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  • Immagini di Natura

    Immagini di Natura

    La letteratura è stata sempre un campo ideale per pensare alla Natura, della quale non ha fatto solo un oggetto di contemplazione o di ambientazione delle diverse fabulae, ma anche l’occasione per una riflessione in grado di distanziarsi da essa quel tanto necessario a far sentire l’uomo in sicurezza (la Natura, come la cronaca tristemente insegna, è una forza che si cerca spesso di dominare, ma non sempre si riesce a controllare). Questo post vuol presentare due esempi di siffatto distanziamento, mostrando il procedimento che ha reso possibile trasformare la Natura e i suoi fenomeni in strumenti retorici. Proprio la retorica antica insegna, nella teoria come nella pratica (ma io mi occuperò solo della pratica), a sfruttare la Natura a fini diversi da quelli contemplativi o di una sua raffigurazione pittorica.

    Semplificando un poco il discorso, direi che la Natura in quanto fenomeno complessivo si caratterizza sostanzialmente per due tratti. Il primo è la ciclicità – in Natura tutto si ripete uguale, a regolare distanza di tempo, nella successione degli anni e delle stagioni. In questa ripetizione i singoli si possono perdere, ma poco importa. Per la Natura, l’affermazione e la sopravvivenza del genere e della specie contano più dell’affermazione e della sopravvivenza dell’individuo, che pure incarna nella sua generazione quel genere e quella specie. D’altra parte, se guardiamo le cose dal punto di vista del singolo individuo, questi trova una ragione d’essere proprio nell’affermarsi del genere e della specie, affermarsi che passa solo in minima parte attraverso l’affermazione di sé e solo in minima parte coincide con essa – l’affermazione di sé può essere perciò un mezzo, ma non è mai un fine. Ciò è fonte di rassicurazione per l’uomo (le cose assumono così un senso, anche quando i destini individuali sembrino insensati), ma è anche fonte di preoccupazione e di timore (l’uomo è fortemente individualista e tende a sopravvalutare se stesso; la cultura occidentale nel suo complesso esalta questo culto dell’individualità).

    Il secondo tratto caratteristico, che poi in realtà è solo in parte differente e differenziabile dal primo, consiste nella ripetitività – specie animali e piante, in una data situazione, si comportano sempre allo stesso modo, fatti salvi, come abbiamo imparato negli ultimi cento anni ca., i pochi casi di variazione genetica o di lento adattamento a mutate circostanze ambientali. Anche questo è tranquillizzante, ma nello stesso tempo è fonte di timore e di preoccupazione, e per le stesse ragioni indicate prima: l’idea offre una certa sicurezza, perché si sa come comportarsi quando si incontrano i diversi fenomeni di Natura, e si sa come si comporteranno essi; ma questo è anche la negazione dell’individualismo e del libero arbitrio, poiché le scelte comportamentali dipendono ora più dall’appartenenza del singolo a un determinato genere o specie, che non dalla sua volontà.

    Di queste idee offro qui due esempi.

    Partiamo dal ciclo della vita: la prima, notissima affermazione, si trova in Omero, Iliade VI, vv. 119ss. Diomede incontra sul campo di battaglia un guerriero a lui sconosciuto, con il quale pensa di combattere, e gli chiede con ampio giro di parole chi sia. Il guerriero è Glauco, figlio di Ippoloco, che così risponde (vv. 145-149): “Tidide magnanimo, perché chiedi chi io sia? Come è la stirpe delle foglie [in greco, γενεὴ], così è quella degli uomini. Delle foglie il vento ne può gettare a terra alcune, ma altre la selva [noi diremmo: la forza intrinseca della Natura] ne mette fuori di nuove, e fa primavera. Così è anche per gli uomini: una generazione nasce, una muore”. È la γενεὴ¸ la stirpe, quello che conta; il destino dei singoli in questa linea si può anche perdere. Glauco vanta un’ascendenza che risale fino a Sisifo e a Bellerofonte, e di essa si compiace (vv. 150-206); ma proprio questa ascendenza lo obbliga a dover essere degno dei suoi avi e superiore quindi a tutti coloro che vengano da Efira o dalla Lidia dai ricchi pascoli, come dice ai vv. 207-210. Nel complesso della battuta di solito si enfatizza la prima parte del discorso e della similitudine (l’immagine della foglia che si fa simbolo di precarietà, Leopardi e Ungaretti docent), perdendo di vista, credo, il complesso del passo. Quello che dice Glauco è che chi è lui, come singolo, conta solo relativamente, perché il suo destino di singolo è relativamente ininfluente: poco importa che muoia per mano di Diomede o di qualche altro eroe (secondo la tradizione, morirà ucciso da Aiace, lottando per conquistare le armi di Achille; ma questo avviene fuori dallo spazio narrativo dell’Iliade); quello che Glauco sa è che, se deve morire in battaglia, morirà per mano di un eroe, combattendo eroicamente; e nella stirpe di Sisifo e Bellerofonte verrà rimpiazzato da qualche altro guerriero, pronto a sua volta a lanciarsi eroicamente in battaglia se appena se ne darà l’occasione, e a morirvi se sarà necessario, ma combattendo eroicamente contro qualche grande guerriero. Il che è dote di Glauco, ma è dote anche della sua stirpe. Ogni discendente di Sisifo e Bellerofonte è fatto così e non può che essere fatto così, e andare quindi incontro a identico destino, se necessario, proprio perché discende da Sisifo e da Bellerofonte; così come le foglie dell’albero sono foglie di quell’albero, che potranno anche essere prima o poi scosse dal vento, ma che sanno di essere sostituite nella primavera successiva da altre foglie, diverse eppure simili a loro, pronte a resistere eroicamente fino a quando non siano scosse a loro volta dal vento. Mimnermo è, per quanto ne sappiamo, il primo che ha riutilizzato la similitudine e ne ha fatto qualcosa di diverso; come spesso avviene in letteratura, questo mutamento ha poi condizionato la lettura del passo omerico – ma questa è una vicenda che qui non ci interessa.

    Più utile è forse mostrare un’altra manifestazione, in pieno Novecento, dello stesso concetto, e creare così una catena da collegare a Omero, affiancandola, se non addirittura sostituendola, a quella tradizionale. Mi rifaccio a qualcosa che non ha diretta relazione con il testo omerico, ma proprio per questo è ancora più importante, perché dimostra come Omero non abbia fatto altro che applicare per primo un sentire che è dell’umanità, indipendentemente dalle epoche e dalle collocazioni culturali e geografiche. Si tratta di una fortunata serie a fumetti, divenuta poi un romanzo per ragazzi di qualche successo e infine una composizione musicale in grado di valicare i limiti e i confini di tempo, di spazio e di lingua (da lì ne ho ricavato notizia). Da aprile a giugno dell’anno 1920, su un quotidiano edito a Brno e intitolato Lidové noviny, venne pubblicata una striscia pressoché giornaliera, a firma di Rudolf Těsnohlídek [1882-1924] e illustrata da Stanislav Lolek [1873-1936], che aveva nome “La volpe Bystroushka” (Liška Bystrouška). Ne riproduco qui una vignetta:

    liska bystroushka

    L’anno dopo la striscia divenne un romanzo per ragazzi che, dai dati ricavabili via internet, risulta godere di un certo successo editoriale ancora oggi:

    bystroushka

    Nel 1924 il romanzo fu trasformato in opera lirica, autore di libretto e musica Leoš Janáček, che usò il titolo “Le avventure della volpe Bystroushka” (Příhody lišky Bystroušky). Come è successo a quasi tutto il patrimonio artistico ceco, musicale e no, la sua diffusione in Europa avvenne attraverso la Germania e la traduzione in tedesco. A tradurre il testo di Janáček fu Max Brod, amico, biografo ed esecutore testamentario (infedele) di Kafka, che chiamò l’opera “La piccola volpe astuta”; e con questo nome essa è nota in Italia, dove si è vista più volte. È la storia di una volpe, Bystroushka appunto, catturata da un guardiacaccia che, mentre stava dormendo nel bosco, è stato svegliato da una piccola rana cui la volpe dava la caccia e che, per sfuggire all’agguato, gli era saltata sul naso. La scelta del guardiacaccia di prendere la volpe con sé e portarla a casa per farne dono alla moglie rompe la normalità della Natura, dove è usuale che vivano rane e volpi e che le prime siano vittime delle seconde. Il guardiacaccia, che è un uomo e agisce con mentalità tipicamente umana, vuole invece imporre un proprio ordine alle cose, prendendo una decisione che sovverte le regole; non si limita a uccidere la volpe, fatalità possibile e prevedibile in Natura, ma, colpito dalla bellezza dell’animale, pensa di poterlo addomesticare. Non andrà così: la volpe, che è davvero astutissima, alla fine mette disordine in tutta l’abitazione del guardiacaccia; riconquista la libertà; e nel bosco trova un bel volpacchiotto al quale si unisce. La striscia a fumetti e il romanzo finiscono qui, ricomponendo un’unità che era stata spezzata dall’intervento umano. Janáček aggiunge invece due scene, in una delle quali la volpe rimane ugualmente uccisa, abbattuta da altri cacciatori. Nella scena finale, a un anno esatto di distanza dall’inizio, si ripete la situazione di partenza: il guardiacaccia si trova ancora a dormire nel bosco, più stanco e più vecchio (ma anche più saggio). Svegliato di nuovo da una rana, si accorge della presenza di una bellissima volpe dalla coda argentata, che riconosce come la figlia della precedente, della cui morte è al corrente; fa per catturarla, ma, fattosi riflessivo, la lascia andare, e si tiene piuttosto vicina la rana, che subito gracida: “Non sono la stessa, non sono la stessa. Era mio nonno, era mio nonno. Mi hanno parlato di voi, mi hanno parlato di voi”.

    Riporto qui il preludio dell’opera, che descrive la vita sotterranea della foresta in termini propri alla temperie tardoromantica; in fondo al post lascio invece il link per la suite in due tempi, ambedue marcati “Andante”, che Janáček ricavò dall’opera (per i diritti di copyright rinvio alla pagina di youtube che ha reso l’incisione di pubblico dominio).

     

    La Natura si ripete nelle diverse generazioni (più rapide quelle della rana: due in un anno; più lente quelle di una volpe: una sola; lentissime, a paragone, quelle dell’uomo, che a un anno di distanza è ancora lo stesso individuo). Il singolo può sentirsi ed apparire effettivamente unico e irripetibile: Bystroushka è davvero bellissima e intelligentissima, come vuole il titolo tedesco dell’opera. Ma alla Natura poco importa; importa che a primavera ci siano una volpe e una rana. In questo quadro, l’uomo è l’elemento che stona, perché non sa inserirsi con semplicità entro quest’ordine e vuole imporre un proprio ordine. Esperienza, vecchiaia, amarezza (parallelamente alla storia principale si inseriscono, nelle vignette del fumetto come nelle scene dell’opera, anche delle riflessioni tutte giocate sul piano dell’esperienza umana del guardiacaccia, della sua famiglia, dei suoi amici) insegnano a volte la giusta lezione – l’uomo deve saper accettare di essere parte di un tutto che ha andamento ciclico e che sempre si rinnova, senza intervenire su di esso. Queste considerazioni le fa, da par suo, applicandole alla vita, alla filosofia e all’arte, ma sempre partendo dal testo di Janáček, anche un romanziere e saggista  come Milan Kundera, il cui padre – musicologo – era stato allievo di Janáček. In Italia le ha pubblicate Adelphi (I testamenti traditi), e ad esse quindi rinvio. C’è, come si vede, una catena, diversa e complementare da quella che comunemente si associa al passo omerico dal quale siamo partiti, ma che mi sembra possa funzionare come commento non banale della similitudine famosa e come suo completamento. A dimostrazione, fra l’altro, anche di una delle ragioni essenziali per lo studio dei classici, ossia il loro carattere archetipico rispetto a molte parti del sentire e del pensare moderno, perfino quando esso non sia direttamente derivato da loro.

