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  • Le piante delle Bucoliche – III

    Le piante delle Bucoliche – III

    La terza egloga presenta la gara pastorale fra Menalca e Dameta, sotto l’arbitrato di Palemone. L’egloga è nettamente divisa in due. La prima parte vede il litigio, in presa diretta, fra i due pastori, incontratisi casualmente, passati rapidamente agli insulti reciproci, e alla fine pronti a dimostrare il proprio valore sfidandosi nel canto. La seconda parte, nella quale includerei anche le due battute di Palemone, è la gara di canto propriamente detta. Lo svolgimento è amebeo, a botta e risposta, e si estende per dodici battute di due versi ciascuna, per un totale di 48 versi. Palemone prima della gara ne fissa le regole, dimostrando però nello stesso tempo la propria abilità di cantore, e quindi la sua competenza a farsi giudice. Nella battuta finale, che suggella l’egloga, dichiara il verdetto: i due pastori si equivalgono, ed è impossibile scegliere l’uno piuttosto che l’altro. Palemone sancisce la fine della gara con una metafora agreste, v. 111: claudite iam rivos, pueri; sat prata biberunt, “chiudete i canali di irrigazione dei campi, perché l’acqua con cui sono stati irrigati i campi è sufficiente”. Il verso, nella sua interezza, o nelle due parti di cui si compone, è poi divenuto proverbiale.

    Per il resto, distinguerei fra le due parti di cui si compone l’egloga. Nella cornice i riferimenti agresti non mancano, ma non assumono particolare importanza o specificità. Sul luogo dell’incontro, ad esempio, e sull’ambientazione topica dell’egloga, nulla ci viene detto. Nella serie di insulti che i due pastori si scambiano, vv. 10-11, Menalca accusa Dameta – in un modo un po’ tortuoso, ma comunque abbastanza esplicito – di avere danneggiato le viti novelle di Micone (un terzo personaggio che resta ignoto: il nome, che ricorre nella settima egloga, v. 30, potrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo, a indicare un giovane ragazzo), con una mala falx, una falce ‘maligna, malevola, che agisce male’, per dispetto o, più probabilmente, per gelosia. Della vite e della sua coltivazione già sappiamo abbastanza dalle altre egloghe, ed è ovvio che tagliare i tralci quando sono ancora in crescita è un gesto poco amichevole. Vittima dell’ira di Dameta, assieme alle viti, è anche un generico arbustum, un cespuglio di non si sa cosa, forse l’intrico stesso delle viti, specificato subito dopo. A ricambio dell’insulto, Dameta accusa Menalca di avere distrutto volontariamente, per esplicita gelosia, l’arco del giovane Dafni, che era stato regalato al ragazzo da qualche non precisato rivale (magari anche lo stesso Menalca?). L’azione sarebbe avvenuta, vv. 12-15, ad veteres fagos, “sotto i vecchi faggi”, pianta che ormai sappiamo essere un elemento costante del paesaggio virgiliano. In questa sezione dell’egloga troviamo una sola pianta finora sconosciuta. Al v. 20 Menalca accusa Dameta di avere rubato a un altro pastore, Damone, il caprone che quello aveva guadagnato in una gara di canto e di essersi poi nascosto, durante la fuga e l’inseguimento, post carecta, ‘dietro i carici’. Dameta non nega il fatto, ma afferma che il caprone spettava a lui, e che Damone aveva vinto la gara senza meritarlo davvero. A noi comunque interessa il termine carecta. E’ un neutro collettivo, sul modello di salictum = salicetum, ossia la macchia di salici, nella prima egloga, v. 54. La pianta, di cui si individua una macchia, propriamente si chiama carex, e da Linneo è stata identificata con un genere di Ciperaceae, piante acquatiche, o comunque adatte a vivere su substrati umidi, che si rinvengono facilmente negli stagni e nei terreni acquitrinosi. Sono spesso piante infestanti dei tappeti erbosi abbondantemente irrigati e si distinguono per il colore chiaro, la compattezza, le foglie coriacee. Si trovano un po’ dovunque, specie nelle zone temperate. Virgilio ne riparla nelle Georgiche, 3.231, definendo la carex come acuta e come possibile pasto di un toro rimasto separato dal resto della mandria, proprio perché è pianta molto diffusa, ma che non si trova su terreni comuni. Nel nostro caso, è quindi come se Dameta si fosse nascosto, per eludere gli inseguitori, in qualche palude, celandosi nella vegetazione di contorno alla stessa, sapendo bene che nessuno l’avrebbe inseguito in un luogo così disagevole.

    (carex elata)

    Nella fase di cornice c’è un’altra apparizione del mondo vegetale. I due pastori, sfidandosi, decidono che cosa mettere in palio, come premio per il vincitore. Dameta propone una vitella della mandria che sta pascolando (è il premio che poi verrà scelto, e che a Dameta, pastore mercenario, che sta pascolando una mandria non sua, in fondo non costa molto). Menalca non accetta subito, perché teme di dover rendere conto dell’animale eventualmente mancante, al padre e alla matrigna, che a sera contano il bestiame. Propone allora delle tazze di faggio, cesellate con varie figure. Attorno a due personaggi umani (uno è l’astronomo Conone, l’altro non si sa bene chi sia), il fregio continuo è fatto di tralci di vite mescolati a foglie di edera. Della vite sono messi in evidenza i corymbi, ossia l’infiorescenza a grappolo. L’edera è pallens, il che individua l’hedera helix, a foglia bianca centrale, che è specie ornamentale e di maggior pregio.

    (infiorescenza della vite)
    (hedera helix)

    Dameta non accetta la proposta, perché è già in possesso di due tazze di uguale valore e uguale materiale, cesellate con l’immagine di Orfeo che trascina le selve con il canto e, come fregio continuo, con foglie d’acanto. L’attributo mollis, ‘flessuoso’, con cui Virgilio designa questa pianta, indicandolo così come adatto a un fregio che contorni la struttura circolare di una tazza, identifica l’attuale Branca ursina, una pianta acclimatata in Italia come pianta ornamentale dei giardini (i capitelli corinzi, com’è noto, ne riproducono le foglie). L’acanto cresce in terreni incolti e aridi, sotto forma di macchie di cespugli, dal livello del mare fino ai 700 m circa di altitudine. Le foglie erano usate fin dall’antichità contro le irritazioni cutanee, e anche per questo la sua coltivazione è sempre stata abbastanza diffusa.

    (acanto in fiore)

    Venendo alla parte propriamente detta della gara, va tenuto conto del carattere molto stilizzato della stessa. Già Palemone, nella sua battuta introduttiva, vv. 55-57, fa riferimento ad elementi piuttosto generici, per descrivere un locus amoenus entro cui svolgere il confronto: parla di mollis herba, di ager e arbos che parturiunt (una bella, ma facile metafora), di silvae che frondent, di annus (‘stagione’) formosissimus. Il primo termine agreste lo troviamo in un distico di Menalca, vv. 62-63, che ricorda alloro e giacinto come piante sacre ad Apollo (in alloro si metamorfizzò Dafne, vanamente amata dal dio; Giacinto era un giovane amato anch’esso da Apollo, e da questi inavvertitamente ucciso). Il giacinto è qui raffigurato come suave rubens, ‘rosseggiante’

    Dameta, vv. 64-65, ricorda invece la bella e vezzosa Galatea, che ama provocare i suoi possibili innamorati lanciando loro delle mele, per farsi notare, ma fugge poi, ritrosa quanto si conviene a ragazza di buoni costumi, a nascondersi fra i salici, quei cespugli vicini ai corsi d’acqua e delimitanti le proprietà romane, che già conosciamo dalla prima egloga, e che ben si adattano a Galatea, specie se Galatea fosse la ninfa marina, e non una qualsiasi pastorella (un dubbio che nell’egloga permane). Peraltro, Galatea si nasconde sì, come convenzione sociale vorrebbe, ma fa in modo che il pastore veda bene dove si è nascosta, e possa quindi facilmente raggiungerla e proseguire i loro giochi.

    In uno scambio di distici dedicati ai doni per gli amanti, Menalca ai vv. 70-71 promette di inviare a un suo puer non meglio identificato dieci mala aurea tratti da un albero silvestre, e altri dieci gliene promette per il giorno dopo. E’ discusso se si debba pensare a mele rosse molto appariscenti, di particolare maturazione e brillantezza; alle mele dorate delle Esperidi (un frutto mitologico); a qualche altro frutto specifico, e diverso dalle mele comuni, come potrebbero essere le mele cotogne, cydonia oblonga – anche se il loro sapore aspro le rende improbabili come pegno d’amore, ed è solo con la cottura che si enfatizza in loro la presenza degli zuccheri, utilizzati ad esempio per la cotognata, un dolce di carattere gelatinoso.

    (pianta di mele cotogne)

    Nei distici dei vv. 80-83 i due contendenti paragonano i rispettivi amati, Amarillide e Aminta, a cosa spiacevoli il primo (perché Amarillide è descritta irata), a cose piacevoli il secondo (perché Aminta è ben disponibile alla compagnia). Nell’elenco molti sono i riferimenti agresti: il vento è pericoloso per gli alberi, la pioggia per le messi pronte al raccolto; d’altra parte, ai campi coltivati piace l’irrigazione, alle pecore la lenta salix, il salice flessuoso, ai capretti l’arbutus. Si tratta dell’arbutus unedo, o ‘corbezzolo’ e ‘albatro’, una pianta cespugliosa sempreverde, molto frequente nella macchia mediterranea, dai frutti rossi e gialli, ma dai colori comunque sempre vivaci, commestibili e dolci al gusto.

    (cespuglio di corbezzolo)
    (il frutto del corbezzolo)

    In un makarismos indirizzato ad Asinio Pollione, protettore del poeta al tempo della composizione delle Bucoliche, Dameta si augura che in onore del suo patronus il miele possa scorrere a rivi, e l’ispido rovo – probabilmente la mora selvatica, ma il termine come già sappiamo è generico – possa produrre l’amomo, v. 89. Si tratta evidentemente di un adynaton. Quanto il rubus è senza pregio, tanto l’amomo, il cardamomo odierno (elettaria cardamomum), è frutto prezioso, di origine orientale, dai piccoli semi di sapore aromatico e bruciante, utile contro tosse, raffreddore, infiammazioni gengivali e mal di denti.

    (pianta di amomo)
    (frutti e semi)

    Al v. 82 Dameta invita dei non meglio identificati pueri, usciti per cogliere le fragole di bosco, a stare attenti al serpente (probabilmente, una vipera) che si nasconde / si può nascondere nell’erba.

    (fragaria vesca silvestris)

    Al v. 100 Dameta lamenta infine che il suo toro rimanga magro nonostante non gli manchi il pascolo. La causa di tale magrezza viene individuata nella passione amorosa, anticipando tutta quella sezione delle Georgiche in cui proprio gli amori fra bovini assurgono a simbolo della forza e della follia della passione amorosa. I codici parlano di un toro macer nonostante sia pingui in arvo o, a seconda dei testimoni, pingui in ervo. Quest’ultimo sembra il termine più esatto: arva per Virgilio sono di norma i campi coltivati, arati. Ervum è invece la moderna vicia ervilia, o vecciola, una leguminacea – dunque, una pianta ad alto valore nutritivo – simile alle lenticchie, ma soprattutto ancora oggi usata come mangime di alto potenziale per ovini e bovini.

    (vicia ervilia)

    Siamo all’ultimo passaggio. La gara si conclude con due indovinelli, che, nonostante i molti tentativi fatti, non hanno ancora trovato piena spiegazione. Dameta chiede quali siano le terre in cui il cielo è visibile per uno spazio non più vasto di tre ulne (alias tre cubiti: un cubito misura ca. 50 cm). Menalca risponde chiedendo in quali terre nascano i fiori che recano iscritto il nome dei re. Su quale fiore sia così individuato, non esiste dubbio: è il giacinto, che già conosciamo, e nei cui petali gli antichi vedevano le iniziali YA- e AY- dei nomi di Giacinto, appunto, e Aiace. Poiché però il fiore aveva, secondo il mito greco, questa doppia origine, dall’uno o dall’altro eroe, nell’incertezza di quale sia la soluzione caldeggiata da Menalca, l’indovinello resta forzatamente senza risposta.

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Et in Arcadia ego…

    Et in Arcadia ego…

    Et in Arcadia ego è il titolo di una costante iconografica diffusa soprattutto nella pittura del XVII secolo. Da quel titolo, divenuto proverbiale, nel 1936 il critico e letterato Emilio Cecchi trasse lo spunto per le proprie memorie relative a un viaggio compiuto in Grecia due anni prima, nel 1934; il libro, tuttora reperibile in commercio, descrive la visita di Corfù, Creta e in particolare Cnosso, Delfi, Micene, Corinto e parte del Peloponneso, e infine Atene, in cerca delle più importanti tracce artistiche e archeologiche. E’ un’interessante testimonianza sulla Grecia dei tempi andati, nella quale – va sottolineato – il gusto del pittoresco, dello stereotipo folclorico e folcloristico, si mescola in continuazione con folgoranti intuizioni delle tracce lasciate dalla storia più moderna. Quanto all’iconografia propriamente detta di Et in Arcadia ego, essa è stata fatta oggetto di studio nel bel volume di Petra Maisak, Arkadien. Genese und Typologie einer idyllischen Wunschwelt, Frankfurt a.M./Bern 1981. Qui mi occuperò solo delle due attestazioni più comuni del tema: il dipinto di Poussin conservato al Louvre di Parigi, e datato 1639; il dipinto di Guercino, oggi facente parte della collezione di Palazzo Barberini a Roma, datato 1618-1622 (la datazione precisa è incerta, ma oscilla fra questi due estremi). Si tratta di due riletture dello stesso tema: a indicare la propria presenza in Arcadia, supposta come un’isola felice secondo una vulgata che non è di Virgilio, ma che risale a un certo modo tipicamente rinascimentale di interpretare e semplificare le egloghe di Virgilio, è la morte. Per quanto piacevolmente si possa vivere in Arcadia, i pastori scoprono, con curiosità e sgomento, che anche in quella sorte di paradiso terrestre ha spazio la morte. Erwin Panofsky nel 1939 scrisse un celebre saggio per mettere in evidenza l’ambiguità dell’espressione, che può riferirsi sia a un generico e generale Memento mori, sia alla persona specifica della quale si scopre la tomba (e che in questo caso si immagina essere l’artista che ha realizzato il dipinto). Come a dire: anche in Arcadia si trova la morte; oppure, anch’io, benché arcade e quindi eccelso nelle mie capacità artistiche, ho trovato la morte. Poussin sintetizza tutto questo in una scena ariosa e monumentale, che descrive il rinvenimento di un sarcofago di dimensioni da mausoleo (che, se accettiamo la prima interpretazione del titolo, potrebbe essere il sepulchrum Bianoris citato da Virgilio nella nona egloga, v. 60; oppure, la tomba di Dafni, rievocata – ma con diverso epitaffio – nella quinta egloga, vv. 42-44). Come che sia, i pastori, incuriositi e stupefatti, misurano le dimensioni dell’ampia costruzione, ne leggono l’iscrizione, mettendo un dito nelle lettere incise, così da seguirne più agevolmente la struttura; indicano la tomba a una figura femminile enigmatica (secondo alcuni una pastorella; secondo altri, una dea, o forse la Sibilla abitatrice anch’essa, in Virgilio, di antiquae silvae), e per suo tramite a noi. Una precedente versione dell’opera, più piccola di dimensioni e più raccolta nell’iconografia, mostra invece una tomba seminascosta, e non en plein air, e un atteggiamento più vivo e meno teatrale nei diversi pastori. Questo secondo (ma cronologicamente primo) dipinto, oggi conservato a Chatsworth House, nel Derbyshire, è fatto comunemente risalire al 1627, e sembra quindi una reazione abbastanza immediata e vicina al dipinto di Guercino, specie ricordando che Poussin, trentenne, nel 1624 era venuto a Roma, ospite proprio di quel cardinale Antonio Barberini nei cui appartamenti il dipinto di Guercino probabilmente già si conservava, sebbene Panofsky abbia individuato il committente dell’opera in Giulio Respigliosi, futuro papa Clemente IX, amico e collaboratore del Barberini (e anche sebbene il dipinto non sia citato nei cataloghi di Palazzo Barberini prima del 1644).

    (Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego o I pastori arcadi, 1639, Parigi, Museo del Louvre)
    (Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego, 1627, Chatsworth House)

    Quanto al dipinto di Guercino, la scena lì è più cupa. Due pastori rinvengono un teschio, sotto il quale appare l’iscrizione che conosciamo. L’ambiente è poco propizio: le selve incombono scure, tenebrose; non c’è affabilità di paesaggio, e solo sullo sfondo si apre un’immagine di luce, in un chiarore che ha però qualcosa di pretemporalesco. Anche i due pastori, perfettamente vestiti, senza figure femminili di accompagnamento (come invece avveniva nell’uno e nell’altro dipinto di Poussin), senza pose monumentali o teatrali, drappeggi pesanti e neoclassici, atteggiamenti da numi olimpici più che da pastori reali o realistici, mostrano una serietà e una seriosità che ben si adatta al messaggio complessivo del quadro, qui sicuramente da interpretare nella direzione di una presenza della morte perfino nei territori dell’Arcadia. Il teschio è elemento ricorrente nelle nature morte del XVII secolo e nel programma iconografico che va sotto il titolo di Vanitas vanitatum, del quale si conservano in tutti i musei numerose attestazioni; sul teschio di Yorick, lo ricordiamo, pochi anni prima, nel 1602, William Shakespeare aveva fatto pronunciare ad Amleto il suo Alas, poor Yorick ! I knew him, Horatio!. 

    (Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Et in Arcadia ego, ca. 1620, Roma, Galleria Nazionale d’arte antica, sede di Palazzo Barberini)

    Esiste però anche un’altra interpretazione dell’Arcadia, più in linea con la visione tradizionale dell’Arcadia come terra felice, di canti, amori, luminosi paesaggi, contrasti sanati. Ne offro due esempi. Il primo è un quadro del pittore russo Konstantin Makovsky, realizzato nel 1890, e oggi parte di una collezione privata. Nato a Mosca nel 1839, Makovsky è il tipico pittore ottocentesco (leggermente attardato, magari, rispetto alla tradizione dell’Europa occidentale), che si concentra prima su temi storici della Grande Patria Russa, poi su cartoline di genere, che dovrebbero cogliere l’anima folclorica e il vero spirito della suddetta Grande Patria. Arcadia felix, il quadro che ci interessa, fa un po’ eccezione nella sua produzione. L’Arcadia è vista come terra di pastori che suonano e cantano (sono ben in evidenza gli strumenti musicali: nei dipinti di Guercino e Poussin, se mancavano le greggi, mancavano però anche i ferri del mestiere di musici), che ballano e danzano, fra ninfe compiacenti e discinte, corpi giovani ed allettanti, elementi della tradizione dionisiaca (la tigre/pantera sulla destra del quadro), declinata in chiave erotico-sentimentale (a reggere le briglia dell’animale selvatico non è Bacco, ma un Amorino). Siamo davanti a una raffigurazione sincretica e simbolica dell’età dell’oro, con tanto di contrasti di Natura ormai felicemente appianati, più che a una rappresentazione dell’Arcadia, o anche solo del mondo virgiliano, o di ciò che del mondo virgiliano si poteva banalmente pensare.

