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Legende



Il genere della Legende prende nome dal neutro plurale sostantivato del participio futuro passivo latino del verbo legere, “Legenda”, ossia cose, brani da leggere. L’etimologia si rifà all’abitudine diffusa nei monasteri medioevali di leggere ad alta voce in refettorio durante la consumazione dei pasti, brani tratti dalle vite dei santi – di solito venivano letti passi della biografia di un determinato santo nel giorno del calendario a lui dedicato – in modo da invitare i monaci a trarne esempio sulla via quotidiana dell’edificazione personale.
Quello che nei monasteri veniva letto dell’esistenza terrena del santo di turno non era però mai soltanto un resoconto delle tappe della sua vita concreta, compilato in forma realistica sulla base di dati e fatti verificati; gli ascoltatori non venivano cioè confrontatiti con una vera e propria biografia, bensì piuttosto con l’analisi di una personalità modello. L’intento era quello di dimostrare, attraverso le gesta di un santo, l’intervento benefico di Dio nel mondo, ovvero, detto in altri termini, di illustrare in maniera semplice la dialettica tra immanenza e trascendenza. Per questa ragione gli elementi favoriti in queste opere agiografiche erano quelli dai tratti sovrumani, soprannaturali, inspiegabili, tesi insomma a dimostrare che la persona al centro del resoconto era stata eletta da Dio perché collaborasse al suo piano salvifico e che pertanto godeva dei suoi favori e della sua grazia, in maniera peculiare e speciale. Scopo eminentemente didattico aveva dunque la Leggenda, nata per offrire consolazione e conforto, ma soprattutto una traccia da seguire e imitare, a chi si era votato alla vita religiosa.

Questo aspetto della Legende non deve però indurre a confondere questo genere letterario con il Märchen, la favola. Infatti, diversamente dalla favola, la leggenda non sfocia mai in una dimensione fantastica del tutto avulsa dalla realtà, dove diventa automatico il verificarsi di eventi portentosi; i miracoli che avvengono nella Legende sono anche profondamente diversi da quelli che accadono nella Sage, dove pure succedono fatti insondabili in uno spazio magico e stregato; ma mentre la dimensione della saga è del tutto pagana, quanto è narrato nella Legende è sempre inserito in una cornice religiosa. Per questo suo complesso carattere la leggenda è oggetto di studio non solo in ambito letterario, ma è materia d’indagine anche di altre scienze quali la teologia e l’antropologia, per cui la ricerca su questo genere presenta uno spiccato carattere interdisciplinare.

In ambito cristiano i santi si dividono in due grandi categorie, che corrispondono a due diversi tipi di Legende. Da un lato ci sono quelle dedicate ai martiri (Märtyrerlegenden), morti all’inizio del Cristianesimo per difendere la loro fede dai persecutori. La classica Legende dedicata a un martire è quindi una storia di passione che descrive le circostanze che spinsero la vittima al sacrificio di sé in nome della fede. Fin dalla tarda antichità questo tipo di leggenda si fonda su tre elementi costanti: cattura, interrogatorio, uccisione. Si tratta in pratica della narrazione di un processo, eseguito secondo un preciso protocollo giuridico. A questi elementi basilari se ne aggiungono poi, col tempo, altri: la tortura, il miracolo, la conversione dei nemici e via di seguito. All’aumento di queste parti descrittive corrisponde anche una dilatazione quantitativa della leggenda, alla quale viene aggiunto un preambolo (Vorgeschichte) che di solito traccia uno schizzo dei motivi che hanno condotto all’incarcerazione dell’imputato che pagherà con la vita la sua strenua fedeltà a Dio. Per aumentare la tensione nel lettore si inserisce poi nella leggenda tutta una serie di elementi favolosi – si pensi alla Leggenda di San Giorgio, dove il santo a cavallo uccide un micidiale drago – oppure si insiste sulle particolari qualità di chi viene illuminato dalla luce divina: per esempio sul particolare senso di misericordia che coglie S. Martino, prima soldato crudele, di fronte al poverello infreddolito; oppure si sottolinea, come nel caso di S. Francesco d’Assisi, il suo radicale passaggio da una vita dispendiosa e facinorosa al suo totale rifiuto dei beni terreni con la conseguente dedizione agli umili e agli oppressi.
Un’appendice (Nachgeschichte) conclusiva racconta infine di solito del funerale del martire, ne descrive il cadavere, il momento della morte, illustra le reazioni del giudice o del boia o si sofferma su altri dettagli della vicenda del santo.

