano di coloratura, vengono amplificati, e questo in uno spettacolo d’opera è sempre male. L’orchestra è professionale, il coro meno – a volte si sente. Bravissimo, viceversa, il giovane direttore libanese Bassem Akiki, che tiene le fila del tutto, e non deve essere stato facile. Ma cosa dire della parte musicale propriamente detta? Intanto, dopo un inizio molto interessante (nel quale viene rievocata la creazione del mondo, per poi portare l’attenzione sul ruolo delle donne, e da qui evocare le protagoniste femminili delle storie narrate, fino a un duetto che vede mescolare le voci delle due eroine, che si sono prima presentate ciascuna a suo modo), le vicende narrate sembrano più giustapporsi che fondersi, e così gli stili della musica. Se l’intenzione era quella di realizzare un’opera multiculturale, forse l’intento è riuscito solo in parte. Nei novanta minuti circa dello spettacolo si ha l’impressione di avere acquistato due opere al prezzo di una, più che un’opera che realmente fonda stili e modi differenti. A essere sinceri, lo spettatore “occidentale” ha anche l’impressione che la parte orientale prevalga sulla propria, sia nel minutaggio ad essa concesso (a un controllo preciso non credo che risulti vero), sia nello stile, perché Orfeo ed Euridice – chiamati di norma a un declamato non melodico – finiscono per suonare più “orientali” di quanto non dovrebbe essere. Fa effetto straniante, poi, la mescolanza delle lingue, specie nei duetti fra Orfeo ed Euridice, con lui che canta sempre in inglese, lei ora in inglese ora in francese. Infine: nonostante del mito di Orfeo siano rievocati tutti i passaggi fondamentali (presentazione e duetto d’amore fra i protagonisti; scena del matrimonio; morte di Euridice; discesa all’Ade di Orfeo, che incontra Caronte e Cerbero; restituzione di Euridice e aria della di lei felicità; fallimento della risalita alla superficie terrestre e seconda morte di Euridice), l’impressione complessiva è che l’azione si risolva non in fatti, ma in commenti; e che questi manchino di una particolare novità o profondità, al di là dell’ovvia celebrazione dell’universalità dell’amore e della compenetrazione di amore e sofferenza a qualunque cultura ci si trovi ad appartenere. 

    Detto questo, non mancano certo gli elementi di forte interesse. Darei una doppia risposta, da classicista e da curioso di musica. Nella prima veste segnalo l’importanza concessa al mito di Orfeo, ritenuto il più rappresentativo dell’Occidente. Il parallelo con la storia di Qays e Layla funziona solo in parte: nel mito greco non c’è opposizione delle famiglie (meglio sarebbero andati Piramo e Tisbe o Romeo e Giulietta); viceversa, nel mito arabo vengono meno la discesa all’Ade, la sfida con l’impossibile, il canto che deve convincere e superare la Morte, la seconda prova affrontata e persa da Orfeo, spinto a voltarsi dalla passione e dal desiderio, ossia da quelle stesse molle che lo avevano condotto a tentare l’impossibile e a cercare di recuperare Euridice dall’Ade. Perché la musica e la poesia possono sì soccorrere l’essere umano, ma solo fino a un certo punto; e ciò che è forza in Orfeo (e lo spinge a scendere nell’Oltretomba) è anche la sua debolezza, che lo porta a voltarsi anzi tempo e a perdere definitivamente la partita che sembrava già vinta. Rispetto a questo mito, la vicenda araba è più semplice e lineare, ma in fondo, absit iniuria, meno significativa: una coppia contrastata, costretta alla separazione, che non elabora il lutto e sceglie la morte. Accomuna invece le due vicende il ruolo consolatorio, ma non troppo, assunto dalla Natura: sia Orfeo che Qays trovano negli animali quella sympatheia che invano spererebbero dagli uomini o dalle divinità crudeli. Ciò forse spiega l’ampio risalto concesso nello spettacolo, fin da subito, ai pupazzi animati, anche quando francamente se ne sarebbe potuto fare a meno.

    Il curioso di musica segnala, invece, la presenza di alcuni momenti “forti” nella partitura. Qui ne scelgo quattro. Il primo, cui ho già fatto riferimento, è l’inizio dell’opera, nel quale si mescolano movenze sincopate che ricordano il jazz, o forse meglio certi musical di ambientazione newyorkese realizzati negli anni Cinquanta da Leonard Bernstein, dai quali sembra provenire la ritmica del pezzo:

     

    Interessante è anche la parte di Euridice, predominante su quella di Orfeo, nonostante il ruolo eponimo di quello. Di essa propongo la scena delle nozze con Orfeo, un duetto ricco di agilità, fra stile musical e qualche reminiscenza, forse, di Tempus est iocundum (Totus floreo) di Carl Orff:

     

    Ecco invece il funerale di Euridice, con la decisione di Orfeo di scendere nell’Ade (“I’ll follow you”), la discesa, il dialogo con Caronte, qui impersonato dall’attrice che parla e irride il dolore del personaggio, prima di lasciarsene conquistare:

     

    Infine, un certo rilievo ha il finale. Prima il coro commenta il destino degli amanti; interviene poi la narratrice a raccontare, facile consolazione, dell’esistenza del pianeta Eros, intorno al quale ruotano gli asteroidi Orpheus e Majnun. La gloria che i quattro giovani non hanno trovato in vita viene loro concessa dopo la morte; passerella finale di tutti i personaggi e coro esultante. Il pubblico può tornare a casa appagato e festoso.

     

    https://en.wikipedia.org/wiki/Layla_and_Majnun

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • La matrona di Efeso in musica

    La matrona di Efeso in musica

    Riprendiamo il bel post di Silvia Stucchi dedicato alla matrona di Efeso, per segnalare una poco nota versione musicale di quel testo. Si tratta dell’opera in un atto, su libretto di Isaac Bickerstaff, musicata da Charles Dibdin (1745-1814), prolifico compositore inglese, oggi piuttosto dimenticato anche dalle sue parti, o al più ricordato per la lunga partnership con il celebre attore David Garrick (1717-1779), considerato il sospitator del teatro shakesperiano, dopo il lungo oblio che lo aveva avvolto nel XVIII secolo. Dibdin a sua volta fu musicista, attore, commediografo, impresario teatrale, con quella variabilità di ruoli che è abbastanza tipica di fine Settecento. Il mitico teatro Drury Lane, nel West End londinese, vicino al Covent Garden, fu la sede principale delle sue gesta (il teatro esiste ancora, anche se naturalmente è stato più volte rifatto: dedicato soprattutto al musical, è oggi proprietà di Andrew Lloyd Webber). The Ephesian Matron or The Widow’s Tears, il testo che ci interessa, ebbe però la sua prima rappresentazione, nel 1769, nei vicini Ranelagh Gardens, come parte di una festa teatrale estiva. Dibdin, autore di decine di composizioni, tornerà a un argomento classico solo nel 1781, dodici anni più tardi, riadattando per le scene del Covent Garden l’Amphytrion di Dryden, ovvio derivato di quello di Plauto.

    Il testo si può definire un’opera vaudeville, usando il nome di un genere ben attestato in Francia (e in realtà, di pochi anni più tardo). Si tratta di composizioni brevi, che si svolgono tutte nell’arco di un’ora circa ciascuna; a volte interamente cantate (senza, cioè, parti dialogate), a volte con un’alternanza di dialogo e musica; di carattere comico-satirico; che spesso riusano musica già nota, volutamente piegata ad altro scopo (non è questo il caso di Dibdin, però). Nel teatro inglese il massimo capolavoro del genere è, credo, Rosina (1782, ma composta circa dieci anni prima) di William Shield (1748-1829), compositore perfettamente coevo di Dibdin. Di quell’opera, riporto le due arie più celebri (When William, at eve, “Quando Guglielmo alla sera”; Light as thisledown, “Leggero come cardo”). Sono due registrazioni antiche, ma ancora bellissime:

    When William, at eve, meets me down at the stile,
    how sweet is the nightingale’s song!
    Of the day I forget all the labour and toil,
    whilst the moon plays you branches among.
    By her beams, without blushing, I hear him complain,
    and believe every word of his song:
    you know not how sweet ’tis to love the dear swain,
    whilst the moon plays you branches among.

    Light as thistledown moving which floats on the air,
    sweet gratitude’s debt to this cottage I bear:
    of autumn’s rich store I bring home my part,
    the weight on my head, but gay joy in my heart.

    Come si sente, brillantezza orchestrale e vocale, uso abbondante degli abbellimenti e degli ornamenti, situazioni comiche ma non mai volgari, trattate con un certo gusto della leggerezza, dove il dramma non sorpassa mai la misura del buon senso, ripetizioni ad libitum delle singole strofe, con continue variazioni, sono le caratteristiche principali di queste composizioni – caratteristiche che ritroviamo tutte anche nella nostra The Ephesian Matron. Si tratta, di fatto, di una composizione fatta di soli undici numeri musicali, così suddivisi: 01 – ouverture; 02 – Trio matrona/padre/ancella; 03 – Aria del padre; 04 – Aria della matrona; 05 – Aria dell’ancella; 06 – Aria del soldato (qui, un centurione); 07 – Duetto centurione-matrona; 08 – Seconda Aria della matrona; 09 – Seconda Aria del soldato; 10 – Seconda Aria dell’ancella; 11 – Vaudeville finale (alla presenza di tutti i personaggi). Rispetto a Petronio, la trama risulta leggermente modificata e semplificata. L’azione si svolge tutta nella tomba del marito della matrona, scena unica e fissa. La giovane vedova dichiara che non può vivere senza il suo sposo, e perciò rimarrà lì, a lasciarsi consumare dal dolore, senza mangiare e senza bere. L’ancella e il padre, nel trio iniziale, reagiscono violentemente a questa sua decisione (nr. 02). Nella propria aria, il padre cerca di calmare la figlia e di persuaderla a desistere, poi ci rinuncia e la lascia con l’ancella (nr. 03); rimasta sola, la giovane donna ribadisce la propria decisione, in un’aria di follia che fa il verso alle tante scene di pazzia che attraversano un po’ tutta la storia del melodramma (nr. 04). L’ancella commenta, celebrando la forza d’Amore (nr. 05). Appare il centurione, di guardia alle forche pubbliche, attirato dalla luce che filtra dalla tomba. Nella sua aria si presenta, e cerca di convincere la donna a lasciar perdere il proprio dolore (nr. 06). La giovane è subito colpita dalle parole (e dall’avvenenza) del giovane – Bickerstaff e Dibdin qui fanno la parodia degli innamoramenti violenti tipici del mondo operistico, scostandosi da Petronio. Comunque, la donna non vuole cedere troppo presto – è questo il succo del passionale duetto nr. 07. Convinto di avere ormai salvato l’amata, il centurione si allontana promettendo di tornare appena possibile; la matrona, rimasta sola, in un’aria delicata e nobile, commenta la gioia del nuovo sentimento che sente nascere in sé (nr. 08). Il centurione torna prima del previsto, e in un’aria di stile agitato annuncia la scomparsa del cadavere cui avrebbe dovuto fare la guardia (nr. 09). La matrona offre al suo posto il marito, mentre l’ancella commenta sottolineando l’abilità e l’ingegno delle donne, che a differenza degli uomini non si perdono mai d’animo (nr. 10). Durante lo spostamento del cadavere, torna il padre della matrona, che sorprende il centurione e l’accusa di saccheggiare la tomba. Il centurione è difeso dalle due donne, e il padre ne approfitta per concordare le nozze fra la figlia e il soldato. Nel vaudeville finale, i quattro personaggi celebrano la propria felicità e l’astuzia femminile, senza del quale nulla accadrebbe al mondo.