    (Konstantin Makovsky, Arcadia felix, 1890, collezione privata)

    L’ultimo quadro che presento è opera del pittore americano Thomas Eakins. Nato nel 1840, Eakins, a parte un viaggio di studio in Europa, visse pressoché sempre nella nativa Filadelfia, della quale ritrasse scene e personaggi famosi (incluso il padre, insegnante di materie classiche). Arcadia, il dipinto che qui ci interessa, esiste anch’esso in due versioni. Nella prima, risalente al 1883 e oggi conservata al Metropolitan Museum di New York, la futura moglie del pittore, Susan Macdowell, il piccolo nipote Ben Crowell (figlio di una sorella) e un giovane allievo, James Laurie Wallace, tutti e tre piuttosto discinti, abitano, perdendosi in esso, un immenso paesaggio bucolico. I due giovani suonano uno strumento (rispettivamente, il flauto di Pan e la zampogna), mentre la donna, estasiata, di spalle allo spettatore, ma rivolta verso i due suonatori, ascolta, ninfa beata, il concerto a lei riservato. Nella seconda versione, ritenuto in genere un bozzetto preparatorio del quadro maggiore, appare invece solo la donna, drappeggiata in abito antico. Il quadro oggi fa parte di una collezione privata, e si data ovviamente agli stessi anni del dipinto maggiore. In vari musei americani si conservano anche diverse fotografie preparatorie, realizzate da Eakins per poter disporre nello studio di modelli adeguati, secondo una tecnica di cui proprio lui è considerato il principale inventore. Dell’Arcadia, anche qui più tradizionale che realmente virgiliana, viene sottolineato, nei dipinti, la capacità di realizzare una perfetta sintonia uomo/Natura, al punto che l’elemento umano, pur al centro del quadro, si perde nella complessità del paesaggio, che lo assume e quasi lo assorbe in sé.

    (Thomas Eakins, Arcadia, 1883, Metropolitan Museum of New York)
    (Thomas Eakins, An Arcadian, ca. 1883, collezione privata)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Percontationes Impossibiles III

    Percontationes Impossibiles III

    Rapida intrat Dido, furens et multis variisque affectibus mota. In dextera magnam phialam tenet, in qua “Valium” inscribitur. Ex ea saepe  bibit.

    PERCONTATOR  Nunc venit Dido. Quem nostrum non miseret illius infelicissimae  mulieris, ab Aenea reiectae? Quae…

    DIDO Salvete, salvete!!!  Magno honori vobis est mulierem coram videre, quae sola imperium maximum condidit! Semper equidem  omnes calamitates superavi. Semper. Ego semper conata sum progredi, perferre, obdurare, postquam Sychaeum meum perdidi, quamquam ipsa fratris manus nefarias infando sanguine aspersas vidi. Et cum paucis comitibus in terram ignotam, in Africam, perveni, ego, mulier, vidua ac peregrina: ego magnam Karthaginem condidi.

    P. At…  

    D. …at omnes sciunt me, me solam, valuisse Iarbam, potentem regem, decipere et vincere, callida fraude usam.

    P.  Quod notissimum est. Sed hodie hic sumus ut de alia re loquamur, id est de coniugio tuo cum Aenea…  

    D. Ah certe, meum mellitum, miserum Aeneam!… Invicem toto corde, tota anima nos amabamus… Memini illum diem, cum in lacertis eius multas per horas iacui, in illa spelunca, adsiduo imbre…  Ita, ita…

    P.  Certe, scimus quid evenerit… Sed scire volumus quid senseris, quid tum passa sis, cum ab Aenea relicta esses.

    D. Sed… Minime, minime!!! Ille me non reliquit! Tantum coactus est, fato oboediens, ut a me abiret. Corpus  abiit, cor eius numquam me reliquit… Equidem, numquam destiti eius menti adesse die nocteque, in eius somniis vivere, in eius animo esse… Semper ei cordi fui… Vergilius ille dixit Non mea sponte Italiam peto. Fatum eum coegit, abduxit, abstraxit…

    P. Nobis aliter videtur: nam Vergilius Aeneam finxit dicentem: urbem Troiam colerem, si fata meis auspiciis paterentur

    D.  Ita ita, certe…  Verum. Certe, ita dixit cum  sibi persuadere conaretur amorem suum erga me nihili esse. Multum ille et terris iactatus et alto vi superum

    P. Neque tamen comis neque humanus fuit, qui tam male se gessit erga mulierem quae eius coniunx fuit…

    D. Verum non est! Minime! Dolor eius acrior, asperior, acerbior erat, cum tot et tantas calamitates passus esset! Minime! Ille  re vera me amabat! Certe me amabat! Et adhuc me amat!… Ego verum Phoenissa sum, humani sacrificii consuetudine adsueta, humanum sacrificium saepe mihi venit in mentem, …. parvolus Ascanius in pulchra olla… Nonne novisitis Medeam? Medea, deliciae meae, dic, dic mihi: quomodo pueri necantur? Sed nihil sine vitio est, attamen semper speravi eum ad me rediturum esse! Utinam ille mortuus ante tempus non esset!

    P. Sed tu iam mortua eras! Ergo, cur mortem tibi dedisti?

    D.  Desperatione adducta id feci, non solum ob dolorem Aeneae fugae: Iarbae copiae Carthaginis moenibus imminebant, regnum meum in periculo versabatur, fatum ipsum adversum esse videbatur, et ego id pati iam non poteram…

    P. Sed Vergilius hoc non dicit. Alia scribit. Ille, nimio dolore affectam, te tibi mortem conscivisse narrat. Constat Aeneam terram perignotam quam Carthaginis regnum maluisse.

    D. Quisnam Vergilius??? Ille pusillus, putidus poeta?…  Ille potest de pastoribus, de pecoribus, de pecudibus, de ovibus, de avibus, fortasse etiam de apibus canere – non de me, muliere magni animi. Sed vos non vultis me audire! Non vultis intellegere! Numquam intellegetis! Cur, cur huc veni? Nihil intellegis, stulte! (exit)

    P. Grati sumus reginae Didoni quae ad nos hodie venit..ehm…salvete omnes.

  • Mitomania e mitomani III

    Mitomania e mitomani III

     

    I casi esaminati in precedenza possono essere ritenuti esemplari di una mitografia (Catullo crea il mito “Catullo”, ossia il mito del giovane poeta vittima di amici ed amanti, costruito da Catullo il poeta; Virgilio crea il mito del mondo bucolico tormentato da Amore, di cui Coridone è solo il primo esponente), ma non di una mitologia. Vorrei allora dedicare quest’ultimo post a personaggi mitologici, la cui possibile mitomania è svelata o dalla contraddizione fra quanto essi affermano e quanto ci ha detto in precedenza il narratore (come nel caso di Coridone  e “Virgilio”, il narratore della seconda egloga), o dalla contraddizione fra quanto essi affermano e quanto ci ha detto una tradizione mitografica precedentemente attestata con sufficiente forza per divenire agli occhi del lettore Verità.

    Parto ancora una volta da Catullo, più esattamente dal carme 64. Ne do qui per scontata la struttura: in occasione delle nozze fra Peleo e Teti, descritte realisticamente come tipiche nozze romane, al momento della presentazione dei doni per gli sposi il Narratore esterno si sofferma a descrivere una coperta fittamente ricamata. La coperta a poco a poco prende vita, o meglio prende vita la situazione narrativa delineata dai ricami, con una voce esterna, il narratore, e una interna che a un certo punto prende a sua volta la parola. Si tratta di Arianna, abbandonata da Teseo sulle coste di Nasso, che si lamenta del proprio crudele destino. Cosa ci dice di Teseo Arianna? Ovviamente, che è perfidus, ìmmemor e crudelis, cioè usa sostanzialmente gli stessi aggettivi che abbiamo visto utilizzati nel carme 30 per Alfeno. Come questi, anche Teseo, a detta di Arianna, non è stato ai patti: ha preso quello che gli serviva, ma si è liberato della zavorra non appena possibile. Ha fatto dei promissa, ha lasciato sperare qualcosa (iubere), e ha permesso poi che i venti portassero via le sue promesse (tutte espressioni ricorrenti anche nel carme 30). Lei è invece la vittima, vittima di un foedus non rispettato, un foedus che si immaginava stabile, ma che la controparte ha brutalmente tradito, venendo meno a un investimento sentimentale ed emotivo di Arianna, e facendo crollare speranze e certezze (vv. 132-142):

    “Sicine me patriis avectam, perfide, ab aris
    perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?
    Sicine discedens neglecto numine divum,
    immemor a! devota domum periuria portas?
    Nullane res potuit crudelis flectere mentis
    consilium? tibi nulla fuit clementia praesto,
    immite ut nostri vellet miserescere pectus?
    At non haec quondam blanda promissa dedisti
    voce mihi, non haec miserae sperare iubebas,
    sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos,
    quae cuncta aereii discerpunt irrita venti…”.

    Nel seguito Arianna non fa che ripetere il lamento, solo dando carattere via via sempre più generale alle sue considerazioni (così non si comporta solo Teseo, ma tutti gli uomini maschi), arricchendo sempre di più anche l’elenco delle proprie passate benemerenze (vv. 143-153):

    Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,
    nulla viri speret sermones esse fideles;
    quis dum aliquid cupiens animus praegestit apisci,
    nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt:
    sed simul ac cupidae mentis satiata libido est,
    dicta nihil metuere, nihil periuria curant.
    Certe ego te in medio versantem turbine leti
    eripui, et potius germanum amittere crevi,
    quam tibi fallaci supremo in tempore dessem.
    Pro quo dilaceranda feris dabor alitibusque
    praeda, neque iniacta tumulabor mortua terra.

    Che cosa ci aveva però detto il Narratore di Teseo, e dei patti intercorsi fra i due amanti? Di Teseo, nella presentazione, si dice solo bene (vv. 81-85):

    Ipse suum Theseus pro caris corpus Athenis
    proicere optavit potius quam talia Cretam
    funera Cecropiae nec funera portarentur.
    Atque ita nave levi nitens ac lenibus auris
    magnanimum ad Minoa venit sedesque superbas.

    Di fronte alla difficoltà della patria (gli Ateniesi devono pagare un tributo di sangue a Minosse, re di Creta e padre di Arianna), Teseo si impegna in prima persona, come vuole l’etica romana; espone se stesso (suum corpus proicere optavit); pensa solo a vincere o a morire, se mai dovesse fallire. Di giochi d’amore non si fa parola, se non per dirci che è Arianna che, giovane e inesperta, non appena vede Teseo se ne innamora, perde la testa, non sa più chi sia e dove sia, exarsit e incenditur, sospirando, languendo, impallidendo, balbettando – tutti i signa amoris che ben conosciamo e ben conoscono i lettori di Catullo (vv. 86-102).

    Hunc simul ac cupido conspexit lumine virgo
    regia, quam suavis exspirans castus odores
    lectulus in molli complexu matris alebat,
    quales Eurotae praecingunt flumina myrtus
    aurave distinctos educit verna colores,
    non prius ex illo flagrantia declinavit
    lumina, quam cuncto concepit corpore flammam
    funditus atque imis exarsit tota medullis.
    Heu misere exagitans immiti corde furores
    sancte puer, curis hominum qui gaudia misces,
    quaeque regis Golgos quaeque Idalium frondosum,
    qualibus incensam iactastis mente puellam
    fluctibus, in flavo saepe hospite suspirantem!
    Quantos illa tulit languenti corde timores!
    Quanto saepe magis fulgore expalluit auri,
    cum saevum cupiens contra contendere monstrum
    aut mortem appeteret Theseus aut praemia laudis!

    Anche dei patti non si fa parola. Il Narratore si limita a mettere in evidenza l’investimento forsennato, eccessivo ed unilaterale della principessa cretese, che con il suo labellum (il diminutivo assicura che sia il suo) offre doni agli dèi e fa voti per la vittoria di Teseo, fino a mettergli in mano il ben noto filo (vv. 103-104):

    Non ingrata tamen frustra munuscula divis
    promittens tacito succepit vota labello.

    Così armato, Teseo vince la lotta contro il Minotauro e vince la lotta contro il Labirinto, forse anche più difficile della prima (vv. 110-115):

    Sic domito saevum prostravit corpore Theseus
    nequiquam vanis iactantem cornua ventis.
    Inde pedem sospes multa cum laude reflexit
    errabunda regens tenui vestigia filo,
    ne labyrintheis e flexibus egredientem
    tecti frustraretur inobservabilis error.

    Naturalmente, il filo è stato dato ed accettato, quindi un qualche accordo ci deve essere stato. Ma quali siano i termini dell’accordo il Narratore non lo dice. Le ragioni di ciò possono essere molteplici, anche solo di tecnica narrativa (ellenistica). Resta però che i foedera pattuiti ai quali Arianna si appella nel suo lamento, nella narrazione non ci sono. C’è lei che si sbilancia; c’è un filo che viene dato ed accettato, ma non ci sono le condizioni di questa accettazione. Anche la narrazione della partenza è piuttosto sbrigativa, e anch’essa si svolge tutta dalla sola parte di Arianna (vv. 116-123):

    Sed quid ego a primo digressus carmine plura
    commemorem, ut linquens genitoris filia vultum,
    ut consanguineae complexum, ut denique matris,
    quae misera in gnata deperdita laeta
    omnibus his Thesei dulcem praeoptarit amorem:
    aut ut vecta rati spumosa ad litora Diae
    aut ut eam devinctam lumina somno
    liquerit immemori discedens pectore coniunx?

    L’accoglienza  del punto di vista di Arianna, abbastanza indiscussa in tutta la critica (perché con gli occhi di Arianna la storia è stata raccontata da Catullo, naturalmente) ha determinato un passare sopra al controllo della veridicità delle parole di Arianna. Ma il poeta, in precedenza, ci ha detto che è lei a essere fuori di testa per amore. E allora, fino a che punto dobbiamo pensare che quanto ci dice sia vero, fino a che punto dovremo invece immaginare che, vittima di uno shock amoroso, di una delusione e una sovraesposizione sentimentale, non sia Arianna ad essere, più o meno coscientemente, preda della propria mitomania? Il dibattito è aperto…

    Il problema si ripresenta, anche più gravemente, con Virgilio. Nell’Eneide non mancano i narratori menzogneri: mentono di sicuro Giunone e la regina Amata, con quella che, seguendo Dupré, potremmo chiamare “mitomania maligna”; mente di sicuro Enea, che alla corte di Didone narra (o omette di narrare, a seconda dei casi) tutto ciò che gli conviene dire (o omettere), in accordo a quella che Dupré avrebbe chiamato “mitomania perversa”. Ma l’erede più diretta di Arianna è certamente Didone. Qui il narratore dice chiaramente che cosa pensa del comportamento della regina cartaginese. Nell’episodio fatale dell’incontro nella caverna, che dà inizio alla fase “attiva” dell’amore fra Didone ed Enea, egli chiama la resa di Didone una culpa (v. 172) e definisce “un pretesto” (per l’esattezza, usa il verbo praetexit) ogni riferimento successivo al coniugium. Ingannata dalle circostanze, e dal proprio stesso desiderio, Didone si crea nella propria mente una tipologia di legame che nella realtà non esiste, che è impossibile, e che Enea ha da subito indicato come tale. Questo è un passaggio che non andrebbe mai dimenticato (vv. 169-172):

    Ille dies primus leti primusque malorum
    causa fuit; neque enim specie famave movetur  
    nec iam furtivum Dido meditatur amorem:
    coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam.

    Il dettaglio invece viene spesso trascurato, per l’adesione sentimentale ed emotiva al punto di vista di Didone, che Virgilio ha voluto ci fosse, e nella quale normalmente cadiamo irretiti noi tutti. Ora, il problema è lungo e complesso, e non intendo sviscerarlo qui. Però c’è un dato significativo: il narratore ha espresso un esplicito giudizio; l’ha espresso quando l’irreparabile è appena avvenuto, e ancora non se ne conoscono appieno le conseguenze. La scelta di raccontare la vicenda successiva dal punto di vista della donna ci dice che Virgilio non assolve Enea; ma il verso in questione ci invita anche a dubitare di tutte le asserzioni successive di Didone. La regina cartaginese è senz’altro in torto, le sue pretese e argomentazioni sono nulle, rispetto alla verità della Storia (= Enea deve arrivare nel Lazio). Tutto quello che dice è fonte di suggestione ed auto-convincimento, reazione a uno shock emotivo non completamente gestito. Dunque, mitomania? Enea potrà ribattere, a ragione, vv. 358-359, nec coniugis umquam / praetendi taedas aut haec in foedera veni.  Su questo dettaglio il narratore non lo smentisce, e non lo smentisce nemmeno Didone nella sua replica, che pure lo rintuzza circa le altre parti del discorso. Certo, Virgilio è sempre un poeta sfuggente a troppo facili schematizzazioni: e la narrazione accosta questa verità, confermata dal giudizio di prima del Narratore, a quella che invece è una palese bugia di Enea, che nella stessa battuta dice (vv. 357-358): Pro re pauca loquar. Neque ego hanc abscondere furto / speravi (ne finge) fugam. E questo mentre invece noi lettori sappiamo che la fuga Enea aveva tentato sì di nasconderla, eccome!, vv. 288-295. Enea non è però un mitomane, è un (semi)bugiardo, con una verità certa e tante piccole bugie al servizio di quella; ma questo non cambia la situazione di Didone.

    Chi però meglio di tutti ha sviluppato il tema della mitomania “mitologica”, chiamiamola così, è certamente Ovidio. L’opera da prendere in considerazione sono, ovviamente, le Heroides. Come sappiamo, si tratta di lettere di eroine, quindici in tutto (le lettere doppie appartengono a una diversa tipologia, e qui non mi interessano). Tutte le eroine che scrivono appartengono al mondo del mito – tale è per me anche Saffo, la Saffo di Ovidio, quanto meno. Ognuna di loro si relaziona a fonti precedenti (Omero, Callimaco, Apollonio Rodio, Euripide e i tragici tutti, ma anche gli stessi Catullo e Virgilio, cui le lettere di Arianna e Didone chiaramente si rivolgono) e a miti ben attestati e sicuri – resi tali comunque dalla fonte precedente cui Ovidio guarda – e ognuna di loro cerca di convincere il suo uomo lontano, e spesso fedifrago (ma non sempre: Laodamia e Ipermestra, ad esempio, fanno eccezione, in parte anche Penelope) a tornare da lei. Vengo però alla mitomania, intesa come invenzione continuata e continua di bugie mitologiche. Le lettere sono lettere, non hanno quindi una cornice o un narratore che ci dica come dobbiamo leggerle. Ma i miti sono preesistenti. E preesistenti in una forma letteraria precisa, alla quale Ovidio guarda e con i cui interstizi si diverte a giocare. Veniamo a un  caso specifico. Ho scelto la lettera di Issipile a Giasone, la numero VI della raccolta. Siamo nel mito delle Argonautiche: Giasone a Lemno si è unito a Issipile, ha concepito con lei due gemelli (ma non lo sa), è partito spronato dai compagni per riprendere l’impresa del Vello d’oro. L’impresa è riuscita grazie all’aiuto di Medea, con la quale Giasone fugge verso la propria casa in Tessaglia. Il ritorno è lungo, lento, travagliato, e certamente non ripassa da Lemno. Dalla Tessaglia giunge sull’isola un hospes, che racconta a Issipile del ritorno dell’eroe in patria; lui sta ben attento a quello che dice, ma prima della fine si tradisce: Giasone è tornato con Medea, tenendosi ben lontano dall’isola. Ciò significa che Issipile per Giasone rappresenta ora, al massimo, un lontano ricordo. La donna decide perciò di prendere lo stilo in mano, e scrive la sua lettera.

