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  • Dire di no

    Dire di no

    Ricevo da un amico questa bellissima e amara poesia di Kavafis:

    Che fece … il gran rifiuto

    A certi uomini arriva un giorno
    in cui devono dire il grande Si
    o il grande No. Si riconosce subito colui
    che in cuor suo ha pronto il Si, e pronunciandolo
    fa un passo in là nella sua stima e nella convinzione.

    Ma chi ha fatto il rifiuto non si pente. Se tornassero a chiederglielo
    No direbbe ancora. Eppure ne viene stremato
    da quel No – così giusto – per tutta la sua vita.

    Alla memoria della latinistica milanese

    Remigio Sabbadini 1850-1934

    Luigi Castiglioni 1882-1965

    Ignazio Cazzaniga 1911-1974

    Alberto Grilli 1920-2007

    Isabella Gualandri 1938-vivente

    Giuseppe Angelo Cavajoni ???? – vivente

    Massimo Gioseffi 1965-vivente

  • Scipione in Sicilia

    Scipione in Sicilia

    Gli eroi nazionali costituiscono una categoria umana di grandissimo interesse. Fin dalla notte dei tempi questi uomini straordinari hanno ispirato poeti e prosatori, che, immortalandone la gloria, hanno fatto di loro figure in bilico tra Storia e Mito. Non a caso, tra i generi letterari tradizionalmente considerati “alti”, a occuparsi di simili individui sono soprattutto l’epica e la storiografia. Tuttavia, queste discipline non sono in grado di restituire al lettore un ritratto completo di siffatti personaggi. Non bisogna dimenticare nemmeno lo sconfinato repertorio di racconti aneddotici che spesso si accompagna a figure di questo tipo: racconti che gettano una luce nuova e insolita su eroi solitamente percepiti come monolitici, facendone emergere il lato umano. È questo il caso del passo in questione, tratto dal settimo libro dei Dicta et Facta Memorabilia di Valerio Massimo, dedicato a Scipione l’Africano (Val. Max. VII 3.3).

    Scipio quoque superior praesidium calliditatis amplexus est: ex Sicilia enim petens Africam, cum e fortissimis peditibus Romanis trecentorum equitum numerum complere vellet neque tam subito eos posset instruere, quod temporis angustiae negabant sagacitate consilii adsecutus est: namque ex his iuvenibus, quos secum tota Sicilia nobilissimos et divitissimos sed inermes habebat, trecentos speciosa arma et electos equos quam celerrime expedire iussit velut eos continuo secum ad oppugnandam Karthaginem avecturus. Qui cum imperio ut celeriter, ita longinqui et periculosi belli respectu sollicitis animis paruissent, remittere <eis> Scipio illam expeditionem, si arma et equos militibus suis tradere voluissent, edixit. Rapuit condicionem inbellis ac timida iuventus instrumentoque suo cupide nostris cessit. Ergo calliditas ducis providit ut [si] quod protinus imperaretur, grato prius, deinde remisso militiae metu, maximum beneficium fieret.

    Oggetto del brano è un episodio verificatosi nelle fasi finali della seconda guerra punica, durante i  preparativi per la spedizione in Africa (205/204 a.C.). Scipione, che si trova in Sicilia in attesa di salpare alla volta di Cartagine (ex Sicilia petens Africam), vorrebbe impiegare alcuni dei suoi uomini più valorosi in un nuovo reparto di cavalleria, ma si trova a corto di armamenti adatti e di tempo per procurarseli. Si vede perciò costretto a fare ricorso all’astuzia (praesidium calliditatis amplexus est […] sagacitate consilii adsecutus est): convoca a sé i giovani delle famiglie siciliane più nobili, che erano entrati a far parte del suo seguito (quos secum habebat), e dà loro ordine di presentarsi provvisti di armi e cavalli di pregio, come se dovessero accompagnarlo nella spedizione ormai prossima. I giovani, tanto ricchi quanto poco propensi a guerreggiare in prima persona (nobilissimos et divitissimos, sed inermes), pur obbedendo prontamente (celeriter), non si mostrano troppo entusiasti alla prospettiva di vedersi spediti a combattere sul suolo africano (periculosi belli respectu sollicitis animis), motivo per cui accettano di buon grado un’ulteriore proposta avanzata da Scipione: cedere ai Romani il loro equipaggiamento, in cambio di un’esenzione dalla partecipazione diretta alla campagna. Il compromesso risulta vantaggioso per tutti: per i giovani, che possono tornare nelle loro case, a fronte di una perdita tutto sommato sostenibile e consci di avere rafforzato la propria posizione presso uno degli uomini più potenti della Roma di allora; ma anche per Scipione, che vede risolto un problema di non poco conto.