    Vengo al secondo esempio promesso. Fin qui, ho parlato di ciclicità. Ora vorrei sottolineare la ripetizione immancabile dei comportamenti, che ovviamente è già implicita nella ciclicità (queste distinzioni sono più di comodo che reali, come ho detto all’inizio). Parto anche qui da un passo famoso: nella II egloga di Virgilio, Coridone vuole convincere Alessi dell’inevitabilità e dell’eternità del suo amore, ricordando come esso risponda a una legge di Natura. Siamo sul finire della suasoria, e Coridone esprime il concetto con una catena ben nota (vv. 63-65): Torva leaena lupum sequitur, lupus ipse capellam, /  florentem cytisum sequitur lasciva capella, /  te Corydon, o Alexi: trahit sua quemque voluptas. Coridone segue e seguirà sempre Alessi con la stessa ovvietà, insistenza e naturalezza con la quale ogni animale è attratto dal cibo preferito, al quale dà la caccia e che prima o poi, si immagina, raggiunge. Alle spalle della struttura c’è, come sempre nelle Bucoliche, un passo di Teocrito, da Virgilio completamente rifatto. Si tratta dell’idillio X, vv. 30-31, dal titolo I mietitori. Buceo e Milone stanno mietendo un campo di grano, il primo con meno lena del dovuto. Il secondo lo irride: è amore che lo infiacchisce, e per di più per una ragazza che non vale tanto. Su invito dell’amico, Buceo canta una canzone (Milone risponderà con un’altra, di carattere ironico): O graziosa Bombìca, sei chiamata da tutti Sira, magra, arsa dal sole, da me soltanto del color del miele. Anche la viola è nera, anche il giacinto segnato dalle lettere, eppure nelle corone sono i primi ad essere scelti. La capra va dietro al citiso, alla capra va dietro il lupo, la gru segue l’aratro, e io per te son diventato folle. Come Buceo ha detto precedentemente, non solo Pluto è cieco: lo è anche Eros, e non riflette mai su quello che fa (vv. 19-20). Messi a confronto i due testi, in Teocrito manca la gnome conclusiva, che si ricava semmai dal contesto; non c’è nemmeno la situazione struggente dell’egloga virgiliana (in Teocrito siamo all’interno di un canto, in un idillio dal tono scherzoso; in Virgilio la sequenza proposta è una forma di convincimento, in un’egloga di carattere drammatico); la successione degli animali è meno strutturata in Teocrito, chiasmo e poliptoto non sono strettamente connessi. Ma a me interessa soprattutto questo: la leonessa va a caccia, come il lupo e, a modo suo, la capretta, ognuno alla ricerca di quanto è per loro normale e naturale inseguire e raggiungere. Coridone crea una catena di similitudini dove un termine del confronto – quello di Natura – si impone come certo e reale, proprio per quei caratteri che, lo dicevo all’inizio, sono tipici del mondo di Natura. Per l’uomo le cose vanno diversamente: Alessi non è lì e non sarà persuaso dalla suasoria che neppure sente, non verrà mai raggiunto da Coridone, che di lì a pochi versi riconosce questa verità nell’amaro finale dell’egloga. Ora vorrei leggere poche righe di un racconto russo, autore Nikolai Leskov [1831-1895], titolo Una lady Macbeth del distretto di Mtsensk [1865]. Anche in questo caso a portarmi al testo è stata una composizione musicale, l’omonima opera che ne trasse Dmitrij Šostakovič [1906-1975] nel 1934, libretto suo e di Alexander Preis.  Così traduce Laura Micheletti: Il puledro rincorre la giumenta, il gattino cerca la gattina, il colombo si precipita dalla colombella. Soltanto da me nessuno si affretta. Il vento accarezza la betulla,  col suo tepore il sole la riscalda; per tutti c’è un sorriso. Soltanto da me nessuno si affretta, nessuno avvolgerà con il suo braccio il mio corpo, nessuno accosterà le sue labbra alle mie, nessuno accarezzerà il mio petto, nessuno mi sposserà con le sue focose carezze. Come si vede, la struttura è meno precisa nella forma, ma identica nella concezione di fondo. Questi sono i pensieri di Katerina Izmailova, la protagonista del racconto, donna piacente e malmaritata, che in assenza del marito soffre di solitudine (ma non è che il marito le sia di gran compagnia), e si avvolge sempre di più in una spirale di autoerotismo – è tarda sera, Katerina è nella sua stanza, in attesa non sa bene nemmeno lei di che (o di chi), convinta di una ripetitività della Natura che condanna lei sola all’essere diversa. Katerina dalla catena si chiama fuori: tutti rincorrono e raggiungono qualcosa; soltanto io non sono rincorsa e raggiunta da nessuno. Ebbene, alla fine non sarà così. Appena finito il ragionamento, alla finestra della donna batte Sergej, un lavorante al servizio del marito, che ha già avuto occasione di farsi notare anche da Katerina. Braccia, labbra, carezze: non mancherà nulla, e altro ancora (anche se, ovviamente, questo è per entrambi l’inizio della fine: il romanzo ottocentesco, si sa, è un genere moralista).

     

    © Massimo Gioseffi, 2017

     

    Leoš Janáček, Suite dall’opera “La piccola volpe astuta”

     

     

  • Nel nome di Augusto

    Nel nome di Augusto

    Nel giorno che la tradizione riconosce come sacro alle Feriae Augusti (una serie di giorni festivi istituiti da Ottaviano nel 18 a.C., ma fissati intorno al 15 agosto solo in età medievale), ecco un piccolo omaggio musicale ad Augusto, nel nome di quella continuità fra classici e contemporanei e dei processi – complessi e mai banali – che collegano gli antichi a noi, attraverso i secoli e le culture. Si tratta del finale dell’opera Antony and Cleopatra di Samuel Barber (1910-1981), prolifico musicista americano, noto in Italia soprattutto per il suo Adagio per archi, in realtà parte di un quartetto trasformata poi in composizione autonoma per orchestra d’archi su consiglio di Gian Carlo Menotti (1911-2007) e spesso utilizzata come colonna sonora in numerosi film – in particolare, citerei Platoon di Oliver Stone, 1986.

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    Barber scrisse il testo che ci interessa nel 1966, su commissione della Metropolitan Opera di New York. La mia scelta è volutamente polemica: Ottaviano, come tutti i componenti della dinastia giulio-claudia, è personaggio di diversi drammi musicali, già a partire dal XVII secolo; ma le composizioni più interessanti sono, a mio parere, quelle dedicate ai suoi antagonisti. Dal punto di vista del metodo, Barber ci mette invece in guardia dai facili accostamenti fra ciò che antico e ciò che è moderno, senza tenere conto degli infiniti passaggi intermedi. Nella fattispecie, il passaggio intermedio si riconosce senza problemi: l’opera ha ambientazione antica e segue, con qualche licenza, i fatti storici e le fonti che ce li narrano; ma la sua fonte prima è, ovviamente, l’omonima tragedia di William Shakespeare (1607 ca.).

    Con pragmatismo tutto americano, il pur austriaco di nascita Rudolf Bing (1902-1997), allora General Manager del MET (come è comunemente chiamata la Metropolitan Opera), era riuscito a convincere i finanziatori del teatro della necessità di riformare l’antica costruzione del 1883, già rifatta dopo un incendio nel 1903 e modificata ulteriormente nel 1940. Anziché limitarsi a una serie di adeguamenti tecnici, questa volta si decise però di abbattere al suolo l’intero edificio sito all’altezza della 40th West di Manhattan, per costruirne uno tutto nuovo poco più a nord, all’altezza della 65th West, fra Columbus Avenue e Amsterdam Avenue, dove l’arteria di Broadway interseca trasversalmente la prima delle due. Il blocco di terreno edificabile divenne così il Lincoln Center (dal nome della vicina Lincoln Square), una serie di costruzioni dove hanno casa, ognuna indipendente dall’altra, eppure ognuna collegata all’altra, sia pure in edifici propri, la New York Philharmonic Orchestra; il New York City Ballet; fino a qualche anno fa anche la New York City Opera, ora chiusa per fallimento; vari teatri per il musical (come il Vivian Beaumont Theatre) o per eventi estemporanei (Damrosch Park); una cineteca (Elinor Bunin Monroe Film Center); una biblioteca musicale (New York Public Library for the Performing Arts); e, accostati a questi, la Fordham University e la Juilliard School, il più celebre Conservatorio del nuovo continente. Al centro di tutto sta l’Opera, costruita su disegno di Wallace Kirkman Harrison (1895-1981), abbellita dalle grandi vetrate da cui si affacciano i murales di Marc Chagall (1887-1985), ben visibili nella foto di copertina (quello rosso, a sinistra, dal titolo Il trionfo della musica; quello giallo, a destra, dal titolo Le fonti della musica). Il nuovo teatro, grandissimo (ca. 4000 posti), e multifunzionale (durante la stagione, da settembre a maggio, vanno in scena ca. 30 titoli, con sette rappresentazioni a settimana, due al sabato, riposo alla domenica), venne inaugurato nel 1966 con un’opera che si volle appositamente composta per l’evento, da un compositore americano. Si tratta, appunto, della nostra Antony and Cleopatra. Direttore della serata, prescelto da subito (anzi, si dice che sia stata sua l’idea di scegliere questo testo di Shakespeare, all’inizio si era pensato al romanzo americano per eccellenza, Moby Dick), l’allora giovanissimo Thomas Schippers (1930-1977), cioè di nuovo un direttore americano, uno dei massimi direttori americani, da tempo attivo al Met. Nei ruoli principali Leontyne Price (1927-vivente) e Justino Diaz (1940-vivente), lei una leggenda del canto e della vita sociale statunitense (cantante di colore affermatissima anche in Europa, aveva rifiutato il debutto al Met con Aida, per non interpretare una parte assegnatela, come disse spiritosamente, solo perché “già indossava il costume necessario” – Aida è un’etiope, e quindi la si immagina donna di colore); lui un giovanissimo basso-baritono portoricano, cioè nativo di quell’isola che per tutto il Novecento è stata e non è stata parte degli States (dal 1917 i cittadini di Portorico erano cittadini statunitensi, pur non facendo parte Portorico dell’Unione; nel 1967 si sarebbe tenuto un referendum ca. la definizione di Portorico – che scelse l’indipendenza, mantenuta poi fino al 2002): ed è probabile che la scelta di Diaz come interprete di Antonio abbia quindi avuto anche una sfumatura politica.

    Come regista dello spettacolo, che si voleva faraonico, fu designato Franco Zeffirelli, il quale “scrisse” pure il libretto. Le virgolette sono d’obbligo, perché in realtà Zeffirelli potò qua e là la tragedia di Shakespeare, eliminando scene e personaggi, spostando battute, togliendo parti troppo lunghe; ma ogni parola del libretto è una parola di Shakespeare, al massimo mutata di posizione. Nel brano che propongo, il grido finale (rivolto ad Antonio) My man of men!, ad esempio, viene sì dal testo originale, ma da una scena del primo atto. Inoltre, nel libretto gli atti da cinque sono ridotti a quattro; la morte di Cleopatra in Shakespeare non chiude la tragedia, il cui finale è lasciato a Ottaviano; infine, in Shakespeare Cleopatra muore a mezzo di una frase (Why should I stay…), completata poi da una delle ancelle fedeli, che si uccidono con lei (Iras, qui chiamata Iris, e Charmian: il completamento suona …in this vile world?), mentre Zeffirelli assegna tutta la battuta a Cleopatra e anzi le offre anche alcune ulteriori parole, facendola morire su una frase compiuta e pensando ad Antonio. Infine, le due ancelle nell’opera muoiono prima della loro padrona, in silenzio, così da non rubarle la scena; in Shakespeare solo Iras muore prima, e ambedue frappongono le loro parole a quelle della regina. Come si vede, tutti mutamenti che vanno nella direzione di una maggiore “teatralità operistica” della situazione.