    L’opera di Dibdin ebbe discreto successo alla fine del Settecento; è stata dimenticata per tutto l’Ottocento; ha avuto una ripresa radiofonica (alla BBC) all’inizio del Novecento; ha conosciuto un’incisione ufficiale nel 1992; e un paio di esecuzioni amatoriali, nelle università anglosassoni. Sul sito della casa discografica Hyperion è disponibile nella sua interezza, a pagamento (https://www.hyperion-records.co.uk/dc.asp?dc=D_CDA66608). Questo mi impedisce di postare, come avrei voluto, tutti gli undici brani, e anche il testo delle parti cantate. Dell’opera riporto quindi solo tre spezzoni, interpretandoli come invito all’ascolto dell’intera composizione, dalle nostre parti sconosciuta perfino di nome. Il primo è, doverosamente, l’ouverture, secondo l’uso del tempo rigorosamente tripartita e fatta in sostanza per mettere in evidenza le parti solistiche dell’orchestra, senza riferimento all’opera che segue.

     

    Faccio seguire l’aria di follia della matrona, nr. 04, che si apre con le parole “And while, grown frantic with my woes” (“E intanto, divenuta pazza con il mio dolore”), con il successivo recitativo matrona/ancella:

     

    Infine, il duetto dei due amanti, che hanno ceduto ben presto entrambi alle lusinghe d’amore (nr. 07 “By Venus, mother of desire” – “In nome di Venere, madre del desiderio amoroso”).

  • In memoria di una signora amica

    In memoria di una signora amica

    La traduzione in latino di testi greci è una prassi antichissima. Senza contare le traduzioni compiute dagli stessi autori latini, o la diffusione di certe opere poetiche e filosofiche avvenuta, nel corso del Medioevo, solo grazie alla loro traduzione, a partire dal primo Umanesimo si è incominciato a tradurre un po’ di tutto. All’inizio le motivazioni potevano essere svariate: rendere comprensibile e favorire la diffusione dei testi greci anche nell’Occidente latinizzato; dimostrare il proprio bello stile; mettersi a gara con gli originali; un puro esercizio di scuola ecc. Oggi, la pratica ha ancora qualche possibilità di utilizzo e qualche vantaggio: uno per tutti, offrire un più ampio repertorio di testi, non ancora registrati da “Splashlatino” e siti consimili, che però trattano temi e argomenti vicini a quelli presenti nel canone di autori cui siamo più abituati.

    Alcune delle traduzioni più facilmente reperibili sono celebri e di nobile firma, proprio perché già alla fine del Quattrocento la pratica ebbe una certa diffusione; altre sono invece anonime, o si fondano per variazioni progressive su un testo primigenio, dal quale a poco a poco si sono però venute discostando. Nel corso del XIX secolo la benemerita “Bibliothèque des auteurs Grecs” di Ambroise-Firmin Didot (https://en.wikipedia.org/wiki/Didot_family) ha messo in circolazione un gran numero di questi testi, usandoli a fianco degli originali greci. Sono volumi rintracciabili in molte biblioteche, anche non particolarmente specializzate, e spesso disponibili online.

    Proprio da uno di questi libri, l’edizione 1838 delle opere di Omero, traggo il ricordo del cane più famoso dell’antichità, a completamento del post intitolato “Cani di varie razze e lingue” (https://users.unimi.it/latinoamilano/articles/2017/06/16/cani-di-varie-razze-e-lingue/). Rispetto all’originale (che si legge all’indirizzo https://www.gutenberg.org/files/52693/52693-h/52693-h.htm, in un volume a firma di Johann Friederich Dübner, anche se il nucleo della traduzione è più antico), ho introdotto talune variazioni, anche molto personali, con l’intenzione di semplificare il testo e togliergli quella patina da poema orale che mal s’addice all’uso che propongo di farne in classe. Tutte le variazioni sono suscettibili di emendazione e correzione. Attendo i suggerimenti dei lettori. Quanto mi proponevo, infatti, non era di competere con Omero (o con Dübner, o chi per lui). 

    Dum Ulyxes, qui in patriam viginti post annos pervenerat, et Eumaeus subulcus ante fores domus regiae inter se colloquuntur, Argus, Ulyxis canis, quem quondam ipse nutrivit, neque eo tamen fruitus est (prius enim ad Ilium abiit), caput et aures, humi fusus, subito erexit. Hunc autem antea ducere solebant iuvenes regii capras in silvestres et cervos et lepores; tum vero iacebat neglectus, absente domino, in multo stercore mulorum boumque, quod ei abunde circumfusum erat, donec id auferrent servi, praedium magnum stercoraturi. Sic igitur iacebat Argus, ricinorum plenus. At, statim ut agnovit Ulyxem prope stantem, cauda quidem adulatus est, et aures deiecit ambas; ad dominum propius attamen venire non potuit. Et ille, seorsum conspicatus, abstersit lacrimam, facile latens Eumaeum. Quem deinde interrogavit: “Eumaee, hoc certe mirandum est: canis, qui iacet in fimo, pulcher olim videtur fuisse”. Ad quae subulcus respondit: “Si talis ille esset et corpore et operibus, qualem ipsum reliquit Ulyxes, Troiam profectus, statim eum admirareris, conspicatus eius velocitatem et robur. Nequaquam enim effugiebant ferae in profundis silvis, quascumque egisset: vestigia eorum persequens, omnes exploravit latebras. Nunc autem adficitur senectute, summo malo; dominus eius procul hinc alienam agitat vitam, neque eum mulieres negligentes curant. Servi vero, quando non amplius imperant domini, non amplius volunt iusta operari”. Et sic locutus aedes intravit, Ulyxem secum trahens. Argum autem fatum occupavit atrae mortis, statim ut viderat Ulyxem, dominum suum, vigesimo post anno.

     

             

     © 23.04.2018

     

  • Il canto più bello

    Il canto più bello

    Tra poco meno di un mese, il 24 febbraio, andrà in scena al teatro alla Scala di Milano l’opera Orphée et Eurydice di Christoph Willibald Gluck (1714-1787), nell’allestimento, datato settembre 2015, proveniente dalla Royal Opera House, Covent Garden, di Londra, e firmato da John Fulljames per la regia e Hofesh Shechter per le coreografie. Leggermente diverso il cast rispetto allo spettacolo londinese di due anni fa, a suo tempo ampiamente pubblicizzato dalla diretta streaming ancora recuperabile in molti canali musicali. Lo spettacolo fu molto applaudito anche per alcune novità tecniche, che bisogna vedere come saranno risolte alla Scala: la presenza, ad esempio, abbastanza ingombrante di ballerini sulla scena; oppure, la disposizione dell’orchestra sul palcoscenico, e non nel golfo mistico, così da non stare davanti ai cantanti e rendere l’idea che la musica è lo strumento con il quale Orfeo cerca di vincere le inesorabili divinità dell’Ade.

    Proprio su questo punto vorrei incentrare il mio post. Il mito di Orfeo ha, com’è noto, radici antichissime in Grecia, e connessioni religiose che non intendo qui esaminare. Ciò non toglie infatti che le due più ampie narrazioni del mito siano considerabili quelle contenute nelle Georgiche di Virgilio e nelle Metamorfosi di Ovidio. Questi due testi vorrei mettere a raffronto, su un dettaglio specifico e particolare. Procediamo con ordine. Secondo tradizione, Orfeo perde la moglie, Euridice, morsa da una vipera o un serpente. Disperato, lui, che è un grande cantore capace di commuovere i sassi (letteralmente, e non solo come modo di dire) o di piegare a sé le piante, decide di recuperare l’amata consorte scendendo nell’Ade e cercando di impietosire le divinità che vi regnano. In un primo momento l’impresa sembrerebbe riuscire. Euridice gli viene restituita, ma alla condizione che durante tutto il tragitto di ritorno verso la superficie terrestre lui non le rivolga mai lo sguardo. Così non avviene, ed Euridice muore una seconda volta, e definitivamente. Orfeo, disperato, la piange rifiutando ogni contatto con altre donne (in Virgilio; accettando solo quello con altri uomini, in Ovidio), finché le donne (o le Baccanti) della Tracia, la sua regione di provenienza, esasperate lo assalgono e lo fanno a pezzi.

    Rappresentare la scena del canto di Orfeo, nell’epos come a teatro, comporta una sfida non da poco: Orfeo deve poter essere l’autore di una musica tanto bella e commovente da piegare ai propri desideri perfino le divinità dell’Oltretomba. L’opera lirica ha sentito subito il valore di una simile sfida: che si faccia iniziare la storia del genere dalla Euridice di Jacopo Peri (Firenze 1600) o da quella di Giulio Caccini (Firenze 1602, entrambe sul libretto di Ottavio Rinuccini), oppure dall’Orfeo di Claudio Monteverdi (Mantova 1607, su libretto di Alessandro Striggio; questo è, fra i tre titoli, il solo che ancora sia rimasto in repertorio) – questione che qui lascerò irrisolta – è evidente infatti come il mito abbia affascinato librettisti e compositori fin dalle primissime origini. Ed era ovvio che fosse così. Fra l’Orfeo di Monteverdi e quello di Gluck (I edizione, Vienna 1762, su libretto di Ranieri de’ Calzabigi; II edizione, Parigi 1774, in francese, su libretto di Pierre Louis Moline, in teoria la versione che si dovrebbe sentire alla Scala. Va detto però che l’opera subì vari rimaneggiamenti dopo la morte di Gluck, nel 1859 da parte di Hector Berlioz che ne fece un veicolo di successo per il contralto Pauline Viardot; nel 1889 dall’editore Giulio Ricordi, che stampò un’edizione che mescolava pezzi delle diverse versioni precedenti – ed è questo fra l’altro l’Orfeo che più spesso si è sentito nei teatri e nelle sale di incisione, benché fra tutti sia certamente il più fasullo) – fra i due Orfei, dicevo, corrono poco più di 150 anni ma almeno un centinaio di rifacimenti diversi. Non è però nemmeno questa la storia che vorrei seguire.

    Quello che mi interessa, come dicevo, è la sfida di rappresentare un canto che commuova gli dèi della morte. Virgilio risolse la cosa da par suo. Ecco i versi che si riferiscono alla scena che ci interessa, subito dopo che il narratore (non Virgilio, ma l’indovino Proteo) ci ha ricordato l’immenso dolore provato dal celebre cantore, cui si riferisce il participio ingressus nella terza riga del testo riportato (= georg. IV 467-486):

    Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
    et caligantem nigra formidine lucum
    ingressus Manesque adiit regemque tremendum
    nesciaque humanis precibus mansuescere corda.
    At cantu commotae Erebi de sedibus imis
    umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
    quam multa in foliis avium se milia condunt
    vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
    matres atque viri defunctaque corpora vita
    magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
    impositique rogis iuvenes ante ora parentum,
    quos circum limus niger et deformis harundo
    Cocyti tardaque palus inamabilis unda
    alligat et noviens Styx interfusa coercet.
    Quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
    Tartara caeruleosque implexae crinibus angues
    Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora
    atque Ixionii vento rota constitit orbis.
    Iamque pedem referens casus evaserat omnes…

    In pratica, Virgilio sceglie l’ellissi. Orfeo entra nell’Aldilà attraverso le fauci del Tenaro, porta dell’Oltretomba; raggiunge le profondità della terra e le divinità che vi risiedono (Mani; ombre dei defunti; Plutone, il re che non conosce umana pietà) e li commuove tutti quanti. Introdotto da un At avversativo, noi vediamo l’effetto del canto, ma non udiamo il canto. Tutte le anime che popolano questo regno, esseri umani, mostri implacabili (le Furie e Cerbero), perfino gli inanimati strumenti di tortura che affollano il Tartaro (come la ruota su cui viene suppliziato Issione, colpevole di empietà) si addolciscono e si commuovono. Orfeo può così riportare indietro i propri passi, superando ogni ostacolo, salvo – come ci dicono i versi immediatamente successivi a questi – quello costituito da se stesso, la propria incapacità di obbedire fino in fondo all’imposizione divina. In tutto questo, noi non udiamo mai la sua voce. Da grande poeta qual era, Virgilio ha capito che la sfida era persa in partenza, e ha aggirato l’ostacolo con grande dignità e finezza, attraverso un escamotage che dà comunque l’idea di quello che è avvenuto, senza rischiare di scadere nel patetico, nel ridicolo, nell’insufficiente.