    Che i giovani siciliani si mostrino rinunciatari di fronte alla lotta in prima persona, che pure li riguarda da vicino, non è di per sé sorprendente: colpisce, semmai, la serie di termini, tutti particolarmente espressivi, con i quali Valerio delinea questa situazione. La gioventù siciliana è imbellis ac timida (termini che rimarcano il concetto espresso in precedenza dall’aggettivo inermis, accostato in modo quasi beffardo a due pomposi superlativi come nobilissimi et divitissimi), e non si limita ad accettare la proposta, ma rapuit condicionem, mostrandosi quasi smaniosa di ritirarsi dall’impresa (cupide cessit) e di lasciare ai Romani il suo prezioso equipaggiamento. Fin qui, nulla di strano. Se, invece, ci si concentra sulla figura di Scipione, le cose si fanno più complesse. Il ritratto disegnato da Valerio Massimo ha infatti un carattere insolito, come si può evincere da alcune scelte lessicali atipiche. Le azioni di Scipione sono inquadrate da Valerio come un atto di calliditas per ben due volte: all’inizio (praesidium calliditatis amplexus est) e alla fine del racconto (calliditas ducis providit ut […] maximum beneficium fieret), ossia in posizioni enfatiche che – stando a quanto sappiamo dello stile e della forma dei Dicta et Facta Memorabilia –  coincidono con i momenti di introduzione e valutazione dell’aneddoto. Il fatto è che calliditas, parola la cui gamma di significati spazia dalla prontezza d’ingegno all’astuzia, sembra sposarsi male con il ritratto ideale del buon dux romano, tenuto a guidare l’esercito più che con l’astuzia con il consilium e la prudentia (qualità che, peraltro, vengono esplicitamente riconosciute a Scipione: Valerio parla della sua sagacitas consilii e usa il verbo provideo, e l’intera sezione dell’opera è dedicata a mostrare esempi di felicitas nata in pectoribus sapientia praeditis e che dictis factisque prudentibus enitescit, sia pure con la variante specifica di indicare casi che, passati a sapientia proximo deflexu ad vafri<ti>ae nomen, per avere successo fallacia vires adsumpserunt e laudem occulto magis tramite quam aperta via petierunt).

    Particolarmente significativo a corroborare quanto detto finora è ciò che racconta Livio, X 22. Nel pieno della terza guerra sannitica (l’anno è il 296 a.C.), Lucio Volumnio Flamma Violente, già console in carica, ma rieletto nuovamente per l’anno successivo, acconsente, su richiesta del collega Quinto Fabio Massimo Rulliano, a cedere il consolato a Publio Decio Mure, con cui Fabio aveva precedentemente condiviso il consolato e la censura. Nel suo discorso in lode dei due, Volumnio ricorda come entrambi fossero viros natos militiae, factis magnos, ad verborum linguaeque certamina rudes, aggiungendo che ea ingenia consularia esse: callidos sollertesque, iuris atque eloquentiae consultos […] urbi ac foro praesides habendos. Della guida degli eserciti (principale prerogativa dei consoli in età repubblicana) dovevano occuparsi, secondo Volumnio, uomini d’azione, non quanti fossero avvezzi alle sottigliezze della vita civile, nella quale più facilmente possono trovare campo virtù come la sollertia e la calliditas. Non mancano figure non allineate a questo principio, naturalmente, la più celebre delle quali è un altro Quinto Fabio Massimo, il Cunctator, la cui politica attendista gli procurò infatti feroci critiche (Polyb. III 89-90 e 103). Motivo per cui non sorprende che Cicerone nel De officiis (I 108) lo chiami callidus, mentre Nepote lo definisce addirittura callidissimus (Hann. 5,9).

    Ma il brano forse più significativo è probabilmente un altro passo di Livio, XLII 47, che sposta lo sguardo al di fuori dei confini dell’Italia. Nell’eterno confronto tra Romani ed externi, la calliditas, qualità ambivalente per sua stessa natura e, come detto sopra, poco conforme al ritratto ideale del dux e del civis optimus, ben si presta a definire i popoli “altri”, in particolare quelli che l’élite culturale romana aveva interesse a dipingere come ambigui e approfittatori, vale a dire Greci e Cartaginesi. È così che la calliditas assume una connotazione decisamente negativa. Nel pieno della terza guerra macedonica (ci troviamo nell’anno 171 a.C.) i legati Quinto Marcio e Aulo Atilio vengono inviati presso il re Perseo con il compito di intavolare trattative. Consci del fatto che i preparativi della guerra si sarebbero protratti ancora a lungo, i due prendono tempo, inducendo il re a credere nella possibilità di una pace. Tornati a Roma, il resoconto della loro legazione viene accolto con favore da ampia parte del senato, ma non dai più anziani, che, moris antiqui memores, negabant se in ea legatione Romanas agnoscere artes. Non era questo il modo con cui i maiores avevano condotto le loro gloriose campagne! Quei maiores che, nel nome della fides (valore, com’è noto, identitario per i Romani), non avevano esitato a denunciare a Pirro le trame ordite ai suoi danni dal suo stesso medico… Non era quello, in ultima istanza, lo spirito che aveva reso grande Roma, un concetto espresso in una sententia che aiuta anche noi ad avere le idee più chiare: religionis haec Romanae esse, non versutiarum Punicarum neque calliditatis Graecae apud quos fallere hostem quam vi superare gloriosius fuerit. La calliditas  appare qui dunque relegata al ruolo poco nobilitante di definire “in negativo” i Romani (quelli veri, s’intende), separandoli da quanti, incapaci di porre fine alle controversie in modo onorevole, erano costretti a fare ricorso a mezzucci di varia natura.