    L’opera, di cui esiste una registrazione mai ufficialmente messa in circolazione, fu un fiasco colossale, tanto di critica quanto di pubblico. Eppure Barber era riuscito, oltre a non tradire troppo lo spirito shakespeariano, nell’impresa, non facile, di caratterizzare in modo diverso Ottaviano e i suo accoliti, dotati di una musica molto militaresca, nella quale dominano gli ottoni e le dissonanze, da Antonio e Cleopatra, con i loro modi greci e orientali, molto soffici, languidi, a tratti perfino languorosi. Forse fu proprio questo schematismo una delle cause dell’insuccesso; le critiche si appuntarono però soprattutto sullo spettacolo e sul libretto di Zeffirelli, ritenuti troppo pomposi, complicati, difficili da seguire anche nel continuo passare (molto shakespeariano anch’esso, a dire il vero) da una scena ambientata nel campo “romano” a una scena ambientata nel campo “orientale”.  Barber non si rassegnò alla scarsa riuscita. Poco meno di dieci anni dopo, riprese in mano la composizione, affidando a Menotti il compito di risistemarne il testo e la scansione drammaturgica, riducendo drasticamente i quattro atti a tre e aumentando gli spazi lirici concessi ai due amanti. La nuova edizione andò in scena nel 1975, alla Juilliard School; su un vero palcoscenico, nel 1983 a Spoleto. Di quest’ultima rappresentazione esiste una registrazione audio diffusa dalla casa inglese New World Records.

    Io qui offro la scena finale dell’opera, il monologo di Cleopatra (in realtà, alla presenza delle due ancelle che moriranno con lei), in una versione da concerto del 1985; protagonista Leontyne Price, che rimane fedele all’edizione originale. L’orchestra è quella della Juilliard School, che festeggiava così i suoi ottanta anni di fondazione. L’origine del materiale è televisiva, e si sente.

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    Questo il testo cantato (in grassetto le parole “spostate” da Zeffirelli):

    CLEOPATRA

    Give me my robe, put on my crown; I have
    Immortal longings in me: now no more
    The juice of Egypt’s grape shall moist this lip:
    Yare, yare, good Iris; quick. Methinks I hear
    Antony call; I see him rouse himself
    To praise my noble act. Husband, I come:
    Now to that name my courage prove my title!
    I am fire and air; my other elements
    I give to baser life. So; have you done?
    Come then, and take the last warmth of my lips.
    Farewell, kind Charmian; Iris, long farewell.

    Kisses them. IRIS falls and dies

    Have I the aspic in my lips? Dost fall?
    If thou and nature can so gently part,
    The stroke of death is as a lover’s pinch,
    Which hurts, and is desired.

    To an asp, which she applies to her breast

    Come, I am not worried!

    With thy sharp teeth this knot intrinsicate
    Of life at once untie…

    Peace, peace!
    Dost thou not see my baby at my breast,
    That sucks the nurse asleep?

    As sweet as balm, as soft as air, as gentle,–
    O Antony!–Nay, I will take thee too.

    Applying another asp to her arm

    Why should I stay… in this vile world?
    Now I feed myself with most delicious poison
    That I might sleep out this great gap of time.

    My man of men!

    She dies

     

    http://www.americancomposers.org/notes20030406.htm

     

  • Thermae Romae テルマエ・ロマエ

    Thermae Romae テルマエ・ロマエ


    Thermae Romae è un manga (fumetto rigorosamente in bianco e nero) di Mari Yamazaki, pubblicato in Giappone sulla rivista “Comic Beam” a partire dal febbraio 2008; in Italia è stato pubblicato dalla “Star Comics” a partire dall’ottobre 2011, quando è uscito il primo volume, e fino a gennaio 2013, data del sesto e ultimo volume. In Giappone dal 12 gennaio al 26 gennaio 2012 sono state inoltre trasmesse su Fuji TV le tre puntate dell’anime (cartone animato) tratto dal manga; è stato poi realizzato anche un film, uscito nei cinema giapponesi nell’aprile 2012 e in Italia nel 2014, e ora disponibile in DVD.

    thermae romae copertina

    L’autrice è nata a Tokyo nel 1967, ma ha studiato all’Accademia di Belle Arti a Firenze: da lì nasce il suo amore per l’Italia, dove attualmente vive con il marito italiano. Thermae Romae, il suo manga più famoso, non segue una narrazione continua, ma si divide in episodi; ognuno di questi ha una struttura di base fissa, che si articola in tre momenti. Nel primo Lucius Modestus, architetto romano che vive nel 128 d.C., si vede affidata una committenza, che riguarda sempre le terme (nuove terme, vasche private, vasche all’aperto…). Di conseguenza, Lucius viaggia nel tempo e nello spazio, grazie a dei tunnel subacquei dai quali ha scoperto di poter essere risucchiato e che lo “depositano” nel Giappone del 2008. Qui, nelle stazioni termali (onsen) e nei bagni giapponesi, scopre soluzioni tecnologicamente avanzate, usanze particolari, accorgimenti estetici che destano in lui grande stupore, ammirazione, e un po’ di vergogna per l’inferiorità di Roma. A questo punto, Lucius torna a Roma e utilizza quanto scoperto in Giappone per creare progetti innovativi, che riscuotono sempre grande successo.

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    http://mag.sky.it/lifestyle/fotogallery/2011/10/10/thermae_romae_foto.html#1

    Come ho già detto, Thermae Romae si sviluppa in sei volumi. Io prenderò in considerazione il primo. L’idea fondamentale su cui il manga si basa è quella del viaggio nel tempo e nello spazio, alla scoperta di mondi alternativi, reali o di fantasia: un tema ampiamente sfruttato dalla letteratura di tutti i tempi e tutte le lingue, ma qui declinato con alcune intenzioni particolari. Da un lato, infatti, l’espediente del viaggio fra Roma antica e il Giappone moderno serve a evidenziare le comunanze e le differenze tra i costumi del passato e del presente (l’autrice, accusata di avere dato spazio anche ad alcune usanze antiche ritenute disdicevoli se non addirittura oscene alla sensibilità moderna, si è più volte difesa invocando una continuità sotterranea fra le due culture in gioco). D’altra parte, il ritorno all’indietro del protagonista gli consente di cambiare il corso degli eventi. Ad esempio, nel primo episodio del volume uno, Lucius scopre il latte aromatizzato alla frutta, una bevanda molto popolare in Giappone; tornato a casa, lo vende subito nelle sue nuove terme, riscuotendo grande successo. Aggiungo che se il viaggio in realtà diverse è espediente vecchissimo (in età moderna, almeno dall’Utopia di Thomas More, 1516; ma non sono in fondo un “altro” dove tutto è possibile anche la graeca urbs e Crotone nel Satyricon, o la Tessaglia entro cui sprofonda Lucio nelle Metamorfosi di Apuleio?), anche nei fumetti è un espediente piuttosto diffuso, e tutti i supereroi Marvel, prima o poi, compiono il loro viaggio (Batman, Superman, Flash…); esistono poi diversi manga che sviluppano questo tema, come Dragon Ball, Inuyasha o Sailor Moon, per citare titoli noti al pubblico occidentale. Più raro è però che il viaggio nel tempo, come accade in Thermae Romae, sia il tema centrale e portante del racconto; più raro ancora, che questo tema sia utilizzato essenzialmente per riflettere su somiglianze e differenze tra popoli e società storiche, e non per permettere al protagonista di salvare il mondo o cambiare il proprio destino; raro anche, mi pare, che l’espediente serva a celebrare la superiorità del nostro mondo, piuttosto che a metterlo in crisi (anche quando, magari, il finale lo riscatti a confronto del passato o del diverso, come ad esempio avviene per l’Iter Subterraneum di Ludvig Holberg, 1741). L’idea dell’autrice è quella di offrire un raffronto tra le due popolazioni e la loro vicendevole passione per le terme. Per questo, alla fine di ogni episodio vengono inserite un paio di pagine con riflessioni e spiegazioni, anche storiche, di alcuni elementi della cultura romana. Nel primo di questi interventi l’autrice dichiara esplicitamente che “mi convinco sempre di più che per gli antichi Romani le terme rappresentassero qualcosa di molto vicino ai bagni pubblici per i Giapponesi di un tempo”. La narrazione punta così a generare un effetto comico basato sulle differenze materiali e tecnologiche tra i due popoli, mentre dal punto di vista culturale si assiste a una certa consonanza. Ad esempio, tutte le volte che Lucius scopre qualcosa di tecnologicamente avanzato nei suoi viaggi in Giappone, si sforza di riproporlo a Roma, adattando materiali e forme a ciò che concretamente si può trovare o produrre nella sua città; allo stesso tempo, però, come dice nel terzo episodio: “ogni volta che vengo in questo mondo sento un lacerante senso di sconfitta”. Si tratta di un tema molto giapponese, quello di sentirsi inadeguato al proprio compito; allo stesso tempo, le parole e l’atteggiamento di Lucius non appaiono particolarmente strani o impropri per un Romano, che non può accettare che Roma non sia veramente caput mundi, anche per quanto riguarda le innovazioni tecnologiche. Lucius, inoltre, interpreta la realtà giapponese con le sue categorie mentali: quando si rende conto di trovarsi in mezzo a stranieri “dalla faccia piatta”, ad esempio, crede che si tratti di schiavi. Di contro, i Giapponesi percepiscono che Lucius è uno straniero, ma, in fondo, le sue difficoltà linguistiche e culturali lo rendono del tutto simile a un europeo contemporaneo alle prese con un onsen: la differenza temporale tra i due mondi non emerge particolarmente, perché né il protagonista né i Giapponesi che incontra ne sono consapevoli (almeno nel primo volume).

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    Leggere Thermae Romae, per un latinista, è un’esperienza particolare, e in qualche modo opposta a quanto l’autrice si proponeva: il pubblico di riferimento, per la Yamazaki, è giapponese, e deve trovare strano Lucius e assolutamente normale l’onsen; per un latinista (ma più in generale, per un italiano mediamente colto), è vero l’opposto. Nessun problema con lo strigile, presumibilmente, ma qualche perplessità di fronte al cappello per lo shampoo… In ogni caso, la storia funziona: gli elementi comici si colgono piacevolmente, la lettura è scorrevole, gli spunti di riflessione sono tanti. Unica cosa un po’ disorientante: il manga, nella sua versione italiana (così come anche in quelle inglese e francese, alle quali l’italiana sembra rifarsi; ne offro due esempi qui sotto, ricordando ai lettori che i manga si leggono dall’ultima alla prima pagina, con la rilegatura a destra, e le vignette vanno lette da destra a sinistra, prima la fascia alta poi quella bassa), presenta tutte i pensieri di Lucius e le sue battute con gli altri Romani in italiano, così come le battute dei Giapponesi fra di loro o con Lucius; quando Lucius pronuncia frasi in Giappone, sono invece in latino (con traduzione italiana tra parentesi). Il che, peraltro, rende il fumetto particolarmente interessante come approccio ludico alla lingua di Roma…

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     © Chiara Formenti, 2017

    Su Thermae Romae segnaliamo anche l’articolo di Giuseppe Galeani, La fortuna di Roma antica nel manga contemporaneo: spunti di riflessione, in “ClassicoContemporaneo” 3 (2017), scaricabile gratuitamente, previa iscrizione al sito, all’indirizzo http://www.classicocontemporaneo.eu

  • Socrate in musica

    Socrate in musica

    Non so se i post dedicati alla musica che riprende temi classici suscitino o no interesse nei lettori di questo sito, se lettori ci sono. Credo però che, al di là della passione personale per la musica, che mi ha accompagnato e guidato per tutta la vita, insistere sull’argomento sia un modo importante per far conoscere la vitalità del mondo antico anche ai nostri allievi, destinatari ultimi, ancorché spesso mediati, del materiale che qui si cerca di organizzare. il fatto che oggi il mondo antico sia oggetto di ripensamento continuo soprattutto da parte dei musicisti, più che dei pittori e degli scrittori, prevalenti o comunque altrettanto presenti nel mondo di ieri, è un dato incontrovertibile. Su questo vorrei tornare in un altro post, chiedendomi (e chiedendo ai lettori) perché proprio i musicisti continuino a trarre ispirazioni da miti e personaggi dell’antichità. Per il momento mi accontento di dedicare qualche parola a Socrate, protagonista di un oratorio laico del 2013. Sottolineo la data: il personaggio Socrate aveva già conosciuto gli onori del palcoscenico musicale nel Settecento, con Telemann (Der geduldige Socrates, 1721, in realtà traduzione/rifacimento di un precedente libretto italiano di ugual titolo, La pazienza di Socrate, opera di Nicolò Minato, intonata fra gli altri da Antonio Caldara) e con Paisiello (Il Socrate immaginario, 1775: come indica il titolo, non si tratta del vero Socrate, ma di un suo moderno imitatore); a inizio Novecento, aveva scritto un dramma musicale su Socrate anche Erik Satie (1918-1920: ci torneremo sopra). Per ora ho preferito un testo più recente, per sottolineare la vitalità del tema anche nel contemporaneo, il vero contemporaneo (troppo spesso confuso, nelle scuole e nell’accademia, con un Novecento storico).

