Quando in pubblico mi presentano come latinista, chiarisco subito che non ne ho il titolo, ma che sono solo un architetto innamorato della lingua dei Romani. Allora mi chiedono le ragioni di tanta passione. Stupisce infatti quasi tutti che un tecnico si occupi di latino con continuità, arrivando persino a parlarlo e scriverlo, e che prenda parte alle ricorrenti dispute sull’opportunità di conservarne lo studio al liceo e sui criteri didattici più efficaci. A volte mi diverte appellarmi – ammetto, non senza un pizzico di civetteria – a Leon Battista Alberti, che, come narrano le storie, fu scrittore latino originale ed elegantissimo, oltreché sommo architetto, e rammento alle volte il vitruviano architectum litteras scire oportet (I, 1. In realtà l’espressione ha nel trattato un significato più terra terra: l’architetto deve saper scrivere, per aiutare la memoria con gli appunti…).
Alla fine, però, mi sono indotto ad interrogarmi io stesso sulle origini di questa singolare passione. Ho trovato alcuni remoti indizi, e li propongo qui ai latinisti veri, avvertendo che questa non è una rimembranza da presentare all’analista, ma solo una serie d’immagini ricuperate dai sottofondi della memoria. Magari sarà, come tutte le testimonianze di vita, non inutile a qualcuno, e spianerà, spero, il sopracciglio di chi vuol recludere il latino dell’arca immacolata degli studi filologici.
Diciamo subito che per un uomo della mia generazione, nato un anno prima della Liberazione, l’ambiente era naturaliter intriso di latino: tutte le domeniche e le feste comandate si andava a messa, che allora era ovunque nel mondo celebrata in latino, ed in latino le famiglie devote recitavano ogni sera il rosario, concludendolo col canto del Salve Regina. I preti del resto lo sapevano tutti, se non altro per quotidiana consuetudine col breviario, tanto da prestarsi volentieri a dare ripetizioni ai ragazzetti delle scuole medie, e negli oratorii non si limitavano ad arbitrare tornei di calcetto, ma insegnavano anche a cantare inni e salmi, ed istruivano i chierichetti a servir messa. Inoltre, tanto la borghesia quanto il popolo, pur storpiandoli, infarciva il discorso di lacerti latini: proverbi, modi di dire, brocardi, spezzoni liturgici e scritturali, che allora non erano considerati esibizione erudita, ma comodi compendi espressivi; infatti, presso i ceti più colti non solo era retroterra culturale condiviso il riferimento ai grandi temi della letteratura classica, ma veniva anche usuale citare in originale passi interi tolti dal canone degli scrittori latini e greci studiati al liceo. Persino nei registri plebei del parlato il latino trovava facile seppur paradossale ricetto, come ha ricordato qualche anno fa il gustosissimo libro di Gian Luigi Beccaria, Sicuterat…, Garzanti, Milano 2002, raccolta di espressioni passate dalla Bibbia nell’italiano e nei dialetti.
Bisogna aggiungere che sino agli anni sessanta del secolo scorso non era davvero una rarità l’uso della lingua millenaria negli elogi pubblici, nelle lauree ad honorem, nelle occasioni solenni, nello scambio epistolare tra istituti universitari di tutto il mondo, nell’epigrafia, per non parlare dell’apogeo raggiunto col Concilio Vaticano II, quando il latino fu davvero lingua universale di comunicazione tra gli oltre duemilacinquecento presuli della Chiesa cattolica, senza che alcuno cianciasse di politically correct, di esposizione al ridicolo, di anacronismo. Fu nella Chiesa l’ultima, nobile vampa, prima della catastrofe e della cenere. Di tutto questo, mi limito a ricordare che quando il Politecnico di Milano celebrò il suo centenario nel 1963, la maggior parte delle lettere di augurio mandate dalle altre università era scritta in latino (si veda il volume Il centenario del Politecnico di Milano 1863-1963, Tamburini Editore, Milano 1964, dove sono puntualmente riportate).