    Calliditas, dunque, non è il termine che ci si aspetterebbe di trovare accostato a un comandante come Scipione. Come giustificarne la presenza? In primo luogo, bisogna ricordare che Valerio Massimo non si limita a definire Scipione callidus, ma adotta una formulazione più cauta. La calliditas si configura come un praesidium, uno strumento cui fare ricorso laddove le circostanze, nello specifico le angustiae temporis citate poco dopo, lo richiedano. In quest’ottica l’astuzia di Scipione può essere interpretata come una delle varie declinazioni della sua prudentia, questa sì, come già ricordato, dote tradizionale di ogni buon comandante. C’è però un ulteriore e forse più rilevante elemento di cui tenere conto, ossia il tipo di umanità con cui Scipione deve confrontarsi. Chi sono i nobilissimi et divitissimi iuvenes del racconto? Valerio Massimo non fornisce in merito nessuna informazione, tuttavia un dato cruciale sul conto di questi ultimi è deducibile dal contesto storico della vicenda: si tratta certamente di Greci.

    Il motivo è presto spiegato: i fatti narrati hanno luogo quando sono passati meno di quarant’anni dall’arrivo dei Romani in Sicilia, risalente al 241 a.C., e meno di otto dalla presa di Siracusa, evento che aveva sancito l’egemonia romana sull’intera isola. È quindi impossibile pensare che in un lasso di tempo così ristretto l’aristocrazia di etnia greca fosse già stata soppiantata da famiglie nobiliari latine. Del resto, l’epiteto inermis (ampliato poco oltre dalla dittologia timida ac imbellis) sembra adattarsi decisamente meglio alla gioventù ellenica, cui si era soliti rinfacciare una certa mollitia, e non a quella romana, la cui decadenza, secondo la tradizionale visione moraleggiante, sarebbe iniziata solo dopo la sconfitta di Cartagine nella seconda guerra punica. Sembra un’informazione secondaria, ma non è così: l’elemento etnico gioca un ruolo cruciale nel giustificare agli occhi del lettore contemporaneo di Valerio l’operato di Scipione. È infatti appurato che i Greci non godessero di buona fama presso una certa fascia dell’opinione pubblica del tempo. Lo dimostrano le già citate parole di Livio, XLII 47, ma non mancano numerose altre testimonianze di questo fenomeno: motivo per cui la calliditas di Scipione si configura come una reazione naturale alla percezione stereotipica che i Romani del I sec. d.C. dovevano avere dei Sicelioti. Il trattamento riservato ai giovani isolani è dunque proporzionato alla loro inferiorità sul piano etico e valoriale; inferiorità che Scipione si limita a rendere manifesta con le sue azioni, dando prova di sapere adattare la propria condotta al contesto e al singolo interlocutore (un comportamento che rientra nella perfetta definizione di prudentia).

    © Luca Pigna, 2024

  • Le parole del latino

    Le parole del latino

    Nei giorni 11 e 12 aprile scorsi, nell’ambito delle “Giornate mondiali del Latino”, organizzate dall’Associazione Italiana di Cultura Classica (AICC) in collaborazione con varie sedi universitarie, si è svolto un evento ‘diffuso’ dal titolo “Le parole del latino”. Grazie all’impegno di Paola Moretti, di Nicola Pace e di chi scrive, anche a Milano si è tenuta una manifestazione all’interno di questi incontri. La manifestazione è stata realizzata online e aveva un carattere particolare: per decisione unanime degli organizzatori, non si è chiesto di intervenire a studiosi di fama o a professori e colleghi universitari, ma a dei giovani, tutti ventenni o, al massimo, trentenni, e tutti variamente connessi all’università, nei diversi ranghi di studente, dottorando, assegnista, collaboratore esterno. Se la giornata doveva mostrare la vitalità del latino, ci è sembrato giusto che a farsene carico fossero le ‘nuove generazioni’, a riprova che il latino è un testimone che permette di andare al di là delle barriere dello spazio (come dimostra l’uso di internet) e del tempo (come dimostra l’appartenenza dei relatori a una diversa generazione rispetto a quella degli organizzatori e di buona parte del pubblico).

    Riportiamo qui la registrazione (solo audio, per ragioni di ‘peso’ editoriale) degli interventi di quella giornata, e solo di quelli, omettendo cioè le parti di raccordo e la discussione finale. Le parole prese in considerazione, all’interno del pomeriggio, sono state tre, tutte connesse al tema prescelto dall’AICC per quest’anno, ossia ‘il linguaggio politico’: prudentia, alla quale si sono interessati Giacomo Ranzani e Chiara Formenti (in stretto ordine di apparizione); concordia, per la quale ascolteremo le voci di Giacomo Dettoni e Roberto Mori; victima, di cui ci parla Margherita Meroni. Come si vede, in due casi su tre più relatori si alternano sulla stessa parola. Anche questa è stata una scelta condivisa. Le parole del latino non sono solo ancora attuali, ma sono anche in grado di far discutere le persone fra loro!

    Le registrazioni sono in presa diretta. Per questo hanno piccole imprecisioni, rumori di fondo, interventi o riferimenti che acquisivano senso attraverso il video (ad esempio, il richiamo ai file di testi, che qui ho caricato sotto ogni intervento, e che possono essere fatti scorrere utilizzando le frecce in basso a sinistra di ciascun pdf). Delle piccole imperfezioni rimaste mi scuso, sia con i lettori che con i diretti interessati, ma spero che il valore degli interventi possa sopperire all’imperfezione dei loro esiti.