    Eccoci ora ad Ovidio. L’imitazione del passo virgiliano in lui è evidente, e anche la gara con il modello, come si riconosce nell’incipit del racconto, che fa cenno alla rapida discesa agli Inferi di Orfeo, e nella parte immediatamente successiva al canto vero e proprio, che descrive, esattamente come in Virgilio ma in meno versi che in lui, e con più preciso e pedante catalogo, gli effetti del canto (met. X 40-47):

    Talia dicentem nervosque ad verba moventem               
    exsangues flebant animae; nec Tantalus undam
    captavit refugam, stupuitque Ixionis orbis,
    nec carpsere iecur volucres, urnisque vacarunt
    Belides, inque tuo sedisti, Sisyphe, saxo.
    Tunc primum lacrimis victarum carmine fama est               
    Eumenidum maduisse genas, nec regia coniunx
    sustinet oranti nec, qui regit ima, negare.

    Come si vede, qui è dato poco risalto alle anime dei comuni defunti (che non hanno diritto di voto nella faccenda, e quindi sono messe da parte con un’espressione rapida e generica). Prima delle Furie/Eumenidi già presenti in Virgilio, sono elencati con maggiore precisione i tormenti, ora sospesi, del Tartaro: non il solo Issione, ma anche Tantalo, le Danaidi, Tizio il cui nome si cela nell’espressione nec carpsere iecur volucres, quasi un indovinello rivolto al lettore, e infine Sisifo. Gli dèi dell’Oltretomba sono alla fine dell’elenco, in bella evidenza, perché è a loro che spetta la decisione ultima, con tanto di belluria stilistica di separare la moglie (Proserpina) dal marito (Plutone), ad entrambi assegnando però una pari azione e una pari commozione. Ecco invece che cosa succedeva all’inizio dell’episodio (met. X 11-39; il relativo iniziale si riferisce, ovviamente, a Euridice):

    Quam satis ad superas postquam Rhodopeius auras
    deflevit vates, ne non temptaret et umbras,
    ad Styga Taenaria est ausus descendere porta
    perque leves populos simulacraque functa sepulcro
    Persephonen adiit inamoenaque regna tenentem
    umbrarum dominum pulsisque ad carmina nervis
    sic ait: “O positi sub terra numina mundi,
    in quem reccidimus, quicquid mortale creamur,
    si licet et falsi positis ambagibus oris
    vera loqui sinitis, non huc, ut opaca viderem
    Tartara, descendi, nec uti villosa colubris
    terna Medusaei vincirem guttura monstri:
    causa viae est coniunx, in quam calcata venenum
    vipera diffudit crescentesque abstulit annos.
    Posse pati volui nec me temptasse negabo:
    vicit Amor. Supera deus hic bene notus in ora est;
    an sit et hic, dubito: sed et hic tamen auguror esse,
    famaque si veteris non est mentita rapinae,
    vos quoque iunxit Amor. Per ego haec loca plena timoris,
    per Chaos hoc ingens vastique silentia regni,
    Eurydices, oro, properata retexite fata.
    Omnia debemur vobis, paulumque morati
    serius aut citius sedem properamus ad unam.
    Tendimus huc omnes, haec est domus ultima, vosque
    humani generis longissima regna tenetis.
    haec quoque, cum iustos matura peregerit annos,
    iuris erit vestri: pro munere poscimus usum;
    quodsi fata negant veniam pro coniuge, certum est
    nolle redire mihi: leto gaudete duorum”.

    Ovidio non rinuncia a mettere in bocca al suo Orfeo un canto; e questo canto è costruito secondo tutte le regole del genere “richiesta sacrale”: giustificazione iniziale della propria ragione di presentarsi al cospetto dei numi (non vengo per compiere un atto illegale di rapina dei vostri beni; vengo alla ricerca della mia consorte, spinto a ciò da Amore); celebrazione della divinità che Orfeo ritiene sua guida e protezione, ricordando quanto essa abbia interferito anche nella vita dei suoi ascoltatori (Proserpina e Plutone); richiesta concreta della restituzione della consorte, accompagnata dalla celebrazione sotto forma di giuramento della potenza dei luoghi inferi presso i quali il cantore si trova (Eduard Norden, in un bel libro del 1913, Agnostos theos, tradotto in italiano nel 2002 dalla Morcelliana di Brescia con titolo Dio Ignoto. Ricerche sulla storia della forma del discorso religioso, ha ben studiato le varie parti costitutive di questa forma di richiesta); infine, celebrazione dell’autorità e della potenza di chi gli deve concedere il favore implorato, e cioè gli dèi inferi, attraverso il tema omnia debemur vobis, “tutti – ma il neutro omnia rinforza l’idea, includendo persone e cose assieme, e anzi parificandole fra loro – siamo soggetti a voi”, “vi siamo prima o poi dovuti”. Una captatio benevolentiae che si rinforza subito dopo nella formula huc tendimus omnes, che serve a sua volta a titillare l’orgoglio dei sovrani che ascoltano. Orfeo chiude il canto con una minaccia di suicidio: se gli sarà negata Euridice, farà in modo di restare ugualmente al fianco di lei, senza più abbandonare i luoghi in cui si trova. Di fronte a questa possibilità, gli dèi, come sappiamo, si commuovono e cedono. La forma, il perfetto rispetto della forma e delle forme (burocratiche) della preghiera, qui si fanno elementi salvifici, nonostante il contenuto non suoni così sublime come ci saremmo potuti aspettare, data la situazione eccezionale ed il cantore, a sua volta eccezionale, che il mito metteva in gioco. Quanto però conti, specie nei contesti sacrali, il rispetto della forma per gli antichi non è argomento che posso sviluppare qui, ma neanche che abbia bisogno di molte parole per essere richiamato alla memoria dei lettori.

    Vengo ora alle note musicali. Delle molte intonazioni del mito (così si chiamano le messe in musica di un testo letterario), ne scelgo due, che hanno in comune il libretto, ossia quel testo di Ranieri de’ Calzabigi musicato nel 1762 da Gluck e rimesso in musica qualche anno più tardi, nel 1776, a Londra, da Ferdinando Bertoni (1725-1813). Bertoni oggi è ricordato quasi esclusivamente per quest’opera, e non tanto per il valore della musica in sé, quanto per il suo ruolo di cartina al tornasole del testo di Gluck e perché illustri cantanti (una fra tutte, Marilyn Horne) amarono mescolare i due testi, trovando in Bertoni occasioni musicali magari meno felici, ma più appaganti al proprio narcisismo virtuosistico (con il che, naturalmente, “ridateci la Horne!”)

    Ecco allora Gluck. Chiaro che la via dell’ellissi non poteva essere praticata a teatro, per il quale questa scena è il nocciolo dell’intera vicenda. Franz Joseph Haydn, che pochi anni più tardi, nel 1791, scrisse a sua volta un’opera sul tema, peraltro mai rappresentata fino al 1951, scelse sì la via dell’ellissi, ma per una sorta di compensazione dovette poi complicare la trama del resto dell’opera, con inutili divagazioni narrative che soddisfacessero in qualche misura lo spettatore. Non potendo percorrere quella dell’ellissi, Gluck sceglie allora la via della semplicità. Partiamo dal testo che sentiremo intonato. Siamo all’inizio del II atto. Alla fine del precedente, Orfeo ha preso la decisione di scendere nell’Ade e ora il punto di vista si capovolge e ci troviamo trasportati nell’Aldilà:

    Orrida e cavernosa al di là del fiume Cocito, offuscata poi in lontananza da un tenebroso fumo illuminato a fiamme che ingombrano tutta quella orribile abitazione. Appena aperta la scena, al suono di orribile sinfonia comincia il ballo di Furie e Spettri, che viene interrotto dalle armonie della lira d’Orfeo, il quale comparendo poi sulla scena, tutta quella turba infernale intuona il seguente Coro:
    FURIE Chi mai dell’Erebo
    fra le caligini,
    sull’orme d’Ercole
    e di Piritoo
    conduce il piè?
    D’orror l’ingombrino
    le fiere Eumenidi,
    e lo spaventino
    gli urli di Cerbero,
    se un dio non è.
    Ripigliano le Furie il ballo girando intorno ad Orfeo per spaventarlo.
    ORFEO Deh! placatevi con me,
    furie, larve, ombre sdegnose.
    FURIE  No.
    ORFEO Vi renda almen pietose
    il mio barbaro dolor.
    FURIE (raddolcito e con espressione di qualche compatimento)
    Misero giovine!
    che vuoi, che mediti?
    Altro non abita
    che lutto e gemito
    in queste orribili
    soglie funeste.
    ORFEO Mille pene, ombre moleste,
    come voi sopporto anch’io;
    ho con me l’inferno mio,
    me lo sento in mezzo al cor.
    FURIE (con maggior dolcezza)
    Ah quale incognito
    affetto flebile,
    dolce a sospendere
    vien l’implacabile
    nostro furor.
    ORFEO Men tiranne, ah! voi sareste
    al mio pianto, al mio lamento,
    se provaste un sol momento
    cosa sia languir d’amor.
    FURIE (sempre più raddolcito)
    Ah quale incognito
    affetto flebile,
    dolce a sospendere
    vien l’implacabile
    nostro furor!
    Le porte stridano
    su’ neri cardini
    e il passo lascino
    sicuro e libero
    al vincitor.
    Cominciano a ritirarsi le Furie ed i Mostri e, dileguandosi per entro le scene, ripetono l’ultima strofa di coro che, continuando sempre frattanto che si allontanano, finisce finalmente in un confuso mormorio. Sparite le Furie, sgombrati i Mostri, Orfeo s’avanza nell’inferno.

    In  corsivo ho messo le didascalie del librettista, in grassetto l’indicazione dei personaggi parlanti, in nero le battute. Gluck risolve la scena dando a Orfeo un canto ritmato e identico su più strofe, ma che di fatto si limita a due soli, semplicissimi versi (sbaglia qui, secondo me, l’interprete ad eccedere in abbellimenti non scritti intorno all’espressione il mio barbaro dolor). L’arpa si sostituisce alla cetra del mito e scandisce il ritmo delle parole, consentendo di riempire gli spazi ampi di un teatro. Le Furie si presentano con una ridda disordinata di suoni, messa in movimento dal primo apparire della cetra di Orfeo, come se quella turbasse lo stare precedente. Una volta in movimento, esse rispondono all’emozione provocata dal cantore prima a monosillabi (“No!”), poi con frasi più elaborate, che aprono una sorta di compassionevole dialogo, con un tono che tende a farsi sempre più dolce e vicino al cedimento (il coro qui è molto bravo, e invito ad ascoltare i diversi “No!” pronunciati con enfasi decrescente ed emozione via via maggiore). Nella scena successiva, che non sentiremo, Orfeo arriva nell’atmosfera rarefatta dei Campi Elisi fra gli Spiriti Beati, dove incontra Euridice.