    Autore della musica è il compositore australiano (1961-) Brett Dean, in questi giorni agli onori della cronaca perché al Festival di Glyndebourne è in scena la sua ultima opera, Hamlet. Nel 2010 Dean, già autore di una serie piuttosto cospicua di composizioni, per il teatro, le compagini sinfoniche, gruppi da camera o singoli strumenti (Dean è, nella vita, anche direttore d’orchestra e solista di viola), aveva pensato di scrivere una nuova opera; poi, l’opera si è ridotta a un poema sinfonico con coro, della durata di circa mezz’ora. Alla fine è uscito The Last Days of Socrates, composizione per orchestra, coro e basso-baritono, come recita la partitura (in realtà c’è un ruolo secondario anche per un tenore solista). La composizione, della durata di un’ora circa, è un vero proprio oratorio laico in tre parti, intitolate rispettivamente La dea Atena (Goddess Athena); Il processo (The Trial); La cicuta (The Hemlock Cup). L’ispirazione viene ovviamente da Platone, ma il testo è di un poeta australiano, Graeme William Ellis (1944-), autore di un paio di raccolte poetiche (Words fall like rain, 2009; Ned Kelly Verse, 2011), che a dire il vero, stante il sito della World Catalogue Library, non sembrano avere avuto molta diffusione fuori dal continente oceanico. Purtroppo, per questioni di diritti editoriali, non lo posso riprodurre in questo sito; la casa editrice consente di prendere visione solo delle prime pagine della partitura di Dean, per chi fosse interessato alla sua scrittura. L’oratorio è stato eseguito nel 2013 a Berlino, sotto la direzione di Simon Rattle, e poi a Melbourne e Los Angeles (direttori Simone Young e Gustavo Dudamel). Nella parte di Socrate si sono esibiti John Tomlinson, che a detta del compositore ha anche aiutato nella realizzazione della scrittura vocale del ruolo, e Peter Coleman-Wright. Qui l’orchestra è diretta da John Storgårds; solisti, il grande John Tomlinson (voce sonora e pronuncia impeccabile, anche se affetto da un fastidioso vibrato che ne compromette più volte l’intonazione) e Robert Johnston. L’ho divisa nelle sue tre parti, la seconda e la terza dividendole a loro volta in due. Dean è autore tardo novecentesco, che ama mescolare la musica elettronica alle sue composizioni; capace di sprazzi lirici, per il suo oratorio prevede un organico fatto di fiati, archi, ottoni, percussioni, arpa, celesta, ma anche di piano, chitarra elettrica e fisarmonica, oltre a pezzi di terracotta e metallo sbattuti gli uni contro gli altri, a imitare il suono degli ostraka che votano la condanna di Socrate. Il basso baritono protagonista dà voce al filosofo; il coro interpreta gli Ateniesi, le voci maschili dando corpo agli accusatori di Socrate, le femminili alla parte compassionevole del popolo. Il tenore assolve, di volta in volta, il ruolo di un giudice (II parte) e del carnefice che prepara la cicuta (III parte). La prima parte ha carattere introduttivo; la seconda trae il suo testo dall’Apologia di Platone; la terza dal Fedone. Dean in molte interviste ha paragonato Socrate a importanti figure controcorrente del nostro tempo, alle quali in certo modo la composizione sarebbe dedicata: l’artista cinese Ai Weiwei, noto dissidente politico; oppure Edward Snowden e Julian Assange.

     

    Parte I – La dea Atena

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    La musica inizia dolcemente (la qualità sonora non è impeccabile), quasi impercettibile, attraverso strumenti  fuori scena. Il coro invoca a gran voce, e più volte, “So-kra-tes”: prevalgono le voci maschili, ostili, dure, mentre l’orchestra si trasforma in un uragano sonoro. Dal minuto 2’40” la furia si placa: nel coro ora si sentono le voci femminili, fuori scena (al Barbican erano su una piattaforma elevata). In questo quadro idilliaco inizia, ca. al minuto 4’25”, l’invocazione alla dea Atena (“Goddess Athena”), che prima assume il carattere di litania, poi pian piano prende forza (7’23” ca.), e dopo un paio abbondante di minuti torna a farsi più dolce, finché la celesta pone fine all’invocazione.

     

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    Parte II – Il processo

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    Una lunga introduzione nella quale svetta il corno solista prelude a una climax sonora, sulla quale irrompe il coro, senza pronunciare parola fino al minuto 3’33”. Tenori e bassi danno poi sostanza alle accuse contro Socrate, che inizia a sua volta una breve rhesis concitata (4’33”), alla quale il coro risponde ribadendo le accuse, su una melodia sempre più saltellante (5’30”). Al minuto 7’50” il coro, dato sfogo a tutta la rabbia di gruppo che vede messe in pericolo le proprie certezze, erompe più volte nel suo “Enough! Enough! Sokratès”, che Dean riconosce in molte interviste come il momento cruciale della situazione (l’opinione comune non accoglie chi la obbliga a dubitare di sé). Socrate inizia un lungo discorso, 8’40”, lento e pacato, ribadendo alle accuse con le parole dell’Apologia. “What difence is this?” si chiede il coro (12’45”). Socrate ribadisce il suo credo (“I believe”, 13’57”) e introduce l’immagine del cigno, che canta profetico al momento della morte.

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    “Therefore, I don’t regard my end as a misfortune” conclude sereno Socrate, ma tanta sicurezza irrita ulteriormente il popolo ateniese contro di lui: sotto la spinta martellante del pianoforte (2’09”) si forma la parola “Danger!” a riconoscere la pericolosità di chi vive coerente con se stesso. Socrate ribadisce la sua calma (4’20”): “All that I know is that I know nothing… It is your fear that which speaks”, mentre la sicumera del coro è “imitation of wisdom, not real wisdom”.  Nell’imbarazzato silenzio che segue, il corifeo invita alla votazione, riconoscendo che le parole di Socrate hanno valore finale (5’14”): su un ritmo quasi jazzistico, ognuno getta il suo voto nel vaso che contiene gli ostraka (si sentono uno di seguito all’altro i colpi di metallo che corrispondono ai voti fatti cadere nel recipiente), mentre il coro si divide fra tenori e bassi, che ripetono minacciosi la loro ostilità al protagonista, e le voci femminili, alla fine prevalenti, nel loro lamento per l’imminente condanna, anticipata dai colpi delle percussioni (6’20”). Alla fine restano solo le donne a piangere (7’25”).

     

    Parte III – La cicuta

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    Il brano si apre con una lunga introduzione per violoncello solo, omaggio di Dean a Jan Diesselhorst, celebre violoncellista dei Berliner Philharmoniker (compagine orchestrale nella quale anche Dean ha suonato per una dozzina d’anni), già ricordato in un’altra composizione dell’autore, Epitaphs, 2010, un quintetto cameristico di cui un movimento rievoca l’amico e collega. Al minuto 2’04”  inizia il lamento del coro femminile, fuori scena. Siamo così immessi a poco a poco nella stanza dove Socrate attende la morte, in un’atmosfera cupa, tenebrosa, amplificata da un suono funereo di tromba e dalle percussioni. Un inserviente presenta a Socrate la coppa della cicuta, riconoscendo nello stesso tempo in lui il più grande degli uomini (5’08”). Socrate prende la parola rievocando ancora il cigno (“The swan!… The swan!…”, 6’40”), accompagnato dalla celesta che – un po’ come in Death in Venice di Britten, dove dava visibilità a Tadzo e al suo ruolo di involontario psicopompo – sembra progressivamente rafforzare il pensiero della morte imminente.

     

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    Quando il lamento si fa troppo forte, Socrate interviene a rassicurare gli amici (0’59” “Calm yourself, and be brave!”). Le donne appaiono più rassegnate, mentre torna a farsi sentire il violoncello (2’59”). Socrate può così riappropriarsi della metafora del cigno: è lui, naturalmente, l’animale che muore, ma muore cantando e – come aveva detto al processo – nessuno canta se sta soffrendo, nemmeno l’usignolo. Come il cigno, Socrate vede ora dunque la propria morte, ma vede anche chiaramente che è solo il nostro terrore dell’ignoto che ci spinge a temerla. Dopo un attimo di meditazione, il coro riprende e fa sua l’idea (“The swan, the swan sings”, 5’39”) e accompagna Socrate nell’ultima celebrazione di sé e della propria coerenza interiore. Le parole si fanno sempre più lente, cadenzate: “The swan sings” ripete infine ancora una volta anche Socrate, con il ritmo di chi è ormai preda della paralisi e della morte. Alle donne il compito di dare l’ultima risonanza al lutto.

     

  • Una maturità d’altri tempi

    Una maturità d’altri tempi

    Arrivano alla spicciolata gli esiti delle maturità di quest’anno. Concludiamo allora un trittico ideale dedicato quest’anno all’esame, con il ricordo della maturità di Karl Marx. Marx era nato a Treviri nel 1818; nel 1835, a diciassette anni, sostenette l’esame di fine studi liceali. Aveva frequentato il Friedrich-Wilhelm Gymnasium (diciamo, il liceo classico) della sua città; una conquista sociale, oltre che culturale, per il giovane figlio di un avvocato discendente da una famiglia di rabbini ebrei, ma che per poter continuare a esercitare la sua professione e integrarsi nella comunità cittadina aveva dovuto convertirsi al luteranesimo (il padre, intorno al 1819; Karl nel 1824: una legge prussiana del 1818 impediva ai cittadini di religione ebraica l’esercizio di una serie di occupazioni pubbliche, fra le quali, appunto, l’avvocatura). Insomma, dopo le discriminazioni legate alla nascita, la frequenza della scuola più prestigiosa cittadina era stata, per il giovane Karl, una sorta di patente sociale che lo metteva quasi alla pari con gli altri coetanei. Dal liceo Karl prenderà il volo per l’università, ufficialmente iscritto a Giurisprudenza, sulle orme paterne, di fatto frequentando soprattutto le lezioni di filosofia e letteratura, prima a Bonn, poi a Berlino e infine a Jena, dove si laurerà nel 1841, con una tesi dedicata alla filosofia epicurea.