  • Mecilia (Catullo 113)

    Mecilia (Catullo 113)

    Offriamo una lettura domestica del carme 113 di Catullo; si tratta di un originario video, realizzato all’impronta nel mio studio di casa (e quindi con tutti gli inconvenienti di una registrazione dal vivo, incidenti inclusi), di cui qui viene estrapolata la sola parte audio, perché il video era troppo ‘pesante’ per gli spazi concessi dal server. Pensiamo che il carme, come detto anche nel file, benché discutibile nel contenuto, o forse proprio per questo, possa però essere presentato in una lezione, anche liceale, come esempio di scrittura semplice (da un punto di vista grammaticale, la maggiore complicazione sono due ablativi assoluti che servono di datazione) e tuttavia pur sempre pregnante di una morale e di un atteggiamento oggi auspicabilmente non più condivisi, e di un’idea di poesia intesa come comunicazione fra amici, che solo in un secondo momento si espande verso un pubblico non necessariamente preso in considerazione dal testo. Come diceva un personaggio di Emilio Tadini, proprio in riferimento a un (altro) carmen di Catullo, il 56, “non sapevo che i poeti si occupassero di certe cose – i poeti, più che luna e il canto degli uccellini eccetera, pensavo…”.

    Ecco innanzi tutto il testo del carme, ricavato dal sito Musisque deoque dell’Università Ca’ Foscari di Venezia:

    Consule Pompeio primum duo, Cinna, solebant

          Maeciliam; facto consule nunc iterum

    manserunt duo, sed creuerunt milia in unum

          singula. Fecundum semen adulterio!

    Ed ecco ora l’audio promesso:

    Segnalo che l’immagine di copertina è derivata dal dipinto di Jules-Arsène Garnier, Le supplice des adultères, datato 1876, oggi in collezione privata. Il dipinto raffigura la punizione di due adulteri sorpresi sul fatto e condannati a lasciare la comunità dopo pubblica flagellazione. In un certo senso, può costituire l’equivalente medievale di quanto Catullo fa con Mecilia, fermo restando che le frustate del poeta sono solo verbali e che il tono con cui si raccontano le imprese della donna non è necessariamente moralistico, di condanna (e non sono anzi escluse l’ammirazione e il darsi di gomito per l’impresa compiuta e l’abilità dispiegatavi).

  • Garibaldi a Gironico (CO)

    Garibaldi a Gironico (CO)

    Non ha goduto della meritata celebrità la bella pubblicazione curata da Roberta Piastri del De Redemptione Italica di Giovanni Faldella (Edizioni Mercurio, 2 voll., Vercelli 2011). Diciamo subito: Faldella, esponente ben noto della Scapigliatura Piemontese, negli anni che vanno dal 1915 al 1927 scrisse una storia del Risorgimento italiano, dal rientro di Vittorio Emanuele I a Torino (1814) all’annessione di Roma al Regno (1870). La scrisse in latino, giustificando variamente la sua scelta. Il latino nobilita e dà valore di epos all’impresa risorgimentale; il latino è sentito come lingua eterna, in grado di trasmettere il racconto al di là dei confini geografici e cronologici. Con uguale procedimento, in ambito diverso, ma non intenti davvero differenti, sappiamo oggi che sotto l’obelisco del Foro Romano venne sepolta, quasi come un messaggio in bottiglia da lasciare ai posteri, un’enfatica esaltazione del fascismo e del duce. Il latino, per la sua valenza storica, è stato caricato anche di questi segni!

    Sull’argomento riferisce ampiamente il dotto lavoro di Roberta Piastri, che pubblica il lungo testo latino, lo traduce, lo introduce, lo annota. Nel complesso, si tratta di due volumi di oltre 1200 pagine, ricche di spunti e di idee. Faldella era nato a Saluggia, oggi provincia di Vercelli, ma allora di Novara, nel 1846; non aveva partecipato in prima persona a nessuna delle imprese che racconta. Figlio di un medico, si era laureato in Giurisprudenza a Torino nel 1868, compiendo poi il suo praticantato nello studio di Luigi Ferraris, allora ministro nel governo Menabrea III (di durata semestrale circa: la brevità dei governi è dunque stata sempre endemica nell’Italia moderna, e non sembra dipendere davvero dalle forme costituzionali o dalle norme elettorali), a breve destinato a divenire sindaco del capoluogo piemontese (dal 1878 al 1882). Era uomo della Destra Ferraris, era spostato a Sinistra Faldella – naturalmente, Destra e Sinistra del tempo, che poco hanno in comune con le denominazioni odierne – per cui, terminato il praticantato, Faldella tornò al paese natio, vi svolse la libera professione, si diede ben presto all’attività politica, ma a partire da lì. Dal 1872 al 1908 fu nel consiglio provinciale di Novara; meno bene gli andò la carriera a livello nazionale: candidatosi come rappresentante della Sinistra nel collegio di Crescentino nel 1876 e nel 1880, entrambe le volte venne sconfitto e non riuscì ad accedere alla Camera del Regno; vi entrò solo nel biennio 1881-1882, in sostituzione del precedente eletto, passato dalla Camera al Senato (al tempo, si diveniva senatori a vita e per nomina regia). Ricandidatosi nel 1882, Faldella fu nuovamente sconfitto, e riuscì ad arrivare a Roma solo nel 1886. Rimase come componente della Camera per dieci anni, fino al 1896, quando a sua volta venne nominato Senatore. Morì a Novara nel 1928. Il De Redemptione è solo una delle sue molteplici opere letterarie, che includono testi teatrali, romanzi, cronache e resoconti giornalistici, e altri titoli di vario genere. Il suo prodotto (oggi) forse più famoso è Figurine, riedito nel 2006 da Alessandra Ruffino per “Interlinea”. Se non il più importante, è certo il più emblematico, fin dal titolo: Faldella non è uomo da narrazioni lunghe e distese, ma è capace di scrivere taglienti e sarcastici bozzetti, brevi scene che restano nella memoria e colgono lo spirito di un carattere e/o di una situazione. Ciò si avverte anche nel De Redemptione, che è agiografico negli intenti, ma non nella conduzione. Convinto che nella Storia serio e faceto si mescolino continuamente, Faldella coglie spesso l’elemento comico di personaggi e racconti del Risorgimento. Da fedele suddito sabaudo, direi anche che esercita la sua verve in particolare contro tutti gli ‘irregolari’, ossia contro coloro che, come Mazzini o Garibaldi, pur appartenendo di diritto alle figure essenziali di quella Storia, vi parteciparono da, diciamo così, ‘esterni’ all’apparato sabaudo (o almeno, anche da esterni). Più cauto, ma comunque sempre portato a cogliere gli eventuali elementi comici, è invece il giudizio sui ministri di Stato, sulle figure della dinastia regnante, sui loro più stretti collaboratori.

