Il bisogno di superare la realtà e di accedere alla magica dimensione del favoloso è vecchio quanto l'umanità. Già il mondo dell'antichità classica, nella quale affonda le radici l'intera cultura occidentale, è attraversato da miti e racconti fantastici che hanno segnato per secoli l'immaginario collettivo d'Europa: si pensi alle vicende di Polifemo, della maga Circe, al canto delle Sirene, per partire da Omero; oppure alla fiaba dell'anello di Gige narrata da Platone, o ancora a quella di Amore e Psiche tramandata da Apuleio, per citare solo alcuni dei moltissimi esempi che, a buon diritto, si potrebbero far rientrare nel genere letterario della fiaba. Altrettanto antiche sono le storie fantastiche di carattere popolare che hanno la loro culla in Oriente, ma raggiungono la fantasia occidentale già molto tempo prima delle crociate. A partire dall'Umanesimo nascono poi in Europa le prime vere raccolte di fiabe: si pensi a Le tredici piacevoli notti (1550) di Straparola o a Il Pentamerone (1674) di Basile e avanti fino ai Racconti del mare (1697) di Pérrault che fissano per iscritto una serie di storie fantastiche di matrice popolare, fino ad allora note solo per trasmissione orale. All'inizio del Settecento poi, con le varie traduzioni de Le Mille e una notte, il fiabesco mondo dell'Oriente finisce per mescolarsi con le diverse tradizioni orali europee (celtica, slava, scandinava), diventando inesauribile fonte d'ispirazione per le fiabe moderne. I romantici tedeschi, esponenti di un movimento di pensiero che, in risposta ai freddi canoni del razionalismo, esaltava al massimo grado il regno della libera fantasia, della soggettività dilatata all'infinito, capace di superare la concretezza del reale in voli immaginari sfuggenti agli schemi della coerenza razionale, portarono infine la fiaba ai massimi livelli di dignità letteraria, identificandola con l’essenza stessa della poesia.
In tedesco la fiaba si chiama Märchen, forma diminutiva del sostantivo medio-alto-tedesco Mär, che significava originariamente notizia, annuncio, ossia breve comunicazione in prosa accompagnata da musica. Solo a partire dal 1200 la parola ha subito diverse successive trasformazioni semantiche, fino ad assumere il significato che ancor oggi le viene attribuito, ossia di breve composizione in prosa i cui caratteri peculiari si possono riassumere sinteticamente negli elementi dello stupefacente e del fantastico.
I Romantici ebbero dunque una particolare predilezione per la fiaba, che in effetti, dopo la poesia, fu il genere da loro forse più amato. A questo tipo di componimento fantastico essi riconobbero meriti plurimi.
Novalis (1772-1801), il più grande poeta del primo romanticismo tedesco, tentando una definizione poetologica della fiaba, scrisse: “In una fiaba autentica tutto deve essere meraviglioso e arcano, privo di nessi logici ed animato ... L'intera natura vi deve essere mescolata in modo prodigioso con l'intero mondo degli spiriti. Il mondo della fiaba è il mondo assolutamente opposto al mondo della realtà (della storia) - e proprio per questo ad esso molto affine, come lo è il caos al cosmo... La fiaba è nel contempo il canone della poesia - tutto ciò che è poetico deve essere favoloso.”
Oltre a concedere l'evasione in un mondo di totale libertà fantastica ed esaltare la dimensione della semplicità e della spontaneità - tanto care ai romantici in risposta ai complicati intellettualistici sistemi di pensiero dell'Illuminismo - la fiaba, intesa come fiaba popolare (Volksmärchen), permetteva anche di recuperare e rivificare un patrimonio di tradizioni autoctone, che era stato progressivamente sempre più trascurato e liquidato come solo semiletterario in una realtà in cui a dettar legge erano stati i canoni perfetti dell'armonia Classicistica ovvero l'incipriata eleganza cicisbea del Rococò, due movimenti che non avevano certo favorito l'interesse per le espressioni di una cultura più autenticamente popolare.
Il periodo romantico, che in Germania corrispose grosso modo all'era napoleonica, coincise quindi politicamente con l'epoca delle grandi lotte per l’indipendenza, in cui ogni singola nazione tentava di imporre la propria autonomia e di sganciarsi dall'asservimento agli stranieri. I Tedeschi si opponessero, nello specifico, ai Francesi, e lo fecero anche rifiutando i loro modelli culturali e cercando invece di recuperare e di imporre la propria tradizione nazionale.