    Non si è Marx per nulla… Gli esami di maturità del giovane, e di tutta la sua classe, sono stati fatti oggetto di una serie di accurati studi. Nel 1926 Carl Grünsberg ne diede la prima edizione, poi confluita nella grande raccolta di scritti marxiani del 1929 e anni seguenti; c’è poi chi, come Heinz Monz, nel 1973 ha ricopiato una per una tutte le prove manoscritte che i giovani maturandi (trentadue in tutto) avevano consegnato, pubblicandole tutte quante, per ricostruire non solo le tracce del pensiero di Marx, ma anche quelle dei suoi compagni di classe e individuare così il grado di originalità del giovane Karl nei confronti dei colleghi e degli insegnamenti comuni. A chi fosse interessato all’argomento segnalo, oltre alle biografie del filosofo (in Italia, ottima quella di Nicolao Merker, edita da Laterza, Roma-Bari 2010), l’articolo di Giovanni Sgrò pubblicato in “Archivio di Storia della Cultura” del 2005, ma disponibile anche in open access e che qui perciò allego:

    Sgrò – Il tema di maturità di Marx

    Nel 1815, al Congresso di Vienna, la Renania, prima appartenuta per quasi un ventennio alla Francia (1795-1814), era stata assegnata alla Prussia, che al tavolo del Congresso aveva seduto fra i vincitori. Di stampo prussiano era perciò l’impianto scolastico attivo a Treviri, ricordando che la Prussia, già dal secolo prima, era stato il primo stato europeo a dotarsi dell’obbligatorietà scolastica e di un sistema differenziato ma statale (e comunale) di scuole – un modello poi imitato dall’Austria di Maria Teresa, e in seguito dalle altre nazioni d’Europa (non tutte). La maturità ginnasiale prevedeva una serie di prove scritte: tema di tedesco, traduzione dal greco in tedesco, tema di latino e traduzione dal tedesco in latino, traduzione dal tedesco in francese, tema di religione per i soli studenti di professione luterana, prova di matematica. Come dimostrano i saggi indicati prima, tutte queste prove si sono conservate e sono state studiate. Ovviamente, l’attenzione maggiore è andata alla prova di tedesco, un tema nel senso moderno del termine, dal titolo “Considerazioni di un giovane sulla scelta di una professione” (Betrachtung eines Jünglings bei der Wahl eines Berufes): tipologia di prova e argomento della stessa hanno consentito agli studiosi del filosofo di cercare tracce del suo futuro pensiero già a questa giovane età. A me qui interessa però la prova di latino e di essa in particolare la composizione, che, secondo l’uso delle scuole di Retorica, ha per titolo An principatus Augusti merito inter feliciores reipublicae Romanae aetates numeretur. La prova è stata edita nella Historisch-Kritische Gesamtausgabe (MEGA) di Marx e Engels, dove, nell’edizione del 1929, figura alle pp. 168-170 del volume I/2; il medesimo testo è confluito poi nella Neue Ausgabe del 1975. Il testo latino, che allego qui di seguito, è disponibile in molti siti on-line. Testo originale e traduzione italiana si trovano anche nel volume di Luciano Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, Milano 2002, alle pp. 154-161; della traduzione è autore Giuseppe Solaro.

    Marx – An principatus Augusti

    Marx sostiene che l’età di Augusto fu, in sostanza, un’età felice. Così del resto prevedeva la traccia, con quel merito che lascia sì ancora spazio per un possibile dissenso, ma naturalmente prevede che sia il dissenso a dover essere giustificato con più fatica. Dietro alla prova è probabile che ci siano gli insegnamenti di Johann Gerhard Scheemann (1796-1864), latinista ed erudito locale, che aveva istruito Marx e i suoi compagni nei rudimenti di lingua. Ma è probabile che molto si debba scorgere anche della persona di Vitus Loers (1792-1862), odiatissimo Preside del Gymnasium, uno studioso di Ovidio di un certo valore, ma un uomo gretto sia umanamente sia politicamente (così lo descrive, anni dopo, il suo allievo). In ogni caso, Marx svolge bene il suo tema, in buon latino. Accetta l’idea che l’età augustea sia stata un’epoca felice, e ne fornisce adeguate prove. Proprio queste vorrei fare oggetto di discussione. Marx in sostanza enuncia tre argomenti: il primo è un confronto con le età che hanno immediatamente preceduto e seguito l’età di Augusto, che poi si esplicita come un confronto con l’età repubblicana considerata in un unico blocco e l’età di Nerone, meglio documentata di quelle degli altri giulio-claudi, Quest’ultima è naturalmente considerata un’età di decadenza e dissolutezza; ma anche l’età repubblicana non esce bene dal confronto, perché ai buoni costumi accostò le lunghe lotte fra patrizi e plebei e il disprezzo per la cultura, ritenuta inutile a un cittadino di quei tempi. Secondo argomento, la testimonianza degli Antichi, siano essi scrittori romani, o – cosa ritenuta più importante – anche no, esterni pertanto al potere di Roma. Qui Marx, una volta osservato il rispetto di cui l’impero di Augusto ha goduto sul piano internazionale, non cita alla fine altri che Tacito, di cui sembra conoscere bene il capitolo 9 del primo libro degli Annales, ma male il successivo capitolo 10 (dove, con tecnica retorica, Tacito dà voce agli oppositori di Augusto e rovescia ogni giudizio favorevole su di lui espresso in precedenza). Infine: Marx sottolinea la grande abbondanza di ingegni e uomini di Lettere vissuti sotto Augusto. Non tireremo fuori la battutaccia di Orson Welles sulla Svizzera e il Rinascimento (“In Italy, for thirty years under the Borgias, they had warfare, terror, murder and bloodshed, but they produced Michelangelo, Leonardo da Vinci and the Renaissance. In Switzerland, they had brotherly love, they had five hundred years of democracy and peace – and what did that produce? The cuckoo clock”). Sarebbe ingiusto, anche verso la Svizzera.

    Ma il pensiero di Marx stesso, a mio parere, si incrina più volte, lasciando spazio a frasi che non si capisce bene se siano solo goffe, o vogliano prendersi gioco del lettore. Augusto si impone per la sua clemenza, ma l’età augustea è, a confronto di quella repubblicana, un’età moralmente degenerata, del tutto inferiore alla precedente, nella quale l’azione del princeps fa sì che scompaiano non solo la libertà, ma anche ogni sospetto di libertà. Abilità dell’imperatore fu il sapersi appropriare di tutti i poteri, lasciando che i cittadini pensassero ancora di comandare, anzi non si accorgessero nemmeno dell’esistenza di una nuova magistratura, ritenendo quello di princeps nulla più che un vuoto nome. Sempre simulatore, Augusto fu capace di circondarsi di uomini d’eccezione, come Agrippa e Mecenate, eccellenti per virtù e per acume, senza bisogno di dovere così eccellere a sua volta. Alla fine, la mente di Augusto e la sua opera di governo risultano perfettamente adeguate ai tempi (di crisi morale) in cui Augusto visse. In un’epoca in cui regna la mollezza, il venir meno di ogni semplicitas morum, l’ingrandimento eccessivo dei confini dello Stato, il singolo regnante è un male necessario – altrimenti, sembra di capire, se ne può fare tranquillamente a meno…

    Qual è allora la morale? Intanto, scrivere in discreto latino non è garanzia di nulla. Poi, comunque siano andati a finire oggi gli esami, c’è ancora tempo per divenire Karl Marx (o chiunque si voglia divenire). Infine, all’orale Marx fu interrogato su Servio Tullio, Orazio (carm. II 20, la trasformazione in cigno) e Livio (XXXVIII 50, il processo contro Scipione l’Africano). Testi alla mano, il giovane maturando se la sarà cavata sicuramente meglio, e con più facilità!

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Suchoň

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Suchoň

    Nella Postfazione a I nostri antenati (1960) Italo Calvino delinea una storia dell’umanità che vede l’essere umano passare dallo stato primitivo, in cui è ancora organico con l’universo che lo circonda, all’uomo artificiale (che sarebbe poi l’uomo contemporaneo), alienato, dimidiato, inesistente, costretto a vivere fuori dal proprio ambiente, ridotto a puro funzionamento, perché incapace di fare attrito con quanto lo circonda, Natura e Storia (maiuscole mie; p. 1216 nel primo volume de “I meridiani”). A fondamento dell’affermazione si riconoscono molti luoghi comuni circa la diversità di cui la contemporaneità si è sempre gloriata. Non voglio però discutere l’affermazione. Piuttosto, in procinto di completare con questa puntata la carrellata attraverso le metamorfosi ovidiane e la musica del Novecento, a me sembra che a Calvino si possa tranquillamente ‘rubare’ l’immagine dell’attrito dell’uomo con la Natura e la Storia. Questo attrito è proprio ciò che il poema ovidiano colloca in primo piano e fa oggetto di narrazione. Elemento probabilmente sconosciuto ai diversi precedenti messi a frutto dal poeta latino (tranne, forse, che alla sesta egloga virgiliana), questa lotta dell’uomo contro due forze ostili a lui, ma nello stesso tempo anche fra di loro, è, in fondo, ciò che Ovidio ha davvero trasmesso ai secoli a venire, incluso il nostro. Ed è ciò che, assieme all’idea della metamorfosi come momento di massima esibizione di questa tensione, la musica del Novecento ha interiorizzato e fatto suo.

    Nelle puntate precedenti abbiamo visto come la metamorfosi possa ridursi a semplice concetto filosofico o avere tragica evidenza; come se ne possa studiare il momento dello svolgimento, oppure le conseguenze che lascia dietro di sé; come possa essere determinata dalle forze oscure della Storia, che tutto distruggono lasciando solo cumuli di macerie alle proprie spalle, oppure dalla crudeltà della Natura, che non ha tempo per voltarsi a guardare le creature che distrugge. Abbiamo anche visto come l’uomo possa subire la metamorfosi, oppure cercala, come mezzo per sottrarsi al reale che lo circonda, oppure come annullamento di sé in un eterno ritorno all’ordine che, per essere tale, non può comprendere quell’elemento di perenne disordine che è, appunto, l’umanità. Oggi voglio proporre un’ulteriore immagine della metamorfosi, e delle Metamorfosi: le quali, al di là di tutti i giochi di distanziamento che vi si possono e vi sono stati ritrovati, sono pur sempre un poema epico, dunque celebrativo, di una casta e di un’epoca. E che si chiudono, com’è noto, con una doppia significativa trasformazione: quella che vede Augusto (ancora vivo) trasformarsi in stella, e quella che vede il poeta assurgere all’empireo in virtù della propria arte.

    Al di là delle possibilità di leggere doppi, tripli sensi nelle parole di Ovidio, formalmente le Metamorfosi si presentano quindi come un poema che celebra la grandezza dell’imperatore in carica, il suo ruolo e la sua funzione. Il percorso storico delineato dal poeta, che si era aperto con la formazione del mondo – nato da materia sempiterna ma non ancora formata – si chiude con la celebrazione della propria contemporaneità e di chi quella contemporaneità aveva fortemente impregnato di sé. La Storia parte dalla Natura e realizza ciò che la Natura conteneva in potenza, ma non in atto.

    Anche questo non è però un tema che vorrei dibattere qui. Ora mi interessa di più osservare che questa lettura ‘positiva’ delle Metamorfosi, per cui l’elemento metamorfico trova celebrazione nel divenire storico – si identifica anzi con il divenire storico; e questo divenire punta, immancabilmente, verso la nostra contemporaneità – si trova fortemente evidenziata in un pressoché sconosciuto testo musicale, che infatti si intitola, significativamente, come il poema ovidiano (pur non richiamandosi sprecificamente ad esso). Si tratta della composizione sinfonica per orchestra Metamorfózy (1953), opera di Eugen Suchoň (1908-1993), compositore slovacco pressoché sconosciuto, credo, dalle nostre parti. Nato in una cittadina poco lontana da Bratislava, da famiglia di musicisti, Suchoň ha vissuto la maggior parte della sua esistenza entro i confini della patria, fra Praga e Bratislava. Alla nascita, e per tutti gli anni della fanciullezza, fu suddito dell’impero austroungarico; poi divenne cittadino cecoslovacco, nello stato libero ma ibrido formatosi al termine della prima guerra mondiale. Dopo la seconda guerra e l’occupazione nazista, visse nella Cecoslovacchia del Patto di Varsavia; conobbe la primavera di Praga del 1968, gli anni della repressione, il disgelo dei tardi anni ’80, la caduta del muro di Berlino e l’allontanamento delle truppe sovietiche (1989); infine, intravide la scissione delle due anime dello stato in repubbliche autonome e federali, scissione che infine portò alla proclamazione della Repubblica Slovacca indipendente, nata dalla dissociazione dalla componente ceca dell’antica repubblica unitaria (1993). In mezzo a tutti questi rivolgimenti, Suchoň è passato pressoché indenne, studiando, insegnando, componendo. Piuttosto vasto il catalogo delle sue composizioni, che include due opere liriche (che pochi conoscono fuori dai confini patrii), molta musica vocale e corale, composizioni da camera e sinfoniche a pieno titolo. Nel 1953, dopo una gestazione pluriennale, Suchoň licenziò la composizione sinfonica Metamorfózy, in cinque parti e varia successione di tempi.