    Prima di passare all’ascolto, ancora una notazione pratica. A Vienna nel 1762 il personaggio di Orfeo venne interpretato dal celebre cantore evirato (come si usava al tempo) Gaetano Gaudagni. Oggi, ovviamente, non disponiamo più di simili voci che, per la mescolanza di ormoni maschili e femminili (questi ultimi rafforzati dall’operazione subita di solito in tenerissima età), erano ritenute particolarmente adatte ad esprimere l’adolescenza in musica, un miscuglio di toni maschili e femminili non ancora ben organizzati (ma le voci dei castrati erano educate e melodiose, a detta di tutti i testimoni del tempo), un po’ come delle voci bianche, prive però di quella tendenza ad emettere suoni fissi e non vibrati che è propria delle voci bianche. Impossibile riprodurre quel canto: da Berlioz in poi le voci femminili si sono perciò appropriate di questo repertorio. Negli ultimi anni, e anche nella registrazione che qui allego, resa di pubblico dominio da Radio France, che l’ha offerta in open source, si sentono voci maschili “costruite” ad arte per suonare femminili, ma che per quanto brave sono probabilmente solo una pallida eco di quello che doveva essere l’effetto originario. Alla Scala sentiremo la versione parigina dell’opera, scritta per tenore acuto (haute-contre) e tradotta in francese, con aggiunte di versi qui inesistenti, di balli per le Furie, di abbellimenti canori di vario genere. Ecco intanto la registrazione:

    Chiudo infine con Bertoni. Testo e struttura complessiva della scena rimangono identici, anche se la forza penetrativa della musica, proprio perché è più elaborata, finisce per risultare complessivamente minore. Ma quello su cui vorrei portare l’attenzione è un dettaglio. Il dialogo che Gluck aveva costruito fra Orfeo e il coro delle Furie qui diventa una sorta di grande rondò (rondeau) di Orfeo, con interventi sporadici del coro, come appunto succede spesso nella tradizione dei rondò musicali. Diciamo che la scena, che in Gluck si segnalava per la sua semplicità persuasiva, viene così normalizzata secondo le regole dell’opera di fine Settecento, un dato evidente soprattutto nella seconda parte dell’ascolto che propongo. Usando un termine della letteratura, è come se Gluck venisse “grammaticalizzato” o, ancora meglio, come se fosse normalizzato attraverso forme e strutture retoriche più usuali e definite, che rispettano in pieno le regole del genere e tranquillizzano quindi l’ascoltatore. Evidente, a mio parere, il parallelo con quanto avevamo visto in poesia. Ecco comunque il brano di Bertoni:

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Il treno

    Il treno

    L’idea di questo intervento mi è venuta rivedendo il film di John Frankenheimer, Il treno (The Train, 1964). Il tema trattato mi ha portato a riflettere di nuovo sull’utilità di studiare latino a scuola e in questo post spero di aggiungere nuovi spunti per ragionare su una questione molto dibattuta. La trama è nota: un ufficiale nazista, colto ed esperto di storia dell’arte, vuole portare in Germania su un treno i quadri custoditi al Jeu de Paume; la direttrice del museo, consapevole che si tratta di un tesoro inestimabile per la Francia, anzi che quei quadri si identificano con la Francia stessa, chiede ai partigiani che lavorano alle ferrovie di fermarlo. All’inizio, ovviamente, la sua richiesta viene respinta dal capo della squadra partigiana, Paul Labiche, interpretato da Burt Lancaster, perché salvaguardare dei quadri appare, e forse è, meno importante di altre azioni di sabotaggio necessarie all’imminente fine del conflitto. In seguito, per vendicare la morte di un vecchio ferroviere, Labiche escogita un piano ardito, che otterrà il risultato sperato, ma al prezzo carissimo del sacrificio di molte vite umane. La domanda che mi sembra porre il regista non è banale e nemmeno estranea al nostro tempo, anzi a mio avviso è di fondamentale importanza in questo momento di grandi trasformazioni tecnologiche (si veda il post “Illusioni perdute”, anno 2017), politiche e sociali. Quanto vale l’arte, quanto valgono i libri, la letteratura, la pittura e gli stessi film? Qual è il valore che dobbiamo o vogliamo attribuire al nostro passato storico e artistico? Vale e varrà la pena salvaguardarlo ad ogni costo, a fronte di nuove scoperte scientifiche, della globalizzazione che ha aperto i confini dell’Europa e dell’Occidente, di sfide che per ora nemmeno possiamo immaginare?

    Per fortuna, da tempo viviamo in pace, sebbene sotto la continua minaccia terroristica; ma ricordiamo tutti la devastazione del museo di Baghdad durante la guerra del Golfo nel ’90-’91, la distruzione dei Buddha da parte dei Talebani nel marzo 2001, lo sventramento delle Torri Gemelle o l’attentato al museo del Bardo nel 2015. L’orrore per la morte di esseri umani è senz’altro prevalente; tuttavia, anche la salvaguardia di opere create dall’ingegno umano rappresenta un atto di rispetto per l’umanità e proprio in una situazione di pace, ancorché relativa, tale salvaguardia è un nostro dovere come insegnanti e come parte dell’establishment culturale, perché siamo quelli che trasmettiamo il sapere nelle scuole e nelle università, e dobbiamo perciò porre a noi stessi e ai nostri studenti la domanda che pone Frankenheimer con il suo film.

    A scuola vengono studiate materie a cui nessuno osa obiettare, perché – come già detto in un post precedente (“Considerazione inattuale XIV”, anno 2015) – sono utili. Sarebbe considerato pazzo chiunque proponesse di eliminare la matematica, le scienze, le lingue dal curriculum scolastico, e giustamente. Viene ritenuto saggio chi si iscrive a ingegneria, legge, economia o a facoltà scientifiche – anche se interessano poco o niente – perché il lavoro sembra assicurato e in ogni caso ci si dedica a studi che servono alla società civile. Non intendo sminuire l’importanza di tali facoltà, la loro utilità e persino il loro fascino (ad esempio, io rimpiango di aver dimenticato quasi tutta la matematica e la fisica imparate al liceo). Però….. però è anche vero che non a tutti interessano quelle materie, che alcuni, anzi molti ragazzi amano l’arte, la letteratura, l’architettura, la filosofia, il cinema e la storia. Molti sono proiettati verso lo studio e la ricerca per un futuro migliore e un benessere concreto, altri verso il passato con l’intenzione di conoscerlo e mantenerlo in vita. In quanto latinista, ritengo che il latino e la letteratura che questa lingua ha creato facciano parte della nostra identità come cittadini italiani, europei ed occidentali. Che dimenticare ciò significherebbe rinunciare a una parte consistente del nostro passato ed essere privati di un sapere che ci renderebbe menomati e meno efficaci nell’affrontare le sfide che il futuro ci presenterà. Credo che lo stesso valga per altre materie, come il greco, la storia dell’arte, la musica…

    Ho già mostrato in un altro post (“Romantici vs Classici? Il caso Wordsworth”, anno 2016), e nell’intervento a un recente convegno triestino, il ruolo della poesia di Virgilio nella formazione della poesia romantica inglese. Ma in questo contributo non voglio occuparmi di “alta” letteratura né concentrarmi sull’influenza del latino nella storia della cultura, bensì sulla sua presenza in opere contemporanee, talora di largo consumo. Da appassionata di telefilm americani mi accorgo che le citazioni latine, anche di singole parole o espressioni giuridiche, sono frequentissime: dall’usatissimo m.o, cioè modus operandi, a res ipsa loquitur; per restare in ambito giuridico, in un episodio di The Good Wife un ricchissimo repubblicano ultraconservatore, durante una discussione, fa delle citazioni in latino e si stupisce che l’avvocatessa liberale lo abbia capito e anzi abbia risposto a tono. In una puntata di Bones una ricercatrice viene uccisa, perché un professore vuole impedirle di pubblicare il testo di un poeta latino elegiaco appena scoperto; in The Mentalist un sedicente capitano Nemo si fa chiamare così per non essere riconosciuto, ma il colto protagonista Patrick Jane capisce che di parola latina si tratta. Addirittura, nel celeberrimo Lost un gruppo di persone, una specie di eletti, si esprime in latino (anche se non sempre in maniera corretta…..). Quello che io considero il grande genio della Graphic Novel assieme a Hugo Pratt, e cioè il britannico Alan Moore, ha intitolato uno dei suoi capolavori Watchmen, pur non sapendo che il termine e più in generale il concetto di supereroe che Moore vuole esprimere provenissero da una satira di Giovenale (VI 31-32: quis custodiet ipsos custodes?, che in inglese viene tradotto Who watches the watchmen?) e lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick ha dato il titolo Ubik, che rimanda a Ubique, a uno dei suoi romanzi più intricati e più belli. Uno dei pianeti della saga di Star Wars e di un ciclo di romanzi di Isaac Asimov si chiama Coruscant, dal verbo latino. E che dire dei versi finali di una famosa nonché splendida canzone dei Led Zeppelin, Achilles Last Stand, che ricordano il mitologico Atlante che tiene il mondo sulle spalle (The mighty arms of Atlas, Hold the heavens from the earth / from the earth)? Visto che abbiamo toccato il mondo greco, ricordo un’altra Graphic Novel sulla storia della logica matematica, Logicomix (2008), che si conclude con la rappresentazione dell’Orestea di Eschilo. Infine, nel libro del fisico Carlo Rovelli dedicato al concetto di tempo (L’ordine del tempo, 2017), ogni capitolo ha in epigrafe un verso di Orazio. Si tratta di pochi esempi tra i tanti che ho raccolto. Chi vorrebbe eliminare il latino dalle nostre scuole priverebbe gli studenti di uno strumento per comprendere non solo il passato, ma anche i prodotti dell’intrattenimento contemporaneo e persino letture più impegnate.

    Ed ecco infine la mia risposta alla domanda posta dal film Il treno, in questo caso relativa allo studio del latino: vale la pena perdere, non vite umane ovviamente, ma tempo e fatica per apprendere una lingua considerata morta? Io credo di sì, perché, come i quadri del Jeu de Paume, il latino e quanto espresso in questa lingua appartengono ancora alla nostra cultura, possono ancora dirci qualcosa, benché utilizzati in maniera assai disparata, e quindi sono un bene prezioso da salvaguardare e da trasmettere a quanti verranno dopo di noi. Dimenticare il proprio passato artistico e culturale, per quanto inutile possa sembrare, significa rinunciare a una parte della nostra storia e della nostra identità. Obbligo della scuola, secondo me, è anche tentare di far comprendere ai più giovani proprio questo, l’importanza dell’arte in tutte le sue forme come patrimonio inestimabile per un popolo.

    © Isabella Canetta, 2018

  • Illusioni perdute

    Illusioni perdute

    Un’amica mi ha regalato il libro di John Picchione, La scrittura, il cervello e l’era digitale, Macerata 2016. Picchione, docente di Letteratura e cultura italiana moderna e contemporanea presso la York University di Toronto, è ben noto come studioso del Modernismo e dei movimenti di avanguardia del primo Novecento, di Sanguineti e di Antonio Porta. Tra le sue opere più recenti c’è il volume Dal modernismo al postmodernismo. Riflessioni teoriche e pratiche della scrittura, anch’esso edito in Italia (Macerata 2012). Per meglio presentare lo studioso, offro qui un suo articolo, pubblicato dall’Università di Milano, e disponibile on-line alla libera consultazione.