    Le eroine di Ovidio sono tutte grafomani, raccontano molte cose… Issipile racconta la vicenda del suo incontro con Giasone. Le donne di Lemno avevano ucciso tutti gli uomini dell’isola. Quando vedono avvicinarsi gli Argonauti non sanno bene come accoglierli. C’è un’assemblea, in cui prevale il parere di lasciarli sbarcare e fare finta di nulla, mentendo circa l’assenza di abitanti maschi. Non è però questa la posizione di Issipile, che sarebbe a favore del rifiutare lo sbarco ai marinai (vv. 51-54):

    Certa fui primo—sed me mala fata trahebant—
         hospita feminea pellere castra manu
    Lemniadesque viros—nimium quoque!—vincere norunt:
         milite tam forti vita tuenda fuit! 

    Questo dettaglio non è unico e sicuro in tutte le attestazioni della leggenda: Igino, ad esempio, non vi fa cenno, in Valerio Flacco, invece, le donne combattono contro gli Argonauti che si avvicinano all’isola. La notizia cui allude l’Issipile di Ovidio si ritrova solo in Apollonio Rodio, per quanto ne sappiamo: ed è perciò questo il segnale che, come l’epistola VII va letta sulla falsariga dell’Eneide, o la X su quella di Catullo (e la I su Omero ecc.), così questa dipende da Apollonio. Issipile, peraltro, è una signora facile alla costruzione mitografica anche nel resto dell’epistola. L’impresa di Giasone, della quale naturalmente lei ha solo notizie lontane e di riporto, la racconta nel testo per ben tre volte, in termini sempre diversi: la prima, di cui assegna la conoscenza a una generica fama, è tutta favorevole a Giasone (vv. 9-14): i buoi sputa-fuoco di Marte si sono lasciati aggiogare dall’eroe, i giganti si sono uccisi fra loro, il serpente/dragone, pur sempre vigile, è stato vinto dalla destra del giovane. La seconda, assegnata all’hospes tessalo è una ricostruzione un po’ meno gloriosa (vv. 31-40): ritroviamo le stesse azioni di prima, solo amplificate nella misura, con i boves Martis che arano il terreno docili, i terrigenae che si uccidono civili Marte, il serpente che si lascia incantare… Solo che, chiaramente, l’ultima e più gloriosa azione non è più merito di Giasone, mentre fa capolino, sia pure con un ruolo non ancora ben definito, la venefica paelex che lo accompagna, cioè Medea. La terza ricostruzione è, per Giasone, la meno onorifica di tutte. Qui l’eroe non solo è scomparso da qualsiasi azione gloriosa; ma ogni azione è assegnata all’intervento di Medea (vv. 97-98): è lei che coegit tauros iuga ferre, è lei che feros angues mulsit, in maniera oramai aperta e definitiva.

    Torno però, per concludere, a quanto avevo lasciato in sospeso, cioè la descrizione del soggiorno di Giasone a Lemno. Dopo il dettaglio che avevo segnalato (l’assemblea delle donne che decidono se e come accogliere gli Argonauti), dettaglio che – lo ripeto – serve sostanzialmente a mettere in evidenza la fedeltà di Ovidio ad Apollonio, Issipile rievoca la partenza degli Argonauti da Lemno, e in particolare l’atteggiamento tenuto da Giasone. In Apollonio la scena è questa: c’è un breve discorso di commiato, in cui l’eroe non promette nulla, ma ringrazia e saluta Issipile e le fa promettere che, in caso di nascita di un figlio, lo manderà appena possibile in Tessaglia, dai genitori dell’eroe, a Iolco. Poi Giasone sale sulla nave, primo di tutti gli Argonauti, dando il buon esempio agli altri. Quindi, la nave salpa, senza che nessuno dei suoi marinai si volti mai indietro. Ecco invece la descrizione che del soggiorno di Giasone a Lemno e della partenza del giovane fa ora Issipile (vv. 55-72):

    Urbe virum vidi tectoque animoque recepi.
         Hic tibi bisque aestas bisque cucurrit hiems. 
    Tertia messis erat, cum tu dare vela coactus 
         inplesti lacrimis talia verba tuis: 
    “Abstrahor, Hypsipyle. sed dent modo fata recursus;
         vir tuus hinc abeo, vir tibi semper ero. 
    Quod tamen e nobis gravida celatur in alvo, 
         vivat et eiusdem simus uterque parens!”
    Hactenus. et lacrimis in falsa cadentibus ora 
         cetera te memini non potuisse loqui. 
    Ultimus e sociis sacram conscendis in Argon; 
         illa volat, ventus concava vela tenet.
    Caerula propulsae subducitur unda carinae:
         terra tibi, nobis adspiciuntur aquae. 
    In latus omne patens turris circumspicit undas; 
         huc feror et lacrimis osque sinusque madent. 
    Per lacrimas specto cupidaeque faventia menti 
         longius adsueto lumina nostra vident. 

    Giasone è costretto a partire, non volendolo (in effetti, anche in Apollonio è Eracle, unico a non avere legami sentimentali sull’isola, che spinge alla partenza; ma Giasone accoglie prontamente l’invito), e viene molto rimarcata la mancanza di entusiasmo dell’eroe (coactus, abstrahor, implesti lacrimis sinum ecc.). Nel suo discorso, Giasone dà per certa l’esistenza di un figlio, pur non ancora partorito. Il figlio, naturalmente, rinforza il legame familiare fra i due, facendone dei veri coniuges. Giasone si allontana proclamandosi per sempre vir di Issipile (in Apollonio si guarda bene dal fare alcuna promessa). Egli, nel complesso, mostra quindi una grande emozione, mentre è piuttosto freddo e burocratico in Apollonio. Giasone sale inoltre sulla nave per ultimo, anziché non per primo, e dopo la partenza continua a tenere lo sguardo fisso verso terra e verso Issipile. Fra i due si instaura così un lungo legame di sguardi, che ricorda le coppie di più teneri amanti (nelle Metamorfosi Ovidio recupera questo dettaglio per la coppia di sposi ideali, Alcione e Ceice; nella poesia decadente ricordo solo il caso parallelo de LAmore dei tre re di Sem Benelli).

    Sono queste delle semplici varianti mitografiche? È una risposta possibile. Siamo di fronte a quel processo di trasformazione del materiale epico in materiale elegiaco che è tipico di Ovidio? Certamente anche questo, ma senza dimenticare che la trasformazione qui non la compie il narratore/Ovidio, ma un personaggio che parla. E Issipile vive, soffre, scrive la sua lettera, e nella lettera scrive cose di fuoco in nome della scena che abbiamo appena letto. Del suo essersi impressa nel (sub?)cosciente della donna. Del di lei crederla vera. Della convinzione di Issipile di essere, grazie ad essa, la legittima uxor di Giasone, e come tale di potersi presentare. In altre parole: di una verità “altra” che la donna si è costruita, cosciente o incosciente, senza che il confine fra le due cose possa essere delineato con troppa sicurezza – una verità “altra” che nel momento in cui lei scrive si è rivelata chiaramente fasulla (e infatti Issipile scrive la sua lettera), ma che diventa il falso (o la bugia?) nella quale Issipile fin lì si è rifugiata, costruendo attorno ad essa tutto un mondo, in cui cercare la sopravvivenza. Effetto, ancora una volta, di uno shock, e di quella che per la poesia di primo secolo a.C. mi sembra la sola, possibile ragione di shock: l’amore, che è furor, morbus, ignis, e che proprio per questo tutto spiega e tutto giustifica. In questa ottica andrà inserito dunque il discorso sulla mitomania dei personaggi catulliani, virgiliani, ovidiani. 

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Mitomania e mitomani II

    Mitomania e mitomani II

     

    Chi possiamo allora considerare mitomane nella letteratura latina? Una ventina d’anni fa, un geniale volume di Gian Biagio Conte, L’autore nascosto, Bologna 1997, ha riconosciuto la mitomania in Encolpio, il narratore in prima persona del Satyricon di Petronio. La formula ha avuto successo, ed è oggi un locus communis della critica su quel testo. Ma è la mitomania del personaggio un’invenzione da assegnare davvero a Petronio? Qui proporrò due esempi di mitomania nella poesia del I secolo a.C., la prima che ci sia documentata per intero nella tradizione latina. Nel prossimo e ultimo post della serie, mi occuperò invece di poeti “mitografi”, che però assegnano vistosi tratti mitomani ad alcuni dei loro personaggi.

    Andiamo con ordine, principiando dalla seconda egloga di Virgilio. In essa, com’è noto, Coridone canta il suo amore infelice per il giovane Alessi. Alessi è bello, vive in città, è il favorito del padrone; Coridone è un pastore che può offrire solo umili doni. Tuttavia, dal testo (nella sostanza, un canto di Coridone che si propone al suo amato per convincerlo a raggiungerlo nei campi, così da condividere la vita con lui) sembra che Coridone possa offrire molto, promette fiori e frutta a volontà, ha molte greggi, sa cantare con abilità, si dice bello e bravo. Solo che Alessi non lo ascolta, quindi nel finale Coridone dice di abbandonare ogni speranza e di volersi cercare un altro amante. La critica antica vedeva nelle egloghe delle vicende che rispecchiassero fatti biografici dell’autore: nella seconda egloga intravedeva quindi Virgilio innamorato del giovane Alessandro/Alessi, schiavo di Asinio Pollione. Oggi preferiamo considerare l’egloga soprattutto in relazione ai suoi modelli, in particolare l’idillio undicesimo di Teocrito, che narra l’amore di Polifemo per Galatea. Polifemo è un ciclope rozzo e mostruoso, non ha alcuna speranza con la bella Galatea, ma trova conforto nel canto. Questa storia viene utilizzata da Teocrito per consolare l’amico Nicia, medico, anche lui innamorato senza fortuna. Nell’egloga, tuttavia, Coridone non trova consolazione, ma solo uno sfogo; Virgilio sottolinea il dramma dell’amore di Coridone come passione bruciante, che si fa furor morbus, che non lascia tregua nemmeno nelle giornate più afose dell’anno (in Teocrito c’è invece una forte tinta comica, data dal fatto che Polifemo è notoriamente brutto e mostruoso, e solo lui può credersi bello, senza rendersi conto di quello che è). Anche in Virgilio, peraltro, Alessi, che vive in città, non può essere attirato dalla campagna: Coridone è rusticus e perdente da subito; anzi, Alessi è tuttora in città, e dunque il canto, seppure nominalmente rivolto a lui, da lui non viene nemmeno ascoltato, e per questo, per quanto Coridone possa usare belle parole, per quanti auto-elogi egli si possa fare, Alessi non lo raggiunge e non lo raggiungerà mai. Dunque, in definitiva, il canto di Coridone non serve a nulla, e sa fin dal principio di non servire a nulla (condizione essenziale perché si dia la mitomania). O meglio: serve solo al bisogno di rivalsa di Coridone, al suo – se vogliamo – narcisismo ferito. Il mondo descritto da Coridone è infatti un mondo assolutamente realistico, fatto di azioni e figure concrete, come concretamente descritte:sono le azioni e le situazioni che vediamo avvenire tutti i giorni (anche i nostri) nella campagna d’estate. Questo mondo assume però tratti irreali quando Coridone perde la ragione e inizia a mentire su se stesso. In quell’occasione c’è come un cortocircuito, i conti cominciano a non tornare più, non sappiamo nemmeno più dove ci troviamo, se in Sicilia o in altra parte d’Italia, la campagna e la natura perdono i loro tratti realistici, si vanno componendo (nelle parole di Coridone) come realtà altra e diversa dal reale, ma una realtà nella quale Coridone si presenta come totalmente immerso e alla cui esistenza sembra credere profondamente (altra condizione necessaria della mitomania, come dicevo nel primo post).

    L’egloga si compone di 73 versi; 68 costituiscono il canto di Coridone, i cui tratti, in modo un po’ sommario, ho delineato finora: ma i primi cinque versi sono pronunciati da un narratore esterno, e svolgono la funzione di introduzione. Il lamento di Coridone ha inizio solo dal v. 6. Cosa ci dice il narratore in quei cinque versi? Ecco il testo:

    Formosum pastor Corydon ardebat Alexin,
    delicias domini, nec quid speraret habebat.
    Tantum inter densas, umbrosa cacumina, fagos
    adsidue veniebat. Ibi haec incondita solus
    montibus et silvis studio iactabat inani.

    Vediamo di ricapitolare le informazioni:

    1. pastor, al v. 1, può significare poco, ma dominus al v. 2 è certo quello di Alessi. L’assenza di specificazione fa pensare tuttavia a un possibile padrone comune ai due pastori; in questa direzione sembra andare anche, nel canto di Coridone, la successiva allusione a un Iollas, v. 57, rivale del protagonista, ma ricco e potente, che potrebbe coincidere con il dominus citato qui. In ogni caso, dall’unione dei due passi si ricava che Coridone non è ricco, ha una differenza sociale anche con Alessi (da Finley in poi abbiamo imparato che non tutti gli schiavi sono uguali, e le gerarchie pesano anche fra di loro – le Bucoliche, già dalla prima egloga, lo ribadiscono con grande chiarezza): uno infatti vive nella domus del padrone (in città?), come deliciae domini; l’altro sta fra i faggi (in campagna) – la distanza di Alessi dalla campagna è un tema insistito anche nel seguito dell’egloga. Infine, la forte sottolineatura di formosum, a inizio di verso e di egloga, presuppone anche una differenza estetica fra Coridone ed Alessi, cui l’aggettivo si riferisce;
    2. Alessi non è lì, e Coridone anzi è solo;
    3. Coridone si trova sotto l’ombra di alcuni faggi, in una collocazione usuale per i cantori virgiliani (Tityre tu patulae…);
    4. Coridone ogni giorno si presenta nella medesima situazione (l’imperfetto in veniebat, l’avverbio adsidue), a ripetere il suo canto (situazione topica, non casuale e avvenuta una tantum);
    5. Coridone non ha speranza di successo (due volte, v. 2 e v. 5);
    6. ma il canto è la sua sola consolazione (tantum).

    Cosa ci dice invece Coridone nel suo canto?

    1. è ricco (vv. 21-22), bello (vv. 25-27) e ottimo cantore, vv. 23-24 – il narratore aveva invece parlato di incondita carmina;
    2. parla ad Alessi rivolgendoglisi in seconda persona, come se questi potesse ascoltarlo ed essere più o meno convinto dalle sue parole;
    3. vaga sconsolato nella campagna assolata, sotto la calura più ardente, nell’ora più terribile di un meriggio estivo, mentre è in corso la mietitura, e quando solo le cicale continuano a cantare fra i cespugli, mentre perfino le lucertole sono andate in estivazione (il narratore, invece, ci ha detto che Cordone è sotto i faggi e da lì non si muove, e l’indomani, come ogni giorno, tornerà sotto i faggi…);
    4. alla fine, Coridone dice di rinunciare, v. 73: il giorno dopo andrà in cerca, e certamente troverà, un altro e diverso Alessi (alius; il narratore ci ha detto che il giorno dopo sarà di nuovo lì, come tutte le giornate);
    5. la decisione del punto precedente scaturisce però dall’idea, fattasi chiara in lui, di non avere nessuna speranza di successo;
    6. in ogni caso, entro la fine del canto sa di poter trovare comunque una consolazione (un alius Alexis).

    Come si vede, le affermazioni del narratore sono “smentite” da Coridone punto per punto, o meglio sono contraddette dal canto di Coridone che fa delle affermazioni totalmente dissimili, spesso diametralmente contrapposte a quelle del narratore. Ma nella concezione antica, di stampo epico, è il narratore ad essere onnisciente, mentre il personaggio può anche mentire – e Coridone qui certo mente. Ecco perché il narratore all’inizio fa le affermazioni che sappiamo, ecco perché l’egloga non può riassumersi nel solo canto di Coridone, come pure ci aspetteremmo. In questo modo, il narratore fin dall’inizio ci mette in guardia dal non credere a Coridone e ne smentisce a priori tutte le affermazioni successive (facendo capire che sono solo parte di un canto, e un canto di un malato cronico). Ma quella di Coridone si può considerare una semplice menzogna a fine seduttivo, sul modello di quelle ovidiane? Direi di no, per alcune ragioni:

    – Coridone non sta realmente tentando di convincere Alessi, e anzi fa capire di sapere benissimo che non può convincere Alessi, perché Alessi non è presente, e dunque non lo ascolta. Il canto non viene raccolto da nessuno, e quindi non giungerà mai all’amato;

    – Coridone presenta ovviamente, come ogni innamorato che si rispetti, sé, le proprie azioni e il proprio mondo, abbellendo la realtà dei fatti: ma nel corso dell’egloga lui non si limita a qualche abbellimento, ma giunge a una serie di iperboli, di esagerazioni (canto meglio di Anfione, un mitico cantore; sono stato allievo diretto di Pan, il dio pastorale; vengo riconosciuto dai pastori come il solo degno di possedere la fistula che gli fu propria; sono più bello di Dafni, il bello per eccellenza del mondo bucolico; sono ricchissimo, mille pecore tutte di mia proprietà – si pensi, al confronto, alla modestia di Titiro nella prima egloga), e perfino di palesi falsificazioni (i doni proposti: mi limito a ricordare il bouquet di fiori realizzato direttamente dalle ninfe, vv. 45-50, fatto di piante che fioriscono in stagioni diverse). Tutte prove di una perdita di contatto con la realtà dei fatti (altrove, come detto, al contrario vivamente rispettata).

    – ma poi c’è il punto 5, che per me è quello determinante: nel passato di Coridone c’è uno shock amoroso riconosciuto e ammesso, una situazione disperata che affiora nei (pochi) momenti di lucidità che ancora gli rimangono. Proprio in questi momenti Coridone arriva a riconoscere la situazione disperata della sua posizione, per poi contraddirla subito dopo con un’altra palese bugia, la decisione di rinunciare ad Alessi. Il che ci dice che anche il resto siano bugie senza scampo, un accumulo prolungato e continuo di menzogne.  Alcune facili da smascherare; altre che si lasciano smascherare solo grazie alle parole del narratore, oppure per deduzione logica, ma a partire da quelle parole iniziali.

    Coridone si presenta così sì come un mentitore a scopo seduttivo. ma senza un fine reale: la sua è una menzogna continua, coerente, consistente, a volte smascherata dalla propria stessa riconquistata lucidità (all’interno del canto; dal narratore, per il lettore esterno che non abbia capito subito). Quando Coridone si smaschera, le sue parole di poco prima divengono una menzogna riconosciuta come tale perfino da lui, che pure ne è l’autore. Ma, in ogni caso, subito dopo la prima bugia viene seguita da un’altra menzogna, diversa e però “coerente” con la situazione complessiva (invenies alium Alexim, v. 73). Anche questa nuova bugia, però, è  contraddetta dalle parole incipitarie del narratore (adsidue veniebat, che già ci dicono che Coridone non troverà nessun altro Alessi…).