Intento preciso della generazione romantica fu così quello di salvare e riproporre il patrimonio culturale1 autoctono. Questo mania di riscoprire e collezionare le espressioni autentiche della passato investì tutti i generi letterari. Per quanto riguarda specificamente il Märchen, i primi sforzi per riunire in volume fiabe di origine popolare in lingua tedesca si ebbero già nel tardo Settecento, ma la prima autentica cospicua raccolta è senza dubbio quella fatta dai fratelli Jakob (1785-1863) e Wilhelm (1786-1859) Grimm con la loro voluminosa opera Kinder- und Hausmärchen [Fiabe per l’infanzia e domestiche, 1812 ss.], dove finalmente trova codificazione scritta una lunga serie di racconti della tradizione popolare germanica, trasmessi fino ad allora solo oralmente di generazione in generazione. I Grimm sostennero strenuamente l’aspetto ingenuo delle loro fiabe, dichiarando di averle trascritte così come le avevano sentite narrare nel corso della loro ricerca. Gli studi di Heinz Rölleke durante gli anni settanta del Novecento, dimostrarono invece, sulla base dei manoscritti, che gli interventi esornativi dei Grimm erano assai più cospicui di quanto i due fratelli avessero sempre affermato. Anche i Grimm cioè, pur partendo da un patrimonio tramandato oralmente, riadattarono, abbellirono, allungarono le fiabe che avevano raccolto, elevandole a un ottimo livello letterario. Le fiabe dei Grimm diventarono comunque patrimonio comune a intere generazioni di bambini in tutt'Europa, finché, dato il loro carattere non sempre rassicurante e rasserenante nonostante l'immancabile “happy ending”, data la presenza di personaggi come fate e maghi buoni, ma anche di creature terrificanti come streghe e orchi - si pensi alle avventure di Rotkäppchen [Cappuccetto rosso] che ritrova la nonna nella pancia del lupo che l’ha sbranata, a Däumchen [Pollicino] che si perde nel bosco, ai fratellini Hänsel e Gretel che, impinguati da una strega malvagia, sono destinati a finire arrostiti, o ancora alla princiipessa Dornröschen [Rosaspina] che, puntasi con un fuso, rimane addormentata per anni finché il bacio di un principe non la risveglia dall’incantesimo malefico - vennero messe al bando per un paio di decenni dalla nuova psico-pedagogia, contraria al loro sottile messaggio di violenza.
Nel Märchen cade la netta divisione fra mondo della realtà e mondo della fantasia che convivono e si intrecciano di continuo. I portenti sono all’ordine del giorno e creature umane e animali si intendono parlando la stessa lingua. Nulla è impossibile in questa realtà dove le leggi di natura sono sospese, come pure cessa una vera connotazione temporale e topografica. “Es war einmal”, „c’era una volta“: così inizia sempre una fiaba che racconta di qualcosa che non si sa bene né dove né quando sia capitato. Per questo anche i personaggi del Märchen hanno nomi che nella maggioranza dei casi non sono veri nomi propri, ma sostantivi che li caratterizzano semplicemente vuoi per il loro aspetto esteriore (p. es: Schneewittchen [Biancaneve]; Rotkäppchen [Cappuccetto rosso]; Aschenputtel [Cenerentola] ecc..) vuoi indicandone la casta sociale o la classe d’età di appartenenza (König, Prinz, Prinzessin, Bauer, Bürger, Edelmann [re, principe, principessa, contadino cittadino, nobiluomo] oppure Kind, Mann, Vater, Stiefmutter, Fee [bambino, uomo, padre, matrigna, fata]).
Nonostante i molti elementi inquietanti che può contenere – ci sono sempre situazioni conflittuali, lotte da combattere, intrighi da sventare -, la fiaba è sostenuta sempre da una grande ottimismo: nel suo mondo manicheo il bene trionfa e il male viene condannato. Alla fine insomma si ripristina un ordine in cui tutti ritornano a vivere felici e contenti. Non solo: non di rado migliorano la loro condizione sociale e da poveri diventano ricchi, da umili salgono ai massimi ranghi nobiliari.
Ma accanto alle fiabe ispirate alla tradizione popolare, i romantici amarono inventare fiabe nuove, dove potevano confluire mille diversi spunti e dove la fantasia dell'autore trovava spazi di libertà totale. Questo secondo genere di fiaba, prodotto d’arte e perciò definita Kunstmärchen ebbe successo presso tutti i romantici, perché offriva la possibilità di realizzare in concreto il principio poetico di base della scuola, principio formulato da Friedrich Schlegel, secondo cui la poesia romantica doveva essere una poesia "universale progressiva".
La fiaba romantica, come ogni opera prodotta da questo movimento letterario, voleva cioè essere sempre espressione di sentimenti in costante evoluzione, ma anche totalizzanti e assoluti. Ecco perché i romantici tendevano a dilatare infinitamente la forma, a frantumare la rigida, classica separazione dei generi, che invece assai spesso venivano fusi e confusi; così spesso nelle fiabe venivano inserite canzoni in rima, mentre le fiabe, a loro volta, essendo in genere piuttosto brevi, venivano disseminate all’interno di opere di più ampio respiro. Per questa ragione una delle più alte espressioni della sensibilità romantica in prosa, il romanzo di Novalis Heinrich von Ofterdingen, pubblicato nel 1802, è cosparso, oltre che di canzoni, di fiabe fascinose, come quella della flautista Zulima o quella narrata nel finale da Klingsor, fiabe di valore allegorico che sono insieme giochi di fantasia e professioni di poetica. Lo stesso sogno del fiore azzurro con cui si apre il romanzo è del resto una sorta di fiaba. La vicenda di Enrico, il giovane cantore medioevale che dà il titolo al libro, altro non illustra che la sua ricerca di questo fiore simbolico, sintesi di amore e poesia.