    Picchione – il modernismo e il tempo, acme, 2015, pp. 15-37

    Nel libro che vorrei discutere in questo post, Picchione si interroga su quali siano gli effetti della tecnologia elettronica sulla scrittura, la letteratura, le sue pratiche pedagogiche. Il tema mi pare di grande attualità e interesse. La risposta, non lo nascondo, è in parte deludente. Picchione parte dalle teorie, ormai metabolizzate da tempo, di Marshall McLuhan (La Galassia Gutenberg, 1962) e Walter J. Ong (Oralità e scrittura, 1982),  secondo le quali la rivoluzione tecnologica non è un fatto neutro e privo di conseguenze, un semplice aggiungersi e perfezionarsi degli strumenti a disposizione dell’uomo. La tecnologia ha profonde ripercussioni sul nostro modo di percepire il mondo e dargli senso, modifica i nostri rapporti con le persone e le cose. Per McLuhan (e Ong) il passaggio dalla parola orale, che si veicola attraverso l’udito, in una relazione avvolgente, emozionale e immediata, alla parola scritta, che si veicola attraverso la vista, fredda, distanziata e razionale, ha segnato una cesura storica senza paralleli, ha costituito un punto di svolta e di non ritorno nella storia dell’umanità. L’alfabetizzazione (cioè, appunto, questo passaggio da oralità a scrittura) è avvenuta su un lungo arco temporale e in più fasi, ultima delle quali è stata l’invenzione della stampa a caratteri mobili, che ha influito sull’uomo, sulle sue forme aggregative, sulle sue capacità e i suoi sensi, favorendone alcuni a scapito di altri. Il meccanismo della lettura testuale è divenuto così un abito di cui l’umanità non ha potuto più liberarsi, e che ha finito per condizionarla anche entro esperienze che non erano direttamente “testuali” (come ad esempio il cinema, gli altri mezzi di comunicazione di massa, le aggregazioni politiche e sociali della vita d’ogni giorno). Riprendendo questa impostazione, Picchione sostiene che oggi siamo di fronte a un’identica svolta epocale, il che giudico vero, anche se non ancora pienamente colto da tutti, e non sfruttato adeguatamente, in particolare, nel mondo della cultura. Nel suo libro, di rapida e immediata lettura, Picchione insiste su questo e cerca anche di smascherare il facile trionfalismo, nella direzione delle “sorti magnifiche e progressive” che a breve ci attendono o ci attenderebbero, da molti connesse all’invadenza del computer nella vita quotidiana. E anche questo mi sembra un argomento di grande interesse e attualità, e molto ben sviluppato.

    Dove il volume incomincia a lasciarmi più dubbioso è quando, sulla scia di una moda diffusa nell’ultimo decennio, Picchione si ricollega alle parole di neuroscienziati come Norman Doidge e Gary Small per evidenziare, in toni catastrofistici, i danni apportati dalle nuove tecnologie sul cervello dell’uomo e l’effetto di dipendenza che esse stanno innescando nell’umanità. Non che i ragionamenti siano inesatti e gli effetti del fenomeno non appaiano sotto gli occhi di tutti, anche solo nella pratica quotidiana. Non credo però che, nella breve esistenza di internet (vent’anni ca.), gli effetti di queste variazioni cerebrali si possano già quantificare con assoluta certezza in termini di mutamenti psicosomatici prodottisi nell’umanità e di danni apportati al complesso plastico del cervello, anziché di singoli neuroni disattivati, o diversamente attivati, dalla rinuncia alla lettura “tradizionale”. Ciò che Picchione e i suoi referenti scientifici mettono bene in evidenza è che, nell’atto cognitivo realizzato attraverso il computer, anziché attraverso il libro, il cervello sfrutta attività, zone di materia grigia e neuroni tendenzialmente diversi (e nel caso dei neuroni, in numero minore) da quelli in uso nella pratica tradizionale della lettura – pratica che è, lo sappiamo tutti, un’attività tendenzialmente lenta, ad alta concentrazione personale, riflessiva. A ciò vanno aggiunte le diverse relazioni sociali che la “macchina internet” favorisce, o, più facilmente, di norma inibisce. Perché l’impiego di sempre maggior tempo al computer è una pratica solipsistica ancor più del leggere un libro, e non spinge solo a isolarsi per tutto il tempo della pratica stessa (il che, a ben vedere, vale forse in misura perfino maggiore per chi legge), ma anche ad accentrare ogni cosa su di sé e su quanto ci interessa nell’hic et nunc del singolo momento, mentre viene ignorata la realtà che non rientra in questa sfera d’attenzione. Il che è di nuovo verissimo. Solo che, mentre simili osservazioni hanno, secondo me, una ragione d’essere presso gli scienziati, che descrivono, com’è loro dovere, una realtà effettuale della quale colgono i dati (delineando così un homo futurus presumibilmente diverso dall’attuale, ma ancora tutto da scoprire, tanto nei suoi limiti quanto nelle sue potenzialità), insistere su questi fenomeni e fare di essi il motivo di un allarmato pamphlet ha meno ragione d’essere in chi, come Picchione, si presenta come uno storico della cultura. Perché quello che ci viene detto, e ribadisco la mia piena convinzione di questo, è che siamo davanti a una rivoluzione non solo tecnica, ma anche sociologica, e addirittura antropologica. Bene, finché si tratta di prendere atto del fenomeno e di non assumere con indifferenza, come mero avanzamento tecnico, la strada intrapresa negli ultimi decenni. Ma piangere su questo mutamento vuol dire invece assolutizzare il passato cui si era abituati, e che non potrà più riproporsi tale e quale. Solo che allo storico compete prendere atto dei fenomeni in corso, non demonizzarli; mentre l’educatore deve conviverci quanto più gli è possibile, sapendo che i grandi rivolgimenti, una volta avviati, non possono essere arrestati: al massimo, possono essere guidati e indirizzati su una via parzialmente diversa da quella fin lì intrapresa, si può cioè cercare una mediazione che consenta di non perdere tutto ciò che ci portiamo dietro dal passato e che vorremmo, in qualche misura, conservare anche nel nuovo che ci aspetta, adattandolo però a quel nuovo che ci aspetta e che sicuramente finirà per trionfare.

    Quando invece Picchione dovrebbe spiegare come si possa ancora fare letteratura e storia della letteratura con giovani studenti che, mediamente, vivono in presenza di una globalizzazione della cultura dello spettacolo e del consumo, favorita dal dominio dell’esperienza visiva che produce i suoi effetti sulla percezione del sé e sulle modalità gnoseologiche (Picchione definisce questi effetti come deleteri e immorali, ma io rifiuto di giudicare i fenomeni storici) – generazioni che hanno visto modificarsi le loro categorie spazio-temporali, trasformandosì così da homines sapientes in homines videntes, la cui comunicazione è immersa nell’istantaneità e nell’ubiquità, e che in conseguenza di questo hanno perso gran parte delle capacità ermeutiche di un messaggio scritto – ebbene, quando Picchione dovrebbe spiegarci tutto questo…in realtà siamo arrivati a pagina 80 su un totale di 89! E la ricetta svolta in quelle nove pagine è relativamente semplice: si tratta di rivalutare la letteratura scritta, proibendo le altre forme invasive almeno entro i circuiti scolastici, da arroccare in una difesa ad oltranza della parola letteraria, della sua espressione e della sua ricezione, nella convinzione che la letteratura, diciamo così, “tradizionale” sia riflessione, ambiguità, sofferenza, ethos, e come tale possa trovare la propria funzione sociale in un mondo in cui, cito, “la tecnologizzazione del sistema scolastico riduce la percezione dello studio a raccolta di informazioni facilmente accessibili”. Il che, a me, non sembra significare nulla, e anzi pare una deriva pericolosa, ben sintetizzata dall’espressione, in quarta di copertina, per cui scopo del volume sarebbe promuovere “una letteratura impegnata a suscitare nei giovani un orientamento di resistenza” (nei confronti delle tecnologie).

    Resistere alle novità non serve a nulla, specie quando queste novità abbiano già assunto il carattere di fenomeno di massa; più che resistere, si deve convivere, cercando di apportare gli adeguati correttivi e di suscitare, questo sì, senso critico e capacità di distinguere valorialmente le diverse possibilità offerte dalla tecnologia, senza fare di ogni erba un fascio, senza rimpiangere un inutile passato. Picchione, invece, si scandalizza con toni accesi dell’assenza, anche in casa di laureati, delle enciclopedie cui tanto tenevano i nostri padri, senza domandarsi se l’enciclopedia tradizionale, strumento costoso in termini economici e di spazio, e subito obsoleto, non abbia necessariamente ceduto il passo a forme alternative di controllo dei dati immediati del sapere. Forme che possono essere molto buone, oppure no; che andranno definite nelle loro possibili tipologie e categorie; per le quali andranno fissati criteri oggettivi di verifica e di aggiornamento: ma che non vanno di per sé demonizzate, e alle quali è inutile contrapporre un nostalgico strumento del passato, ormai divenuto improponibile. Così, sempre parlando dell’eccesso di dati cui internet offre spazio (cosa in sé verissima), Picchione osserva che “un’overdose di informazione […] causa la perdita di significati e diventa dis-informazione, rumore”. Il che è di nuovo verissimo, ma comporta la necessità di porre anche qui graduatorie e criteri chiari che consentano di distinguire informazione da informazione, sito da sito, notizia da notizia. Per Picchione invece “l’istantaneità dell’informazione in Rete scoraggia la ricerca in blblioteca e trasforma le esercitazioni scritte in plagi” – una catena associativa i cui elementi non sono legati da nessun rapporto di causa/effetto, ma solo dalla cattiva educazione alle spalle di chi agisce così. Anche Picchione (e certo io) userà la Rete per le sue ricerche, senza che queste si configurino automaticamente come plagi; né il tempo passato in una biblioteca digitale è di per sé diverso dal tempo passato in una biblioteca “tradizionale”: sono l’uso che si fa delle informazioni e la capacità critica che su di esse e sul loro reperimento si è sviluppata che fanno l’eventuale differenza. Ma il discorso vale tanto per un utente digitale, quanto per un utente tradizionale. E chi ha guidato l’uno come l’altro, lo ha istruito e lo segue nella ricerca, dovrà essere in grado di addestrare il proprio allievo in entrambi i campi e i casi, acquisendo cioè a sua volta un’adeguata competenza selettiva, da esercitare sui libri cartacei, come anche sugli strumenti digitali.