    Le Bucoliche creano un mito, nel quale l’Amore e i suoi effetti hanno larga parte. Mi piaceva iniziare da quest’egloga, perché in quest’egloga mi pare che la mitomania del personaggio qui sia più chiara che mai. Mi sono concentrato sulla seconda egloga: non sarebbero cambiati i conti se avessimo guardato all’ottava, o alla decima (le tre egloghe amorose del Liber). Il concetto è sempre lo stesso: una vicenda che si snoda attraverso una serie di passaggi comuni, e che si ripete in ognuna delle tre egloghe. C’è una forte passione, poi il brusco risveglio di uno shock; a tutto ciò fa seguito la reazione mitomane di un cantore entro il suo canto; mentre il narratore, con piccoli segnali, ci assicura della falsità di tutto ciò che il personaggio ci dice. La seconda egloga è solo l’egloga che meglio delle altre mette in luce il procedimento. Grazie alla sua posizione quasi incipitaria, il lettore del resto del Liber è avvisato, e può provvedere da solo a ragionare ogni qual volta la situazione si ripropone nel corso del Liber.

    Ma anche Virgilio ha forse un precedente, anche se questo nulla toglie alla originalità di Virgilio e alla chiarezza con la quale porta alle estreme conseguenze questa possibilità narrativa. Tutti conosciamo la vicenda di Catullo e Lesbia, scandita da carmina famosissimi. Pertanto, la do per scontata. Do per scontato anche queste considerazioni:

    – entro la vicenda noi abbiamo un punto di vista univoco, quello di Catullo; nessun narratore esterno e nessuna testimonianza antica ci permettono di verificare l’esattezza o meno di quanto Catullo dice;

    – anche Catullo si descrive come vittima di uno shock amoroso, che ha portato a una perdita almeno parziale di lucidità (situazione tematizzata dal poeta stesso: Miser Catulle desinas ineptire, carm. VIII)

    – ovvia la distinzione fra Catullo-autore reale e Catullo-personaggio, ma qui è Catullo-personaggio che interessa. Solo, rispetto alla seconda egloga, il cortocircuito è più complicato che in Virgilio, e più difficile quindi da valutare, perché Catullo è Catullo, autore e personaggio, laddove Coridone è personaggio, distinto da Virgilio autore e “narratore”;

    – la situazione così delineata è questa: il poeta è una vittima, per avere proposto un accordo, un patto, un foedus che si immaginava stabile (fides), ma che la controparte ha brutalmente tradito, venendo meno a ogni investimento sentimentale ed emotivo e facendo crollare speranze e certezze.

    Meno noti sono i carmina per Giovenzio. Ci sono certo elementi differenti: Giovenzio è maschio, e gli amori omosessuali nel mondo antico sono amori contro il tempo, dunque il foedus non è proponibile come accordo di vita, ma è proponibile comunque nel breve tempo in cui la liaison è possibile. Ciò si vede nella presenza di molti temi comuni, anzi a volte addirittura identici (è noto che per Giovenzio scrisse un altro “carme dei baci”, molto simile a quello scritto per Lesbia). Anche lo status sociale dei due amati è differente: Lesbia è donna di alta società, Giovenzio è schiavo o ex-schiavo o, se libero fin dalla nascita, è comunque un puer sottoposto a tutela (lo prevedono l’età degli amori, ma soprattutto i carmina stessi di Catullo). Queste le differenze principali, ma la vicenda ha poi lo stesso svolgimento: un foedus spezzato, un poeta che si sente tradito, una parte del tutto innocente (Catullo), una che non si capisce come abbia potuto fare le scelte che ha fatto (Giovenzio).

    Vorrei chiudere con un altro carme, scritto per un amico, il XXX. Eccone il testo: 

    Alfene immemor atque unanimis false sodalibus,
    iam te nil miseret, dure, tui dulcis amiculi?
    iam me prodere, iam non dubitas fallere, perfide?
    nec facta impia fallacum hominum caelicolis placent.
    quae tu neglegis ac me miserum deseris in malis.
    eheu quid faciant, dic, homines cuive habeant fidem?
    certe tute iubebas animam tradere, inique, me
    inducens in amorem, quasi tuta omnia mi forent.
    idem nunc retrahis te ac tua dicta omnia factaque
    ventos irrita ferre ac nebulas aereas sinis.
    si tu oblitus es, at di meminerunt, meminit Fides,
    quae te ut paeniteat postmodo facti faciet tui.

    Questo è il carmen per un amico, e non per un amante, ma l’amico viene presentato con tutti i termini con cui si potrebbe presentare un amante – il latino facilita, perché molto forte è l’interferenza lessicale fra i due ambiti; anche in italiano c’è un lessico comune, ma qui è più forte, basti pensare a frasi come inducere in amorem, ma anche tradere animam, e direi perfino omnia tuta esse, oltre all’immagine dei giuramenti portati via dai venti e dalle nubi, tipica metafora di ambito amoroso. Anche qui c’è una fides che il poeta sente tradita (perfidus, v. 3, e poi tutti i termini dell’inganno: falsus, fallax, lo stesso verbo fallere ecc.) e che ha spezzato un legame praticamente di famiglia (unanimi si usa per i parenti stretti, c. 9 i fratelli di Veranio; Aen. IV Anna, sorella di Didone). L’episodio che ha dato origine a questo litigio non ci è chiarp, ma forse non è nemmeno mportante (immemor v. 1; negligere, v. 5; retrahere, v. 9 fanno pensare che Alfeno non sia stato presente nel bisogno dell’amico, un peccato tutto sommato veniale). L’immagine finale che esce da tutto ciò coincide con quanto ho detto prima:  c’è un poeta senza colpe personali, vittima di un amico ingiusto e capace di scelte incredibili, che aveva fatto credere all’esistenza di un accordo, un patto, un foedus che si immaginava stabile, ma che poi ha brutalmente tradito, venendo meno a un investimento sentimentale ed emotivo e facendo crollare speranze e certezze.

    Insomma, questa è l’idea: ecco tre situazioni che sono, in realtà, una stessa situazione. Solo che il ripetersi per ben tre volte di una medesima vicenda è cosa sospetta, che dà adito a qualche sospetto. Davvero è stato così sfortunato in tutte le sue relazioni Catullo, o c’è piuttosto qualcosa che non funziona in lui? C’è un sovra-investimento sentimentale, certamente, che lo espone alla delusione, alla frustrazione, a un senso di inevitabile vittimismo e a una sorta di mania di persecuzione, che poi origina come rivalsa una mitomania che si esplica nella ricostruzione ex post dei fatti… Basta tutto questo a definire il personaggio Catullo un mitomane? La discussione qui può essere aperta.

    (segue)

     

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

    Illustrazione di Gottfried Franz, 1895, per Il Barone di Münchhausen di Rudolf Erich Raspe

     

  • Giugurta

    Giugurta

    Nel momento in cui scrivo, la voce di Wikipedia dedicata a Giugurta ricorda, al capitolo “Nella cultura di massa”, la ben nota monografia di Sallustio e “un poemetto in latino, di 131 esametri, di Giovanni Pascoli (Iugurtha, 1896)”. Vorrei dedicare questo post a un altro poemetto latino, intitolato anch’esso Iugurtha, risalente al 1869. Ne è autore Arthur Rimbaud, all’epoca poco più che quindicenne (1854-1891). Prima di iniziare a poetare in francese, infatti, Rimbaud poetò in latino, ovviamente spinto a ciò dalla scuola e dall’esercizio di composizione in versi che, nella prassi ottocentesca, era la dimostrazione somma e suprema della propria competenza linguistica. Di Rimbaud poeta latino abbiamo cinque composizioni, tutte nate fra i banchi di scuola, a Charleville, e tutte risalenti al periodo 1868-1870. Nel biennio 1869-1870 Rimbaud, già dedito alle prime fughe parigine, compose in latino e contemporaneamente anche in francese. Dal 1870 e fino al 1874 le composizioni di Rimbaud saranno solo in francese. Dopo quella data, si dedicherà ad altro, abbandonando definitivamente la poesia.

    Ora, al liceo di Charleville le composizioni migliori venivano premiate ed erano poi pubblicate su un giornale edito nella vicina Douai, Le Moniteur de l’Enseignement. E’ successo così che, andati perduti gli archivi personali di Rimbaud e quelli del liceo (la zona di Charleville è stata teatro di combattimenti sia durante la I che la II guerra mondiale), si sono salvate solo le cinque composizioni premiate e ritrovate negli archivi del Moniteur. Sappiamo però, dalla corrispondenza del poeta, che in origine i testi erano più numerosi. La loro raccolta si deve a uno studioso francese, Jules Monquet, che li ha pubblicati nel 1932, con il titolo di Vers de Collège – edizione inevitabilmente scorretta, che è stata poi perfezionata una volta che i testi sono stati accolti nell’edizione Gallimard della “Bibliothèque de la Pléiade” nel 1946 (ad opera dello stesso Monquet) e, in Italia, nel volume dedicato a Rimbaud per i “Meridiani” di Mondadori (a cura di Diana Grange Fiori). In entrambe queste occasioni, all’edizione “secca” del testo si accompagnava una traduzione, peraltro non priva – almeno quella italiana – di fraintendimenti. Il lettore nostrano può però contare sull’ottimo volume dedicato da Giampietro Marconi alle Poesie latine di A. Rimbaud (così recita il titolo), Pisa-Roma 1998. Ad esso mi rifaccio ampiamente, pur con qualche occasionale dissenso, che si evince dalla traduzione che propongo e che mi riservo di motivare in altra sede, con un apposito commento.

    Prima di passare al testo in questione, ricordo che il latino di Rimbaud è generalmente corretto (con qualche licenza nella sintassi, cosa del resto comune nella lingua poetica, e una serie di costrutti “tardi”, del tipo participio + fui/fueram anziché sum/eram); corretta è anche la metrica (tutti i 286 vv. a noi noti sono esametri). Proprio la composizione che prenderò in esame, la terza del gruppo, è però la più scorretta. In una sorta di ritornello, compare infatti più volte l’aggettivo Arabius con la prima vocale lunga, come in Properzio I 14,19 (in Virgilio, Eneide VII 605 è breve). Al v. 80 His et immensa magnus tellure, sacerdos, la congiunzione et è scandita come lunga, senza nessuna ragione plausibile. Gli editori sono intervenuti emendando, pensando a una svista tipografica (l’edizione del Moniteur  è spesso discutibile), ma io ho preferito conservare il testo così come è. Infine, al v. 61 imperatoris in clausola è improponibile (imperator è un noto esempio di parola “impoetica” proprio per ragioni metriche). Rimbaud considera infatti breve la –a– centrale, che invece è lunga. Sono però piccole pecche, rispetto a un testo che a me pare notevolissimo. E’ evidente che in classe si era letto Sallustio, più volte riecheggiato. Non mancano nemmeno i rimandi virgiliani, a volte veri e propri calchi o trasposizioni di iuncturae. Però, di fronte a titolo (e tema) che invitavano a parlare di Giugurta, la scelta del quindicenne poeta è fuori dall’ordinario.

    Rimbaud infatti non dedica la composizione direttamente a Giugurta, ma a un suo lontano discendente ed imitatore, Abd-el-Kàder (1808-1883), emiro algerino che si era ribellato al tentativo di annessione dell’Algeria da parte della Francia nel 1830; aveva obbligato le truppe di Luigi Filippo a una pace non decisiva nel 1837; era stato infine sconfitto e fatto prigioniero (internato a Tolone, Pau e infine Amboise), nel 1847. Con la caduta di Luigi Filippo nel 1848, la Seconda Repubblica e il colpo di Stato del 1852, Abd-el-Kàder venne rimesso in libertà da Napoleone III e si ritirò quindi a Damasco, dedicandosi alla religione e alla filosofia. Ebbe un ritorno di fiamma nel 1860, quando intervenne a difesa degli Europei assaliti dai guerrieri Drusi in Siria, meritandosi così la Legione d’Onore. Rimbaud sottolinea soprattutto il parallelismo fra questo “discendente” e il Giugurta storico: come il suo “avo”, anche Abd-el-Kàder combatté, piccolo Davide, contro un gigantesco Golia; si ribellò al protettorato di una nazione più forte; rivendicò libertà e autonomia; sfruttò ampiamente la tattica della guerriglia sugli altopiani algerini; si fidò a proprio danno di un alleato marocchino; venne sconfitto dopo la nomina a governatore dell’Algeria di un generale di ferro, Thomas Robert Bugeaud (1784-1849). La sceneggiatura impressa al racconto da Rimbaud prevede che sulla culla del piccolo Abd-el-Kàder si pieghi l’ombra del Giugurta storico, che vaticina il futuro del bimbo e rievoca per allusioni la propria vicenda terrena. Nella seconda sezione, assai più breve, viene ricordata la prigionia sul suolo francese ed è invocato Napoleone come un liberatore. Nel carcere, Giugurta appare una seconda volta al suo lontano discendente, e questa volta lo esorta ad accettare la supremazia francese e ad accordarsi con quella. La terza sezione è fatta di un unico verso, a mo’ di suggello sibillino: contraddicendo, credo, quanto appena detto, Giugurta invita Abd-el-Kàder a considerarlo pur sempre il Genio della sua nazione, con un implicito consiglio a non lasciare perdere la lotta. Marconi nel suo commento insiste su due punti: la serie di giochi fonici, allitterazioni, presenze vocaliche ecc. che anticipano nel Rimbaud latino il Rimbaud francese. La lettura, per me non troppo convincente, in chiave di anticolonialismo inglese, da contrapporre a un “colonialismo dal volto buono”, che sarebbe quello francese. Ma l’Algeria era colonia francese, non inglese. E se Luigi Filippo (mai nominato, peraltro) si può contrapporre, nel testo, a Napoleone III, resta che la composizione ha senso nel possibile parallelo fra la Roma di Sallustio e la nuova Roma, alias Parigi, che della prima ricalca orme e difetti. E questa, da parte di uno studente quindicenne, non era impresa da poco.

    Lascio il testo come allegato pdf, dividendolo per sezioni, grazie alla presenza costante di un ritornello. A ogni sezione faccio seguire la sua traduzione. Buona lettura a tutti!

    © Massimo Gioseffi, 2017

     

    rimbaud, iugurtha, 1869

     

  • Romantici vs. Classici? Il caso Wordsworth

    Romantici vs. Classici? Il caso Wordsworth

    L’opera di Virgilio ha spesso svolto un ruolo importantissimo durante le trasformazioni culturali che hanno portato alla contemporaneità. Anche se questo post è focalizzato su Wordsworth e Virgilio, sul  dialogo di un poeta romantico con il poeta classico, vorrei prendere le mosse da un precedente interessante, che sta al di fuori dell’ambito letterario, ma che mostra come l’opera classica abbia visto progressivamente mutare il proprio valore nella coscienza dei moderni. Si tratta della polemica attorno alle Georgiche, divampata piuttosto accesa tra il colto agronomo inglese Jethro Tull (1674-1741) e Stephen Switzer (1682–1745), in un’epoca in cui il poema virgiliano era ancora considerato non solo esempio di grande poesia, ma anche depositario di consigli pratici e utilissimi in ambito agricolo. Tull, il quale con le sue invenzioni tecnologiche diede inizio a una nuova prassi metodologica del fare agricoltura, riteneva Virgilio solo un poeta che non aveva esperienza da agricoltore e che aveva appreso ciò che descriveva dai libri; lui, invece, possedeva un’esperienza trentennale, aveva imparato nei campi ciò che sapeva e considerava orgogliosamente i suoi metodi di coltivazione anti-virgilian. Stephen Switzer, dal canto suo, difendeva apertamente l’auctoritas di Virgilio e continuava a considerare il poema un manuale pratico e scientifico di agricoltura, oltre che uno scrigno di tesori estetici e di precetti etici. La polemica presenta così gli inizi di un movimento culturale che separa scienza e poesia, metodo pragmatico e belle immagini letterarie, o, come dirà Wordsworth nella prefazione alle Lyrical Ballads (1800), tra “Poetry and Matter of Fact, or Science” (come è noto, anche Wordsworth esortava a imparare dalla Natura più che dalla lettura). Virgilio viene gradualmente ridimensionato, la scienza e le lettere imboccano strade separate e non più comunicanti tra loro.

    Torniamo però ora a William Wordsworth (1770-1850). Egli inizia a scrivere poesia in un clima culturale in mutamento, che modifica il giudizio sui classici ma non li elimina dal canone di scuola. Virgilio risulta così una presenza costante nella vita del poeta inglese, fin dai primi componimenti di fine XVIII secolo, confluiti poi in parte nelle Lyrical Ballads, e sino ad arrivare alla traduzione dell’Eneide, iniziata nel 1823 e mai terminata. Quello che vorrei mettere in evidenza è appunto il dialogo che il poeta moderno ha continuamente intrattenuto con Virgilio e il diverso ruolo che il poeta classico ha assunto nel corso della carriera poetica di Wordsworth.

    I componimenti del poeta inglese, all’apparenza semplici e spontanei, come se fossero stati scritti seguendo l’ispirazione del momento e fossero giunti quasi per caso a noi lettori – ma si tratta del gioco di un abile prestigiatore! – nascondono, e nascondono bene, l’abbondanza di studi, di letture, di riflessioni sulla poesia che sta alle loro spalle. Il componimento Lines left upon a Seat in a Yew-tree (1798), ad esempio, descrive un paesaggio che si contrappone volutamente a quello bucolico: il viandante viene esortato a fermarsi per un poco in un posto dove non vi sono fiumi scintillanti, i rami degli alberi sono secchi, non si sente il ronzio delle api, ma le onde increspate si infrangono sulla spiaggia:

    What if here
    No sparkling rivulet spread the verdant herb?
    What if the bee love not these barren boughs?
    Yet, if the wind breathe soft, the curling waves,
    That break against the shore, shall lull thy mind
    By one soft impulse saved from vacancy.

    Tuttavia, una contrapposizione così esatta mette in evidenza la precisa conoscenza del modello virgiliano, che lascia una traccia visibilissima nell’albero di cui il recluso, il fuggitivo dall’umanità – protagonista della poesia – ha  piegato i rami a formare un cerchio d’ombra, e nelle zolle erbose che coprono una pila di pietre:

    Who he was
    That piled these stones and with the mossy sod
    First covered, and here taught this aged Tree
    With its dark arms to form a circling bower,
    I well remember.

    Qui è facile ravvisare il ricordo dell’ampio faggio che fa ombra a Titiro nella prima egloga (1.1) e della capanna che Melibeo non potrà più rivedere (1.68 tuguri congestum caespite culmen). In Wordsworth l’azione umana crea uno spazio per la meditazione e la solitudine, perché il recluso a causa del suo orgoglio ha deciso di rifuggire il resto degli uomini, dopo averne sperimentato la compagnia; ben diversi sono i destini di Titiro e di Melibeo: il primo, costretto a lasciare la sua dimora per la grande città, vi ritorna portando con sé la libertà di vivere serenamente in una campagna rigogliosa, circondato dagli affetti che gli sono cari; il secondo deve abbandonare la sua abitazione per andare verso luoghi sconosciuti. Sono passati i secoli, la Storia ha mutato il modo di percepire l’uomo e la sua idea di felicità; tuttavia, la serenità di Titiro e le svariate vicende che si leggono nelle Bucoliche hanno lasciato ancora una traccia.