La fiaba, come gli altri generi coltivati dai romantici, doveva essere espressione di quell'anelito vago e indefinibile, concentrato tutto in un'unica parola: “Sehnsucht”, che è brama irresistibile, tensione incoercibile, desiderio del desiderio. Per questo i romantici vivevano in uno stato di spasimo costante, sempre alla ricerca di qualcosa che partecipasse delle categorie dell'assoluto, come la poesia in sé o il divino, ma che in ultima analisi restava sempre avvolto nel mistero, irraggiungibile, anche se intuibile e prevedibile soprattutto nella dimensione del sogno. Il sogno è onnipresente nella letteratura romantica e ha spesso carattere premonitore, è “Ahnung”, ossia presentimento, altra parola chiave di questo movimento. Novalis sintetizza in un frammento quale compito i romantici si prefiggano: "Il mondo deve essere romantizzato ... Quest'operazione è ancora del tutto sconosciuta. Se conferisco al comune un alto significato, al quotidiano un aspetto misterioso, al noto il pregio dell'ignoto, al finito la parvenza dell'infinito, li romantizzo."
E’ chiaro che un simile approccio all'universo permette la rimozione della realtà in una lontananza quasi irreale, in uno spazio ideale che di volta in volta può riempirsi di contenuti diversi. La romantica “Ferne”, quella lontananza che è necessaria conseguenza della “Sehnsucht”, può avere una valenza di carattere storico, e allora si spinge indietro nel tempo, ritornando a quel Medioevo che viene riconosciuto come luogo archetipico della cultura nazionale tedesca, epoca d'oro della fioritura dell’arte gotica e del “Minnesang”, ossia delle forme primigenie e quindi più autentiche dell'arte autoctona.
La lontananza può essere però anche intensa come una distanza di carattere geografico; provoca allora un allargamento ideale dei confini regionali e si apre su mondi nuovi, esotici e lontani; e anche questa è una tendenza diffusissima e assai presente anche nella fiaba.
A questo bisogno di inoltrarsi in un mondo lontano e sconosciuto si ricollega un altro tema tipico di tutto il romanticismo tedesco e molto presente anche nella fiaba, ossia quello della “Wanderlust”, del piacere di viaggiare, o meglio di vagabondare, di vivere quasi in un eterno pellegrinaggio, specchio dell'inquietudine esistenziale dell'uomo romantico, perennemente insoddisfatto e quindi ininterrottamente in movimento, in costante tensione nel perseguimento del suo ideale universale.
Una forma diversa di bisogno di lontananza è quella che spinge i romantici alla fuga nella fantasia; l'elemento fantastico, sostanziale per il Märchen, è dunque una peculiarità fondamentale di tutto il romanticismo tedesco. Non vi è romantico la cui opera non sfoci nel sogno, nel fiabesco: non c’è praticamente romantico che non scriva fiabe.
Ma poiché l’età del romanticismo è anche la Goethezeit, pur avendo tenuto sempre un atteggiamento di sovrano distacco nei confronti di questa scuola, anche Goethe (1749-1832) scrisse una fiaba, uscita nel 1795, cui diede il semplice titolo di Märchen (1795). Il testo, ultimo racconto aggiunto alle Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten [Conversazioni di emigrati tedeschi], voleva avere valore paradigmatico e presentarsi come prodotto della pura fantasia, il cui spazio d’azione è il sogno. Le leggi della natura qui non valgono più, eppure l’azione si svolge seguendo le ferree leggi di un malefico incantesimo. La bella Lilie, il giglio, che in tedesco è femminile, ha il potere di togliere vitalità a tutto ciò con cui entra in contatto. Il suo regno oltre il grande fiume è il regno della pura bellezza, perfetta e sterile. Il contatto fra i suoi dominii e la sponda opposta, avviene soltanto a determinate condizioni: solo a mezzogiorno, vuoi sul dorso della serpe, sull’ombra del gigante o nella barca del barcaiolo che ovviamente traghetta solo in una direzione. Sulla sponda opposta al regno di Lilie c’è un tempio sotterraneo che custodisce le statue di quattro re (una d’oro, una d’argento, una di semplice metallo e una composta da questi tre elementi fusi insieme a casaccio), dove il “vegliardo con la lampada” annuncia la fine dell’incantesimo, ossia la fine di ogni contrapposizione e contraddizione fra le due sponde del fiume, fra bene e male, fra vita e morte. “Es ist an der Zeit”, è giunta l’ora: in questa frase è racchiusa la speranza che attraversa questa fiaba ricca di allegorie, che, a detta dell’autore, ha per tema “tutto e nulla” ed è nel contempo gravida di senso e insondabile. Quando alla fine, dopo mille disgrazie e sofferenze (fra cui la morte del canarino e di un giovane entrati in contatto fisico con Lilie) tutti i personaggi si trasferiscono dal regno della principessa a dorso del serpente; quando quest’ultimo si immola, il suo sacrifico è in grado di provocare la riemersione in superficie del tempio sotterraneo, in modo che i tre re di metallo uniforme (la saggezza, l’apparenza e il potere) riprendano a governare e che il giovane si unisca a Lilie grazie all’energia più importante, la forza dell’amore. Il Märchen di Goethe si sottrae a un’interpretazione univoca: è stato spesso inteso in chiave politica, come reazione di Goethe alla Rivoluzione francese, ma, in senso più lato, esso è il paradigma di uno sforzo collettivo di superamento di tutto quanto è d’ostacolo a una vita in armonia con il proprio sé e con il mondo, L’unisono nasce, come sempre secondo Goethe, dal connubio di sfera sensibile e sfera spirituale. Goethe, nonostante ne fosse stato variamente richiesto, rifiutò sempre di dare una “spiegazione” della sua fiaba che, come tale, non è accessibile con i metodi della logica.