Accanto alle leggende dei martiri ci sono quelle dei confessori (Bekennerlegenden), che non subiscono una morte ingiusta, ma vivono una vita tutta tesa a testimoniare la forza di un ideale. Qui non ci sono né scene di violenza, né processi, né finale cruento; vengono invece presentati alcuni significativi episodi di una vita, secondo il principio classico “pauca e multis”, scelti a testimonianza del potere che deriva agli individui da una fede incrollabile. I vari episodi vengono incatenati vuoi in successione cronologica, vuoi seguendo un preciso filone tematico, fino a rappresentare per tappe l’evoluzione di un uomo sulla via verso la perfezione.

A prescindere dalle storie di santi presenti già nella Bibbia, la leggenda conosce una prima fioritura letteraria – naturalmente in latino - fra il sesto secolo e l’epoca carolingia. La più antica leggenda in antico-alto-tedesco risale all’XI. secolo: lo “Annolied” [Canzone di A.], scritto in versi a rima baciata e suddiviso in strofe di varia lunghezza, intorno al 1080. Dopo un lungo preambolo - in cui si traccia una storia della creazione e del peccato originale per arrivare al momento di redenzione con l’avvento di Cristo e l’opera pastorale di apostoli e santi - il canto passa a illustrare la vita esemplare del vescovo Anno von Köln (vissuto nell’undicesimo secolo e morto nel 1075). Il testo doveva probabilmente contribuire alla canonizzazione del prelato, i cui natali offrono all’autore anonimo lo spunto per tracciare una storia della città di Colonia, dalle origini romane fino alla guerra condotta vittoriosamente da Cesare con l’aiuto dei Germani contro Pompeo. La canzone passa poi a descrivere la città in epoca cristiana, delinea la storia del suo vescovado e su questa inserisce la vita di Anno presentata come “imitatio Christi”: pur scacciato da Colonia, Anno perdona la sua ingrata città e opera miracoli nel mondo, rimanendo fiero e altero di fronte ai potenti e invece dandosi con abnegazione agli umili e ai bisognosi. La vicenda di Anno è presentata cioè come una storia di salvezza in sedicesimo.
Anche nel XII e XIII secolo la maggior parte delle leggende continuò a essere scritta in latino. La raccolta di leggende più importante del Medioevo è la “Legenda aurea” (1263-1273), detta anche legenda sanctorum, pubblicata da Jakob von Varazze (pseudonimo di Jacobus de Voragine, 1228-1298), predicatore domenicano, poi arcivescovo di Genova. Le vite dei santi presentate in questo testo non sono biografie nel senso stretto del termine, ma aneddoti, ordinati secondo la cronologia dell’anno liturgico a partire dall’Avvento e raggruppati al fine di sottolineare le particolari virtù dei diversi santi (si va dagli apostoli a Francesco d’Assisi a Bonaventura) e i loro poteri miracolosi allo scopo di invitare i lettori insieme al buon senso e al credo nel portentoso.