    Perché portare l’attenzione su questo testo? Perché penso che sia sfruttabile non solo come lettura colta, ma anche a scopi didattici. Il latino di Faldella è tendenzialmente corretto (qualche piccola svista è ravvisabile qua e là, soprattutto nell’uso dei pronomi). Non è banale, ma, naturalmente, è meno complesso di quello di un parlante nativo. Offre racconti spesso singolari, che hanno una loro compiutezza e, a scegliere opportunamente le pagine, anche una divertente piacevolezza. Faldella non pubblicò mai la propria opera, salvo brevi estratti su rivista. Le sue carte passarono, alla morte, per mani varie, approdando da ultimo alla Biblioteca Comunale di Torino, da dove la Piastri le ha tratte con lavoro encomiabile e paziente. Faldella pensava di inserire il De Redemptione in quella tradizione di epitomi di Storia Patria che aveva una lunga ascendenza, e che proprio nella Epitome Historiae Patriae di Tommaso Vallauri (1857) aveva, all’epoca, forse il risultato più alto (certo, il più noto). Faldella immaginava di continuare quella tradizione, allo stesso tempo proponendosi di ‘vivificare’ il latino con il racconto di vicende ancora relativamente recenti, da sostituire agli antichi racconti di battaglie fra popoli ormai scomparsi e quindi, a suo giudizio, poco interessanti per gli studenti del tempo. Oggi, forse, non la penseremmo così; però, mi è capitato di sentire raccontare che vengono ancora usati in classe letterature e trattati storici di inizio Novecento, per avvalersi del latino in cui sono scritti, così da fare lezione su testi ‘monolingue’: ma una letteratura e un trattato di Storia non possono essere solo forma, devono avere anche un contenuto, e le posizioni critiche di cento e passa anni fa non sono più sostenibili, nemmeno a livello estetico. Da parte sua, Faldella non offre una Storia continuativa, non pretende tanto: offre un repertorio di racconti e di temi, spesso divertenti, che nello stesso tempo mostrano con chiarezza il continuo riuso (ed abuso) dell’immaginario classico.

    Quanto ho detto, si può esemplificare con un brano a sé. Siamo al capitolo 11 del libro VII. Faldella sta raccontando quella che noi chiamiamo Seconda Guerra di Indipendenza, nel 1859. Protagonista della vicenda in esame è Garibaldi: attraversato il confine fra Piemonte e Austria a Sesto Calende, all’estremo sud del Lago Maggiore, egli sconfigge gli Austriaci a Varese e poi li insegue, con i Cacciatori delle Alpi, lungo la direttrice per Como. Qui, deviando dalla strada maestra, si scontra di nuovo con loro a San Fermo (oggi San Fermo della Battaglia), alle porte del capoluogo, e ne riporta una nuova vittoria, che spinge a ulteriore ritirata l’esercito nemico. La fascia settentrionale della Lombardia diventa così territorio sabaudo, e poi, a breve, italiano. Dopo la battaglia, Garibaldi si riposa come ospite della famiglia Raimondi, marchesi con vari possedimenti nella zona e ferventi avversari del governo austriaco. In particolare, a Gironico (sulla strada fra Varese e Como, l’attuale SP 17, detta, non per nulla, “Garibaldina”), viene accolto nella villa dei nobili amici, tuttora esistente. Poco prima della battaglia di Varese, stante il racconto di Garibaldi stesso, egli aveva incontrato, in veste di ‘staffetta’ animata da entusiasmi irredentistici, la giovane marchesina Giuseppina Raimondi (1841-1918), all’epoca non ancora diciottenne. Fra i due era scoppiata una scintilla (o almeno: il fuoco è certo dalla parte di lui, meno si capisce l’atteggiamento di lei), che avrebbe portato, il 24 gennaio dell’anno dopo, a celebrare le nozze, affrettate dal fatto che la marchesina attendeva un bambino, che peraltro nascerà morto. Il giorno delle nozze avviene l’imprevisto: subito dopo la loro celebrazione, Garibaldi viene accostato da un cugino della sposa, che gli recapita una lettera anonima, dalla quale si apprende che la marchesina è stata amante anche di altri uomini, fra cui, pare, il cugino stesso e un ufficiale dell’esercito, tale Luigi Caroli. Seguono un litigio, una scenata, l’abbandono del talamo nuziale. Le nozze saranno annullate nel 1880, esattamente vent’anni più tardi, consentendo a entrambi i contraenti di risposarsi con persone diverse e regolarizzare le nuove unioni maturatesi nel frattempo (Caroli, cui fu impedito di partecipare all’impresa dei Mille, venne invece accettato nel gruppo di garibaldini che, senza Garibaldi, parteciparono all’insurrezione della Polonia contro la Russia nel 1863; catturato e relegato in Siberia, vi morì nel 1865).