Non sempre però nella fiaba trionfano, come in quella di Goethe le forze del meraviglioso, inteso come qualcosa di sorprendente e positivo. Ad avere il sopravvento possono essere anche quelle dell'ignoto, del mistero, del brivido.
Esempi si trovano già nel primo romanticismo, nelle numerose fiabe di Ludwig Tieck (1773-1853), un poeta che fu grande mediatore fra la cultura pagana, ossia classica, e la cultura cristiana, ossia romantica; mirò a fondere nelle sue opere il mito greco con l'agiografia medioevale, a trovare un accordo fra tempio e bosco, simboli di due modi sostanzialmente diversi di concepire l'arte e l'esistenza.
Spirito tormentato, Tieck scrisse fiabe cariche di estrema tensione psichica, fra cui forse la più famosa è Der blonde Eckbert [Il biondo Erberto, 1797]. In questa fiaba di carattere tragico il protagonista – diversamente da quanto succede nel Volksmärchen tradizionale - non cerca e non trova la propria felicità con l'aiuto di forze segrete e superiori, ma rimane vittima del proprio demone interiore. Bertha, che vive in un castello dello Harz con il cavaliere Erberto, racconta a Walther, un amico di suo marito, la storia della sua infanzia.
Fuggita da bambina dalla casa dei suoi genitori, in una capanna alpina essa incontra una vecchia, che vive lì insieme a un uccello parlante e a un cagnolino. Si ferma con lei, ma crescendo, decide di voler vedere il mondo. Ruba allora alla vecchia le sue perle e l'uccello parlante e fugge. L'uccello però la tormenta in continuazione rimpiangendo la “Waldeinsamkeit”, la solitudine del bosco: il l’animale ripete con tanta insistenza sempre la stessa canzone che, la ragazza, esasperata, alla fine lo uccide. A quel punto Walther le suggerisce il nome del cagnolino della vecchia, che lei invece aveva dimenticato. Da quel momento Bertha viene colta dal panico, si sente ovunque inseguita e perseguitata e alla fine rimane vittima delle sue angosce. Erberto allora uccide Walther, ritenendolo responsabile degli squilibri e della rovina di sua moglie. In seguito Erberto vive a lungo da solo nel suo castello, finché un giorno si unisce a un giovane cavaliere, Hugo, nel quale poi riconosce Walther. Quando, persosi nel bosco, Erberto chiede informazioni sul percorso a un contadino, si ritrova davanti ancora una volta l'uomo che ha creduto di aver assassinato. Più tardi sente un uccello che canta la canzone sulla solitudine del bosco e vede una vecchia venirgli incontro. Questa gli spiega di essersi trasformata in Walther e in Hugo, e che Bertha altri non era che sua sorella. A quel punto il protagonista cade definitivamente vittima della pazzia.
In questa fiaba, diversamente che nella fiaba tradizionale, il bene non trionfa sul male, perché il tema portante qui è la mania di persecuzione che nasce dalla cattiva coscienza. Le allucinazioni d'angoscia dei personaggi si trasformano cioè qui in realtà, proponendone un’immagine deformata; i personaggi non sono vittime di angherie esterne, ma soccombono al loro demone interiore.
L’aspetto arcano e misterioso non manca certo neppure nei Volksmärchen, ma lì alla fine, grazie all’intervento improvviso di una sorta di “deus ex machina” – un ranocchio che si trasforma in principe, una strega che in realtà è una fata ecc. – l’ordine trionfa sempre sul caos. Il Kustmärchen sposta per così dire in maniera evidente la componente tremenda ed incontrollabile - che comunque è sempre anche specchio di una dimensione “altra” della realtà - dalla fantasmagoria dei boschi a quello spazio insondabile che il tedesco definisce con un'unica parola “das Unheimliche”, il perturbante, aggettivo sostantivato che non a caso assume una valenza di grande portata nella psicoanalisi.
“Un-heimlich” è ciò che non appartiene allo “Heim”, alla sfera domestica, e di cui quindi sfugge il significato profondo, perché non è accessibile con i normali strumenti della quotidianità; è qualcosa che appartiene a una sfera ignota, torbida e sconvolgente, ma insieme attraente per la sua misteriosità, benché terrificante in quanto quasi sempre corteggiata dalla morte.