    Altrettanto può dirsi per le poesie successive di Wordsworth, i suoi Poems, in Two Volumes, editi nel 1807. Naturalmente Wordsworth si discosta dal mondo di Virgilio, cambia il paesaggio e cambia in parte i suoi abitanti: al posto della campagna mantovana ci sono le Highlands con la loro natura viva e partecipe, i boschi e i torrenti, le rupi e le valli; al posto dei pastori, delle ninfe, di Dafni e di Gallo vi sono viandanti e reclusi volontari (come nel componimento sopra citato), bambine inconsapevoli della morte (We are seven: la piccola pastorella di otto anni pensa ai fratelli morti come se fossero ancora vivi), ragazzi avventurosi scomparsi prematuramente (There was a boy….), una giovane costretta ad andare in città (Poor Susan: ancora un diretto ricordo virgiliano?), un vecchio povero e solo costretto a cercare sanguisughe per vivere (Resolution and Independence), una mietitrice solitaria (The Solitary Reaper); e assieme a loro, il poeta stesso, la sorella e gli amici che vivono in comunione con la Natura. Quindi, ancora personaggi rustici e poeti, i quali intersecano le loro sofferte vicende in un paesaggio che non è soltanto uno sfondo privo di significato, ma parte integrante della vita e della poesia. Wordsworth sembra attualizzare Virgilio, togliendo ciò che nella sua opera poteva apparire irreale e immaginario, ad esempio le figure mitologiche o un’Arcadia mitizzata, e conservando invece quella che potremmo definire la “distanza romantico-bucolica”: il poeta, colto e intelligente, descrive ciò che dice di vedere, racconta ciò che dice essere reale, sostiene di cogliere e donare al lettore ciò che è spontaneo, immediato e quindi vero. Ma in realtà tutto filtra attraverso il suo sguardo e la sua cultura, creando pezzi letterari che danno l’illusione della più assoluta verità. Come ho già detto, Wordsworth è un abile prestigiatore.

    Virgilio fa sentire la sua influenza nel poemetto di argomento mitologico Laodamia (1815; una seconda versione risale al 1845). Wordsworth trae ispirazione dal sesto libro dell’Eneide, opera che stava rileggendo in quegli anni, e numerosi passaggi, come quelli che descrivono Laodamia o l’Elisio, sembrano riprendere dei passi virgiliani. L’opera si conclude con dei versi che forse reinterpretano il celebre sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt (Aen. 1.462):

    Yet tears to human suffering are due;
    And mortal hopes defeated and o’erthrown
    Are mourned by man, and not by man alone (vv. 164-166).

    Le parole che Enea rivolge ad Acate mentre osserva le vicende di Troia effigiate nel tempio in costruzione a Cartagine vengono riutilizzate da Wordsworth per sottolineare il dolore insito nella condizione umana e la capacità, non solo degli uomini, come aggiunge Wordsworth, di compiangere le sofferenze altrui.

    La lettura dell’Eneide si trasformerà qualche anno dopo in qualcosa di concreto: una traduzione, sebbene solo dei primi quattro libri. A partire dal 1823 Wordsworth si dedicò a rendere in lingua inglese il poema virgiliano. Nonostante il lavoro sia stato iniziato per caso – è il poeta stesso a dirlo in una lettera a Lord Lonsdale – suo scopo era sostituire la traduzione di Dryden, considerata poco “affecting”.  Wordsworth affermava di essere rimasto commosso dal poema (“When I read Virgil in the original I am moved”) e nella sua traduzione cercò di rendere quella tenderness che altri prima di lui non avevano saputo ricreare. Egli trovava eccessivamente artificiale la lingua dei suoi predecessori e intendeva cercare un lessico e una struttura il più possibile vicini a Virgilio, in modo da suscitare le medesime emozioni dell’originale. L’opera si interruppe abbastanza presto, forse perché la traduzione, tesa a rendere in inglese le movenze del latino virgiliano forzando in certo qual modo la lingua d’arrivo, non piacque ai suoi primi lettori. La volontà di essere fedele a Virgilio in un esperimento di traduzione che sacrificava l’usuale struttura della lingua moderna allo scopo di rendere percepibile ai suoi contemporanei quelle emozioni che Wordsworth sentiva, ribalta la situazione iniziale: modello da rielaborare e ristrutturare per creare una poesia moderna agli esordi della carriera letteraria di Wordsworth, Virgilio diventa ora un autore per così dire intoccabile, non più trasformabile, perché è stato capace di trasmettere in modo inimitabile i sentimenti attraverso la parola. In fondo, quello cui Wordsworth aspirava fin dall’inizio, e che aveva cercato di raggiungere con la propria poesia. 

    Il Romanticismo, quindi, è forse meno anti-classico di come viene descritto di solito. Certo, il bisogno di rinnovamento, il fastidio per una “poetic diction” sentita come ormai antiquata, la necessità di imporsi come poeti “moderni” (anche la letteratura conosce i suoi corsi e ricorsi!) ha comportato un desiderio di distacco e di trasformazione del classico, il bisogno di reinterpretarlo all’interno di una nuova dimensione culturale. Ma senza davvero negarlo o per volersene sbarazzare, anzi alla fine cercando di impossessarsene di nuovo. Anche per questo, per comprendere appieno non solo un poeta moderno, ma il complesso movimento letterario e culturale in cui si inserisce, è necessario non sottovalutare né dimenticare i poeti latini, che pur appartenendo a un’epoca lontana hanno continuato a esercitare un influsso considerevole sulle epoche successive. Senza conoscerli, rischiamo di giudicare in maniera imprecisa la letteratura che è venuta dopo… 

     © Isabella Canetta, 2016

     

     

  • Come è difficile esser felici!

    Come è difficile esser felici!

    Completo il precedente post dedicato a Uomini e dèi nell’Eneide con una serie di considerazioni lessicali relative alle occorrenze di felix e infelix nell’opera di Virgilio. Il pensiero di base è quello già espresso nell’altro post. Felix e infelix in latino hanno una valenza di ambito sacrale; stante la testimonianza di Varrone, felix indica propriamente il campo, il raccolto, l’annata fertile di frutti, e dunque ben riuscita; ed è solo secondario e traslato il riferimento a uno stato emotivo dell’essere umano. Ma la fortuna e la ricchezza del campo non sono possibili senza la benevolenza degli dèi; ciò vale anche per la fertilità, il raggiungimento di uno scopo nella vita, o lo stato complessivo di serenità e benessere psicologico che noi (e gli antichi) comprendiamo sotto il termine felicitas. Nel I secolo a.C. Felix era il soprannome di Silla, ‘beniamino/protetto degli dèi’ (a questo il soprannome mirava e questo la propaganda sillana aveva enfatizzato, a cominciare dalla perduta, ma in parte ricostruibile, autobiografia); Cesare, al contrario, nella propaganda testimoniata dai Commentarii ha insistito di più sulla propria Fortuna, che implica in maggior grado un saper fare, secondo l’idea (sottilmente implicita) che il bravo comandante militare sarà anche un bravo capo di uomini.

    Ora, come ho già detto nell’altro post, nell’Eneide si assiste a una discrasia fra lo sguardo di Giove e quello dei diversi personaggi, siano essi umani o divini; lo sguardo di Giove è infatti lungo, e si riassume nella Storia con l’iniziale maiuscola, che tutto giustifica; non è uno sguardo rassicurante però, perché comporta il passare sopra la vita dei singoli, che in quel processo si devono inserire volenti o nolenti, e che da quel percorso a lungo termine sono, nel breve tempo della loro vita, spesso sorpassati e “bypassati”. Inoltre, gli uomini, anche quando siano chiamati a contemplarla (come a un certo punto accade ad Enea), non capiscono la Storia, perché il loro sguardo è miope, concentrato sulla brevità della propria esistenza, non è in grado di cogliere quella lunga durata che appartiene al dio. Infine, la Storia di per sé non è rassicurante: tant’è che l’ultimo avvenimento citato nel poema, la morte di Marcello nel 23 a.C., trascende le promesse divine del I e del XII libro (I 254-296: anticipazione di Giove a Venere e al lettore di quanto seguirà nei dodici libri del poema, nel seguito del poema e nei secoli a venire, fino all’avvento di un Iulius Caesar che sottometterà l’oikoumene, vi porterà la pace, diverrà dio; XII 801-842, anticipazione a Giunone di quello che sarà il destino dell’Italia, fino al pieno mescolarsi di Troiani, Latini e Italici in un’unità politica e sacrale che, storicamente, sappiamo essersi realizzata solo nella seconda metà del I secolo a.C.). La morte di Marcello, invece, è avvenimento che rischia di rimettere in gioco tutto quanto è stato “realizzato” da Cesare e da Augusto, e di riproporre alla generazione a venire quello che la generazione di Virgilio aveva vissuto sulla propria pelle, cioè la lotta al momento della successione di un Grande Capo (per Virgilio e i suoi coetanei Cesare, per la generazione a venire Augusto).

    Dato per scontato tutto questo, si tratta ora di capire che cosa significhi essere felices  o infelices in Virgilio, chi lo sia, e perché; quali siano le diverse possibilità di felicità; quali alternative si diano alla felicitas o alla infelicitas. Partiamo dai dati numerici. Felix in Virgilio è abbastanza raro: non c’è o quasi nelle Bucoliche (mai per persone); è più comune nelle Georgiche, ma in genere in riferimento a piante o campi, o comunque a prodotti connessi all’agricoltura (anche la vittima dei sacrifici agli dèi agricoli); sono solo tredici le occorrenze nell’Eneide. Infelix è molto più presente, in riferimento a piante e campi, ma anche ad animali e persone. Ovviamente, nessuna menzione si dà di felicitas, un astratto “impoetico”, ma neanche dell’avverbio feliciter, che pure compare sia negli Annales di Ennio (fr. 103 Sk.), sia in Ovidio (più volte).

    Vediamo i casi più da vicino: nelle Bucoliche il gregge di Melibeo era felix, ma in un tempo passato e non più proponibile, della cui condizione di felicitas ci si rende conto solo ora che non c’è più, attraverso il filtro della memoria e della nostalgia (1, 74); la seconda occorrenza si riferisce all’invocazione al neo-dio Dafni, invitato a essere propizio nei confronti dei fedeli (5, 65: sis felix è qui una formula rituale e cristallizzata, che ribadisce il valore sacrale dell’aggettivo). Al più possiamo osservare, con tipico valore degli aggettivi latini, che felix, come infelix, vale sia ‘che è felice/infelice’, sia ‘che fa felice/infelice’. Fra le dieci occorrenze delle Georgiche, l’unica che non abbia valore agricolo è 2, 490: felix è chi può dedicare la sua vita alla scienza, libero da affanni e pressioni della vita quotidiana e contingente. Una situazione specifica e particolare, direi paradisiaca se si concede l’anacronismo, che pochi, pochissimi possono realizzare, forse nessuno, certo non il poeta/narratore – che si sta sì dedicando all’attività poetica e in relazione a un sapere pratico, ma lo fa sotto pressione altrui, con fini pragmatici, per un bisogno che non è quello, ascetico, della pura contemplazione: e che quindi al massimo si può dire fortunatus, non felix, con una interessante gerarchia dei due termini. Nell’Eneide mi pare significativo che alcuni felices lo siano solo per modo di dire: l’aggettivo appare infatti in formule di cortesia, del tipo che già conosciamo, sis felix, riferito a un dio, come nelle Bucoliche; oppure al momento di una partenza o di un arrivo: un po’ come i nostri “salve, addio, ciao”, parole che hanno perso il loro valore etimologico e sono divenute puri modi di dire: cfr. 1, 330, a Cartagine (per Venere), e 3, 493, a Butroto. Felix si trova anche in frasi negative: è celebre la definizione di Didone, 4, 657, felix, anzi nimium felix, se le navi dardanie mai avessero raggiunto le sue terre – ma le navi quella terra l’hanno raggiunta, e la felix Didone è così divenuta l’infelix per eccellenza. Allo stesso modo Serrano, 9, 337, è una vittima di Niso nell’accampamento rutulo addormentato; e poiché aveva passato la sera a giocare a dadi, sarebbe stato felice se avesse continuato a giocare anche durante la notte: si sarebbe infatti trovato sveglio all’arrivo di Niso e si sarebbe forse potuto salvare; invece si è addormentato al momento sbagliato, e ciò ha fatto di lui una vittima indifesa. Tra i felices virgiliani si contano poi la moglie di Evandro, morta prima di conoscere la scomparsa prematura del figlio (11, 159: la definisce così il marito), e Polissena, uccisa sulla tomba di Achille, e non costretta a subire la schiavitù (lo pensa Andromaca, che la schiavitù ha invece sperimentato, 3, 321); felices sono poi le anime dell’Ade (quelle che lo sono, cioè Museo e la sua cerchia, 6, 669, racchiusi nei campi elisi = isole fortunate o dei beati); e il guerriero Tolumnio, presentato come tale nelle parole di Turno che deve convincere i Latini a continuare la guerra nonostante le prime sconfitte (Diomede ha rifiutato di allearsi con loro: ma non c’è problema, Tolumnio gli equivale e gode del favore divino, felix appunto, 11, 429). In realtà Tolumnio entrerà in azione solo nel libro XII quando interpreta male un prodigio e spinge i Latini a interrompere la tregua e il duello fra Enea e Turno: decisione avventata e inconsulta, che paga figurando nell’elenco successivo di caduti. E tanto felix, in definitiva, non sembra proprio. Ma Turno, si sa, spesso sbaglia le sue valutazioni! Infine, possono essere felices degli oggetti, animati o inanimati, che assolvono la loro funzione, come i venti che soffiano propizi, 3, 120. In questo elenco, due casi sono significativi: nelle parole di commiato di Eleno, 3, 480, è felix Anchise, protetto dalla pietas del figlio e sottratto alla rovina di Troia con il gesto più famoso della saga eneadica, quello che consacra Enea come pius, ma anche quello che dà inizio all’intera vicenda – la storia di Roma inizia lì, dalla fuga da Troia; dall’avere Enea convinto a partire il recalcitrante Anchise; dall’averlo preso su di sé, e con lui, nelle mani di lui, i Penati che assicurano continuità e sopravvivenza. Poco prima, all’inizio della medesima allocuzione (v. 475) Anchise era stato definito da Eleno come coniugio Veneris dignatus superbo. Importante: non è l’amore della dea ciò che lo fa felix, bensì l’agire del figlio. Alla fine del libro, vv. 708-713, Enea lamenta che Eleno non gli abbia predetto la morte del padre; è vero, però qui ne ha steso l’epitaffio, ricordando le due azioni che ne consacrano la memoria, e mettendole in posizione gerarchica: l’amore della dea ha reso celebre Anchise, ma il figlio con il suo gesto lo ha fatto felix, per le ragioni che ho detto. E il Priamides Eleno (figlio di Priamo, cioè ancora volto alla Troia di Priamo, ricostruita a Butroto tal quale si trovava in Asia, ma ora riconosciuta da Enea e dai compagni come qualcosa di vuoto, di sterile, di infruttuoso: la vera, nuova Troia, quella fertile e ricca di frutti, protetta dagli dèi, è in avanti, non indietro), Eleno, dicevo, riconosce in quella partenza da Troia di Enea e famiglia la felicitas di una nuova fondazione, qualcosa che segna una svolta nella storia e nella Storia, un punto di non ritorno che segnala gli Anchisiadi – e non più i Priamidi! – come i veri eredi di Troia e i beniamini degli dèi (e fra gli Anchisiadi, naturalmente, vanno contati i loro lontani discendenti, i Romani). L’altro passo significativo è 6, 784. Roma appena fondata da Romolo è felix prole virum (e cioè virorum), con aggettivo che riassume tutti i valori del termine: fertilità di frutti (i Romani), felicità di animo (l’imperium che li attende), la benevolenza degli dèi (al v. 780 di Romolo e Roma è detto che et pater ipse suo superum iam signat honore). Questi sono i soli esseri felici del poema: Anchise all’inizio di una Storia, alla cui fine c’è Roma, la Roma di Romolo che si salda con un unico tratto alla Roma di Augusto (rievocato nel sesto libro subito dopo del fondatore). E Roma, che in questa Storia felix lo è a lungo termine, è di nuovo la Storia, che nella città amata dagli dèi in certo qual modo si incarna. Non c’è dunque umana felicità, anzi felicità dell’uomo è morire quanto prima, secondo il detto sapienziale greco e secondo quanto ribadiscono Andromaca parlando di Polissena, ed Evandro della moglie; non è felix Enea, che pure si muove seguendo ordini divini, protetto dalla madre e dalle altre divinità fedeli alle parole di Giove; felix è solo la Storia, cioè ancora una volta lo sguardo lungo di Giove, che tutto assolve e tutto giustifica…