Tuttavia anche alcuni narratori d’epoca cortese, che scrivevano in medio-alto-tedesco, non disdegnarono affatto anche soggetti classici da leggenda. Fra questi merita menzione Hartmann von Aue (1165-1213) che con il poemetto Gregorius auf dem Steyne [Gregorio sullo scoglio] trasferisce nella letteratura cristiana il mito di Edipo, caricandolo di motivi cavallereschi e trasformandolo nella triste storia di un "buon peccatore", che, consapevole delle proprie colpe, deve molto faticare per ottenere il perdono di Dio. Figlio dell'amore incestuoso di due fratelli, orfani del duca di Aquitania, alla nascita Gregorio viene affidato dalla madre alle onde del mare. Il padre, che ne è anche lo zio, parte per una crociata in Terra Santa, dove muore di crepacuore, mentre la madre assume il potere salendo al trono. La botticella che racchiude il neonato insieme a una ricca dote viene raccolta da un pescatore, che, su consiglio dell'abate del convento, accetta di allevarlo da cristiano. Il giovane cresce forte e sano in casa del poveruomo, mentre il monaco si occupa della sua formazione spirituale e culturale. Ma un giorno Gregorio scopre di essere un trovatello e, per non esporsi alle calunnie della comunità, parte facendosi cavaliere di ventura. Guerriero generoso e impavido, egli riconquista ignaro le terre dei suoi antenati, cadute in mano a un usurpatore, e, senza riconoscerla, ne sposa la regina, sua madre. Presto però gli si rivela tutta la cupa vicenda della sua vita: per espiare la propria colpa, Gregorio si fa incatenare a uno scoglio e vi rimane per diciassette anni, acquistando fama di santità.
Alla fine, per volere divino, viene liberato, strappato al romitaggio e eletto papa. La trama del poemetto medioevale, in cui ai toni dell’agiografia si mescolano quelli dell’epos eroico, fa da sfondo anche a uno degli ultimi romanzi di Thomas Mann (1875-1955), Der Erwählte [L'eletto, 1951], che rivista la leggenda in chiave parodistica. Ma mentre i versi ingenui del monaco tedesco, pur toccando temi scabrosi, perseguivano l'obiettivo di dimostrare quanto il pentimento fosse caro a Dio, capace di perdonare anche i più orrendi peccati, l’opera di Mann, dissacrante e raffinato, non ha finalità edificanti, benché, pur nel gioco di un faceto stile arcaicizzante, non manchi di offrire al lettori spunti di riflessione.

In generale la Legende, in prosa o in versi, adotta uno stile semplice e di immediata comunicazione, il “sermo humilis”, ma in realtà questo genere letterario presenta una notevole flessibilità morfologica. Walther von Speyer per esempio, vissuto nel tardo X. secolo, presenta, accanto a una versione in prosa bassa della sua leggenda di S. Cristoforo, anche una trasposizione della vita del santo in esametri raffinati, caratterizzati da un lessico forbito e una certa ridondanza retorica, tesi a raggiungere anche il pubblico dei colti.
Di solito tuttavia, la Legende si rivolge al vasto pubblico dei meno acculturati o dei non istruiti. Anche per questa ragione essa cade in disgrazia presso gli umanisti, che la considerano un genere popolare e banale, una forma di lettura destinata soltanto all’intrattenimento delle masse. Nel corso del Rinascimento la leggenda continua a essere considerata una forma espressiva di second’ordine, priva di vera dignità letteraria; con la Riforma luterana poi, dato il suo atteggiamento realistico e iconoclastico, la Legende subisce un ulteriore discredito, e finisce per essere considerata soltanto una sorta di storia devota per il popolo ingenuo. Per poter disporre di una raccolta di vite di santi davvero consistente bisogna così arrivare in epoca barocca: una collezione latina di grande diffusione anche in area tedesca sono gli Acta sanctorum, pubblicati a partire dal 1643 per opera di esponenti dell’ordine dei Gesuiti, fattisi paladini della Controriforma. La stesura di quest’opera, che racconta le vite dei diversi santi seguendo la successione dei mesi del calendario, venne più volta interrotta e si protrasse fino agli quaranta del Novecento, per cui presenta i più svariati criteri stilistici ed espositivi.