Il grande maestro romantico di questo genere di fiaba è il poeta e musicista Ernst Theodeor Amadeus Hoffmann (1776-1822). Il suo grottesco mondo poetico predilige i paesaggi fantasmagorici della tarda sera o della notte e pullula di figure sconvolte da oscure forze demoniche, vittime di strane telepatie e di angoscianti visioni, attratte e alterate da assurdi miraggi e da terribili incubi. E’ questa la regola costitutiva della fantasia hoffmanniana, popolata di individui dalla coscienza sdoppiata, sempre in bilico fra sanità e follia, ma anche sempre guardati a distanza dal loro creatore, con quella romantica ironia che non li risparmia dall'assumere, nella loro tragicità, tratti buffoneschi e ridicoli.
Anselmo protagonista di Der goldene Topf [Il vaso d'oro, 1814], è diviso fra il fascino della vita borghese e il desiderio di assoluta libertà, due stili di vita incarnati rispettivamente da due donne: Veronica e Serpentina. Sedotto da Serpentina che da immondo piccolo rettile si trasforma in fanciulla bellissima, Anselmo entra nella sua sfera magica; a nulla servono i tentativi di Veronica di riconquistarlo ricorrendo ai sortilegi della strega Lisa. All’ordine rassicurante, ma soffocante della prima fidanzata, Anselmo preferisce l’ambivalenza in cui lo trascina la nuova sposa Serpentina, incarnazione del polimorfismo dell’arte. In preda ai nefasti effetti di una pozione diabolica, il monaco Medardo al centro degli Elixisiere des Teufels [Gli elisir del diavolo, 1814-16] diventa non solo vittima di una passione senza fine per una donna che somiglia a Santa Rosalia, da lui tanto venerata da bambino, ma anche amante della di lei matrigna, che poi è lui stesso a sopprimere. Dopo una serie di avventure, Medardo incontra, in un altro monaco, se stesso, il suo doppio: da questo confronto esce sconvolto, ormai del tutto in preda alla follia. Complesso e a tratti ridondante, il racconto si mantiene sempre in equilibrio fra angoscia e umorismo, fra allucinazione e poesia, risultando a tratti farraginoso e poco omogeneo, ma pervaso da quel senso di ambiguità che domina i meandri dell’anima e, secondo Hoffmann, scrittore e musicista, anche nell'arte, dove sempre convivono verità e distruzione.
Al caos della fantasia e dell'arte Hoffmann contrappone il rigore freddo e annichilente della scienza in uno dei suoi racconti più famosi, Der Sandmann [Il mago sabbiolino, 1816], una delle molte storie con protagonisti stravaganti della raccolta Nachtstücke in Callot’s Manier [Notturni secondo C., 1817], dove si parla del folle innamoramento di Nathael per un automa femminile, costruito da uno scienziato, Koppelius, in cui il visionario protagonista crede di riconoscere il mago sabbiolino, al centro di una terrificante fiaba che gli era stata narrata durante l’infanzia, secondo la quale questo essere magico gettava sabbia negli occhi dei bimbi fino a farli loro balzar fuori dalle orbite. Lo sguardo diabolico di Koppelius attrae Nathael, mentre Olimpia, la bambola meccanica da lui costruita, riesce a risvegliare nel giovane un desiderio erotico, da lui mai provato invece per la donna che dovrebbe sposare.
A questo gioco di antinomie, di attrazioni e i ripulse non si sottrae neppure il "capriccio" Prinzessin Brambilla [La principessa Brambilla, 1820], sostenuto però da un fantasia più gioiosa e meno macabra, dove la dicotomia fra l’io e il suo doppio, fra la dimensione della fiaba e quella della realtà, si risolve nell’ironia variopinta e ottundente della baldoria carnascialesca. I personaggi di questo bizzarro girotondo, dove i soggetti si scindono e confrontano le varie facce del proprio sé in un inarrestabile gioco caleidoscopico di rispecchiamenti, il mediocre attore squattrinato Giglio Fava crede di essere un principe assiro, mentre la modesta sartina Giacinta Soardi si convince di essere l'esotica Principessa Brambilla, ospite di un nobile romano mentre nella capitale italiana furoreggia il carnevale. In una cornice che si sottrae a ogni possibile codificazione cronologica, vita e illusione, angustia della quotidianità e infinità della fantasia si intrecciano, seguendo un percorso del tutto irrazionale, in un alternarsi di improvvisazioni dai confini sempre labili che travolge il lettore in un turbinio di immagini: non si è mai certi se esse corrispondano al vissuto concreto o al sogno, alla realtà o alla metafora. "Non è un libro per chi ama prendere tutto sul serio", ammonisce Hoffmann nella premessa, ma prevede che "il benevolo lettore" sia disposto "ad abbandonarsi al gioco ardito e capriccioso di uno spiritello a volte troppo sfrontato" che confonde maschere e persone, finzione e verità. Il "capriccio" è, in fondo, soltanto la traduzione letteraria di quel sogno che tutti consola dalle bruttezze del quotidiano. Per questo esso si chiude con un lieto fine: Giglio e Giacinta risultano così essere la coppia capace - a teatro e nella vita - di condurre un'esistenza "animata da vera fantasia, da vero umorismo" e di far uscire "questo stato d'animo" all'esterno, permettendogli di agire "come un potente incantesimo sul grande mondo".