    Vediamo ora infelix. Nelle Bucoliche ci sono Pasifae (6, 47 e 52) e Procne (o Filomela: ma il nome poco importa, 6, 81), che, mutata in animale dopo aver ucciso per vendetta il proprio figlio, prima di abbandonare la casa resa cruenta dal suo gesto, infelix sua tecta super volitaverit alis. Se allarghiamo la ricerca al campo animale, c’è anche il gregge affidato da Egone (il proprietario) a Dameta (il pastore mercenarius) nelle parole di parte del rivale Menalca, buc. 3, 3, definito infelix  perché lasciato a un pastore disonesto che lo sfrutta fuori misura a proprio uso e consumo (munge le pecore due volte all’ora, dice Menalca con evidente iperbole). Come si vede, siamo sempre nel campo di un destino avverso, rovesciato su vittime incolpevoli: non sono Pasifae e Procne i mostri delle rispettive vicende, ma forze a loro esterne le costringono ad azioni mostruose; non è il gregge ad avere colpa, ma subisce le conseguenze di un’azione del padrone, che vuole essere libero da impegni per corteggiare Neera. Fa a sé il caso di 5, 37, infelix lolium, che ritorna, con verso quasi identico, a georg. 1, 154. Nelle Georgiche non c’è nessuna occorrenza riferita a esseri umani, tre a campi infecondi o piante invasive e sterili; poi però ci sono il cavallo malato nel Norico (3, 498) e Mantova intesa come somma dei cittadini che hanno subito le espropriazioni del dopo Filippi (2, 198). Un caso a sé costituisce l’Invidia infelix di 3, 37, tipica personificazione virgiliana, che indica il guardare di malocchio chi sa fare qualcosa e il cercare di impedirgli di farlo (per questo infelix riassume qui un po’ tutti i valori del termine: l’Invidia è sterile; cerca di rendere sterili; è malevola, è causa di male a sé e agli altri). L’aggettivo “esplode” letteralmente nell’Eneide. Quarantotto occorrenze tra forma lemmatica e casi flessi. Vediamo i riferimenti: nei casi flessi troviamo Didone, 5, 3; Amata, 7, 401; Ulisse, 3, 613 e 3, 691; Niso, che definisce così se stesso, 9, 430; Troia nel suo complesso (Mnesteo esorta i compagni a resistere all’assedio di Turno, e chiede loro se non infelicis patriae…pudet miseretque, 9, 786), cui si aggiunge il vitto non umano al quale è costretto Achemenide, 3, 649, bacas lapidosaque corna, cioè la regressione allo stato di raccoglitore, ossia di uomo preistorico e a-civilizzato. Più lunga la lista dei casi lemmatici: Troilo (la prima occorrenza in assoluto per il lettore continuo dell’Eneide, 1, 475); Didone (sette volte in tutto: 1, 712 e 749; 4, 68, 450, 529 e 596; 6, 456, il massimo concesso a qualsiasi personaggio); il cavallo di Troia, 2, 245, monstrum infelix che i Troiani sacrata sistunt arce, con accostamento ossimorico di due aggettivi significativi, il monstrum infelix va a dissacrare la sacrata arx; Corebo che non ascolta gli avvertimenti di Cassandra, 2, 345; Andromaca vedova inconsolabile, 2, 455; Creusa appena defunta e trasformatasi in umbra e simulacrum di sé stessa, 2, 772; Priamo che tenta di salvare Troia mandando Polidoro al sicuro (lo crede lui) in Tracia, 3, 50; l’Arpia Celeno quando lancia la sua predizione/maledizione che sembra allontanare per sempre i Troiani dalla meta agognata, 3, 246; Sergesto, che vuole vincere la regata con una mossa avventata, 5, 204; Niso che scivola inconsapevolmente e perde una corsa che aveva già vinto, 5, 329; Darete, che deve riconoscere la superiorità di Entello nello scontro di pugilato, 5, 465; il talamo dove giaceva sicuro Deifobo, o se vogliamo, per ipallage, Deifobo che si credeva sicuro nel proprio letto, al fianco della donna appena sposata, sopravvissuto a una guerra sanguinosa e decennale, che gli prospetta un avvenire di pace e felicità (6, 521); Teseo, che sedet aeternumque sedebit nell’Ade, per aver osato un’azione empia, rapire la regina degli Inferi (6, 618); Bruto, che manda a morte i suoi figli in nome del bene comune, eroe della res publica nella visione romana tradizionale, anche di autori più o meno contemporanei a Virgilio come Livio e Valerio Massimo, ma infelix utcumque ferent ea facta minores per la voce che commenta (6, 822); Giunone, che si autoproclama tale nel riconoscersi sconfitta, nonostante nulla abbia lasciato di intentato contro i Troiani (7309); di nuovo Amata, nel settimo come nel dodicesimo libro (7, 376 e 12, 598) una serie di caduti, colpiti da morte prematura o inattesa: Eurialo, 9, 390; sua madre, 9, 477; Cidone, che solo provvidenzialmente si salva (10, 325); Aleso, vittima di Pallante (10, 425); Lìgeri, vittima di Enea (10, 596); Acrone, vittima di Mezenzio (10, 730); Antore, che muore per un dardo scagliato non contro di lui (10, 781); Lauso (10, 829), Mezenzio (10, 850), Camilla (11, 563) e il meno noto Ufente (12, 641). Poi infelix è Evandro, alla notizia della morte del figlio, sia nelle parole di Enea (11, 53) sia nelle proprie (11, 175), così come infelix è Acete, tutore di Pallante e guida del corteo funebre che ne riporta a casa il cadavere (11, 85: diciamo anche qui che, per ipallage, infelix è fondamentalmente Pallante). Ancora: è infelix la comunità intera dei Troiani in fuga, nelle parole della falsa Beroe (in realtà è Iride che vuole spingere le donne troiane a dar fuoco alle navi, 5, 625); la Fama che divulga la notizia della morte di Amata fra i Latini e spinge Turno a riprendere il duello per lui fatale (12, 608); Giuturna, costretta ad abbandonare il fratello alla sua sorte (12, 870); infine, c’è il balteus infelix di Pallante, 12, 941, portato trionfalmente da Turno, che si presenta agli occhi di Enea, siamo proprio alla fine del poema, e lo spinge, quando è vacillante e dubbioso, a uccidere il nemico che lo supplica: perché è bene parcere subiectis, ma si deve debellare superbos, e nonostante le apparenze del momento, proprio quel balteo inserisce Turno fra gli incorreggibili superbi…

    L’elenco è stato lungo, e me ne scuso. Ma ora possiamo trarre qualche considerazione. Intanto, vediamo come più valori si sommino spesso fra loro, e difficile risulti la scelta. Questo significa anche che non ha molto senso tradurre le diverse occorrenze con “felice/infelice”, senza cercare di cogliere le diverse sfumature che i due termini assumono caso per caso. Tradurre, del resto, è solo una parte del nostro accostarci all’opera d’arte, e non può essere il fine ultimo del nostro agire. Esemplare mi sembra, al riguardo, il caso di Giunone a 7, 309. la dea, come l’Invidia delle Georgiche, è infelix lei stessa; rende infelices gli altri; è sterile di frutti e successi; vuole impedire gli altrui successi; è sofferente per quanto succede; fa soffrire gli altri; è vittima di sé stessa; ma si ritiene vittima di una congiura di forze superiori – Giove e il fatum. Poi, è evidente che che c’è un uso per così dire “attivo” di infelix (ossia: che rende infelici gli altri), come era già per l’Invidia di 3, 37: così avviene per Celeno; il cavallo che entra nell’arx sacrata di Troia; la Fama che divulga la morte di Amata e costringe Turno a dichiararsi sconfitto; il balteo di Pallante, che rende d’un colpo Pallante e Turno ugualmente vittime. Ma c’è un ben più ampio uso “passivo” del termine, entro il quale si riconoscono dei casi tipici e ricorrenti:

    – è infelix chi incontra una morte prematura (sua o di un familiare), e comunque inattesa: il discorso vale per Creusa; Andromaca, vedova di Ettore; Didone; Evandro, che ha perso Pallante; Mezenzio privo di Lauso; la madre di Eurialo; i molti morti in combattimento;

    –  è  infelix chi ha tentato un’azione che travalica i propri limiti, limiti imposti dalla Natura, dalla Storia, dal Fato o dal volere degli dèi, ed è ricondotto da una legge inesorabile alla realtà delle cose: Troilo, ad esempio, che va incontro a un impar congressus con il più forte Achille; Eurialo e Niso nel nono libro, che tentano un’impresa al di sopra delle loro forze, per dimostrarsi viri e non più semplici pueri; Priamo, che vorrebbe eludere la Storia salvando attraverso Polidoro qualcosa di Troia e delle sue ricchezze; Sergesto e Darete nelle gare del quinto libro; Corebo, che non presta ascolto a Cassandra; Teseo, che vuole infrangere le leggi dell’Aldilà; Bruto, il più infelix di tutti, perché ha dovuto mettere sulla bilancia due valori parimenti forti e ne ha fatto fatto prevale uno a scapito dell’altro;

    – è infelix chi, credendo di avere raggiunto qualcosa, si sente al sicuro, e invece poi cade per colpa non sua, per una forza superiore che lo trascina a sua insaputa e senza che lui possa fare granché: erano tali già Pasifae e Procne nelle Bucoliche, lo sono ora Didone; i Troiani tutti, nelle parole astute della falsa Beroe (che dice loro quello che essi pensano di sé); Niso che scivola quando crede di avere già vinto la gara; Deifobo che pensa di essere tranquillo nel proprio talamo; Amata, vittima degli dèi; i colpiti da un dardo non lanciato contro di loro, uno per tutti Antore;

    – non sono invece mai infelices né Enea né nessun altro componente della ‘casa reale’, fatta salva Creusa, una Priamide anch’essa, e dunque appartenente a un passato che nell’Eneide è capitale venga distinto e non confuso con la storia e con la Storia; non lo sono nemmeno i Troiani del seguito, salvo che nelle parole di Mnesteo – ma quella che lui rievoca è la Troia fisica, lasciata sulle dolci colline dell’Asia, qualcosa che appartiene ancora una volta al passato e non va confuso con i Troiani di Enea & co. Quegli stessi Troiani sono gens infelix in 5, 625, ma a parlare è in quel caso la falsa Beroe, alla quale quindi non si deve prestare ascolto, perché agisce e parla falsamente, con artificio, secondo retorica;

    – ma neanche Enea e gli altri componenti della ‘casa reale’ si possono dire felices, ad eccezione di Anchise, per le ragioni dette, e dei Troiani lasciati a Butroto, consegnati a un futuro che è già concluso, e già finito, ha il sapore della morte (e solo chi è morto per tempo può essere detto ‘felice’, a livello personale). La felicitas infatti è dono raro, divino, concesso di fatto alla sola Roma; e ad essa si contrappone una ben più ampia possibilità di infelicitas. Ma anche la felix Roma, cui pure gli dèi hanno assegnato un compito che trascende le umane sorti e la possibilità di realizzarlo, per arrivare ad essere felix ha dovuto passare attraverso disavventure varie, che sono state la sua Fortuna (6, 683), ossia  in fondo, le vicende biografiche dei suoi eroi, il loro destino individuale. Diciamo quindi, per semplificare un po’, che fortuna è per Virgilio qualcosa che sempre attiene di più, rispetto a felicitas, alla casualità, e a una casualità connessa, in gran parte, alla sfera umana, dipendente cioè dall’azione degli uomini più che (e oltre che) degli dèi; laddove la felicitas dipende certo anch’essa dall’azione degli uomini (che non devono infrangere leggi divine e ben stabilite: il che li condannerebbe inesorabilmente alla sconfitta e alla infelicitas), ma in larga misura dipende soprattutto dall’agire degli dèi, dal benvolere che essi possono o no dimostrare agli umani, e che si riconosce, di norma, solo a cose fatte, una volta che la fortuna è peracta, come dice Enea agli amici che lascia a Butroto (3, 493). È ben nota la massima di Appio Claudio sull’homo faber ipsius fortunae. Fortunae, appunto, non felicitatis: ché la felicitas l’uomo non se la può dare e anzi, anche quando si ritiene al sicuro (Deifobo, i Troiani, Niso quasi vincitore…) rischia sempre che qualcosa vada storto e lo faccia ricadere nell’ampia schiera degli infelices; alla propria fortuna, pur soggetta a mille rovesci e pericoli di rovescio e rivolgimento, si può invece cooperare, anche solo imparando a sopportarla o ad evitarla – come recita la massima che Enea lascia in eredità, nel sottofinale, 12, 435-436, al figlio e che prevede un Ascanio in grado di discere la virtus dall’esempio di Enea e di Ettore e la fortuna da modelli extra-familiari (ma Enea non si sogna di fargli discere la felicitas da nessuno). La felicitas, infatti, è dono raro, divino, concesso alla sola Roma; alla quale si contrappone una ben più ampia possibilità di infelicitas. In fondo, è ancora lo sguardo lungo della Storia che, lo sappiamo, travalica il destino dei singoli e di loro non si interessa...

     © Massimo Gioseffi, 2016

  • Virgilio illustrato II – Macerata

    Virgilio illustrato II – Macerata

    Per questo post userò due fonti: l’ottimo volume Tutta per ordine dipinta. La Galleria dell’Eneide di Palazzo Buonaccorsi a Macerata, pubblicato nei “Quaderni della Soprintendenza di Urbino” dalla casa editrice Quattroventi nel 2011; il sito di Palazzo Buonaccorsi stesso, reperibile all’indirizzo web http://www.maceratamusei.it/Engine/RAServePG.php/P/253410050406. Come si vede, non presento nulla di nuovo. Ma il caso di Palazzo Buonaccorsi è, secondo me, emblematico di come si debbano e si possano costruire le ricerche circa l’Eneide e le sue illustrazioni.

    Andiamo con ordine. Palazzo Buonaccorsi, dal 1967 proprietà del Comune di Macerata e oggi – dopo un importante restauro – adibito a sede del Museo Civico della Carrozza e della Galleria di Arte Moderna, era, come dice il nome, la residenza di città della famiglia Buonaccorsi. Erano questi proprietari terrieri originari di Montesanto, un piccolo centro del contado, poi inurbatisi e divenuti illustri grazie al cardinalato raggiunto da Buonaccorso Buonaccorsi (1620-1678), elevato alla porpora da Clemente IX nel 1669, e inviato da Clemente X come legato pontificio a Bologna nel 1673. Portando avanti l’ascesa politica e sociale della famiglia, nell’anno 1701 Simone Bonaccorsi aveva acquistato dagli Orsini la contea laziale di S. Pietro in Sabina, nei dintorni di Rieti, divenendo così feudatario dello Stato della Chiesa. Da qui, l’idea di celebrare nella città di provenienza della famiglia la conquistata grandezza, con un palazzo degno del nuovo rango. Il progetto fu iniziato da Simone e portato a compimento, dopo la sua morte avvenuta nel 1708, dal figlio Raimondo, che costituiscono i committenti dell’opera che ci interessa. Alla realizzazione di essa contribuirono più persone, sotto la direzione di Giovan Battista Contini, un allievo del Bernini. Gloria della nuova costruzione era la Galleria (la sala delle feste e di rappresentanza), voluta da Raimondo e ricca di fastose decorazioni. Fra di esse, due progetti si segnalano fra tutti. La volta è illustrata con le Nozze mitologiche di Bacco e Arianna, opera di Michelangelo Ricciolini e di suo figlio Niccolò, che vi lavorarono il primo dal 1710 al 1712, il secondo dopo il 1713, per completare l’opera lasciata incompiuta dal padre, tornato all’improvviso a Roma (dove i due avevano un rinomato studio). La scelta del mito ha un’ovvia motivazione: fin dai sarcofagi paleocristiani la vicenda di Arianna, protagonista di una morte e resurrezione (sentimentale), donna mortale trasformata in divinità dall’unione con il dio, ha assunto valore simbolico delle speranze di ogni buon Cristiano. In aggiunta, nel volume citato all’inizio del post Gabriele Barruca suggerisce un legame fra il mito (e la figura di Bacco) e l’animale simbolo araldico della famiglia Buonaccorsi, la tigre. La vicenda di Bacco e Arianna, insomma, andrebbe letta come un’allusione simbolica alla famiglia e al suo ruolo sociale.

    Quanto detto già lascia capire che la Galleria non è solo un luogo di raccolta di opere d’arte (la famiglia collezionava dipinti fin dal ‘600, quando ancora abitava a Montesanto), ma risponde a un preciso progetto intellettuale e di propaganda sociale. Questo è importante: come ricordavo nel post precedente, non si tratta solo di riconoscere che determinati dipinti illustrino scene dell’Eneide, ma di cercare di capire – attraverso l’esame della storia di quei dipinti, della loro finalità originaria, della collocazione prevista, del ruolo che essi dovevano assolvere all’interno di questa collocazione – come essi si inseriscano nella lettura che dell’Eneide è stata compiuta nei secoli, come si facciano non solo illustrazione, ma anche interpretazione del poema virgiliano. È anche importante riconoscere che questa operazione non è quasi mai compiuta dall’artista (che, al limite, può essere analfabeta), né dal committente (che si sarà limitato a pagare, o al più avrà espresso idee generiche sui suoi desideri), ma da una serie di figure intermedie, da ricostruire volta per volta. Nel caso di Macerata, i documenti d’archivio della famiglia dimostrano che anima dell’operazione fu un fratello di Raimondo, a nome Filippo, abate di S.Quirico e barone di Micigliano. Abate, dunque ecclesiastico, e dunque – secondo gli standard del tempo – acculturato e dotto. È lui l’umanista che sta dietro all’operazione.

    In che cosa consiste questa operazione? Attraverso i legami di famiglia e una serie di intermediari attivi sul mercato dell’arte, Raimondo e Filippo pensarono di decorare i dodici spazi che si aprono lungo le pareti della Galleria, separati dalle finestre, con dodici dipinti di pittori diversi, ma tutti chiamati a illustrare scene dell’Eneide. La parete di fondo (per chi entra nella Galleria dall’esterno) reca un tredicesimo dipinto, posto sopra la porta di fronte a chi entra, illustrante il tema allegorico de La Chiesa annienta gli dèi pagani. Chiaro a questo punto il messaggio: l’Eneide viene letta, in prospettiva dantesca, diremmo noi, come il poema della fondazione di Roma; ma la fondazione di Roma non è importante per l’imperium che la città ha esercitato sul mondo, ma come una tappa essenziale per lo stabilirsi del ruolo e della funzione della Chiesa. La famiglia Buonaccorsi, neo-feudataria di quella istituzione, dall’alto del soffitto controlla e garantisce la riuscita dell’impresa.

    Ecco l’elenco dei dodici quadri che ci interessano:

    I. Antonio Balestra, Venere appare a Enea e Acate

    II. Giovanni Giorgi, Enea fugge da Troia

    III. Giovan Gioseffo dal Sole, Butroto

    IV. Nicolò Bambini, Enea racconta a Didone la caduta di Troia

    V. Francesco Solimena, Enea e Didone si inoltrano verso la grotta

    VI. Marcantonio Franceschini, Mercurio sveglia Enea

    VII. Gregorio Lazzarini, Il suicidio di Didone

    VIII. Giuseppe Gambarini, Enea stacca il ramo d’oro

    IX. Giacomo del Po, Il dio Tevere

    X. Luigi Garzi, Venere nella fucina di Vulcano

    XI. Paolo De Matteis, Venere offre le armi a Enea

    XII. Gregorio Lazzarini, Il duello fra Enea e Mezenzio.

    Due dati saltano agli occhi. Il primo, la varietà degli artisti. Solo Gregorio Lazzarini è responsabile di due illustrazioni, anziché una sola. Sono artisti di ambito svariato: Napoli (De Matteis e Solimena), Roma (Del Po) e Garzi, pur toscano di nascita), Bologna (Dal Sole, Franceschini e Gambarini), il Veneto (Balestra, Bambini, Giorgi e Lazzarini). Il valore dei dipinti, diciamolo subito, non è altissimo. Fra di loro c’è però un capolavoro, il quadro di Solimena (non a caso, finito a Houston). Chi ha familiarità con questo artista, o con le chiese di Napoli dove molto ha lavorato, non se ne stupirà affatto. Secondo elemento: nella scelta dei temi è abbastanza rispettata la trama dell’Eneide, con la sola scomparsa dei libri V, VII (un libro di transizione) e IX (un libro dal quale Enea è assente). L’ordine del testo eneadico non è però rispettato nella dislocazione delle tavole entro la Galleria, come si intravede anche dalla fotografia (vi si riconoscono chiaramente la porta di fondo, il quadro allegorico sulla Chiesa militante e, a sinistra, l’apparizione di Venere a Enea e Acate, e sul lato sinistro della Galleria la grande scena della battaglia con Mezenzio). Ma quello che colpisce per davvero è che la trama si interrompe al libro X, al duello con Mezenzio. Sembra quasi che questi sia l’avversario italico di Enea, non Turno. Il che, però, si capisce, ricordando che Mezenzio nel poema è l’impius Mezentius, il contemptor deum. Vale a dire, l’anti-Enea per eccellenza e il simbolo di quella empietà (dei pagani), che la Chiesa “fondata” (anche) da Enea ha definitivamente sconfitto. L’intento propagandistico guida pure in questo caso le scelte artistiche ed espressive.

    Il quadro di Solimena è bellissimo: nella fascia alta una dea (presumibilmente Venere, data la presenza degli Amorini, oppure la Notte: il poema vorrebbe però che fosse Giunone a presiedere all’unione nella grotta) controlla l’intera scena e provvede a che tutto vada secondo le regole. Venti alati riversano la pioggia dalle brocche; un amorino più grande degli altri (Cupido?) scocca la freccia fatale (fuori tempo massimo, rispetto al racconto virgiliano). Sullo sfondo, in un panorama tempestoso, uomini a piedi e a cavallo si danno alla fuga, in cerca di riparo. Una luce innaturale illumina le due figure in primo piano: Didone, in veste da cacciatrice, ma con eleganza da mannequin (lo conferma Virgilio), addita ad Enea la grotta, che non si vede, alla sinistra di chi guarda; Enea viene preso per mano dalla donna, e da lei guidato. La sua lancia punta a terra, essendo divenuta inutile; il gioco delle gambe rivela la fretta del suo passo, diretto all’opposto delle figure che gli stanno alle spalle. Il viso di lui è fisso nel viso di lei: sicuro, tranquillo e sorridente quello della donna; con espressione fra speranzosa e incredula quello di lui. Simili fortune non capitano tutti i giorni!