    La misura è insolita, specie per una composizione di una trentina circa di minuti, e ricorda (anche nello sbilanciamento interno fra le singole parti, di durata progressivamente maggiore, così da passare dai poco meno di tre minuti del primo movimento ai quasi dodici dell’ultimo) le composizioni del grande musicista boemo – allora austriaco, ma oggi sarebbe ceco – Gustav Mahler (1860-1911). La similitudine però finisce lì. La musica di Suchoň è tradizionale quanto a fattura e tipologia, e ricorda piuttosto i lunghi e articolati poemi sinfonici di tardo Ottocento, sul tipo di Mà Vlast (La mia patria, 1879), l’opera più famosa del compositore – ceco pure lui – Bedřich Smetana (1824-1884).

    Quello che però interessa al mio discorso è che qui la musica celebra la Storia della repubblica cecoslovacca. Definito nelle note di copertina delle (rare) incisioni come un “riflettere sulla Storia durante gli anni di guerra”, alla maniera di Strauss, la composizione passa dal tono idilliaco e moderato dell’inizio a tempi più rapidi e vorticosi, per poi ristabilre nei movimenti finali prima l’idea di un regno della pace, poi il trionfo della rinata nazione (in un movimento che si intitola “Allegro feroce”). In anni di realismo socialista, Suchoň celebra così il divenire degli avvenimenti, che hanno portato la Nazione a trionfare, sia pure a prezzo di lotte e difficoltà, contro chi voleva destabilizzarne la tranquillità. Il tono, alla fine, è celebrativo: attraverso la trasformazione e il divenire, la Storia ha (ri)trovato la forma ideale.

    Simile idea si ritrova anche nelle composizioni operistiche di Suchoň. Non tanto la prima e più famosa, Krútňava (qualcosa come “Il mulinello”), che narra di un omicidio compiuto per gelosia e dell’eterna lotta fra bene e male nell’animo umano – l’opera, rappresentata per la prima volta nel 1949, ebbe infatti i suoi guai con la censura socialista. Ma la seconda, Kral’ Svätopluk, del 1960, racconta una vicenda legata alla disgregazione del regno di Moravia nel IX secolo d.C. (Svätopluk è il nome del protagonista; Kral’ è un titolo nobiliare, qualcosa come “principe”), e rivela un’identica idea del divenire storico che non solo non può essere interrotto, ma che trova in ogni caso la sua via, quali che possano essere i tentativi umani di impedirlo e di impedire la metamorfosi che esso sempre porta con sé.

    Movimenti I-III (Andante con moto; istesso tempo; Allegro moderato)

     

    Movimento IV (Larghetto)

     

    Movimento V (Allegro feroce)

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Musgrave

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Musgrave

    Il nome di Thea Musgrave (1928-) probabilmente non dirà molto ai lettori di questi post, se lettori ci sono. Eppure è un nome che dovrebbe suscitare qualche interesse, per molte ragioni. Intanto, come si vede dall’indicazione fornita all’inizio, al momento in cui scrivo è ancora in vita, sia pure in età avanzata. Poi, è una donna. Donne compositrici non sono mancate già nell’Ottocento (più rare prima), ma sempre in circostanze particolari: erano parenti di musicisti affermati, come Fanny Hensel née Mendelsshon (sorella di Felix); oppure figure già affermate nel campo musicale, come Pauline Viardot (cantante di primissimo piano); infine, donne comunque inserite in un milieu particolare, come Louise Bertin, amica di Hector Berlioz e di Victor Hugo (che le scrisse il libretto per La Esmeralda [1836], libero rifacimento di Notre-Dame de Paris). Erano quindi tutti casi eccezionali. Il Novecento, a partire dagli anni Trenta ha visto invece un sempre più deciso affermarsi di donne compositrici, anche se restano una minoranza. La Musgrave, scozzese di nascita, fu allieva di una famosa insegnante di Conservatorio, che la introdusse al “modernismo” delle avanguardie del tempo (si tratta di Nadia Boulanger, alle cui lezioni tutti i più importanti compositori e direttori d’orchestra hanno prima o poi assistito). Nel 1958, dopo alcuni successi in patria – in particolare con il ciclo di poemi Tryptich, di quello stesso anno – Musgrave si è trasferita in America, dove ha lavorato con un altro illustre compositore, Aaron Copland e ha insegnato prima all’Università della California, poi a CUNY (la City University of New York), in quei ruoli – da noi sconosciuti – di compositori e musicisti in servizio entro il mondo accademico. Ricchissimo il suo catalogo, che comprende pezzi per strumenti solistici, concerti, composizioni orchestrali e una decina di opere, due delle quali (Mary Queen of Scozia, del 1977; e A Christmas Carol, del 1979) hanno avuto l’onore di una registrazione ufficiale.

    Per dare un saggio della sua abilità compositiva, prima di passare ai testi propriamente metamorfici, voglio presentare una composizione orchestrale del 1990, Song of the Enchanter, ispirata a un episodio del Kalevala (il poema epico finlandese per eccellenza), ma di fatto commissionata per celebrare il 125mo anniversario della nascita del compositore finlandese Jean Sibelius, 1865-1957 – a sua volta autore di poemi sinfonici e una sinfonia corale (Kullervo, 1891) ricavati da quel poema. Chi conosce la musica di Sibelius sarà in grado di apprezzare il gioco di allusioni e rifacimenti che la Musgrave introduce a partire dalle composizioni del celebrando; altrimenti, valga il piacere di pochi minuti di musica ben fatta.

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    Il medesimo procedimento si avverte anche più chiaramente in un’altra composizione, Echoes of Time Past, del 1999, tutto un inno alla memoria e alla tradizione della musica occidentale, a cominciare da Verdi e Wagner (come ha indicato la stessa autrice); ma – essendo la Musgrave al momento della composizione in America – il brano vuole omaggiare anche i classici che hanno fondato l’immagine musicale dell’America nella mente europea, a cominciare da quella Sinfonia nr. 9 in mi minore di Antonin Dvořák, detta appunto Del nuovo mondo (1893). Chi ha avuto occasione di sentire quel testo, riconoscerà nell’assolo iniziale del corno inglese e poi, verso la fine, anche in quello della tromba, lunghe citazioni dei temi principali utilizzati da  Dvořák, temi che la tradizione vuole derivino da spirituals e musica nativa americana.

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    Veniamo però ai brani che più ci interessano. La Musgrave non ha scritto (a differenza di Britten o di Strauss) nulla che rechi in sé il titolo di Metamorfosi o un richiamo esplicito ad Ovidio, almeno che io sappia. E’ tuttavia autrice di una serie di brani – nati indipendentemente l’uno dall’altro – che hanno come argomento l’illustrazione di un mito antico: e si tratta sempre, naturalmente, di un mito compreso nel poema ovidiano, che pertanto offre sia la traccia del racconto che quella della sua interpretazione. In questi brani, di norma, uno strumento solista dialoga con un nastro pre-registrato, secondo una tecnica di moda negli anni Settanta/primi Ottanta (ora il nastro è comunemente sostituito dal computer). Quello che riesce alla Musgrave è di rendere questa tecnica espressiva ai fini del mito trattato, e non una pura esibizione di virtuosismo compositivo. Ne offro tre esempi. Nel primo il mito rievocato è quello di Niobe (1987). Come nell’analoga composizione di Britten ricordata in un post precedente, la voce della donna è qui affidata all’oboe solista, strumento che ben si presta a dare corpo al lamento disperato; sul nastro preregistrato una campana scandisce, implacabile e feroce, l’uccisione dei quattordici figli, uno di seguito all’altro.

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    In Narcissus (1987) il nastro fa invece da eco al flauto; è cioè l’immagine allo specchio di quanto il flauto solista affaccia nella sua melodia, il doppio della voce di Narciso, identico e speculare ad esso. In Helios (1994) torna di scena l’oboe, ma questa volta per affermare tutta la solare bellezza del dio cui dà vita; in Orfeo I, 1975, commissionato dal celebre James Galway (1939-), l’esecutore sulla scena dovrebbe dare voce al mitico cantore che scende nell’Ade, mentre sul nastro Galway gli fa eco, suggerendo un ripercuotersi cupo e misterioso delle note verso oscure profondità che si perdono lontano, nelle viscere della terra. Alla fine, quando la catabasi si sta compiendo, i suoni del nastro sembrano quasi inghiottire e voler togliere voce al flauto solista, una sorta di Zauberflöte che fatica a passare la sua prova dell’acqua e del fuoco.

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    Chiudo infine questa rassegna con Lamenting with Ariadne, del 1999. Lo strumento solista qui è una viola, che si confronta con un’orchestra di formato ridotto, cameristico, fatta di soli sette strumenti: violino, violoncello, arpa, percussioni, flauto, clarinetto e tromba. All’inizio predomina la viola, che alterna i suoi stati d’animo fra l’ira e la disperazione, seguendo i moti psicologici di Arianna. Poi, una tromba fuori scena annuncia l’arrivo di Bacco; le percussioni lasciano il posto alla marimba; il ritmo cambia e si fa festoso, orgiastico, esotico.

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    L’immagine di copertina viene da un sito della BBC, che ne detiene i diritti; le esecuzioni caricate sono, al momento in cui scrivo, di pubblico dominio. Chi ne dovesse rivendicare il copyright può rivolgersi agli amministratori del sito. Sulla Musgrave molto ho imparato (oltre che dagli scritti della compositrice) da Ph. Rupprecht, British Musical Modernism. The Manchester Group and their Contemporaries, Cambridge 2015.

  • Ovidio tra gli Sciti

    Ovidio tra gli Sciti

    Un dipinto di Eugène Delacroix può fornire un utile spunto didattico per introdurre il tema dell’esilio, e in particolare la poesia ovidiana dell’esilio. Si tratta di un olio di dimensioni medie (90 x 130), esposto a Parigi nel 1859 e ora al British Museum di Londra; una seconda versione, oggi a Washington, di dimensioni più ridotte (30 x 50) e con alcune variazioni nelle figure e nel cromatismo, fu realizzata per un committente privato nel 1862. Il soggetto è Ovidio fra gli Sciti (Ovide chez les Scythes): un tema politicamente scottante, tenendo conto che dal 1856 Victor Hugo si trovava in esilio sull’isoletta di Guernsey, nel canale della Manica, per ordine di Napoleone III.

    Vero protagonista del dipinto è il paesaggio, improntato a un gusto tipicamente tardoromantico, con la natura che giganteggia affascinante e distante: brullo l’insieme, rada la vegetazione (un cespuglio, due piccoli alberi), rari gli interventi dell’uomo (nessun segno di coltivazione del terreno, povere capanne dal tetto di paglia sulla sinistra e sullo sfondo a destra). Lo scenario è animato da figure umane e animali: gli uomini sono vestiti succintamente, in prevalenza in toni del marrone e ocra, che riprendono quelli del paesaggio (in qualche caso potrebbe trattarsi di pellami piuttosto che di tessuti), la maggior parte scalzi e barbuti, alcuni armati di frecce e scudo; in primo piano una donna, ritratta di schiena, munge una cavalla (un dettaglio che doveva risultare davvero esotico al raffinato pubblico parigino e che non incontrò il favore della critica). Quasi al centro, un poco sulla sinistra rispetto all’osservatore, spicca la figura del poeta, completamente estranea al contesto: l’effetto di forte scarto si crea prima di tutto tramite le scelte cromatiche del bianco immacolato e del blu intenso del vestiario (i colori della Madonna nella più tradizionale delle iconografie), che non trovano corrispondenza precisa in nessun altro dettaglio del dipinto; i calzari bianchi con minute decorazioni dorate esprimono un’eleganza urbana (e ricordano i phaecasia, gli stivaletti bianchi alla moda indossati da Encolpio in Satyricon 82, 3); appoggiato sul terreno, al fianco del poeta, si trova del materiale scrittorio, sembrerebbe un ampio rotolo aperto. Molte delle figure sono rivolte verso Ovidio, in un atteggiamento non ostile ma di curiosità (il bambino con il grande cane lupo) e in un caso almeno di rispetto e offerta (l’uomo inginocchiato con il cestino, sostituito da una ragazza nella versione del 1862), così che la disposizione delle figure può ricordare un’adorazione dei pastori.