    Siamo fra il dramma e la farsa. Naturalmente, la dietrologia che ci è tipica non ha mancato di vedere in questo episodio un complotto contro Garibaldi, oppure la prova della dabbenaggine del medesimo, o ancora una fosca trama ordita dal cugino di lei, probabile autore della lettera anonima, al limite del peggiore melodramma. La cosa non ci interessa. Passati gli anni, e ormai morti e sepolti i protagonisti della vicenda, resta la situazione ‘boccaccesca’ e, alla fine, risibile, che vede tutti uscirne complessivamente sconfitti. Proprio per questo elemento, che è nel suo DNA narrativo, Faldella si compiace di raccontare la scena, di per sé non necessaria allo sviluppo del racconto. Eccone l’incipit:

    Est marchionissa ista Raimunda. Garibaldus autem potest ei dicere: «Si me non veterum commendant magna parentum nomina, mihi ex virtute nobilitas coepit… Mihi nova nobilitas est». Florebat marchionissa suis viginti veribus. Heros quinquagenarius et ultra. At placebat iuveni heroidi ille celsus super equum, liberaturus civitatem suam vultuque ita laeto, ut vicisse iam crederes Austriam usque ad Vindobonam. Videbatur arma resurgentis portans victricia Troiae. Erant Garibaldi dulces et caerulei oculi, rutilae comae, teres corpus, magica figura et tantum ad impetum valida. Erat benevolentia singularis, conciliandaeque hominum mulierumque gratiae ac promerendi amoris mirum et efficax studium. Facile iuvenis marchionissa omnes Garibaldo tribuit corporis animique virtutes, et quantas nemini contigisse satis credebat: formam et fortitudinem egregiam, ingenium praecellens.

    Questa la traduzione della Piastri: È una marchesa questa Raimondi. Garibaldi però potrebbe dirle: «Se non mi raccomandano i grandi nomi dei miei avi, ho tratto la mia nobiltà dal valore… La mia è una nobiltà recente». La marchesa era nel fiore delle sue venti primavere; l’eroe cinquantenne e oltre. Ma piaceva alla giovane eroina quello ritto sul cavallo, venuto a liberare la sua città e col volto così lieto che avresti potuto credere che avesse già sconfitto l’Austria fino a Vienna. Sembrava che portasse le armi vittoriose di una risorgente Troia. Erano dolci e celesti gli occhi di Garibaldi, rosse le chiome, ben tornito il corpo, affascinante la figura ed energica per un così grande assalto. Era di una singolare benevolenza e aveva una straordinaria ed efficace capacità di conciliarsi il favore di uomini e donne e di conquistarsi l’amore. Facilmente la giovane marchesa attribuì a Garibaldi tutte le qualità del corpo e dell’anima e quante credeva che non fossero toccate a nessun altro: una bellezza e un forza straordinarie, un’intelligenza superiore.

    Proviamo ora a lavorare sopra il testo. Credo che si possano dare due livelli di lettura, uno più rivolto alla sua scomposizione e comprensione elementare, l’altro a metterne in mostra i clichés narrativi. Partiamo dal primo livello. Direi che possiamo darci questo schema: operazione iniziale deve essere distinguere la struttura del testo; per fare questo, occorre individuare i connettivi che legano le frasi (e, quindi, il pensiero), così da seguirne l’andamento complessivo; va poi valutato chi sta parlando, quali sono la voce e il punto di vista da cui si guarda all’azione narrata, facendo emergere i segnali linguistici che aiutano nella ricerca; infine, i diversi snodi in cui si è così suddivisa la struttura vanno analizzati uno per uno, alla ricerca di quei segnali linguistici e, soprattutto, lessicali, che possano risultare portatori di giudizio, anche solo implicito.

    E dunque, vediamo di scomporre il testo nelle sequenze narrative:

    1) Est marchionissa ista Raimunda. …… 2) Garibaldus autem potest ei dicere: «Si me non veterum commendant magna parentum nomina, mihi ex virtute nobilitas coepit… Mihi nova nobilitas est». …… 3) Florebat marchionissa suis viginti veribus. Heros quinquagenarius et ultra. …… 4) At placebat iuveni heroidi ille celsus super equum, liberaturus civitatem suam vultuque ita laeto, ut vicisse iam crederes Austriam usque ad Vindobonam. Videbatur arma resurgentis portans victricia Troiae. …… 5) Erant Garibaldi dulces et caerulei oculi, rutilae comae, teres corpus, magica figura et tantum ad impetum valida. Erat benevolentia singularis, conciliandaeque hominum mulierumque gratiae ac promerendi amoris mirum et efficax studium. ….. 6) Facile iuvenis marchionissa omnes Garibaldo tribuit corporis animique virtutes, et quantas nemini contigisse satis credebat: formam et fortitudinem egregiam, ingenium praecellens.