    Qui l’illustrazione si fa interpretazione: Didone è l’uomo forte della situazione, Enea coglie l’attimo favorevole; Enea è solo: i suoi uomini gli voltano le spalle. Quelle di Cartagine saranno davvero per lui dulces terrae, ma saranno anche le terre in cui si consuma il distacco del capo dal suo seguito e dalla sua missione: dux femina facti, commenterebbe il poeta, vir uxorius lo chiama esplicitamente Mercurio.

    Gli altri dipinti sono più banali: il bisogno di illustrazione prevale su quello di interpretare, ora puntando al togliere (Gambarini: forse in omaggio alla brevitas virgiliana?), ora al sovrabbondare, in un bisogno di affastellare cose ed oggetti, con antiquaria precisione (Bambini: ma l’importanza assegnata al lampadario centrale è tratto virgiliano). Giorgi fa additare la via del futuro ad Ascanio, il fondatore della gens Iulia – Creusa sullo sfondo sembra la S.Cecilia di Raffaello, e ha il martirio scritto sul volto; Dal Sole immerge Butroto in un’oscurità cimiteriale, idea anch’essa già di Virgilio; Franceschini trasforma la scena in un’allegoria: Cupido si allontana con l’arco spezzato, in movimento diagonalmente opposto a quello del dio – sulla tolda della nave in cui dorme Enea (è evidentemente la seconda apparizione di Mercurio: varium et mutabile femina) un putto soffia in una conchiglia e chiama alla navigazione; Lazzarini disegna, nell’uno come nell’altro quadro, una generica scena di melodramma; De Matteis fa apparire il Tevere, testimone della consegna delle armi e della consacrazione dell’eroe, sotto forma di vecchio seminudo e recline.

    Ecco allora una selezione di alcuni quadri (le immagini vengono tutte dal volume citato, i cui autori conservano i diritti di copyright):

    1.  Antonio Balestra

    balestra

    2. Giovanni Giorgi (il dipinto è conservato alla Galleria Nazionale delle Marche, Urbino)

    giorgi

    3. Nicolò Bambini

    bambini

    4. Francesco Solimena (Museum of Fine Arts, Houston, Texas)

     solimena

    5. Marcantonio Franceschini (Galleria Nazionale delle Marche, Urbino)

    franceschini

    6. Giuseppe Gambarini (Galleria Nazionale delle Marche, Urbino)

    gambarini

    7. Paolo De Matteis (Galleria Nazionale delle Marche, Urbino)

    de matteis

    8. Gregorio Lazzarini

    lazzarini

    9. Francesco Mancini

    mancini

    © Massimo Gioseffi, 2016

  • Uomini e dèi nell’Eneide

    Uomini e dèi nell’Eneide

    In previsione degli incontri di Kavala, ma anche più in generale come tema di riflessione sull’Eneide, propongo qui, in forma parzialmente rifatta e adattata alle circostanze, il testo di una lezione tenuta a Milano il 12 Novembre 2008, in occasione della presentazione dell’edizione italiana del volume di Mary Lefkowitz, Dèi greci, vite umane (Mary Lefkowitz, Dèi greci, vite umane. Quel che possiamo imparare dai miti, a cura di G. Arrigoni, Novara, Utet Università 2008, ISBN 978-88-6008-156-8). La presentazione era stata organizzata da Giampiera Arrigoni; gli interventi di Giuseppe Zanetto (su Euripide) e il mio (su Virgilio) sono stati pubblicati sui “Quaderni Urbinati di Cultura Classica”, 2011, pp. 171-184.

    Ecco dunque il testo promesso:

    Il libro di Mary Lefkowitz chiama in causa il latinista solo per una piccola parte. Il capitolo che più interessa il latinista non  si occupa degli dèi a Roma, ma de ‘Gli dèi nell’Eneide’ (‘The Gods in the  Aeneid’). Viene cioè messo subito in chiaro che a rientrare nel discorso è l’Eneide in quanto poema epico, quel poema epico che ben conosciamo, intriso di Omero e di alessandrinismo, opera di un autore intriso di Omero e di alessandrinismo. Altro sarebbe ragionare circa la religione o la religiosità romana; altro quello circa la religiosità di Virgilio e delle opere virgiliane in toto, un ipotetico ‘Gli dèi in Virgilio’. Lefkowitz parte dalla constatazione di come, a differenza che nella tradizione biblica, gli dèi greci non creino l’uomo e si sentano perciò meno responsabili della sua sorte. L’uomo, a sua volta, non è formato a immagine e somiglianza di nessuna divinità (è semmai vero il contrario). Questo comporta che fra le parti in gioco ci possa essere un divario e, ogni tanto, una vera e propria difficoltà di comprensione. Ma ciò non toglie che gli dèi, e Zeus in particolare, seguano e controllino sempre gli uomini e le loro azioni e le giudichino secondo giustizia. Problema fondamentale è che la giustizia di Zeus non è quella degli uomini – così come i tempi di Zeus non sono i tempi degli uomini. Da questa discrasia deriva il fatto che gli uomini sono incapaci, o comunque in difficoltà, nel riconoscere che cosa è bene e che cosa no, quando gli dèi li hanno beneficati e quando puniti, cosa è giusto e cosa meno. Esemplare il caso dei marinai cretesi nell’Inno ad Apollo attribuito ad Omero: il dio li nobilita rendendoli suoi sacerdoti, ma loro impiegano tempo a convincersi di quanto Apollo sia stato generoso, provano timore, si preoccupano del futuro, chiedono di tornare a casa in nome di un’identità che ritengono smarrita, non accresciuta, dall’intervento divino (Hom. Hymn. 3, 388-544). Gli uomini, insomma, faticano a cogliere l’ordine di giustizia voluto dagli dèi; e gli dèi non li facilitano nel compito, anzi, spesso si approfittano dei mortali per conseguire fini particolari e ignoti alla comune umanità – fini che nella versione migliore, quella del Giove virgiliano, sono rivolti all’unità e alla moralizzazione del mondo sotto l’egida di Roma; ma nella versione peggiore possono risultare egoistici ed individuali.

    Proprio la vicenda di Troia appare esemplare di questa disparità di valutazione, e ciò spiega perché così numerose siano state le sue declinazioni poetiche e perché tutte le generazioni vi si siano confrontate, cercandovi risposta ai propri dilemmi. Nell’Iliade la decisione di Zeus è stabilita fin dall’inizio del poema e non muta nel corso degli eventi. Il comportamento di Paride ha deciso il destino della città: Troia perderà la guerra. Il verdetto non è in discussione; in discussione possono essere la manipolazione di uomini e divinità inferiori e gli avvenimenti che porteranno a quel verdetto. È perciò possibile che Zeus ammetta, e talora addirittura favorisca, l’idea che altri dèi, offesi da singole azioni dei mortali, sentano il desiderio di vendicarsi e che essi vengano aiutati in questa esigenza – ossia, che Zeus riconosca loro il diritto di interferire, come avviene per Apollo, invocato da Crise, o per Teti, supplicata da Achille. La momentanea libertà d’azione di queste divinità non muta il corso complessivo delle cose, che rimane quello stabilito da Zeus. Nel passare a Roma cambia lo sguardo divino: da un lato gli dèi, a cominciare da Giove, tendono a ridursi sempre più a simboli, ad acquisire serietà e dignità a scapito della vivacità, a perdere individualità e libertà. Dall’altro, si allunga lo sguardo di Giove: nell’Iliade le decisioni di Zeus non  vanno oltre i confini del poema; nell’Eneide abbracciano tutto l’arco temporale della Storia, dall’età eroica alla contemporaneità di Virgilio. Riconoscere l’esistenza di questo controllo non è tuttavia una rassicurazione, o almeno non lo è per il singolo. Se infatti si può trovare qualche consolazione nell’idea di un disegno più ampio che sta alle spalle degli avvenimenti, di una Storia che è esplicazione non di una serie casuale di fatti, ma della volontà di un dio che anticipa in qualche misura la provvidenza dei moderni, il sentire dell’individuo si concreta nell’attimo unico ed irripetibile, rispetto al quale non è consolatoria, o è troppo poco consolatoria, la fede in una dimensione lunga della giustizia. Il che significa, in altri termini, che si amplia il divario fra uomo e dio, che aumenta la probabilità da parte dell’uomo di non comprendere i fini del dio. L’uomo giudica sul suo tempo e sul suo ritmo; il dio su un proprio tempo, che è tempo lento, nel quale vengono trascesi i confini della durata umana.

    Tema molto insistito negli studi novecenteschi sull’Eneide è la scoperta, da parte del suo protagonista, dell’incapacità di dominare gli eventi, la rivelazione di un contrasto fra sé e il mondo entro il quale si vede costretto ad agire; mondo che l’uomo, quand’anche di statura eroica, si accorge di non comprendere e di non dominare, finendo per sentirsi fallimentare e solo. All’origine di ciò sta la sfiducia nel proprio destino specifico, che pure non è sfiducia nel tempo lungo della Storia. Conseguenza di una simile idea è, invece, che il discorso sul divino in Virgilio si configura come un tema che non può essere inteso quale puro gioco letterario, nella maniera in cui, a volte, si è cercato di fare. Non tento un catalogo delle numerose affermazioni formulate in proposito. Ricordo soltanto che c’è chi nel poema ha sentito un’eco della giovinezza epicurea del poeta, negando così serietà e credibilità alle figure divine; chi ha sottolineato lo stoicismo progressivamente acquisito da Virgilio,  fino a trasformare l’Eneide in una specie di manuale per il proficiens stoico; chi ha visto in Virgilio un rigido monoteista e chi ne ha evidenziato con forza il carattere di fervente e convinto politeista. Prima del volume della Lefkowitz, il saggio migliore sull’argomento era il bel volume di Denys Feeney, The Gods in Epic, del 1991, riedito in seconda edizione aggiornata nel 1993. Nel suo libro, Feeney difende la verità di comportamento degli dèi virgiliani, la loro irripetibilità di esseri dotati di un preciso carattere, una psicologia, una capacità di agire e reagire diversa da singolo a singolo. Attraverso l’analisi dell’atteggiamento di Giunone nel primo libro del poema, lo studioso sottolinea come sia proprio la serie di pensieri e di azioni della dea a dare grandezza alla sua persona. Feeney segnala anche che sarebbe stato impossibile tentare un’epica di tipo omerico senza assegnare un ruolo importante agli dèi – che potranno dunque essere simboli, ma nello stesso tempo sono, e devono essere, figure umane ben tipizzate, con una loro vita autonoma. Un po’ quello che Proust diceva di certe immagini di Giotto quali l’Invidia degli Scrovegni, simbolo e figura allegorica, ma altresì immagine di straordinario realismo, un concentrato di ciò che sono l’ira e una persona adirata. E ancora: sempre Feeney aveva già ricordato che senza dèi dotati di individualità propria non potrebbe realizzarsi quell’unione di mito e di Storia che è il vero scopo dell’Eneide. Ma per Feeney gli dèi virgiliani sono pur sempre caratteri creati dal poeta su un fondo preesistente, da lui completamente rifatto e reso elemento della letterarietà del poema, personaggi fra i personaggi e come tutti i personaggi indirizzati a uno scopo sostanzialmente narrativo. È invece possibile andare in un’altra direzione e scommettere sulla consistenza degli dèi virgiliani quali esseri dotati di un modo di pensare ‘esterno’, estraneo e indipendente da quello del poeta, soltanto entro certi limiti da lui costruito. Ciò non significa negare né il peso delle convenzioni letterarie, né che alle spalle del poeta ci sia una religione di stampo romano; Virgilio, poi, fa opera di poeta, non di filosofo o di teologo. Ma in ogni caso, per Virgilio e i suoi lettori dietro al testo poetico c’era un tema più ampio e generale – la fragilità e l’ansia di remunerazione dell’uomo – di cui gli dèi della tradizione si fanno interpreti e portatori. E questo tema è la manifestazione di un’inquietudine che non nasce in uno spazio vuoto, ma si fonda su una linea continua, sviluppatasi a partire dall’età arcaica greca; linea nel cui svolgimento Virgilio segna solo una tappa. Lungo questa strada, il poema virgiliano si segnala proprio per quello ‘sguardo lungo di Giove’, che ho già ricordato. Con Virgilio cambia il rapporto fra l’uomo e la divinità, cambio che si traduce in un diverso peso della divinità sulla storia (fabula), e di conseguenza anche sulla Storia. Non è un gioco di parole. Il Giove virgiliano è, in certa misura, bifocale. Vede bene ed estende il suo volere alla Storia lontana, all’evolversi dei secoli, ad avvenimenti che cadono fuori dal racconto e dai suoi limiti; ma sembra poco interessato all’immediato narrativo. Manda Mercurio a rendere malleabili i Cartaginesi allorché i Troiani sbarcano sulle coste libiche (1, 297-304), ma non si preoccupa di redarguire Giunone, responsabile di quel naufragio, né di quanto avverrà dopo. Sicché, quando Iarba lo costringe a rivolgere di nuovo lo sguardo alle coste africane (4, 203-218), lo vediamo ‘distratto’, intento ad altro, disperso nella concentrazione (4, 220 oculos … ad moenia torsit: dove li teneva prima?). Stesso discorso per gli avvenimenti successivi. Giove non si occupa di Didone, come non se ne preoccupano Giunone e Venere, sebbene la prima, almeno formalmente, sia la protettrice di Cartagine e della sua regina; né Giove fa alcunché per impedire o mitigare i combattimenti nel Lazio. L’effetto è sconvolgente. I lettori virgiliani – ma il discorso vale anche per i personaggi di Virgilio – vengono progressivamente a scoprire una verità che domina il caos: e cioè che gli dèi potrebbero facilmente comporre le liti che li dividono e che viceversa rovesciano e amplificano sui mortali; ma di fatto, quando prendono la decisione di riconciliarsi fra loro, lo fanno con la stessa facilità con la quale, prima, avevano litigato. Mentre pari facilità non c’è per i mortali: sicché essi ereditano colpe e litigi non propri; se ne impossessano; li ingigantiscono; li trasformano in ragione esistenziale; poi faticano a liberarsene, e in loro nome vivono, combattono, muoiono, vittime di un gioco di cui gli dèi si sono sbarazzati, ed al quale gli uomini, al contrario, non sanno sottrarsi.

    Tutto ciò comporta un rapporto con la divinità fondato in gran parte sulla distanza, che è un lascito della tragedia greca, ma un lascito che in Virgilio si ingigantisce. Parlando dello Ione (una tragedia sottovalutata di Euripide: per i suoi rapporti con l’Eneide si veda però già M. Fernandelli, ‘Banchetto a teatro e teatro a banchetto: presenze dello “Ione” di Euripide nel libro I dell’Eneide’, Orpheus n.s. 23, 2002, pp. 1-28), Lefkowitz scrive: “Il coro chiude il dramma con una riflessione sull’importanza per gli uomini di regolare le proprie attese sul tempo degli dèi … È pur vero che ai mortali spetta di avere pazienza,perché gli dèi hanno i loro tempi … Ma il dramma chiarisce pure che l’essere di per sé ‘buoni’ non potrà mai bastare ai mortali come garanzia di ottenere ciò che si è meritato”. Sostituiamo a ‘buoni’ il termine latino pii, e siamo già dalle parti dell’Eneide. Nel poema virgiliano gli uomini imparano che un comportamento irreprensibile non è una difesa. Laocoonte, sacerdote di Apollo (in Virgilio, di Nettuno), diviene vittima dell’ira divina nel momento in cui esercita le sue funzioni sacerdotali (2, 199-231). Panto, altro sacerdote di Apollo, protetto dall’infula sacrale, è il solo, oltre ad Anchise e ad Enea, che sia degno di toccare i Penati (2, 318-335 e 429-430); Rifeo è il più giusto dei Troiani, 2, 426-428 – tanto da rendere possibile la sua assunzione nel cielo di Dante, Pd. 20, 67-72. Ma né Panto né Rifeo si salvano: la pietas non basta contro il decreto che condanna tutti i Troiani, ad eccezione di pochi, diversamente selezionati. I personaggi dell’Eneide scoprono che degli dèi non ci si può fidare, nemmeno quando appaiono benevoli: essi omettono dettagli importanti (Enea, ad esempio, non viene avvertito della necessità di perdere la moglie, 2, 735-740 e 777-779, né della morte che attende il padre, 3, 710-715); si servono di chi, in teoria, dovrebbero guardare con benevolenza, come Didone e Giuturna; ingannano in vario modo. C’è una scena nella quale vediamo un dio arrivare, con le sue illazioni, perfino alla soglia della calunnia. È quanto fa Mercurio – signore della menzogna a priori, e di questo si dovrà tener conto. La scena è la seconda apparizione ad Enea, nel quarto libro, vv. 560-570. Mercurio invita Enea a fuggire precipitosamente da Cartagine, a non fidarsi della regina tradita e delusa: varium et mutabile semper / femina. E aggiunge: decisa a morire, Didone agita pensieri di morte anche per te; se indugi, all’alba vedrai il mare rilucere di fiamme e riempirsi di navi – la flotta lanciata all’inseguimento di quella troiana (4, 566-568 Iam mare turbari trabibus saevasque videbis / conlucere faces, iam fervere litora ammis, / si te his attigerit terris Aurora morantem). Ma i lettori seguono passo per passo i pensieri di Didone, il loro farsi e disfarsi. E sanno che la regina non si è proposta, fino a quel momento, una simile possibilità. Anzi, nell’ultimo soliloquio che immediatamente precede l’abbiamo vista ipotizzare ancora di potersi accompagnare ad Enea, da sola o con i più fedeli dei suoi concittadini (vv. 537-546). Sarà più tardi, dopo e non prima delle parole di Mercurio (vv. 591-594) che il pensiero di reagire farà capolino nella sua mente: Ite – dirà allora ai suoi uomini, peraltro assenti dalla scena – / ferte citi flammas, date tela, impellite remos! (per inseguire la flotta e darle fuoco). Ma subito si domanda, v. 595: Quid loquor? Aut ubi sum? Quae mentem insania mutat? e il pensiero le esce di testa – se mai si può dire che vi sia entrato.