    E qui veniamo al punto debole del volume: il quale si chiude al momento in cui doveva entrare nel vivo del suo tema, spiegandoci cosa si debba fare sul piano pratico e come si possano comunicare i valori in cui abbiamo sempre creduto a future generazioni che sempre di meno saranno portate, e non per colpa loro, ma per effetto della trasformazione del mondo, a riconoscersi, e forse anche a comprendere quegli stessi valori. Picchione si limita invece a una celebrazione generica e superficiale di quei valori e a ribadire la necessità di una loro proposizione (controllata e protetta), a fianco e in opposizione all’utilizzo altrove predominante degli strumenti informatici. In questo, egli non fa altro che adeguarsi a una serie ormai cospicua di volumi che ci hanno ricordato, se mai ne avessimo dubitato, la sublimità del greco o l’importanza culturale del latino, per fare due esempi. Ma che non ci hanno insegnato come questa importanza e sublimità si possano calare negli scenari presenti e futuri che in questo volume si configurano, non ci hanno cioè spiegato come iniettare questa importanza e questa sublimità dentro gli strumenti oggi prevalenti tra i giovani, e non contro, in opposizione e in aggiunta (contrastiva) ad essi. Mentre è solo la prima operazione che consentirà di “costruire” un homo futurus capace di attivare i neuroni che gli sono propri, e anche quelli destinati altrimenti a finire perduti; la seconda creerà invece dei disadattati. Questa mancanza secondo me rende debole la proposta del libro, e di molti ad esso similari, che finiscono per apparire come un antistorico voler controllare e fermare un processo ormai in atto. Perché, in fondo, esistono delle “sorti magnifiche e progressive” anche per gli scenari passati, non solo per quelli futuri! E il sospetto dell’esercizio retorico resta, in simili casi, fortissimo. Alterità, opposizione, recupero e conservazione di capacità e pratiche perdute, o comunque a rischio di perdita, sono le parole d’ordine di volumetti come quello di Picchione: ma alterità, opposizione, recupero rimangono termini senza senso se non sanno calarsi in una mediazione che deve partire dai modi e dal credo che si vogliono combattere, ma si riconoscono predominanti; e se in quei modi e in quel credo non riescono a instillare quanto di buono vi si può ancora davvero instillare. In caso contrario, si entra nella schiera di coloro che, di fronte a una rivoluzione, non ne sanno prendere atto, se non per lamentarsene e sperare che, alla fine, la si possa in qualche modo fermare. Nessuna rivoluzione è mai stata fermata. Al massimo, è stata cavalcata e guidata verso esiti in origine inaspettati…

    Non so quale sia la cultura classica di Picchione. Ma la lettura del suo libretto mi ha fatto venire in mente una pagina irresistibile di Platone, che tutti conosciamo. Siamo nel Fedro, ed è il mito dell’invenzione della scrittura da parte del dio Theuth, ovvero Ammone. Genialità specifica di Platone è l’avere affidato, lui, allievo di un maestro che all’oralità aveva consegnato tutto il suo insegnamento, il proprio dissenso dalla scrittura a un’opera scritta, e scritta con le straordinarie capacità narrative e rappresentative che ci propongono i dialoghi platonici. Un tocco di raffinata ironia, credo, che rende grande chi ne è stato capace! Quello che forse non tutti sanno è che i testi greci, ben prima dell’invenzione della stampa, ma in forma accelerata dopo di essa, nelle occasioni importanti venivano per lo più editi con a fianco una traduzione latina. Perché il greco è sempre stato lingua d’élite, il latino lingua di comunicazione. Ecco allora quella pagina famosa, ma in latino, come compete a questo sito. Ricavo la traduzione dalla bellissima edizione platonica di Immanuel Bekker, 1816: un volume per molti anni cercato e consultato nelle biblioteche di mezza Europa, e oggi facilmente accessibile anche a casa mia, come in quella di chiunque, proprio grazie ad internet…

    Audivi equidem, circa Naucratim Aegypti, priscorum quendam fuisse deorum, cui dicata sit avis quam Ibim vocant; daemoni autem ipsi nomen Theuth. Hunc primum numerum et computationem invenisse numerorum geometriamque et astronomiam, talorum rursum alearumque ludos et litteras. Erat tunc totius Aegypti rex Thamus, et in eminentissima amplissimaque civitate quas Graeci Aegyptias Thebas appellant; deumque ipsum Ammonem vocant. Ad hunc Theuth profectus, artes demonstravit suas dixitque eas distribui deinceps Aegyptiis ceteris oportere. Verum ille, quae cuiusque utilitas foret interrogavit. Et, ipso referente, quod bene dictum videbatur, probabat quidem; quod contra, vituperabat. Ubi multa de qualibet arte in utramque partem Thamus fertur Theuthi ostendisse (quorum singula si narrare pergamus, prolixior erit oratio), cum vero ad litteras descendissent: “Disciplina haec – inquit Theuth – o rex, sapientiores magisque memoriosos Aegyptios faciet. Memoriae namque et sapientiae remedium id est inventum”. At ille: “O artificiosissime Theuth – inquit – alius quidem ad artis opera fabricanda idoneus est, alius ad iudicandum promptior quid emolumenti vel damni sint utentibus allatura. Atqui et tu, litterarum pater, propter benevolentiam contrarium quam efficere valeant affirmasti. Nam illarum usus propter recordationis neglegentiam, oblivionem in animo discentium pariet. Quippe qui, externis litterarum confisi monumentis, res ipsas intus animo non revolvent. Quam ob rem non memoriae, sed commemorationis, remedium invenisti. Sapientiae quoque opinionem, potius quam veritatem, discipulis tradis. Nam cum multa absque praeceptoris doctrina perlegerint, multarum rerum periti vulgo, cum ignari sint, videbuntur. Consuetudine quoque molestiores erunt, utpote qui non sapientia ipsa sint praediti, sed opinione sapientiae subornati.

    Come giustamente osserva Fedro nel dialogo, Socrate qui parla di Egizi dei tempi passati, ma potrebbe parlare degli Ateniesi del loro tempo; o forse, perché no?, anche di noi stessi.

    © Massimo Gioseffi, 2017

  • Giugurta

    Giugurta

    Nel momento in cui scrivo, la voce di Wikipedia dedicata a Giugurta ricorda, al capitolo “Nella cultura di massa”, la ben nota monografia di Sallustio e “un poemetto in latino, di 131 esametri, di Giovanni Pascoli (Iugurtha, 1896)”. Vorrei dedicare questo post a un altro poemetto latino, intitolato anch’esso Iugurtha, risalente al 1869. Ne è autore Arthur Rimbaud, all’epoca poco più che quindicenne (1854-1891). Prima di iniziare a poetare in francese, infatti, Rimbaud poetò in latino, ovviamente spinto a ciò dalla scuola e dall’esercizio di composizione in versi che, nella prassi ottocentesca, era la dimostrazione somma e suprema della propria competenza linguistica. Di Rimbaud poeta latino abbiamo cinque composizioni, tutte nate fra i banchi di scuola, a Charleville, e tutte risalenti al periodo 1868-1870. Nel biennio 1869-1870 Rimbaud, già dedito alle prime fughe parigine, compose in latino e contemporaneamente anche in francese. Dal 1870 e fino al 1874 le composizioni di Rimbaud saranno solo in francese. Dopo quella data, si dedicherà ad altro, abbandonando definitivamente la poesia.

    Ora, al liceo di Charleville le composizioni migliori venivano premiate ed erano poi pubblicate su un giornale edito nella vicina Douai, Le Moniteur de l’Enseignement. E’ successo così che, andati perduti gli archivi personali di Rimbaud e quelli del liceo (la zona di Charleville è stata teatro di combattimenti sia durante la I che la II guerra mondiale), si sono salvate solo le cinque composizioni premiate e ritrovate negli archivi del Moniteur. Sappiamo però, dalla corrispondenza del poeta, che in origine i testi erano più numerosi. La loro raccolta si deve a uno studioso francese, Jules Monquet, che li ha pubblicati nel 1932, con il titolo di Vers de Collège – edizione inevitabilmente scorretta, che è stata poi perfezionata una volta che i testi sono stati accolti nell’edizione Gallimard della “Bibliothèque de la Pléiade” nel 1946 (ad opera dello stesso Monquet) e, in Italia, nel volume dedicato a Rimbaud per i “Meridiani” di Mondadori (a cura di Diana Grange Fiori). In entrambe queste occasioni, all’edizione “secca” del testo si accompagnava una traduzione, peraltro non priva – almeno quella italiana – di fraintendimenti. Il lettore nostrano può però contare sull’ottimo volume dedicato da Giampietro Marconi alle Poesie latine di A. Rimbaud (così recita il titolo), Pisa-Roma 1998. Ad esso mi rifaccio ampiamente, pur con qualche occasionale dissenso, che si evince dalla traduzione che propongo e che mi riservo di motivare in altra sede, con un apposito commento.

    Prima di passare al testo in questione, ricordo che il latino di Rimbaud è generalmente corretto (con qualche licenza nella sintassi, cosa del resto comune nella lingua poetica, e una serie di costrutti “tardi”, del tipo participio + fui/fueram anziché sum/eram); corretta è anche la metrica (tutti i 286 vv. a noi noti sono esametri). Proprio la composizione che prenderò in esame, la terza del gruppo, è però la più scorretta. In una sorta di ritornello, compare infatti più volte l’aggettivo Arabius con la prima vocale lunga, come in Properzio I 14,19 (in Virgilio, Eneide VII 605 è breve). Al v. 80 His et immensa magnus tellure, sacerdos, la congiunzione et è scandita come lunga, senza nessuna ragione plausibile. Gli editori sono intervenuti emendando, pensando a una svista tipografica (l’edizione del Moniteur  è spesso discutibile), ma io ho preferito conservare il testo così come è. Infine, al v. 61 imperatoris in clausola è improponibile (imperator è un noto esempio di parola “impoetica” proprio per ragioni metriche). Rimbaud considera infatti breve la –a– centrale, che invece è lunga. Sono però piccole pecche, rispetto a un testo che a me pare notevolissimo. E’ evidente che in classe si era letto Sallustio, più volte riecheggiato. Non mancano nemmeno i rimandi virgiliani, a volte veri e propri calchi o trasposizioni di iuncturae. Però, di fronte a titolo (e tema) che invitavano a parlare di Giugurta, la scelta del quindicenne poeta è fuori dall’ordinario.

    Rimbaud infatti non dedica la composizione direttamente a Giugurta, ma a un suo lontano discendente ed imitatore, Abd-el-Kàder (1808-1883), emiro algerino che si era ribellato al tentativo di annessione dell’Algeria da parte della Francia nel 1830; aveva obbligato le truppe di Luigi Filippo a una pace non decisiva nel 1837; era stato infine sconfitto e fatto prigioniero (internato a Tolone, Pau e infine Amboise), nel 1847. Con la caduta di Luigi Filippo nel 1848, la Seconda Repubblica e il colpo di Stato del 1852, Abd-el-Kàder venne rimesso in libertà da Napoleone III e si ritirò quindi a Damasco, dedicandosi alla religione e alla filosofia. Ebbe un ritorno di fiamma nel 1860, quando intervenne a difesa degli Europei assaliti dai guerrieri Drusi in Siria, meritandosi così la Legione d’Onore. Rimbaud sottolinea soprattutto il parallelismo fra questo “discendente” e il Giugurta storico: come il suo “avo”, anche Abd-el-Kàder combatté, piccolo Davide, contro un gigantesco Golia; si ribellò al protettorato di una nazione più forte; rivendicò libertà e autonomia; sfruttò ampiamente la tattica della guerriglia sugli altopiani algerini; si fidò a proprio danno di un alleato marocchino; venne sconfitto dopo la nomina a governatore dell’Algeria di un generale di ferro, Thomas Robert Bugeaud (1784-1849). La sceneggiatura impressa al racconto da Rimbaud prevede che sulla culla del piccolo Abd-el-Kàder si pieghi l’ombra del Giugurta storico, che vaticina il futuro del bimbo e rievoca per allusioni la propria vicenda terrena. Nella seconda sezione, assai più breve, viene ricordata la prigionia sul suolo francese ed è invocato Napoleone come un liberatore. Nel carcere, Giugurta appare una seconda volta al suo lontano discendente, e questa volta lo esorta ad accettare la supremazia francese e ad accordarsi con quella. La terza sezione è fatta di un unico verso, a mo’ di suggello sibillino: contraddicendo, credo, quanto appena detto, Giugurta invita Abd-el-Kàder a considerarlo pur sempre il Genio della sua nazione, con un implicito consiglio a non lasciare perdere la lotta. Marconi nel suo commento insiste su due punti: la serie di giochi fonici, allitterazioni, presenze vocaliche ecc. che anticipano nel Rimbaud latino il Rimbaud francese. La lettura, per me non troppo convincente, in chiave di anticolonialismo inglese, da contrapporre a un “colonialismo dal volto buono”, che sarebbe quello francese. Ma l’Algeria era colonia francese, non inglese. E se Luigi Filippo (mai nominato, peraltro) si può contrapporre, nel testo, a Napoleone III, resta che la composizione ha senso nel possibile parallelo fra la Roma di Sallustio e la nuova Roma, alias Parigi, che della prima ricalca orme e difetti. E questa, da parte di uno studente quindicenne, non era impresa da poco.