Con l’avvento dell’era die lumi, della Aufklärung, il disprezzo per la leggenda diventa ancor più profondo, anzi essa diventa addirittura oggetto di satira e di parodia, per esempio in uno scrittore come Martin Wieland (1733-1813). All’inizio dell’epoca romantica Gottfried Herder (1744-1803), soprattutto nei suoi scritti teorici riuniti con il titolo di Adrastea tenta invece di rilanciare la leggenda, rivalutandone i contenuti poetici e facendosi paladino di un suo rinnovamento. “Eine indische Legende”, ossia una leggenda indiana, definisce Goethe (1749-1832) la propria ballata Der Gott und die Bajadere [Il dio e la bajadera, 1797], dove contravvenendo allo schema classico del genere, è una donna dalla moralità non proprio ineccepibile a dimostrare grande spirito di sacrificio e grande capacità di abnegazione.
Grande interesse dimostrano poi i romantici per la leggenda; nel loro culto per l’arte e la religione del Medioevo essi vedono nella Leggenda una sorta di contraltare cristiano alla mitologia classica. I più importanti poeti romantici tedeschi hanno coltivato questa forma espressiva; così i fratelli August Wilhelm (1767-1815) e Friedrich Schlegel (1772-1829) scrissero rispettivamente la storia della vita di Sankt Lukas e Sankt Reinold, Achim von Arnim le Christuslegenden [Leggende di Cristo] e Clemens Brentano (1778-1842) la Legende von der heiligen Marina [Leggenda di santa Marina, 1841]. Aspetti da leggenda sono presenti anche nel dramma di Ludwig Tieck (1773-1853) Leben und Tod der heiligen Genoveva [Vita e morte di Santa Genoveffa, 1800], teso a far rivivere l’afflato di una religiosità medievale inevitabilmente idealizzata. Inoltre, come i miti, le saghe e le fiabe, le leggende sono considerate dai Romantici elementi di quel comune patrimonio culturale che vale la pena di salvare dall’oblio e collezionare, e così fanno infatti i fratelli Grimm.
Nel corso dell’Ottocento, con l’avvento del Realismo, la leggenda conosce una nuova fase di decadenza e continua a essere coltivata quasi solo in ambito cattolico a scopo didattico ed edificante, al di fuori del quale viene spesso osteggiata o addirittura derisa. Nei versi della sua leggenda su Tannhäuser (1836), dedicata al mitico Minnesänger e al suo pellegrinaggio di penitenza a Roma da papa Urbano II, l’ironico Heinrich Heine (1797-1856) mescola i toni devoti a una certa aulicità dell’epica eroica, mentre trasferisce in ambito ebraico il resoconto della tribolazione al centro del frammento leggendario Der Rabbi von Becherach [Il Rabbino di B., 1840], dove il protagonista del titolo, uomo saggio e timorato di Dio, fugge da Bechrach, la cittadina sul Reno dove presta il proprio servizio alla comunità, facendosi carico di un delitto non commesso. Il suo sacrificio risulta inutile, perché l’intera comunità viene annientata; questa storia di dolore tuttavia, assume nel corso dello svolgimento, toni satirco-burleschi in piena adesione con lo stile sbeffeggiante di Heine, che passa qui da un cupo canto di martirio alla diretta comicità.
Il lucido materialista e laico convinto Gottfried Keller (1819-1890) offre un bell’esempio di parodia di questo genere tradizionale nelle sue Sieben Legenden [Sette leggende, 1872], storie di santità solo apparente, private di qualsiasi tratto ascetico e sacrale. Ambientate in parte nella tarda antichità, in parte nel Medioevo cristiano – segno di distanza dell’autore dai propri tempi, per lui sempre più insoddisfacenti – le leggende, sette come i vizi capitali o come le opere di misericordia, quindi corrispondenti a un numero di grande significato simbolico all’interno della liturgia cristiana, sottraggono al concetto di santità ogni valenza trascendente e lo reinterpretano quale raggiungimento della personale felicità sulla terra. Pur essendo innamorata del console romano Aquilino, la bella e colta Eugenia, protagonista della prima leggenda, rifiuta di sposarlo, si converte al cristianesimo, si traveste da monaco, viene calunniata e arrestata e torturata, ma alla fine sposa il suo console e diventa la santa protettrice delle fanciulle che a scuola sono svogliate e zuccone. Nelle tre leggende successive, Die Jungfrau und der Teufel [La Vergine e il diavolo], Die Jungfrau als Ritter [La Vergine in veste di cavaliere], Die Jungfrau und die Nonne [La Vergine e la monaca], la Madonna si sostituisce prima all’infelice Bertrada che il bieco consorte vuole consegnare al demonio per riceverne un compenso ricchezze da distribuire in beneficenza (in realtà frutto di malvagità); poi assume le sembianze del cavaliere Zendelwald, che si batte in torneo per poter sposare Betrada; infine rimpiazza la monaca Beatrice che fugge dal convento con bel cavaliere, mette al mondo otto figlie e se ne torna in monastero solo da anziana. Insomma: la vergine Maria diventa veicolo dell’appagamento umano e terreno dei suoi adepti. Il monaco Vitale, protagonista di Der schlimmheilige Vitalis [Il malsanto Vitale], volendo riportare le donne di malcostume sulla retta via, si finge dissoluto e finisce fra le braccia di una bellissima pagana che lo converte ai piaceri del mondo. Solo nella morte, avvelenandolo con le mele nascoste in un cesto di fiori, la leggiadra fanciulla protagonista di Dorotheas Blumenkörbchen [Il cestello di fiori di Dorotea] riuscirà a raggiungere l’innamorato che in vita non le è stato concesso di sposare. Fanatica della danza, Musa, l’eroina dell’ultimo brano del ciclo, Das Tanzlegendchen [La piccola leggenda della danza], si lascia convincere da Re David ad abbandonare il mondo per potersi dedicare a balli meravigliosi in paradiso. Tutte le leggende celebrano il trionfo dell’umana natura, con la sua vitalità sangigna ed edonistica, sulla sterilità dell’ascesi.