Nella vasta produzione di Hoffmann emerge quindi a volte anche una fantasia più gioiosa e meno macabra; così il ciclo del Nußknacker [Schiaccianoci, 1816], famoso anche per la rivisitazione musicale di queste fantasie fatta da Chiajkowskij, dove i giocattoli, visti con gli occhi di un bambino, si trasformano in esseri viventi. Certamente però protagonista indiscusso dell’opera di Hofmann è il Caos, dove tutte le barriere cedono, dove persino Amore e Morte di continuo si confondono e dove l’individuo sperimenta con sofferenza la perdita dell’unità del proprio sé.
Un'altra fiaba romantica sullo sdoppiamento dell'Io è Peter Schlemils wunderbare Geschichte [La meravigliosa storia di Peter Schlemil, 1814] di Adalbert von Chamisso (1781-1838). Per un sacchettino della fortuna, sempre pieno di ducati, Peter vende a uno sconosciuto la propria ombra. La mancanza dell'ombra si rivela però immediatamente una condizione terribile, che esclude Peter dall'intera vita sociale e, nonostante la sua enorme ricchezza, gli fa perdere anche Mina, la ragazza che ama. Un anno dopo lo sconosciuto dalla marsina grigia cui ha venduto l'ombra si ripresenta a Peter e gli chiede, in cambio della restituzione dell'ombra, la sua totale dedizione, la sua anima. Si tratta dunque di una sorta di patto demoniaco. Per un caso fortunato, acquistando un paio di scarpe vecchie a una fiera, Peter si salva alla fine dalla sua condanna. Queste vecchie scarpe si trasformano in una specie di stivali dalle sette leghe, che lo portano in giro per il mondo dove sa rendersi utile agli altri come ricercatore naturalista.
Mentre l'amore per il prossimo salva Peter, condannata all’infelicità è Undine [Ondina, 1814], la diafana ninfa della fiaba più nota di Friedrich de La Motte-Fouqué (1777-1843), puro elemento acquatico con ansia di diventare creatura della storia.
Undine, donna dell’acqua senza tempo, si innamora perdutamente di Huldbrand e con il matrimonio entra a far parte del mondo degli umani, salvo poi verificare che neppure l’uomo che ama è in grado di partecipare durevolmente al suo mondo di eternità; perciò, quando il suo bel cavaliere la tradisce, Undine lo uccide soffocandolo coi suoi baci.
La “Wanderlust”, l’ansia di ricerca che non giunge mai alla meta, trova una sua formulazione fiabesca in un racconto che ormai già risente dell’atmosfera Biedermeier: Aus dem Leben eines Taugenichts [Vita di un perdigiorno, 1826] del barone Joseph von Eichendorff (1788-1857). L’ottimista giovanotto che è al centro della vicenda propone uno stile di vita alternativo a quella dei borghesi, un’esistenza priva di senso agli occhi dei benpensanti, perché vissuta in piena libertà in un vagabondaggio senza meta, vincolata soltanto ad un fardello di stracci e da un violino, lontana dalla religione illuministica del lavoro e guidata invece da una fiducia cieca nella divina Provvidenza.
Ormai oltre i termini cronologici del romanticismo inteso come categoria storico-letteraria si situa una delle più note fiabe di Clemens Brentano (1778-1842): Gockel, Hinkel Gakeleja, pubblicata nel 1838.
Gockel e sua moglie Hinkel vivono con la loro figlia Gackeleja nel pollaio del loro castello distrutto. La loro unica proprietà è un gallo, Alektryo, che ha in gola, cosa che loro non sanno, un anello magico. Tre ebrei tentano di sottrarre con l'astuzia questo gallo alla famiglia, ma finiscono per litigare tra loro, così che Gockel viene a conoscenza della prodigiosità dell'anello. A quel punto il gallo è costretto a sacrificarsi cavallerescamente per il bene del suo padrone e si lascia sgozzare. Con l'aiuto dell'anello Gockel fa comparire magicamente un castello. Gackeleja, alla quale suo padre in seguito a una disubbidienza ha proibito di giocare con le bambole, cede l'anello magico a uno dei tre ebrei in cambio di una bambola vivente. Gockel e la sua famiglia ricadono con questo baratto nella più profonda miseria, e la figlia scappa di casa, seguendo la sua bambola nel bosco. Dentro la bambola è nascosta però la regina dei topi Sissi, che Gackeleija aiuta a ritornare nel suo regno. Allora i topi, grati alla fanciulla, recuperano per lei l'anello magico. Gackeleija fa ricomparire il castello, trasforma se stessa in una giovane signora e alla fine si sposa col principe Kronovus.