    Lascio il testo come allegato pdf, dividendolo per sezioni, grazie alla presenza costante di un ritornello. A ogni sezione faccio seguire la sua traduzione. Buona lettura a tutti!

    © Massimo Gioseffi, 2017

     

    rimbaud, iugurtha, 1869

     

  • La Natura in similitudine

    La Natura in similitudine

    La Natura è un campo privilegiato per le similitudini; le fa parziale concorrenza solo il mondo quotidiano. L’una e l’altro offrono infatti qualcosa di noto che viene usato per spiegare qualcosa di ignoto, o di insolito, o comunque di presente solo nella finzione narrativa, basandosi sulla riconoscibilità dei comportamenti evocati nella similitudine. Dire similitudine, però, può significare tante cose diverse tra loro: quando di un personaggio si dice che si muove serpens, oppure inrepens, già si dice, implicitamente, che è come un serpente, l’animale al quale si adattano comunemente i due verbi; allo stesso modo, se dei ragazzi garriunt si intende che sono dei rondinotti, e così via. In questo post citerò solo similitudini esplicite, quelle cioè con tutti i “modalizzatori” ben evidenti (“modalizzatori” chiama Genette le formule che introducono una similitudine, i “come…così, quale…così, allo stesso modo che…” ecc.). Le similitudini, ovviamente, sono state molto studiate, sia come figure in sé, sia nell’uso che ogni singolo poeta ne ha fatto, e questo fin dall’antichità. Qui vorrei però considerare un aspetto specifico delle similitudini epiche, cioè il loro appartenere a una tradizione piuttosto coesa, entro la quale ogni nuovo poeta ha quindi l’obbligo di inserirsi, ma la difficoltà di trovare una propria individualità e novità.

    Prima qualche dato a carattere generale. Le similitudini, come s’è detto, si fondano su un accostamento che permette di mettere assieme, attraverso un elemento comune, due oggetti che non avrebbero di per sé nessun rapporto reciproco. L’elemento da cui si parte, quello di cui si vuole mettere in evidenza qualche qualità specifica attraverso l’accostamento a qualcos’altro di più noto al lettore, si chiama di solito comparandum (o primum comparandum); l’elemento che viene associato è il comparatum o secundum comparatum. Il legame che si instaura fra i due (e che può rimanere implicito) è il tertium comparationis. Altri usano altri nomi, di poco differenti, ma non è quello che importa. Quello che vorrei sottolineare è che la Natura offre, per le ragioni indicate prima, molti secunda comparata; ogni essere/fenomeno di Natura può svolgere questa funzione in virtù di una caratteristica che appare sua propria e specifica, oltre che immutabile e ripetuta ogni qualvolta si ripresentino le medesime circostanze. Questa caratteristica costituisce il tertium comparationis: il leone, per intenderci, sarà sempre feroce, il toro combattivo, il cinghiale selvaggio, l’aquila predatrice ecc. Quello che varia, normalmente, è il primum comparandum, offerto dalla trama dei diversi racconti.

    Nella tradizione epica, come ho già ricordato, si stabilisce abbastanza presto, diciamo a partire sin dall’Iliade, una serie di possibili similitudini e di termini di comparazione che vengono a costituire una tradizione abbastanza fissa. Prima comparanda sono di norma i guerrieri in lotta; secunda comparata dei fenomeni a carattere selvaggio (ad esempio il fuoco, in Iliade II 456-483; ma poi nembi, tempeste, venti, fiumi e torrenti in piena ecc.) e/o animali particolarmente fieri e feroci (i tre preferiti: leone, toro e cinghiale, seguiti a distanza dal lupo e a più lunga distanza dall’orso e da volatili vari). Il tertium comparationis è, di volta in volta, la forza, la ferocia, l’audacia, l’indomabilità nella lotta e così via. Detto questo, vorrei concentrarmi ora su alcuni meccanismi messi in atto dai poeti per ottenere un effetto di novità, pur dentro questo quadro unitario, creato già dalla tradizione omerica. Ne elenco in tutto nove, anche se sicuramente ne esistono altri, già nello stesso Omero. Ciò che vorrei fare non è però una storia delle similitudini né un loro repertorio, ma indagare alcune possibilità da esse offerte, da utilizzare poi in classe come cartina al tornasole per qualsiasi similitudine a base naturalistica, e non solo per quelle presenti nei classici.

    Primo procedimento. La similitudine multipla. Un  medesimo elemento (primum comparandum) viene paragonato non a un solo secundum comparatum, ma a una serie di termini, fra loro omogenei quanto a tertium comparationis. Il procedimento è in atto già in Omero, e proprio a partire dalla similitudine ricordata prima, in Iliade II 456ss., allorché l’esercito acheo è fuoco, ma anche vari volatili [oche, cigni e gru], sciame di api e pastore di guardia al gregge.

    Secondo procedimento. Lo sviluppo autonomo del comparatum a discapito del comparandum. Ossia, l’immagine usata come secondo termine di paragone cresce fino a diventare un bozzetto che perde di vista il rapporto con il primo elemento della similitudine, si fa situazione a sé stante, oltrepassa le necessità della messa in evidenza del tertium comparationis che dovrebbe spiegare la situazione di partenza. La similitudine si fa così una sorta di racconto nel racconto, divagante rispetto allla narrazione principale. Stazio, Tebaide VII 390-397, paragona Eteocle che dispone i sette capi del suo esercito presso le sette porte di Tebe (una scena di sapore eschileo) a un pastore che governa il suo gregge, lo divide, lo segue, si prende cura dei piccoli agnellini, protegge le giovani mamme che hanno appena partorito e le pecore che invece sono ancora gravide ecc. Dunque, da una situazione iniziale in cui comparandum e comparatum sono assimilabili, si passa a una sorta di compendio delle azioni bucoliche; da Eschilo si arriva a Teocrito e Virgilio.

    Terzo procedimento. Un tertium comparationis insolito. Le immagini prescelte disattendono le aspettative sull’animale/sul fenomeno di Natura utilizzato, o mettono in rilievo l’animale/il fenomeno di Natura in un momento inatteso di un suo pur naturale comportamento. Ad esempio, se il leone di norma appare combattivo, crudele, feroce, in queste similitudini si sottolinea invece la sua attenzione amorosa alla prole e la ferocia, quand’anche esibita, viene giustificata dalla difesa dei cuccioli, non dall’aggressività di Natura. E’ il caso, ad esempio, di Stazio X 414-419. L’arcade Dimante, sorpreso da una ronda tebana fuori dall’accampamento argivo mentre cerca di riportarvi il cadavere del suo signore, il giovane Partenopeo, non sa bene se combattere o implorare pietà dai nemici ed è ut lea, quam saevo fetam pressere cubili / venantes Numidae, natos erecta superstat, / mente sub incerta torvum ac miserabile frendens; / illa quidem turbare globos et frangere morsu / tela queat, sed prolis amor crudelia vincit / pectora, et a media catulos circumspicit ira. Sempre in Stazio, XI 739-749, Edipo per cui Antigone supplica Creonte è come un vecchio leone, pigro e disarmato dall’età. In Claudiano, Bellum Gothicum 342-349, Stilicone che valica le Alpi in inverno per raggiungere le armate che gli sono necessarie a proteggere Milano (cfr. “Una gita per l’estate. II”) è come un leone affamato, messosi in cerca di cibo in mezzo alla neve per amore della sua prole: [Stilicho] scandit inaccessos brumali sidere montes / nil hiemis caelive memor. Sic ille relinquens / ieiunos antro catulos inmanior exit / hiberna sub nocte leo tacitusque per altas / incedit furiale nives; stant colla pruinis / aspera; flaventes adstringit stiria saetas; / nec meminit leti nimbosve aut frigora curat, / dum natis alimenta parat…

    Quarto procedimento. Un comparandum inatteso o improprio. Il quale, essendo tale, dà origine a similitudini del tutto normali come forma e struttura, ma con animali o fenomeni insoliti, visto il carattere insolito del soggetto che devono illustrare. Claudiano nel 399 d.C. scrive un’invettiva contro il console della parte orientale dell’impero, l’eunuco Eutropio. Eutropio era un eunuco, quindi un ex-schiavo che aveva fatto carriera, divenendo Gran Ciambellano di corte (praepositus sacri cubiculi). Comunque, un ex-schiavo e un eunuco consoli non si erano mai visti: da qui, oltre che da ragioni politiche, l’opposizione dell’Occidente e l’invettiva di Claudiano. Il poeta raffigura perciò il suo personaggio attraverso similitudini con animali di tradizione non epica: una scimmia, che vuole essere ciò che non è e non può essere; uno struzzo, che si segnala per viltà e stupidità; una cagna invecchiata, della quale, ahimè, ci si sbarazza senza troppi rimorsi; una rondine morta in inverno ai piedi dell’albero in cui aveva invano cercato riparo (la rondine invernale è, dalla Rhetorica ad Herennium in poi, un simbolo di cosa assurda e fuori da ogni logica, un po’ come il nostro “asino che vola”). Con uguale procedimento, chi ha dato corda all’eunuco è un cavallo senza fantino o una balena arenatasi sulla spiaggia dopo aver perso la guida del musculus (un’immagine, quest’ultima, che viene da Oppiano: ma che in Oppiano, autore di Halieutica, è un dato scientifico, mentre qui diviene una costruzione retorica, ad indicare la condizione di “fuori di testa” dei sostenitori di Eutropio).