    Torniamo ora ad analizzarle una per una:

    Est marchionissa ista Raimunda. Affermazione, secca, perentoria, che serve a introdurre il personaggio e a metterne in evidenza il tratto che più la segnala, ossia il titolo nobiliare (al quale non terrà fede con il suo comportamento) – marchionissa è ovviamente termine del latino medievale e moderno; la sua collocazione a sinistra della frase (d’ora in poi, sx), accanto al verbo est, ne accentua il risalto, insinuando che questo possa essere stato un motivo di particolare attrattiva.

    Garibaldus autem potest ei dicere: «Si me non veterum commendant magna parentum nomina, mihi ex virtute nobilitas coepit… Mihi nova nobilitas est». La presenza di autem indica il cambio di prospettiva, dalla marchesina a Garibaldi, non a caso dislocato a sx, all’inizio della frase. Lei è nobile per nascita ed educazione, la nobiltà (o celebrità? Il valore classico di nobilitas) di lui è recente e frutto delle sue stesse azioni (è un self-made man, per dirla in linguaggio moderno). Il latino classico però non esalta la novitas, né sociale né comportamentale e l’insistenza su nova, in gioco allitterante con nobilitas, sembra rimarcare un simile dato. A sottolineare la pomposità della vanteria del Generale, Faldella presenta infatti anche una citazione da Ovidio, Amores I 3, 7-8. Ovidio non è autore che ci si aspetta far parte dell’orizzonte di letture di Garibaldi (che infatti potest dicere, ma certo non avrà detto davvero così). Nel passo citato, il poeta si celebra come figlio di un semplice eques, che spera di fare sua la puella appena conquistata, auspicando di esserne ricambiato nella passione, ora e negli anni a venire, dal momento che lei saprà riconoscere in lui qui pura norit amare fide (il che, applicato alla situazione di Garibaldi e agli esiti che si conoscono futuri, ha tratti convenienti, ma un sottofondo di amaro sarcasmo).

    Florebat marchionissa suis viginti veribus. Heros quinquagenarius et ultra. La dislocazione a sx del verbo principale sottolinea il cambio di argomento: si parla dell’età dei due ‘innamorati’, nettamente segnalata dalla contrapposizione dei numeri: venti primavere (= anni) per lei, lui è quinquagenario e oltre (Garibaldi era del 1807, lei del 1841, in realtà: qui siamo fra estate 1859 e inizio 1860). La forte differenza d’età avrebbe dovuto mettere in guardia Garibaldi, ma così non è stato.

    At placebat iuveni heroidi ille celsus super equum, liberaturus civitatem suam vultuque ita laeto, ut vicisse iam crederes Austriam usque ad Vindobonam. Videbatur arma resurgentis portans victricia Troiae. L’inizio con at segnala un forte stacco da quanto precede. Qui sono elencate le virtù fisiche di Garibaldi, così come le vede la marchesina (per questo dislocata a sx, con l’ironico herois a qualificarla, femminile del precedente heros appena usato per lui: la Raimondi è impetuosa a parole e per disposizione d’animo, ma poco o nulla ha fatto per i combattimenti; lui si è conquistato nobilitas tramite la virtus, in perfetto accordo con gli stilemi classici e la definizione tradizionale di heros). L’ampliarsi delle azioni di Garibaldi è a climax e arriva fino all’iperbole derisoria: Garibaldi sembra un nobile guerriero in posa classica, alto sul cavallo, sembra avere già conquistato Como, anzi sembra avere già conquistato perfino Vienna, quando in realtà non ha conquistato ancora nemmeno Como (liberaturus, futuro di intenzionalità)!

    Erant Garibaldi dulces et caerulei oculi, rutilae comae, teres corpus, magica figura et tantum ad impetum valida. Erat benevolentia singularis, conciliandaeque hominum mulierumque gratiae ac promerendi amoris mirum et efficax studium. La dislocazione a sx del verbo sottolinea di nuovo il cambio di argomento. Ora non siamo più nel punto di vista (d’ora in poi, pdv) della marchesina, ma è il narratore esterno che ci dice le qualità di Garibaldi. La ripetizione, con lieve variazione, erant…erat distingue qualità fisiche e qualità morali. Si tratta di un ritratto ideale d’eroe, secondo stereotipi e cliché già propri della retorica antica.

    Facile iuvenis marchionissa omnes Garibaldo tribuit corporis animique virtutes, et quantas nemini contigisse satis credebat: formam et fortitudinem egregiam, ingenium praecellens. Il commento finale del narratore è riassunto dall’avverbio facile, che – come tutti gli avverbi e gli aggettivi qualificativi – porta in sé l’idea di un giudizio autoriale: date le premesse di prima, era ovvio che la marchesina si innamorasse o si fingesse innamorata di Garibaldi, di cui sono di nuovo riassunte le qualità, con formula tipica della retorica antica (e di nuovo distinte in doti fisiche – forma et fortitudo – e doti morali – ingenium). È un gioco della seduzione reciproca, anche se la seduzione della marchesina è, con il senno di poi, assai dubbia, e il tono della narrazione sfocia più volte nell’ironico e nell’iperbolico (l’iperbole è una delle forme riconosciute della comicità).