Leggende al contrario, ossia anti-leggende, poiché mettono in dubbio il valore del concetto stesso di santità, possono essere considerati due racconti di un altro scrittore zurighese, Conrad Ferdinand Meyer (1825-1898). Nella novella Der Heilige [Il santo, 1880], ispirata alla figura di Thomas Becket, vescovo di Canterbury, che Meyer conosceva bene grazie alla sua attività di traduttore di cronache e libri di storia dal francese, vengono messe in discussione le motivazioni della popolarità del protagonista, considerato santo, ma in verità più assetato di potere che desideroso di render ebenefici al prossimo. Nella vicenda di Astorre Vicedomini, il religioso protagonista di Die Hochzeit des Mönchs [Le nozze del monaco, 1884] si discute sui vincoli della vocazione partendo dalle scelte di un uomo che, per amore della cognata rimasta vedova, getta il saio, e abiurando ai voti di castità e povertà dà inizio al proprio processo di decadenza morale e umana.
Una raccolta di storie a carattere religioso immerse nel mondo moderno sono le Legenden der Zeit [Leggende del tempo, 1909] di Rudolf G. Binding (1867-1938), fra le quali c’è la vicenda di Coelestina, un angelo caduto dal cielo, o quella di un S. Giorgio novecentesco [Sankt Georgs Stellvetreter], che non trova un guerriero senza macchia come lui, in grado di fargli da sostituto e supplente per un anno.

Al rinnovamento della Leggenda tradizionale, benché sganciata da una cornice cristiana e mirata a comunicare un messaggio etico universalmente valido, contribuirono racconti come Siddharta (1922) di Hermman Hesse (1877-1962) o Die Augend des ewigen Bruders [Gli occhi dell’eterno fratello, 1922] di Stefan Zeig (1881-1942), ambientante entrambe nel mondo buddista.
Collocato nell’India favolosa del VI secolo a. C., il racconto di Hesse traccia il viaggio esterno ed interiore di Siddharta che, alla ricerca di una dimensione alternativa a quella propostagli dal padre brahmino, tenta le vie più svariate verso la conoscenza: si fa seguace di una setta di asceti, ascolta le prediche di Gotama, ossia il Buddha, insoddisfatto si getta nel vortice del piacere carnale e nella smania d’acquisizione di ricchezza per capire alla fine che le cose del mondo sono insulse ed effimere. Mediante la rinuncia e la meditazione, Siddharta riesce ad elevarsi “al di sopra del fluire delle forme”, a superare la contraddittorietà del reale e a raggiungere la perfezione della saggezza.
La “leggenda indiana” Die Augen des ewigen Bruders di Stefan Zweig narra la storia di Virata, che da guerriero intrepido diventa giudice, poi eremita e infine guardiano dei cani del re: passa cioè progressivamente dalla vita attiva alla pura contemplazione e infine alla religione dell’umiltà e del servizio, tormentato dalla coscienza di non potersi fare veicolo di giustizia nel mondo, nonostante l’impegno e la buona volontà. Il titolo del racconto fa riferimento all’uccisione del proprio fratello, perpetrata involontariamente da Virata sul campo di battaglia: lo sguardo del morto lo perseguita come un’ossessione e gli si ripresenta accusatorio ogni volta che, quantunque inconsapevolmente, egli compie un’iniquità. Non è un percorso di santità quello che Zweig illustra in questo racconto con il quale, convinto pacifista, vuole lanciare al mondo un’esortazione alla fratellanza universale.