Questo è dunque il contesto, entro cui il mio ingegno si accostò sensim sine sensu allo studio e alla pratica del latino. Vorrei allora rievocare alcuni episodi del mio remoto vissuto, che rivelano come si fosse abbeverata fin dall’infanzia la futura passione. Il più antico risale al biennio che vissi in Brasile, dove nel 1948 mio padre, ingegnere minerario, aveva trovato lavoro. Vivevamo nel minuscolo villaggio di Isara, in una villetta in muratura vicina alle miniere di carbone, alla falegnameria e alle case di legno dei minatori. Un giorno gli presentano un giovane ingegnere tedesco, che cercava lavoro. Mio padre tenta di comunicare con lui, usando le lingue che conosceva: portoghese, italiano, francese, inglese… ma quello capiva solo il tedesco. Sconsolato, papà si volta verso mia madre, esclamando: tabula rasa! E l’ingegnerino germanico, illuminato, gli si rivolse in latino! Fu agevole comprendersi per entrambi, usciti dai severi licei dell’epoca. Fu quello il mio primo “imprinting”? Forse. Spiega comunque la mia fissazione per l’uso comunicativo del latino.
Il secondo episodio risale alla prima comunione: un prozio carissimo, romano di sette generazioni e quirite per arguzia di spirito, mi regalò un diario, rivestito di una copertina di tela imbottita, e me lo dedicò con una scritta, che capii solo un paio d’anni dopo: Sint dies tui felices bonisque operibus repleti.
Terza circostanza fu la Commedia commentata dal Camerini ed illustrata dal Doré: perché stessi buono, me la davano da sfogliare ed io mi affannavo a decifrare l’oscuro dettato dantesco, peraltro familiare alle orecchie, perché nonna recitava a memoria, sempre commuovendosi, interi passi dell’Inferno, e m’inoltravo incuriosito nella selva del commento di Benvenuto da Imola, riportato in nota, la cui lingua mi sembrava insieme estranea e consueta, certamente eufonica con tutte quelle assonanze di –orum, –arum, –erum.
E l’orologio dei miei nonni? Un disco rotondo da mensola, che due amorini ed un doppio fregio d’acanto tenevano sollevato da una base prismatica, fabbricato alla fine dell’Ottocento a Parigi col metodo della galvanoplastica e prodotto in grande serie, per nobilitare a buon prezzo le case borghesi; interamente ricoperto di decorazioni e sbalzi di fine gusto rinascimentale, portava sulla ghiera attorno al quadrante dorato le cifre romane alternate con i simboli zodiacali, ciascuno dei quali era illustrato dal suo bravo nome latino, con qualche stravaganza come granchius per cancer, e la flessione in genitivo di Veneris e Leonis, invece del nominativo degli altri dieci segni. Mi era proibito toccarlo o, dio ne guardi!, caricarlo, ma passavo le ore a contemplare le figure e a decrittare le scritte. Più tardi seppi che i dodici segni furono inseriti in un doppio esametro, attribuito anticamente ad Ausonio e riportato sul mitico lessico Campanini e Carboni, vecchia edizione: Sunt Aries Taurus Gemini Cancer Leo Virgo / Libraque Scorpius Arcitenens Caper Amphora Pisces.
Affrontai volentieri il latino alle scuole medie, e cominciai subito a domandarmi come mai non dovesse usarsi come una normale lingua parlata, e perché ci costringessero alla recita di estenuanti paradigmi, neppure fossero le tabelline di aritmetica, e pretendessero l’apprendimento di tutte le più rare e stravaganti eccezioni: più di sessant’anni dopo ricordo ancora gli accusativi in im e gli ablativi in i, anomalie segnalate puntigliosamente dai grammatici, ma occorrenti nei classici ogni morte di papa. L’ostinazione a considerare il latino lingua viva mi portò a compulsare al liceo le opere di due straordinari personaggi, Ugo Enrico Paoli ed Emilio Springhetti, e divenni così abbastanza bravo nella versione in latino, un po’ meno in quella dal latino. Ma quando il professore ci propose un tema in latino, dal titolo Quid sint quove sensu accipiendae Vergilianae lacrimae rerum, non avendo capito la res – ci vuole esperienza di vita!… – m’ingolfai nella peggior retorica, e fui giustamente bastonato.
Durante l’università ed i primi anni di professione allentai la mia frequentazione con il latino, limitandomi a riletture dei classici e a qualche cartolina, ma un decennio dopo la laurea decisi ch’era tempo di riprendere i rapporti. In breve: fui cooptato nella redazione della rivista vaticana Latinitas dall’abbate Carlo Egger, cui avevo scritto una lettera retoricissima, partecipai ai Seminaria Latinitatis Vivae organizzate a Saarbrucken da p. Caelestis Eichenseer, e alle Feriae Latinae animate da p. Suitbertus Siedl, ed incominciai un fitto scambio epistolare con amici tedeschi, francesi, austriaci. Incitato dalle esperienze d’oltralpe, nel 1986 fondai, assieme all’ingegner Claudio Piga ed al professor Stefano Torelli, la Sodalitas Latina Mediolanensis, che tuttora si riunisce due volte al mese, per leggere e commentare in latino passi di autori classici, rinascimentali, moderni. Ho seguito infine gli esordi, la fioritura e gli sviluppi dell’Accademia Vivarium Novum, creatura di Luigi Miraglia, emula delle accademie rinascimentali, e sono socio fondatore dell’associazione Europa Latina.