La condanna dell'avidità e dell'egoismo, comune a tante fiabe della tradizione popolare, è espressa in toni semplici e insieme trasfigurati dalla fantasia; anche qui c'è una colpa che alla fine si riscatta e conduce al trionfo del bene; anche qui ci sono animali che parlano e oggetti che fanno prodigi. Brentano non volle invece pubblicare la raccolta delle Rheinmärchen [Fiabe del Reno], uscite postume nel 1846-47, dove, come dice il titolo, l’elemento coordinante è il grande, mitico fiume, simbolo della nazione tedesca. Fa parte della raccolta per esempio la fiaba del mugnaio Radlauf che, innamorato di Ameleya, principessa di Magonza, cerca di superare con il suo flauto magico le gesta e le astuzie del re di Treviri, pretendente della bella nobildonna. Poiché però il padre di Ameleya alla fine non mantiene la promessa di dare in moglie la figlia a chi lo ha liberato dai nemici, Radlauf chiama a raccolta i topi con il flauto e distrugge il regno di Magonza. Il re però si impadronisce dello strumento e costringe le bestiole ad annegarsi nel Reno; a quel punto il re dei topi, sempre con l’aiuto del flauto, raduna tutte le fanciulle di Magonza, principessa compresa, e le fa prigioniere di un castello di cristallo sul fondo del letto del fiume. Da qui Radlauf, che alla fine si scopre di origini nobili, libererà l’amata e convolerà con lei a giuste nozze.
Benché con minore intensità che in epoca romantica, il Märchen continua a essere coltivato per tutto l’Ottocento. In forma di almanacco pubblica fra il 1825 e il 1827 i suoi tre volumi di fiabe Wilhelm Hauff (1802-1827); i primi due libri, Die Karawane [La carovana] e Der Scheik von Alessandria und seine Sklaven [Lo sceicco d’A. e i suoi schiavi], sono caratterizzati da un particolare tocco esotico; ambientate invece in patria sono le quattro storie dell’ultimo volume: Das Wirtshaus im Spessart [La locanda nello S.]. Del genere fiabesco fanno parte racconti come Die scöhne Lau [La bella Lau, 1852] di Eduard Mörike (1804-1875), storia di una donna d’acqua che, ridendo per cinque volte, riesce a superare tristezza e sterilità, Die Regentrude [La fata della pioggia, 1864] di Theodor Strom (1817-188), dove la magica donna protagonista porta a un’umanità inaridita amore e fecondità.
I titoli delle opere non devono tuttavia trarre in inganno, perché ad esempio Deutschland. Ein Wintermärchen di Heinrich Heine (1797-1856), non ha più nulla in comune con il tradizionale significato attribuito a questo genere letterario. Si tratta infatti in questo caso di una satira in versi, pubblicata nel 1844 a seguito di un viaggio compiuto dal poeta l’anno precedente nella sua terra natale. In una serie di impressioni e di sogni Heine, da anni in esilio in Francia, presenta qui la Germania come un paese retrogrado e immobilista, come un paesaggio addormentato e irrigidito sotto una coltre di neve. Il termine fiaba è qui ovviamente inteso in senso dissacrante.
Con il neoromanticismo di fine secolo il Märchen torna invece davvero in auge, anche se con forme modificate rispetto alla tradizione. Facendo esplicito riferimento alle “Mille e una notte” intitola Das Märchen der 672. Nacht [La fiaba della 672° notte, 1895], intitola uno die suoi racconti giovanili Hugo von Homannsthal (1874-1929). Ma non è con questa storia del figlio del mercante vittima dei suoi servi che Hofmannsthal raggiunge l’apice nel genere fiabesco, bensì con la versione in prosa di Die Frau ohne Schatten [La donna senz’ombra, 1919], dove l’imperatrice protagonista cerca di sfuggire alla reclusione dal mondo a cui l’ha condannata il marito, trasformandola in essere incorporeo e quindi sterile, acquistando l’ombra della moglie di un tintore. Quando si rende conto che il suo gesto è la causa della rovina dell’umile donna e di suo marito, l’imperatrice si fa carico delle proprie colpe, e soffrendo e rinunciando al proprio egoismo si redime. Il sacrificio come premessa alla redenzione è tema caro alla letteratura sia religiosa che pagana ed è lo stesso che anima già il Märchen goethiano. Nella Donna senz’ombra, come sempre in Hofmannsthal, il lettore è messo a confronto con un'antinomia, con il contrasto fra monolitismo e fugacità i cui estremi finiscono per confondersi, culminando in una di quelle unioni, di quelle "Vereinigungen" che per il poeta viennese furono sempre un'ossessione. Il libretto omonimo, scritto in precedenza e musicato da Richard Strauss, dimostra come Märchen e opera lirica siano due generi molto vicini: esempio splendido è Die Zauberflöte [Il flauto magico, 1791] di Wolfgang Theodor Amadeus Mozart (1756-1791), mentre lo stesso Goethe aveva dato alla sua Fiaba il sottotitolo di “opera lirica in prosa”.
Che soggetti fiabeschi fossero facilmente adattabili anche alla scena è dimostrato dalla lunga tradizione del Märchendrama, che nel mondo tedesco trionfa pure in epoca romantica con opere come Prinz Zerbino [Il principe Zerbino, 1799] o, per citare un testo ancor più noto, Der gestiefelte Kater [Il gatto con gli stivali, 1797] di Ludwig Tieck.