“Leggenda indiana e non altro che uno scherzo metafisico” definisce Thomas Mann il suo racconto della maturità Die vertauschten Köpfe [Le teste scambiate, 1940], che riprende la tematica della ballata goethiana Paria e presenta la vicenda tragicomica di Sita, una giovane donna, e del suo complesso rapporto con Shridamm e Nanda, due uomini che rappresentano due tipi umani all’opposto: l’intellettuale raffinato e il vigoroso popolano. In un raptus mistico i due amici sacrificano la loro testa alla sanguinaria dea Kalì. Quando Sita, scoperto il duplice suicidio, sta per impiccarsi per la disperazione, la dea le impone di risistemare le teste dei due giovani decapitatisi sui loro rispettivi colli; nella confusione tuttavia Sita scmabia le due teste e riporta in vita due individui schizofrenici, in cui corpo e spirito non sono più in armonia. Torna in questa leggende l’eterna ottica duplice di Thomas Mann, sempre alla ricerca di una possibile soluzione dell’antinomia fra le istanze vitalistiche e positive dell’uomo e la pulsioni deleterie e autodstruttive dell’artista.

Vive invece da barbone sotto i ponti della Senna, privo di documenti e di legami affettivi il protagonista dell'ultimo lavoro narrativo di Joseph Roth (1894-1939), che richiama nel titolo il genere di lunga tradizione cristiana: Die Legende vom heiligen Trinker [La leggenda del santo bevitore, 1939]. Finito in carcere per aver ucciso il marito della propria amante, Andreas, tornato in libertà, tenta di affogare nell’alcool le proprie insoddisfazioni. Eppure conserva, nonostante tutto, la capacità di stupirsi e crede sia un miracolo il dono di 200 franchi che riceve una mattina da un estraneo, all’ubriacone promette di restituire la somma appena gli sarà possibile. Dopo una serie di avventure, in cui alla buona sorte si alterna di continuo la sfortuna, Andreas perde e riguadagna la somma, ma alla fine, nonostante i suoi buoni propositi, Andreas non riesce a tener fede alla sua promessa e muore senza aver restituito il denaro. In questo fallito, errabondo e alcoolista, lucido nelle proprie disillusioni e tuttavia fino alla fine capace di sognare, Roth traccia una specie di autoritratto, presentando il santo di una leggenda tutt’altro che esemplare, e chiude lo schizzo della sua miseranda parabola umana con questo augurio: "Dio conceda a noi tutti, a noi bevitori, una morte così lieve e così bella." Osando dilatare ulteriormente il concetto di leggenda si potrebbe far rientrare in questo genere anche una precedente opera di Roth, il “romanzo di un uomo semplice” Hiob [Giobbe, 1930], il cui protagonista, Mendel Singer è una sorta di reincarnazione dell’omonimo personaggio biblico. Dopo aver subito una serie di sofferenze e di ingiustizie, il devoto ebreo arriva a mettere in dubbio la stessa bontà di Dio. Spinto da una catena di sventure alla disperazione, Mendel, per tutta la vita devoto e animato da una fede cieca e assoluta, vive da pitocoo emigrato nella tentacolare New York quando anche nella sua esistenza succede un miracolo: il suo figliolo Menuchim, guarito portentosamente dall’epilessia, diventa un famoso musicista e la sua fortunata carriera induce Mendel a riconciliarsi con la propria fede di sempre.

Nella letteratura moderna, insomma, la leggenda si è allontanata talmente del modello originale, da diventarne quasi l’esatto contrario, perdendo del tutto il suo peculiare carattere paradigmatico e consolatorio e diventano veicolo di ironica malinconia. Leggende di tipo tradizionale si trovano oggi solo nella letteratura strettamente religiosa o in quella per l’infanzia, mentre nella letteratura d’intrattenimento essa è concepita, per dirla con Thomas Mann, solo come “Endform”, come storia dai tratti alternativi oppure graffianti e parodistici, come nel caso dell’Eletto.
Mentre il romanzo di Thomas Mann si conclude con l’ascesa di Gregorio al soglio pontificio, del tutto sganciate dall’originario contesto religioso sono per esempio le Lieblose Legenden [Leggende senza amore, 1952] di Wolfgang Hildesheimer (1916-1991), dove al calore della comprensione e dell’indulgenza subentra un sarcasmo che, senza assumere toni veementi, si fa beffe con sovrano distacco di un mondo alla deriva, che vive di menzogne e ciarlataneria.

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