    L’opera di Delacroix rivela una certa consonanza con la Stimmung delle elegie ovidiane dell’esilio, pur prendendosi la libertà di sostituire la cittadina di confine, Tomi, con un paesaggio naturale e aperto. Le caratteristiche della natura sono del resto abbastanza rispondenti alla descrizione ovidiana di una regione aspra e selvaggia, sferzata dai venti e coperta di neve e di ghiaccio per buona parte dell’anno, costituita da terreni incolti, praterie brulle e sterili, con acqua di cattiva qualità (insomma, una specie di Siberia sul mar Nero) – si potrà confrontare specialmente la coppia di elegie di tristia III, 10 e 12, dedicate rispettivamente all’inverno e alla primavera a Tomi. Se in queste descrizioni ovidiane non pare esservi molto di oggettivo (la cittadina era in realtà una colonia greco-romana ormai pacificata e di popolazione prevalentemente greca; quanto al clima, vi si coltivava e vi si coltiva tuttora la vite), esse tuttavia racchiudono un nucleo di verità, in quanto esprimono per immagini l’esperienza sconvolgente dell’improvviso e violento sradicamento dal proprio mondo vissuta dal più grande poeta della sua epoca, poco più che cinquantenne e all’apice della fama. E particolarmente efficace, e a suo modo fedele allo spirito del testo ovidiano, risulta il dipinto nel rendere l’isolamento intellettuale del protagonista. Ovidio diviene qui la trasposizione pittorica di potenti immagini poetiche come quelle dei ‘grandi esiliati’ di Baudelaire: Andromaca a Butroto o il cigno, con i suoi gesti folli “comme les exilés”, o l’albatro, simile al poeta “exilé sur le sol” (protagonisti di poemi pubblicati in quegli anni e poi riediti nel 1861, nella seconda edizione de I fiori del male, dove Le Cygne è dedicato proprio a Victor Hugo, il grande esule francese, che a Guernsey stava componendo Les Miserables [apparsi poi a Bruxelles, nel 1862]).

    Eug??ne Delacroix, 1798 - 1863 Ovid among the Scythians 1859 Oil on canvas, 87.6 x 130.2 cm Bought, 1956 NG6262 http://www.nationalgallery.org.uk/paintings/NG6262

    Delacroix (1798-1863), già in fine di carriera al momento della composizione del dipinto, in giovinezza era stato, lo ricordiamo, fra i grandi alfieri della pittura romantica. Amico personale tanto di Hugo, la cui casa in Notre-Dame-des-Champs aveva frequentato, quanto di Baudelaire, che teneva in camera da letto le litografie di Amleto firmate dal pittore, Delacroix con i suoi dipinti si era più volte proposto di illustrare i grandi capolavori accetti al Romanticismo francese (Dante, Shakespeare, Scott e Byron), come anche di intervenire sui principali fatti politici vissuti dalla sua generazione (la rivolta della Grecia contro i Turchi; la rivoluzione del 1830, che portò sul trono di Francia Luigi Filippo, suo antico committente). Nel trattare temi classici, Delacroix si era sempre compiaciuto di rivolgere il proprio occhio alla modernità e alla commistione delle iconografie. Significativo antecedente del lavoro compiuto su Ovidio è infatti il ritratto di Medea mentre uccide i figli (Médée furieuse), del 1838, ma poi ripreso anche nel 1862, oggi conservato a Lille, nel quale l’eroina greca è immersa in uno schema piramidale che ricorda la leonardesca Vergine delle rocce e mostra il proprio seno – in ossimorico contrasto con il gesto che sta per compiere – come nell’illustrazione della Carità di Andrea del Sarto. Una mamma pagana, che porta con sé, come Ovidio nel dipinto da cui siamo partiti, alcuni simboli della Cristianità, ma che infonde loro nuova vita in virtù del diverso tema che sono chiamati ad illustrare.

    delacroix medea

    © Elena Merli, 2017

    I dipinti sono concessi in libero usufrutto, per ragioni di studio, sui siti dei rispettivi musei che ne detengono la proprietà

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Ligeti

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Ligeti

    Gli esempi considerati finora ci permettono di tracciare un primo quadro di questa breve storia delle Metamorfosi nella musica del Novecento. Due elementi balzano agli occhi: ci sono composizioni che illustrano direttamente il poema di Ovidio, come avviene per le sei variazioni di Britten o l’opera Daphne di Strauss. Com’è ovvio, “direttamente” è parola da rideclinare poi caso per caso: Britten mette in musica sei momenti del poema ovidiano, ma nella sostanza usa il testo latino come banco di prova delle possibilità espressive di un singolo strumento musicale; e del concetto di metamorfosi, ricavato da Ovidio, mette in luce soprattutto la creazione di un nuovo linguaggio, che passa attraverso il mutamento e l’esperienza cosciente del mutamento. Strauss nella sua opera riscrive una vicenda ovidiana (il processo inizia prestissimo, e attraversa tutta la storia del melodramma). Quello che interessa è che, della trama di Ovidio, Strauss coglie soprattutto l’elemento di sopraffazione disturbante introdotto dall’azione del dio in una comunità pacifica e regolata da sue leggi – con evidente riferimento alla Germania del tempo. Della metamorfosi come fenomeno in sé quanto gli interessa è dunque la violenza che essa apporta, in  uno stesso tempo, alla civiltà e alla natura: solo quest’ultima, nel finale, riprende la sua forma, ma in assenza di uomini e di dèi.

    La seconda tipologia di ‘ripresa’ è quella esemplificata da Metamorphosen. Qui Ovidio, di fatto, offre solo un titolo e un concetto filosofico. La metamorfosi è una trasformazione che avviene con la violenza, per causa esterna, e che lascia alle sue spalle un cumulo di macerie – le macerie reali di Monaco bombardata, le macerie metaforiche degli eroi e delle eroine ovidiane. L’azione violenta, che per il poeta latino è opera di un dio capriccioso e vendicativo, anche quando agisca secondo giustizia (ma che il più delle volte agisce oltretutto indipendentemente dalla giustizia…), per Strauss è invece prodotta dall’uomo, o quanto meno dalla Storia, intesa come somma delle azioni umane. Ciò comporta un’enfasi tanto maggiore sull’elemento del pathos, in quanto tutto si realizza sul piano umano. E’ l’uomo che determina la metamorfosi, è l’uomo che la subisce.

    Nel Novecento il concetto filosofico prevale sulla citazione del classico, come del resto ci aspettavamo: le Metamorfosi musicali per lo più non hanno in comune con Ovidio nient’altro che il titolo. Philip Glass (1937-vivente) nel 1988 scrive cinque pezzi per pianoforte dal titolo Metamorphosis, ma le Metamorfosi che vuole illustrare sono quelle di Kafka, non quelle ovidiane. Dei cinque brani che compongono la suite, almeno il secondo è famosissimo, perché divenuto elemento portante della colonna sonora del film di Stephen Daldry, The Hours (2002), dedicato alla vita di Virginia Woolf e interpretato da Nicole Kidman, Meryl Streep e Julianne Moore. Nel 1966 Gian Francesco Malipiero aveva composto un’opera, Le metamorfosi di Bonaventura, derivandone il canovaccio da un testo tedesco di inizio ‘800, Die Nachtwachen des Bonaventura (I giri di guardia notturna di Bonaventura”). E’ un’opera che non sono mai riuscito ad ascoltare, ma a leggerne il sommario sembra un pasticcio incomprensibile; anche Montale, che fu presente alla prima a Venezia, ne parlava come di un testo dall’interesse drammatico pressoché nullo. Non so. Quello che è certo è che le metamorfosi cui si fa riferimento lì sono quelle che intercorrono fra autore e personaggio, i confini fra i quali, a un certo punto della realizzazione dell’opera d’arte, diventano labili e incerti.

    Nel campo delle metamorfosi ‘filosofiche’ possiamo inserire anche il quartetto nr. 1 di Gyorgy Sandor Lìgeti (1923-2006), intitolato “Metamorfosi Notturne”. La composizione risale agli anni 1953-1954, a Budapest; la prima esecuzione (con qualche variazione rispetto al testo originale) avvenne poi a Vienna, nel 1958. Di mezzo, i fatti di Ungheria del 1956 e la fuga di Ligeti da Budapest all’Austria, nel dicembre di quell’anno. Il quartetto è una composizione in un unico movimento (qui diviso in due, per ragioni di spazio) e 17 parti. Vari sono stati i tentativi di definire l’opera e di suddividere le sequenze di cui si compone. La cosa più curiosa la scrisse forse Ligeti stesso, nelle note di copertina di un CD realizzato per la casa discografica Sony, nel 1996. Ligeti definì il suo quartetto come una serie di variazioni senza un reale tema, ma solo una cellula melodica di base. In realtà, l’opera, pur concedendosi numerose dissonanze, è ancora sostanzialmente tonale.  Ligeti diverrà un adepto della musica dodecafonica ed elettronica solo dopo il passaggio in Occidente, e lo spostamento da Vienna prima a Colonia e poi ad Amburgo – le città dove ha insegnato e lavorato più a lungo.

    Sul senso della composizione e il suo titolo ci illumina di nuovo l’autore: nell’Ungheria sottoposta al controllo sovietico prevaleva un’estetica legata al socialismo reale e al recupero delle musiche folkloriche. Ligeti, che non si riconosceva in questa estetica (era, del resto, un rumeno di nascita, divenuto ungherese dopo l’annessione, nel 1940, della Transilvania all’Ungheria. Di religione ebraica, aveva ben altre radici da quelle care al regime), è costretto ad aderirvi nelle sue composizioni ufficiali e, diciamo così, ‘diurne’. Di notte, ecco invece la possibilità di sbizzarrirsi più liberamente in composizioni che non verranno mai né pubblicate né eseguite, realizzate solo per se stesso. Da qui il titolo di Metamorfosi (inteso come ‘cambiamento di pelle’) e l’aggettivo Notturne (in riferimento al tempo della trasformazione, ossia della composizione). In realtà, il quartetto, che rielabora testi di Bela Bartók, è in fondo una metamofosi anche nel senso più tradizionale nel campo musicale.

    Quello che interessa a noi è però che la metamorfosi, vista come mutamento del proprio aspetto esteriore, per recuperare una intima, più vera natura, qui diviene una conquista di libertà, un libero sfogo contro tutte le costrizioni di un potere assillante. Anche questo senso di rivolta non è assente dal poema ovidiano, così come non lo è il sospetto che la metamorfosi, per quanto crudele e imposta dagli dèi, altro non faccia che rivelare la più vera natura del singolo. Licaone, in fondo, era già lupo prima di diventarlo…

     

     

    L’esecuzione, dal vivo, a Basilea nel 2011, è quella del Quartetto Mirus, dal cui canale l’ho ricavata, dove è offerta alla libera consultazione. Al canale rimando per tutti i diritti e le informazioni circa i bravissimi interpreti, pronto a cambiare edizione se dovessero decidere diversamente circa la possibilità di condividere le loro esecuzioni.