Ho fama di polemista con i tutori del cosiddetto metodo grammaticale e traduttivo, che sono irriducibili avversari della tradizione umanistica degli Erasmi, dei Vives, dei Comenii, e sordi alle acquisizioni recenti della didattica delle lingue, ma ora mi appaga passare dalla scrittura e dalla traduzione in latino a quella dal latino, compito assai più difficile e sottile, per ragioni su cui vado riflettendo e delle quali prima o poi vorrei dare conto su queste pagine. A parte la passione, che ha una dimensione irrazionale, credo veramente che il latino non debba essere rimosso dall’orizzonte della cultura contemporanea? Sì, ne sono intimamente persuaso e ho cercato di argomentarlo in anni lontani sulla rivista Micromega, nel fascicolo di novembre-dicembre 1996, ricavandone plausi e sberleffi… Ma tuttora penso che valga la pena saperlo, perché la fatica dell’apprendimento è largamente compensata dai benefici. Tutto qui.
© Giancarlo Rossi, 2018
A completamento del post, riportiamo gli indirizzi web delle istituzioni citate dall’arch. Rossi:
- per la Sodalitas Mediolanensis, cfr. la pagina di “Incontri” dell’Ambrosiana, http://www.ambrosiana.eu/cms/incontri1/6-incontri.html
- per l’Accademia Vivarium Novum, cfr. la pagina dell’accademia stessa, https://vivariumnovum.it/
- per l’associazione Europa Latina, cfr. la pagina https://europalatina.live/
- con piacere, segnalo anche l’ottimo blog di Franco Sanna, https://www.latinamente.it/
Ringrazio l’architetto Rossi, una figura ben nota nell’ambito della latinistica milanese per le molte iniziative che l’hanno visto protagonista (prima di tutte la ricordata serie di incontri della Sodalitas Mediolanensis) e l’amore che porta al latino e la facilità e la competenza con il quale lo parla. L’architetto offre, a mio giudizio, una straordinaria testimonianza di come ci si sia potuti accostare al latino, e di cosa si sia potuto trovare di buono in quella lingua. Le sue parole vanno associate alle osservazioni di Isabella Cametta nel precedente post “Il treno”. Naturalmente, non saranno più gli orologi antichi a salvare in futuro il latino, come non lo saranno le citazioni che si possono trovare nelle serie televisive americane. Ma è importante che questi mezzi, mezzi appunto e non fini, abbiano potuto e forse ancora possano aiutare a suscitare interesse verso una lingua “altra”, e oggi non praticata comunemente. Importantissime quindi tutte le testimonianze: a mia volta, non ho mai nascosto che le prime forme di “lingua” latina le trovai, bambino assai piccolo ma di letture voraci, in un libro che da adulto non sono mai stato capace di riprendere in mano, giudicandolo abominevole; ma che allora molto mi colpì e mi incuriosì (alludo al “Quo vadis?” di Henryk Sienkiewicz, letto in un’antica edizione le cui illustrazioni non furono, probabilmente, estranee al fascino della cosa). Dopo di che, si potrà discutere, e spero che questo post serva a far discutere, su tante osservazioni. Ma una lingua resta viva finché qualcuno la pratica: leggendola, parlandola, usandola a vario titolo e in varie forme. Per questo il latino non è una lingua morta, e non andrebbe mai giudicata come tale. Agli esempi proposti dall’architetto Rossi aggiungo un aneddoto raccontato più volte dall’attore Paolo Ferrari: quando lo scrittore statunitense Rex Stout si incontrò con la regista italiana Giuliana Berlinguer per trattare dei diritti di una riduzione televisiva dei romanzi della serie avente a protagonista Nero Wolfe (poi realizzati dalla RAI fra il 1969 e il 1971), nessuno dei due conosceva la lingua dell’altro, e la conversazione si tenne, anche in quel caso, in latino…
m.gioseffi