    Possiamo continuare un poco. Gli dèi virgiliani talora si schierano senza giustificazioni: è quanto avviene con Marte, che appare, Aen. 9, 717 – lui, che pure sarà padre del fondatore di Roma! – fra le divinità alleate dei Latini. Ma gli dèi sono lontani, non conoscibili e inaffidabili anche per chi proteggono. Venere ed Enea, madre e figlio come Teti ed Achille nell’Iliade, si incontrano uno di fronte all’altra, nel poema, solamente tre volte: a Troia Venere invita Enea alla fuga e gli mostra l’ostilità in atto di tutte le altre divinità, così da convincerlo a partire (2, 589-623); però, come abbiamo visto, si dimentica di indicare al figlio il prezzo doloroso che l’attende, né gli dà indicazioni circa la destinazione e le peripezie che dovrà affrontare – cose che Enea è costretto ad apprendere da solo. Il secondo incontro avviene a Cartagine: Venere sta operando per il figlio, ma Enea non ne ha coscienza e arriva a dubitarne. Quando i due si parlano, Venere è in incognito; la maschera cade solo al momento in cui si allontana (1, 314-410). Ben diversamente, Teti nell’Iliade giungeva da Achille a consolarlo sulla riva del mare e gli appariva di persona, senza camuffamenti; mentre nel tredicesimo libro dell’Odissea Atena poteva conversare con il suo beniamino mettendo da parte il consueto apparato di inganni e di trappole al quale entrambi avevano inizialmente fatto ricorso, quasi come una seconda loro natura. Ma tra Venere e il figlio non c’è colloquio, non c’è confidenza, non c’è intimità, mai. Nel terzo incontro, anzi, la madre si limita a un frettoloso abbraccio e a poche parole per consegnare le armi promesse, e non attende nemmeno la risposta di Enea: Enea per il quale, peraltro, prima si era data non poco da fare, convincendo un esitante Vulcano a costruire le nuove armi, necessarie alla guerra (8, 608-616). Certo, questo non è che un risultato di quel mondo stilizzato tipico dell’Eneide, che poi è il mondo romano nel suo complesso, poco propenso a smancerie e gesti di affettività. Anche fra Enea e Ascanio non c’è colloquio fino alla fine del poema (12, 435-440). È però significativo che, al contrario, fra Enea e il padre troviamo ampie manifestazioni d’affetto, oltre che di rispetto, manifestazioni che l’eroe troiano invano rivendica dalla madre. Anzi, mi pare particolarmente significativo che nel poema virgiliano sia sempre Venere a imporsi al figlio; il quale, se vuole conforto e consolazione (o aiuto pratico), deve rivolgersi non alla madre, ma ai sacerdoti di Apollo, ministri umani di un culto diverso da quello familiare. Non è che Venere non si dia cura del figlio, tutt’altro: e basti ricordare l’invio delle colombe così da consentire a Enea di trovare il ramo d’oro, necessario alla discesa negli Inferi (6, 183-200), o l’intervento con il dittamo a curare l’eroe ferito poco prima del finale del poema (12, 411-429). Ma lo fa come una dea, distante e impegnata nel proprio compito; non come una madre che interviene ad aiutare e consolare il figlio, e nemmeno come una divinità che risponda dappresso all’invocazione del primo dei suoi fedeli.

    Quanto ho detto per Venere vale anche per tutti gli altri dèi virgiliani (che sono sostanzialmente quattro: oltre a Venere, Giove, Giunone e Apollo, quest’ultimo solo marginalmente presente nell’azione, e più attraverso oracoli e sacerdoti che in prima persona – dove anzi lo vediamo operare in un episodio marginale del racconto, 9, 638-663). Giove non fa nulla per rendere la vita più facile ad Enea, e questo sebbene Enea non lo abbia mai offeso personalmente. Così avviene anche per Giunone, che ad Enea fa scontare solo la colpa di essere troiano. Quanto ad Enea, lui può trovare conforto in quel futuro glorioso della sua gente che più volte gli viene pronosticato: ma di quel futuro radioso, per parte sua, non vedrà nemmeno l’inizio, né avrà tempo di gioire della vittoria: poco dopo avere sconfitto e ucciso Turno, la morte attende pure lui, come più volte viene ripetuto nel poema. Ne consegue che Enea non tragga grande piacere dalla propria esistenza e non sia sempre nemmeno consapevole di ciò che gli dèi hanno in serbo per lui. Attraverso questa contraddizione, Virgilio fa capire che cosa significhi farsi carico di una grande missione  dovendosi confrontare con l’ostilità divina e potendo contare solo occasionalmente sul sostegno di divinità favorevoli. Certo, l’eroe troiano è cosciente che senza l’aiuto degli dèi non sarebbe arrivato mai sul suolo italico, e di quell’aiuto non può  fare a meno neppure quando si tratta di stabilire il nuovo insediamento in Italia; ma quel trasferimento va contro i suoi espliciti desideri (4, 340-344), è la rassegnata obbedienza a un ordine che non lo riguarda da vicino e che non capisce nemmeno fino in fondo (4, 345-347). Così come incomprensibili restano, per lui, le lotte nel Lazio. Mai Virgilio ci fa dimenticare (o fa dimenticare al suo eroe) che la guerra è stata causata da una dea e che un accordo fra gli dèi avrebbe potuto fermarla … Anche nell’Iliade l’ira è causa di morte e dolore, ma nell’Eneide si tratta dell’ira di una divinità, perciò più potente e irragionevole perfino dell’ira del massimo fra i guerrieri Come scrive giustamente la Lefkowitz, “In quest’epoca più recente [alias, l’età di Virgilio] le forme esteriori della religione tradizionale non sono mutate, ma i poeti hanno cominciato a farcene comprendere con maggiore precisione i limiti di adeguatezza”. Compito delle generazioni successive sarà sottolineare ulteriormente i limiti di questa ‘adeguatezza’ e cercare formule sostitutive. Ma, a quel punto, la storia degli dèi greci sarà giunta alla fine.

    Due piccoli corollari vorrei ancora aggiungere a questo post: il primo consiste nel sottolineare come il quadro delineato faccia sì che Enea, come Turno, Didone e tutte le altre vittime del poema (tale si può considerare perfino Enea) siano figure in certa misura fortemente individuate, ma nel contempo siano pure figure/simbolo dell’intera umanità. Ci troviamo cioè un passo avanti in quel processo di ‘trasformazione in romanzo’ dell’epica che culminerà nelle Metamorfosi apuleiane, nelle quali non troviamo più un eroe simbolo dell’umanità in generale, come Enea, ma un uomo qualunque, Lucio, figlio di nessuna dea, eppure ugualmente protetto dalla benevolenza di Iside e innalzato agli stessi dilemmi di Achille e di Enea. Il secondo corollario è questo: ferma restando l’immagine dei rapporti fra dèi e umani in Virgilio delineata finora, è giusto aggiungere che due elementi arricchiscono, completano, ma anche complicano il quadro. Uno è il richiamo, da parte di Niso, alla dira cupido (quella che gli uomini eleggono a loro specifica divinità) a 9, 184-185, all’inizio di un episodio famoso. Di fronte al progetto di una grande impresa, Niso, parlando all’amico Eurialo, si chiede infatti: … Dine hunc ardorem mentibus addunt,/ Euryale, an sua cuique deus fit dira cupido? E di dira cupido avevano già parlato la Sibilla rivolta a Palinuro, 6, 373 (per un’azione che vorrebbe violare tutte le leggi dell’Oltretomba), e soprattutto, in termini filosofico/religiosi, Enea nel colloquio dei Campi Elisi con il padre: … Quae lucis miseris tam dira cupido? (6, 721, in riferimento alle anime purgate e desiderose di tornare a nuova vita sulla terra). L’altro elemento è costituito da una categoria intermedia di divinità, quella degli dèi minori, che furono uomini e ora sono dèi. Il divario uomo/dio è infatti rotto in almeno tre modi all’interno dell’Eneide: attraverso le similitudini, che abbassano gli dèi al rango di umani, come nel caso di Vulcano paragonato alla donnetta che si sveglia nel cuore della notte per tessere e sostentare così la propria vita, 8, 407-415, o dell’oratore che placa la folla e Nettuno che seda la tempesta, 1, 148-15. Poi ci sono le divinità indigetes, il destino che attende anche Enea dopo la sua morte, senza dimenticare figure già riconosciute ufficialmente come Fauno, Pico, Carmenta, Giuturna e soprattutto Ercole (ridotto al silenzio e al pianto nell’episodio che lo vede in azione, la morte di Pallante, 10, 464-465; ma importante controfigura di Enea e di Augusto nel libro ottavo). Proprio quest’ultimo libro dà corpo al terzo legame significativo fra mondo umano e mondo divino. Penso alla grande scena che inizia con i riti in onore del dio alla corte di Evandro, prosegue con la passeggiata di Evandro ed Enea sul sito dove sorgerà Roma, finisce con un invito esplicito ad Enea (vv. 364-365) … te quoque dignum / finge deo. Per quello che sappiamo di questa scena e delle sue valenze etiche e politiche – soprattutto politiche, per cui Enea lì è, grazie a una coincidenza di azioni e di date, sicura prefigurazione di Ottaviano di ritorno dall’Oriente – e per quello che ancora sappiamo dell’Eneide e della sua epoca di composizione, connessa a un’immagine della Storia che termina con la morte di Marcello, discendente naturale del principe, e quindi Storia che con quella morte vede rimesso in discussione il proprio sistema di valori e il proprio sguardo sul futuro, viene il sospetto che lì si nasconda il vero significato del poema. Opera legata alla tradizione, certo; però anche opera legatissima a un’attualità contemporanea, che è poi l’attualità della Roma augustea; nella quale le divinità e la mitologia servono soprattutto da modello di comportamenti e scelte che riguardano da vicino la quotidianità di chi scrive e dei suoi lettori.

    © Massimo Gioseffi, 2016

  • Virgilio illustrato I – Pompei

    Virgilio illustrato I – Pompei

    Inizio una serie di post dedicati alle illustrazioni virgiliane. Può sembrare strano, ma non esiste una pubblicazione moderna che offra un catalogo esaustivo e ragionato delle illustrazioni all’Eneide. Forse perché il materiale è perfino troppo…

    Non è naturalmente mia intenzione sostituirmi a quel testo, che dovrà essere il prodotto di molti, certosini ricercatori. Qui vorrei offrire un po’ di immagini, con una logica che le giustifichi. In internet qualcosa di simile è stato tentato da un sito francese, realizzato dall’Académie di Nancy-Metz, con il titolo “De l’Énéide aux images” (www4.ac-nancy-metz-fr/langues-anciennes/Textes/Virgile/Venus.htm). Il sito si articola in quattro capitoli (“Venus”, “Anchise”, “Énée, Didon”, “Énée, Virgile, enfers et prophétie”) e non tiene conto solamente delle illustrazioni all’Eneide, ma di tutto il materiale genericamente eneadico, con o senza riferimento diretto a Virgilio. Inoltre, del poema, non sono presi in considerazione tutti gli episodi; delle immagini fornite sono indicati con precisione i dati catalogici e di conservazione, ma la loro suddivisione non consente di ricostruire né ambienti, né luoghi o materiali – una storia che abbia senso, insomma – delle illustrazioni medesime. L’interdisciplinarietà è una bella cosa, e nell’interdisciplinarietà il latino troverà, anche in futuro, un proprio spazio, anche quando non lo si insegnerà più come materia a sé stante. Però, anche l’interdisciplinarietà bisogna saperla fare: accumulare o, peggio, accatastare i dati può essere provocatorio, ma non costruisce granché. L’idea alla base di questi post è allora che ognuno di essi deve avere un tema unitario: il luogo in cui sono nate le illustrazioni, l’occasione, il materiale (tele dipinte, ma anche oggetti preziosi, arazzi, mosaici, cassoni da biancheria con decorazioni auliche ecc. ecc.). È nel progetto unitario, infatti, che si riconosce il senso di ogni singola operazione: l’illustrazione diventa così lettura, e si fa parte della storia del testo.

    Incomincio da un luogo che è, in un certo senso, un non-luogo: Pompei. Solo l’eruzione del 79 d.C. ha trasformato Pompei in un museo consultabile nella quotidianità di una data sicura, realizzando almeno in parte quell’unità cui facevo cenno prima. Proprio Pompei ci consente però di distinguere fra illustrazioni sicuramente connesse a Virgilio e all’Eneide e illustrazioni solo genericamente richiamantesi al mito di Enea.

    Partiamo da una delle più famose, l’affresco in IV stile pompeiano, datato fra 54 e 79 d.C., proveniente dalla cosiddetta casa di Sirico (e oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 9009), che raffigura Enea curato da Iapige.

    01 enea e japige

    Nell’affresco si riconoscono chiaramente Enea, in abito militare e nella posa del guerriero ferito, nota anche da altri modelli iconografici; il medico Iapige, in abito servile, chinato a cauterizzare la ferita; Ascanio, affranto, alla sinistra del padre, che gli cinge le spalle in un gesto di affetto e di conforto (di lì a poco, prima di riprendere la battaglia, Enea rivolgerà al figlio le uniche parole dirette che gli sentiamo pronunciare nel poema). Sullo sfondo alcuni soldati passano e guardano – durante l’assenza di Enea dal campo i combattimenti non si interrompono. A sinistra, in secondo piano, così da mantenere l’illusione prospettica del movimento e della distanza, si avvicina Venere, a petto scoperto, veste disciolta, capelli al vento, piedi intenti alla corsa. In mano reca un ramoscello di dittamo, la pianta miracolosa che consentirà la guarigione di Enea, riuscendo laddove l’arte medica di Iapige si deve riconoscere sconfitta. Ora, tutto questo episodio è narrato nel XII libro dell’Eneide e, per quanto ne sappiamo, solo nell’Eneide. È un’invenzione virgiliana, che introduce un tocco di favoloso in un poema dove il favoloso è spesso bandito, ma che qui ci sta bene perché siamo poco prima del finale (i vv. 318-323 per il ferimento, 383-431 per la guarigione) e l’episodio serve a sancire il carattere divino di Enea, che non può essere ferito; se viene ferito, lo è da mano ignota, come appunto accade; che se è ferito, per guarire ha bisogno di una pianta magica e un’aiutante divina (o meglio: alla cui guarigione cooperano, senza farsi pregare, pianta magica e aiutante divina). Rispetto al racconto di Virgilio viene cancellata la figura di Acate, il fidus Achates che ha aiutato l’eroe claudicante ad allontanarsi dal campo; Ascanio ha veste di puer, che mal si conviene a un campo di battaglia (anche se lui non partecipa ai combattimenti); Venere è affannata e discinta per la corsa, ma anche per indicare che… è Venere. Il resto è un’illustrazione fedele, e interessante, dell’arte di un medico nella prima metà del I secolo d.C.

    L’episodio più famoso dell’Eneide (e per dei cittadini romani, l’atto fondante la loro comunità) è la fuga di Enea da Troia, assieme al figlio, al padre, ai Penati. La scena ha molte raffigurazioni a Pompei, ma a differenza della precedente non ha bisogno dell’Eneide per divenire parte del racconto eneadico, perché la vicenda è nota almeno dal VI secolo a.C. e serve a contrapporre un Enea pius a un Enea traditore di Troia, come pure in alcune varianti del mito si raccontava. Quindi, meno immediato è, nel caso delle raffigurazioni che propongo ora, il richiamo al poema virgiliano: in questa declinazione della storia, l’avere Enea scelto, una volta graziato dagli Achei, di portare fuori da Troia in fiamme il padre e il figlio sta alla base della sua conclamata pietas. A Roma era ben noto, insieme ad altre raffigurazioni, il gruppo statuario che decorava l’esedra Nord-Ovest del foro d’Augusto. A Pompei la scena si trova in mosaici, affreschi, terrecotte, come quella che propongo ora, e addirittura negli ornamenti della calotta di alcuni elmi militari. Ecco per intanto la terracotta, anch’essa datata al I secolo d.C., conservata al Museo di Napoli, inv. 110338:

    terracotta

    Ed ecco un elmo decorato con la caduta di Troia (scena che ci interessa inclusa):

    SC52935

    L’episodio è talmente famoso, dicevo, che se ne danno anche delle evidenti parodie. La più celebre è un affresco proveniente dalla poco lontana Stabia (e conservato come sempre al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 9089), in cui i tre protagonisti ‘umani’ dell’episodio hanno testa canina e lunghi falli, rimandando così a certe antiche rappresentazioni vascolari di scene d’atellana:

    eneide 7

    Al contrario, sulla facciata di altra abitazione Enea è raffigurato in veste di guerriero romano, ad enfatizzare la sua condizione di ‘fondatore ideale’, se non materiale, di Roma, e di primo Romano ad honorem, che è, per l’appunto, uno dei punti fermi dell’Eneide. Qui però preferisco proporre una raffigurazione intermedia fra i due estremi citati: la scena, assai concitata, è infatti decisamente seria; il contesto meno.  Siamo nella casa di Marco Fabio Ululitremulo, di professione tessitore. Lo ricorda un graffito (CIL IV, 9131) che modifica l’inizio del poema virgiliano: Fullones ululamque cano, non arma virumque (ulula è la civetta, animale sacro ad Atena, dea della tessitura).

    eneide 5 - ululitremulus

    Enea, in fuga, in disordine, con i capelli poco curati, reca sulle spalle il padre, rimpicciolito e rinsecchito, che a sua volta tiene in mano, ben conservati nella capsa, i Penati di Troia. All’eroe è assegnata la figura di centro, che domina lo spazio e la scena. Non meno risalto è però concesso al figlio, più grande di quanto sarebbe legittimo aspettarsi, e tutt’altro che avvinghiato al braccio paterno, come lo descrive Virgilio, nella difficoltà di seguire il genitore non passibus aequis. Qui Ascanio tiene per mano il padre e, forse per risultanza prospettica, sembra guidarne l’azione. È lui del resto il futuro di Troia, è lui che fonderà Alba e darà origine alla catena di re antenati diretti di Romolo; è da lui, infine, che si faceva discendere la gens Iulia

    Una serie di affreschi è più difficile da decifrare. Ecco ad esempio una scena che, a detta degli studiosi, potrebbe rappresentare l’arrivo di Enea a Delo e la consultazione dell’oracolo di Apollo, alla presenza del sacerdote Anio; ma secondo altri raffigura la profezia di Cassandra circa l’imminente distruzione di Troia; per altri, altro ancora. L’affresco, come si intuisce, non porta indicazioni precise, e lo stato precario di conservazione non aiuta certo la comprensione (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 8999):

    cassandra o anio

    Anche nel caso del prossimo affresco, proveniente dalla cosiddetta “Casa di Meleagro”, i dubbi sono giustificati (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 8898). Nella scena è stato letto il suicidio di Didone; sullo sfondo si vede allontanarsi la nave di Enea. La regina sarebbe qui accompagnata da due ancelle e dalla raffigurazione dell’Africa, la sua terra, effigiata con corna taurine, simbolo di fertilità:

    eneide 4 - casa di meleagro

    Per non eccedere, chiudo questa rassegna con un solo, ultimo affresco, proveniente dalla cosiddetta “Casa del Citarista”. Si tratta di un dipinto nel III stile pompeiano, dunque presumibilmente anteriore al 50 d.C., nel quale viene raffigurata una coppia di giovani amanti, davanti a una grotta, inquadrata da architetture, alla presenza di altre due figure.

    enea2

    La posa dei due, la presenza del cane da caccia ai loro piedi, la grotta sullo sfondo hanno fatto ravvisare nella scena l’incontro di Enea e Didone, allo scoppiare del temporale, presso un antro nell’entroterra di Cartagine. Più problematiche le due figure umane, che sembrano in veste servile, e quindi non possono rappresentare altri personaggi dell’Eneide. Per questo, non tutti accettano l’idea che la scena debba illustrare il poema virgiliano, e sono state avanzate anche altre ipotesi. Non intendo farne qui la storia. Più mi interessa osservare che, se scena del poema ha da essere, quello che ha colpito l’anonimo pittore era la possibilità di avvalersene per una raffigurazione di carattere amoroso. Un destino al quale, come vedremo, l’Eneide sarà legata anche in non poche occasioni dell’età moderna!

    © Massimo Gioseffi e Niccolò Chiesa per i testi

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