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Strauss

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Strauss

    Dove le Metamorfosi di Ovidio hanno sempre trovato terreno fertile è, ovviamente, nel campo dell’opera lirica, per la quale esse hanno costituito, con il loro inesauribile repertorio di miti, un serbatoio di vicende da rendere teatrali. Il fenomeno si realizza già nell’età barocca e prosegue per tutto il Settecento; ha qualche sporadica attestazione nell’Ottocento; riprende quota nel Novecento. Naturalmente, non si tratta mai di una ripresa letterale del testo ovidiano: non solo per le necessità della teatralizzazione (che peraltro si direbbero spesso rispettate già dall’originale latino), o per l’obbligo di adeguare le vicende narrate da Ovidio a un organico, soprattutto vocale, che secolo dopo secolo rispetta usi ed esigenze diverse a seconda delle tradizioni e delle mode. In realtà, è implicita proprio nella definizione del mito la sua fertilità e la possibilità di adattamento a strutture continuamente diverse, e l’opera lirica ha sfruttato ampiamente questa caratteristica. Da qui, una serie di riscritture che, anche quando si ispirino esplicitamente alle Metamorfosi ovidiane, di fatto ne tradiscono la lettera, e spesso anche lo spirito.

    Fra i testi che si potevano presentare ho scelto la Daphne di Richard Strauss [1864-1949], andata in scena per la prima volta a Dresda nel 1938, alla vigilia del secondo conflitto mondiale (scoppiato meno di un anno più tardi). Nel frontespizio del libretto l’opera si dichiara come un Dramma bucolico derivato da Ovidio. Si tratta di una composizione in un atto solo, originariamente pensata come complemento a un altro testo di Strauss, Friedenstag (Giorno di pace), una misconosciuta storia ambientata al tempo della Guerra dei Trent’Anni, ma di carattere dichiaratamente pacifista. Librettista di entrambe le composizioni avrebbe dovuto essere Stefan Zweig [1881-1942], che dopo la morte di Hugo von Hoffmanstahl [1874-1929] aveva preso il posto di quello come collaboratore privilegiato di Strauss. Zweig fu però impedito dalle autorità naziste di firmare i libretti straussiani (alla prima de La donna silenziosa, nel 1935, Strauss si era rifiutato di cancellare il nome di Zweig dalle locandine, e di conseguenza dopo sole tre recite venne proibita ogni ulteriore messa in scena dell’opera); Zweig, che era di origine ebraica, collaborò ugualmente al testo, ma da non accreditato, e nel corso del 1938 dovette fuggire prima a Londra, poi negli States e in Brasile. Il libretto di entrambe le opere fu perciò firmato da Joseph Gregor [1888-1960], un letterato di minore fama, che rimarrà un collaboratore fisso del musicista (che non l’amava molto). Le due opere ebbero rappresentazione separata, una in luglio, l’altra in ottobre. Daphne è dedicata al direttore d’orchestra Karl Böhm [1894-1981], che fu uno dei principali collaboratori musicali di Strauss.

    Daphne descrive (in modo simbolico ed allegorico, specie considerando l’epoca di composizione e le complicate vicende legate alla sua messa in scena, alle quali ho già fatto cenno) un mondo arcadico di bellezza e tranquillità. Il testo si apre con un inno alla Natura intonato dalla protagonista, e con la rappresentazione di una comunità pastorale felice e tranquilla, guidata dai genitori della giovane, Gea e Peneo; comunità nella quale Dafne si inserisce perfettamente, amata dal giovane Leucippo (i nomi sono tutti classicheggianti, ma i dettagli sono sconosciuti ad Ovidio). Su questo mondo di pace piomba un giorno, dall’esterno, il dio Apollo, che vede Dafne, se ne innamora, la vuole per sé e, benché respinto, la considera cosa sua, fino ad uccidere il rivale Leucippo. Nel finale Dafne compiange il giovane ucciso, e il dio, che ha finalmente compreso di non avere speranze, si allontana, chiedendo a Giove di trasformare la ragazza nella pianta di alloro. La scena che chiude l’opera, con il nome di Daphnes Verwandlung (Metamorfosi di Dafne) vede il progressivo disgregarsi della protagonista come essere umano, e la sua trasformazione in pura voce che gorgheggia, come un’eco sempre più lontana. La violenza del dio si è compiuta, e ha portato alla distruzione delle vittime innocenti, che hanno perso la vita, come Leucippo, o la propria identità, come Dafne. Alla fine le parole della giovane, cui è affidata la conclusione dell’opera, si fanno sempre più frante, singoli sintagmi nemmeno sempre ben coesi fra loro. Eccone una traduzione italiana: “Vengo, vengo,  verdi fratelli! Dolce fluisce a me, la linfa terrena! A te mi protendo, in rami e foglie, purissima luce! Apollo! Fratello! Già… le mie fronde… Vento… vento, gioca con me! Sacri uccelli… abiteranno in me… Uomini… amici… prendetemi a testimone… amore senza fine”. Segue il bellissimo finale vero e proprio, con il titolo di Mondlichtmusik (Musica al chiaro di luna): la metamorfosi si sta compiendo, Dafne si irrigidisce sempre più, la Natura torna a dominare e inglobare in sé la ragazza, ridotta progressivamente a pura voce, anzi a eco di una voce. La metamorfosi è trasformazione in altro, ma la trasformazione, quando non è voluta, significa perdita del proprio sé.

    Mondlichtmusik

    Strauss scrisse anche un’altra composizione intitolata Metamorphosen, priva di altri riferimenti all’opera di Ovidio che non siano il titolo. Si tratta dello Studio per 23 archi solisti – dieci violini, 5 viole, 5 violoncelli, 3 contrabbassi (un organico insolito) – scritto nel marzo/aprile del 1945 ed eseguito per la prima volta a Zurigo nel 1946. La guerra in Germania terminò solo nel maggio del ’45; ma il 30 aprile di quell’anno il suicidio di Hitler aveva fatto precipitare gli eventi. Metamorphosen è un’accorata riflessione sui danni prodotti dalla guerra. Una guerra segna sempre la fine di un mondo: la segna per i vincitori, la segna a maggior ragione per i vinti. Metamorphosen è un lento ragionare, in quattro tempi (adagio ma non troppo; agitato; adagio ma non troppo; molto lento – la climax discendente è di per sé molto eloquente), sulla fine della Germania, della sua civiltà, della sua arte. A Gregor nel febbraio del 1945 Strauss aveva scritto: “Sono disperato. La mia amata Dresda – Weimar – Monaco… tutto distrutto!”. Metamorphosen è la messa in musica di questa disperazione. La metamorfosi che si descrive è quella del passato, che non potrà più essere. Tre cellule ritmiche si rincorrono, si ripetono, si tramutano e si completano. Nel tessuto della composizione sono state riconosciute anche numerose citazioni, fra le quali due eloquentissime: la Marcia funebre della Terza sinfonia di Beethoven (il musicista dallo stile classico, assurto a nume tutelare del Romanticismo tedesco); e il lamento di re Marke, tradito dall’amico Tristan, nel Tristan und Isolde di Wagner (l’opera divenuta simbolo di certo Decadentismo tedesco). Chi vuole intendere, intenda!

    Ecco il brano, per forza di cose diviso in due parti – un piccolo, inevitabile delitto. La prima si interrompe al minuto 25; la seconda prosegue a partire dall’interruzione.

    Ulteriori informazioni sui rapporti di Strauss con la cultura classica si possono trovare nel bel volume di Franco Serpa, Miti e note. Musica con antichi racconti, Trieste 2009.

     

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Britten

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Britten

    I due anni che ci attendono (2017 e 2018) saranno, come si sa, anni ovidiani. La ricorrenza del bimillenario della morte del poeta, l’incertezza circa la data esatta, l’occasione ghiotta per iniziative di vario genere (a scapito dell’altro grande festeggiando del 2017, Tito Livio) fanno sì che si siano moltiplicate occasioni di studio, incontri, convegni sulla figura e l’opera del poeta delle Metamorfosi. Diamo qui un piccolo contributo – non sarà il solo… – presentando un percorso che connette le Metamorfosi ovidiane ad alcune composizioni musicali del Novecento da poco (?) passato. Si tratta di una scelta personale, in parte legata ai limiti di capacità imposti dal sito. Idea di fondo è mostrare l’attualità, anche nel secolo appena concluso, del poeta e della sua opera; fermo restando che la musica che proporremo è spesso sconosciuta ai giovani italiani (non così fuori dai confini del nostro Paese), dai quali è spesso vista con sussiegoso disdegno; ma esperienza insegna che, una volta sperimentata in modi e tempi appropriati, si possono produrre risultati inattesi.

    Incominciamo a dire che il concetto di metamorfosi è strettamente connesso alla musica. Il tema con variazioni; le variazioni su un pezzo dato; il remake di un brano del passato; la canzone cover (nella terminologia della musica pop e rock è la riproosta di un  brano  originariamente interpretato da altri, ora fatto proprio da qualcuno che non ne è l’esecutore originale, con un rifacimento che, pur senza modificarne la struttura di fondo, è comunque tale da sorpassare i limiti della semplice reinterpretazione) sono tutti fenomeni alla base della storia della musica e della sua evoluzione. Qui ci occuperemo però di alcuni testi più direttamente connessi all’idea di metamorfosi e/o ad Ovidio. Il primo è la suite di sei pezzi per oboe solo (Six Metamorphoses after Ovid, op. 49), scritta dal compositore inglese Benjamin Britten [1913-1976] nel 1951, come omaggio all’oboista Joy Boughton [1913-1963], sua coetanea e figlia di un amico, il compositore Rutland Boughton [1878-1960]. Come recita il titolo, ognuni dei sei pezzi vorrebbe descrivere una scena delle Metamorfosi e cioè, nell’ordine, Pan che suona il flauto, fatto con le canne in cui si è mutata l’amata Siringa (met. I 689-712); Fetonte che guida il carro del sole (II 1-400); Niobe impietrita dal dolore per la morte dei figli (VI 146-312); il corteo festivo di Bacco (IV 1-32); la morte per consunzione di Narciso, innamorato di se stesso (III 339-510); Aretusa in fuga davanti ad Alfeo (V 572-641). Non c’è un ordine preciso, né una scelta che delinei un chiaro percorso all’interno del poema. Ogni scena si presta a un carattere musicale: il canto di Pan è spezzato e irrequieto, come ci si attende dal tratto faunesco del dio (lo aveva insegnato Debussy, con il suo Prélude à l’aprèsmidi d’un faune [1894]), dio che qui oltretutto sta dialogando con la sua amata di un tempo e sperimentando le possibilità del nuovo strumento. La corsa di Fetonte è concitata e senza pause, il ripetersi prima trionfalistico poi via via sempre più dubbioso di una cellula musicale, fino alla catastrofe finale. Niobe ha la musica più lenta e fissa di tutti e sei i pezzi, un lungo lamento ripreso più volte, sempre diverso e sempre uguale a se stesso. Il  quarto brano è festoso e chiassoso, perché a detta di Britten dovrebbe esprimere il chiacchiericcio pettegolo delle donne e le grida dei ragazzi che accompagnano la divinità. Il quinto è lento e riflessivo; il sesto è amabile – la storia di Aretusa e Alfeo è l’unica, fra quelle rievocate, a prevedere un lieto fine.

    Volta per volta, lo strumento solista si sostituisce alla narrazione attraverso la descrizione di uno stato d’animo oppure, quando non ci sia narrazione ma semplice rappresentazione dello stato d’animo (come nel caso della prima e della quarta metamorfosi), si fa creatore di una nuova lingua, diversa e complementare alla favella umana, perché direttamente capace di convogliare le emozioni e i sentimenti, senza ricorrere alle parole e al discorso razionalmente costruito. Ecco, una per una, le sei composizioni:

    Pan

     

    Fetonte

     

    Niobe

     

    Bacco

     

    Narciso

     

    Aretusa

     

    Per un’analisi dei temi musicali si può vedere l’articolo reperibile in open access alla pagina

    http://www.idrs.org/publications/controlled/DR/JNL20/JNL20.Mulder.html

    Di Britten e della cultura classica si occupa, proprio a partire dalla composizione che ci interessa, il volume di Lucy Walker, Benjamin Britten. New Perspectives on his Life and WorkAldeburgh 2009, che dedica all’argomento l’intero quarto capitolo.