Non manca di nessuno dei più tipici ingredienti del romanticismo tedesco il "grande dramma storico-cavalleresco" Käthchen von Heilbronn [Caterinetta di H., 1810], una delle opre più note di Heinrich von Kleist (1771-1811): ambientata in un medioevo favoloso e arcano, ricco di cupe foreste e di sontuosi manieri, abitato da audaci cavalieri, pronti a difendere con cappa e spada i propri feudi e il favore di nobili "madonne", l'opera è contraddistinta dall’esagerazione. I personaggi sono dotati di una sensibilità superlativa, al limite del patologico, sono avvolti in un'atmosfera magica fino al demonismo, vivono più nel sogno - sempre vicino al delirio e all'allucinazione - che nella concreta realtà, comunque instabile e sfuggente a ogni indagine logica. La notte di S. Silvestro la quindicenne Kätchen, figlia di un fabbro, e il conte Wetter vom Strahl vengono entrambi visitati da un sogno, un'enigmatica premonizione, che unisce per sempre e come per incanto i loro destini. Quando incontra il conte per la prima volta, la donzella, come stregata da un irresistibile richiamo, lo segue fino a gettarsi, per raggiungerlo, dalla finestra e rompersi le gambe. Una volta guarita, Kätchen abbandona la casa del padre per seguire ovunque l’amato, benché egli la trascuri, credendosi destinato alla nobile, ma avida e orrenda Kunigunde von Thurneck. A conclusione tuttavia il bene, o meglio il demone di una passione incoercibile, trionfa e la fanciulla - che alla fina non solo risulta essere di nobili natali, ma addirittura figlia dell'imperatore – sposa il suo conte.
La fiaba drammatica trova continuità dopo il romanticismo nell’opera di Ferdinand Raimund (11790-1836), autore di molte pièce popolari basate sull’elemento portentoso: fra queste Der Bauer als Millionär [Il contadino milionario, 1826] o Der Verschwender [Lo sprecone, 1834]. Parodistica è invece l’intenzione della pièce di Georg Büchner (1813-1837) Leoce und Lena, 1842, inserita in una stilizzata cornice rococò e tesa a liquidare con ironia ogni retaggio romantico. Una corte di cui si mettono a nudo gli insulsi giochi di potere fa da sfondo a personaggi che, condizionati sempre da forze esterna e superiori, agiscono come marionette messe in moto dal caso, il quale tuttavia, nell'agnizione finale, trasforma un amore impossibile in un'unione felice.
Il genere del Märchendrama è coltivato nel corso di tutto il Novecento, da Die versunkene Glocke [La campana sommersa, 1897] di Gerhart Hauptmann (1862-1946) fino al Merlin (1981)di Tankred Dorst (1925), uno degli autori di maggior spicco del teatro contemporaneo. Nel testo di Hauptmann, che esprime il rancore del genio incompreso che oppone al mondo banale del dovere quotidiano la magia della natura e della creazione artistica, gli gnomi della saga germanica ritrovano accesso alla letteratura, dopo che il Naturalismo aveva negato loro il diritto di cittadinanza; la pièce di Dorst rielabora invece un soggetto della saga medioevale di Re Artù; di fronte alla desolante situazione della realtà il mago Merlino perde la voglia di far esperimenti con gli uomini e si allontana dagli orrori della storia per immergersi nell'infinito della natura.
Il concetto di fiaba può tuttavia trovare applicazione anche nelle opere destinate al palcoscenico con significato distorto, teso alla profanazione e smitizzazione di questo termine. E’ il caso della commedia di Arthur Schnitzler (1862-1931) Das Märchen [La favola, 1893], dove Fanny, la protagonista, si emancipa da un mondo di falsi moralismi per seguire la sua vocazione di attrice, o della pièce Der Hauptmann von Köpenik [Il capitano di K., 1931] di Karl Zuckmeyer (1896-1977), che porta il sottotitolo di Ein deutsches Märchen [Una fiaba tedesca] e ha per tema la storia di un calzolaio che, per superare le barriere della burocrazia, sperimenta la magia dell’uniforme e travestitosi da capitano, irrompe nel municipio di Köpenik, un rione orientale di Berlino, e ne sequestra il sindaco. Ma i poteri della divisa militare non si rivelano alla fine tanto autorevoli quanto aveva sperato.
Nell’ultimo scorcio del Novecento la fiaba, destinata a bambini e ad adulti, ha conosciuto un nuovo momento di grande fortuna, sia nei suoi aspetti portentosi, sia nei suoi tratti inquietanti e occulti. Basti pensare al successo mondiale di un personaggio come quello di Harry Potter che in questo ultimo periodo sta letteralmente inflazionando tutti i mass-media. Per restare in Germania e ritornare all’ambito narrativo, quello originale e prediletto del Märchen, si pensi al successo di uno scrittore del fantastico come Michael Ende (1929-19??) e dei suoi romanzi fiabeschi Momo (1973) e Die unendliche Geschichte [La storia infinita, 1979].