    Quinto procedimento. Un comparatum ricercato. In questo caso, le similitudini non mettono infatti assieme una cosa ignota spiegandola con una nota, come avviene di solito, ma fanno l’esatto contrario. La situazione più comune è quella del paragone di una figura umana con una figura divina. Nausicaa è come Artemide e le sue compagne sono le ninfe del suo seguito (Odissea, VI); Giasone si muove come Apollo (Apollonio Rodio, libro I); Didone ed Enea sono l’una e l’altra divinità, e proprio per questo appaiono simili fra loro, come se fossero divinità gemelle (risp. libro I e libro IV dell’Eneide). Poi ci sono gli animali esotici, difficilmente noti ai lettori, se non per via letteraria: tigri, elefanti, balene, l’orso di Pannonia (Lucano, VI). E ancora: luoghi geografici altrettanto esotici, che danno origine a fenomeni naturali che si realizzano solo lì, conosciuti magari anch’essi per tradizione letteraria e scientifica, ma difficilmente sperimentati di persona: l’Egitto, il Po, l’Etna con le sue eruzioni, cui Valerio Flacco, III 208, scrivendo dopo il 79 d.C., sostituisce significativamente il Vesuvio ecc. Infine, avvenimenti inconsueti, forse mai sperimentati di persona dai lettori: il sangue che sgorga dalla ferita di Piramo steso a terra moribondo, in Ovidio, Metamorfosi IV 212-124, è come l’acqua che zampilla da una tubatura forata (a quanti mai è capitato di avere/vedere le tubature forate?); sempre in Ovidio, Metamorfosi IX 659-665, Biblide che si consuma nel pianto è come resina che trasuda da una conifera o ghiaccio che si scioglie ai primi tepori del vento primaverile, ma anche come nafta che sgorga dalla terra (un fenomeno comune solo in Caldea)…

    Sesto procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso le connessioni entro l’opera dell’autore. Le similitudini non sono cioè autonome, ma richiamano altre similitudini presenti nell’opera dello stesso poeta. Torno a citare Claudiano, l’autore in cui la cosa si percepisce meglio. Protagonista dell’opera di Claudiano, nominalmente suddivisa in panegirici, invettive e poemetti autonomi gli uni dagli altri, è Stilicone, del quale il poeta celebra a più riprese la grandezza. Protagonista ufficiale dell’opera claudianea è però, per ovvie ragioni d’etichetta, l’imperatore Onorio, seguito da quando era ancora bambino (394 d.C., a dieci anni non ancora compiuti) a quando è ormai un giovane nel pieno delle sue possibilità di comando (404), uomo già sposato e in teoria libero da qualsiasi tutela. Ora, è significativo che in Claudiano Onorio sia costruito come un personaggio che si evolve progressivamente; e i modi e i temi dei testi claudianei (che restano formalmente panegirici, invettive o poemetti storico-politici autonomi gli uni dagli all’altri) si adattano all’età di Onorio stesso, al suo farsi progressivamente adulto, al suo cambiare di interessi, possibilità, sviluppi narrativi. Anche le similitudini si adeguano a questo: Onorio è sempre insignito di similitudini eroiche e nobilitanti, come quelle con il toro e con il leone, ma è evidente che Onorio viene paragonato a un toro e a un leone in crescita, a seconda della crescita di Onorio stesso. Nelle prime opere di Claudiano, Onorio è un cucciolo di toro o di leone, ansioso di combattere e misurare le proprie forze, ma trattenuto sotto l’amorosa ala paterna; man mano che il giovane cresce, diventa un giovane toro o un giovane leone in grado di saggiare le proprie forze in assalti simulati e di poca pericolosità, che però già lasciano intravedere le sue capacità future; nelle ultime opere di Claudiano, Onorio è un toro e un leone ormai adulto, capace di farsi pieno difensore della mandria (o della famiglia leonina) che gli viene affidata.

    Settimo procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso un’opportuna selezione dei comparata. Quanto dico ora era già implicito, in certa misura, negli esempi precedenti. Mentre Omero usa gli stessi termini di comparazione (ad esempio: toro, leone e cinghiale) per qualsiasi eroe per il quale sia conveniente la similitudine – e toro è ad esempio Agamennone nel II libro dell’Iliade, leone Menelao nel III e Aiace nel XV, cinghiale Odisseo nell’XI; ma cinghiale o leone è anche Ettore nel XII, che poi è leone per ben tre volte, nel XV, nel XVI (quando uccide Patroclo cinghiale) e nel XVIII libro (quando lotta intorno al cadavere di Patroclo) – Virgilio seleziona le sue similitudini, e non usa certe immagini per certi personaggi, ritenendole sconvenienti. Rimaniamo pure a leone e toro: animali eroici ma dalla forza bruta, essi non sono mai utilizzati come termine di confronto per Enea. Paragonati a un leone si ritrovano piuttosto Turno (IX 791-798 e XII 4-9) e Mezenzio (X 723-729), al massimo Niso che compie strage indiscriminata e improvvida dentro l’accampamento nemico (IX 339-340); a un toro, di nuovo Turno (XII 103-106), Laocoonte (II, 223-224, ma in questo caso è un toro da sacrificio, non da combattimento) e Pallante (X 454-456), parificato però a un toro vittima di un leone, quindi destinato a divenire preda di un animale più forte di lui, in parallelo al discorso di Virgilio su Pallante, bravo combattente ma vittima della forza superiore del leone/Turno. Solo in una scena del poema il toro è associato ad Enea: siamo alla fine dell’opera, XII, 715-724, e i due duellanti, Turno ed Enea, sono come due tori in lotta per la supremazia entro la mandria. Una situazione che riporta alle Georgiche, dove l’avvenimento non era similitudine, ma un hic et nunc narrativo (III 219-223), proprio perché si tratta di un fatto consueto e ripetuto ciclicamente in Natura. Ma è anche un parallelo che la dice lunga, credo, sul poema e sulla sua fine, sulla trasformazione che in essa subisce Enea e, con Enea, l’impiego (ora divenuto degradante) della forza bruta di tradizione omerica.

    Ottavo procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso la connessione con quanto ancora deve avvenire nel testo. Anche questo è un fenomeno che abbiamo visto, sia pure en passant, negli esempi virgiliani fatti prima. Nell’Eneide la similitudine crea più volte una sorta di cortocircuito con la narrazione. La similitudine, cioè, non si limita a segnalare quanto già sta succedendo, ma anticipa qualcosa relativo al seguito della narrazione, e addirittura spesso lo commenta. In un certo senso, Laocoonte diventa il toro sacrificale cui è paragonato, l’uno e l’altro malamente uccisi sotto gli occhi di tutti. La similitudine si fa qui realtà della narrazione, spiegazione di ciò che sta avvenendo e anticipo e commento del destino dei personaggi in gioco (tanto Laocoonte quanto i suoi spettatori). Questo in Omero non c’è. In Omero le similitudini al massimo possono anticipare qualcosa che si vedrà nel seguito, come succede per quella che, nel XXII libro dell’Iliade, parifica Achille ed Ettore che corrono intorno alle mura di Troia a cavalli e cocchi che girano intorno alla meta in una gara di corsa (la gara, com’è noto, si svolgerà per davvero nel libro successivo, come parte dei giochi funebri in onore di Patroclo; ma fra similitudine e sua attuazione non c’è nessuna relazione di causa/effetto). Invece, dopo Virgilio il meccanismo diventa abbastanza comune. In Ovidio, Metamorfosi I, 492-496, l’amore di Apollo per Dafni è come ignis in stipula, un’espressione proverbiale per indicare un fuoco impetuoso ma di breve durata; e in effetti gli amori di Apollo nelle Metamorfosi saranno tanti, a partire già dal libro immediatamente successivo… Eco si consuma d’amore come uno zolfanello acceso, Metamorfosi III, 372-374, dell’uno come dell’altra essendo destino che rimanga poco più che una tenue traccia. Rifacendomi ancora una volta a Claudiano, ricordo che l’uomo forte cui Eutropio si appoggia, il condottiero che mette alla guida dell’esercito, si chiama Leone – leone di nome, ma non di fatto. Le similitudini che si riferiscono a lui sono perciò altrettanto significative di quelle in uso per Eutropio: non animali nobili, ma il daino – l’animale che per tradizione fugge –  e una sus cucinata nella mensa imperiale, e che lancia grandi strida, intuendo il proprio destino. Leone, inutile dirlo, alla prima spedizione militare non solo viene sconfitto, ma muore durante la fuga – a detta di Claudiano, che probabilmente sta inventando, muore di paura, al solo sentire stormire le fronde alle spalle, temendo di essere raggiunto dai nemici.

    Nono e ultimo procedimento. Una rete di similitudini ottenuta attraverso le connessioni intertestuali. Ho ricordato come in Virgilio si osservi un caso evidente di intratestualità, per cui quella che nelle Georgiche è una realtà di fatto  – la lotta dei tori per il controllo della mandria – diventa nell’Eneide una similitudine alla quale si può fare ricorso. Ciò si avverte nella intra- ma, com’è ovvio, ancor più nella intertestualità. Anche qui Virgilio fa scuola: nel V libro, entro i ludi in onore di Anchise, egli sostituisce alla gara con i cocchi di Omero una regata nautica, che però costruisce ed atteggia come se fosse una gara con i cocchi; perfino in similitudine, visto che ai vv. 139-150 le navi sono paragonate proprio a cocchi che compiano la gara omerica. In Lucano, II, 601-609, Pompeo che abbandona l’Italia per riprendere altrove la lotta contro Cesare è assimilato al toro sconfitto da un rivale, che si ritira in disparte per recuperare le forze, prima di tornare alla mandria e sfidare di nuovo il rivale. E’ il seguito del racconto virgiliano delle Georgiche, il passo che Virgilio aveva riutilizzato di suo nell’Eneide, concentrandosi però solo sulla lotta tra i tori. Qui Lucano attraverso la similitudine recupera invece l’intero contesto virgiliano e così rende omaggio al suo predecessore; ma nello stesso tempo sottolinea anche le speranze e il punto di vista di Pompeo al momento della partenza, gli alibi, se vogliamo, con i quali egli giustifica la propria scelta. Com’è noto, Pompeo non tornerà mai più in Italia, e quella lotta ad armi pari, fra tori/combattenti perfettamente allenati, che la similitudine gli augura, di fatto non avrà luogo, o quanto meno non avrà luogo nei termini previsti dal racconto virgiliano. L’immagine dei tori in lotta ha però ancora un seguito, in Stazio, II, 323-332. I due tori sono, ovviamente, Eteocle e Polinice – fatto salvo che, al momento, i due non si stanno davvero affrontando: il loro duello è ritardato fino all’XI libro e, come tutti sappiamo, si concluderà in modo insolito e improbabile per il paragone proposto, ossia con la morte di entrambi i contendenti. Protagonista della similitudine è Polinice lontano da Tebe, che ad Argo si sta sposando con la figlia di Adrasto, il re della città:

                                            veluti dux taurus amata
    valle carens, pulsum solito quem gramine victor
    iussit ab erepta longe mugire iuvenca,                              

    cum profugo placuere tori cervixque recepto
    sanguine magna redit fractaeque in pectora quercus,
    bella cupit pastusque et capta armenta reposcit
    iam pede, iam cornu melior (pavet ipse reversum
    victor, et attoniti vix agnovere magistri):                            

    non alias tacita iuvenis Teumesius iras
    mente acuit…

    Anche qui quella che originariamente era un’immagine di Natura diviene una similitudine, con lo stesso procedimento adottato prima da Virgilio nell’Eneide, poi da Lucano. Come in quest’ultimo, tutti i dettagli del racconto georgico sono introdotti nella similitudine, a partire dall’esercizio preparatorio per arrivare alla vittoria conseguita dall’animale inizialmente sconfitto, il cui ritorno incute spavento perfino al momentaneo vincitore – due dettagli che, applicati alla situazione contingente di Polinice, il iuvenis Teumesius del testo, esprimono ancora una volta più una proiezione delle sue speranze future che l’attualità del racconto (Polinice si sta sposando, non esercitando; il ritorno a Tebe è stato deciso, ma deve ancora avere inizio). Rispetto ai poeti che l’hanno preceduto, in Stazio evidenzierei la maggiore insistenza sui dettagli violenti della scena, che riprendono ed enfatizzano dei tratti presenti solo in nuce in Virgilio, ora invece esposti alla vista di tutti. Da ultimo, segnalerei la progressiva risemantizzazione della similitudine: “scena d’amore” nelle Georgiche, essa diviene similitudine entro una lotta per la conquista della mano della figlia del re (e dunque, con un tratto amoroso non disgiunto però da uno politico) nell’Eneide; per farsi poi similitudine di valore puramente politico in Lucano e nella Tebaide. Come a dire che la passione reale, di Pompeo, ma soprattutto di Polinice (che pure si starebbe sposando), quella per cui ognuno di loro vive e lotta, è il potere, non l’amore. In fondo, è una cosa che sapevamo già; ma che la similitudine, con il suo carico di storia, ci dice con una chiarezza assoluta.

    © Massimo Gioseffi, 2017

    Gioseffi – Similitudini animali nell’In Eutropium di Claudiano, 2008