    Se ora vogliamo tornare sul passo per metterne in evidenza gli elementi costitutivi, possiamo osservare come nel capitolo in questione, Faldella presenti il ritratto ideale di Garibaldi quale eroe che rispetta tutti gli stereotipi dell’eroismo e della kalokagathìa fissati dalla tradizione antica, greca e latina. Si tratta però di un ritratto in cui il punto di vista dell’Autore si mescola con quello (interessatissimo) della marchesina Raimondi, e nel quale certi elementi ironici – in particolare, l’uso smaccato delle iperboli e alcune scelte di vocaboli ambigui, nel diverso significato che hanno in antico e in moderno – preludono già a quell’elemento tragicomico che, come sappiamo, affiorerà con le nozze future. Garibaldi è così allo stesso tempo celebrato e messo a distanza, come succede per tutti gli altri ‘irregolari’ che pure hanno contributo all’idea risorgimentale, e che dunque Faldella non deride mai troppo apertamente, ma di cui non condivide nemmeno fino in fondo il ruolo. E’ bello, alto, biondo/rossiccio, dagli occhi azzurri, il corpo agile e forte. La sua forma prelude alla fortitudo, che è dote fisica, ma anche morale, “et est virtus animi qua labores suscipiuntur considerate et dolores constanter perferuntur” (Forcellini), un’immagine ideale del combattente, una virtus imperatoria in sommo grado (Cic. Pro lege Manilia 29), ma utilissima anche, nel suo valore figurato, agli interessi della marchesina e della situazione contingente. Dalla fortitudo si passa facilmente all’ingenium, tanto praecellens quanto quella era ingens, che è l’insieme delle doti naturali che fanno dell’uomo virtuoso un uomo virtuoso (e del babbeo un babbeo, secondo che si consideri). Garibaldi, dal canto suo, ha però una volontà di piacere, che dovette essere allettata dall’idea di essere piaciuto a una donna tanto più giovane, e nobile, e politicamente attiva e disinibita (secondo il racconto delle di lui Memorie gli si era presentata a Varese da sola, senza altra scorta che quella di un sacerdote di casa), ma che finisce per essere, in un certo senso, il suo tallone d’Achille, ciò che non lo mette in guardia dalla disparità di situazione e dai rischi che essa poteva comportare (e che, nei fatti, si dimostrerà comportare). In questo gioco delle parti si consumano insomma, da un lato gli ideali antichi, dall’altro le vanità moderne, che in nome di quegli ideali e di una loro (improbabile) riproposizione nel nuovo tempo vanno incontro a guai e disfatte. Il testo ha perciò sì una superficie leggera, ma nasconde ugualmente una drammatica verità.

  • Da Calcide a Corinto

    Da Calcide a Corinto

    Riprendiamo in mano la storia della resa di Negroponte. Riassumo la puntata precedente: nel 1470, al culmine della prima vera contesa militare fra Ottomani (recenti conquistatori di Bisanzio) e Veneziani (costretti a difendere il loro “stato da mar”, e attivi in tal senso sin dal 1463: prima con una serie di successi, poi, dopo la sconfitta subita nelle acque di Patrasso nel 1467, giocando essenzialmente in difesa), il Negroponte, alias l’Eubea, diventa il terreno della contesa. Dominio veneziano fin dalla fine del XIII secolo (dopo che i Crociati se ne erano appropriati nel 1204), l’Eubea viene ora investita da un potente esercito turco sia per terra che per mare. Il comandante della flotta veneziana nulla fa per difendere l’isola, che resta abbandonata a se stessa. Attaccata dalle truppe di Maometto II già dall’inizio di giugno, la città di Calcide resiste a una serie di assalti e a un lungo assedio, ma a metà di luglio si deve arrendere. Avviene così una grande strage di uomini, donne, bambini, come usano fare gli Ottomani quando incontrano una forte resistenza sul loro cammino. La cosa desta scalpore, così come, circa un secolo più tardi, la stessa vicenda replicata a Cipro determinerà sì la perdita dell’isola da parte di Venezia, ma anche la reazione “occidentale”, che si concreta nella Lega Santa e nella battaglia di Lepanto (1571). Dei difensori di Negroponte è ignota la vera sorte. In particolare, del bailo Paolo Erizzo si dice che sia morto combattendo; o che sia stato sgozzato personalmente da Maometto; o che sia stato impalato. Una leggenda (o almeno, speriamo che tale solo sia), però particolarmente fortunata, lo vuole segato in due all’altezza dell’addome, per rispettare la promessa, fatta da Maometto, di non torcergli nemmeno un capello della testa. La leggenda “nera” si arricchisce, nel tempo, di un ulteriore dettaglio: oltre a Paolo, sarebbe morta anche sua figlia (la cui esistenza è tutt’altro che certa, e la cui presenza sull’isola suona altamente improbabile), catturata da Maometto, che di lei si sarebbe invaghito. Ai dinieghi della giovane, il sultano l’avrebbe fatta strangolare. Un melodramma perfettamente già scritto, insomma, anche se a quella data il melodramma vero e proprio doveva ancora ufficialmente nascere!

    Aggiungo ancora che la vicenda della figlia di Anna ricorda semmai un altro episodio narrato dal vicentino Angiolello, ossia la storia di Irene, donna greca, da lui conosciuta durante la prigionia a Bisanzio. Di questa donna, sua prigioniera, Maometto si sarebbe in effetti invaghito, ma l’avrebbe poi fatta uccidere davanti a tutta la corte, per dimostrare che niente e nessuno poteva distrarlo dal suo ruolo di conquistatore di nuove terre. La vicenda è stata resa celebre da una novella del Bandello, la decima del primo libro, ed è ricordata (con varie inesattezze) anche fra le pagine di Proust. Nel XVII secolo la leggenda della figlia di Erizzo mi sembra invece poco produttiva di nuovo materiale, o almeno non ne conosco io. Torna di moda nel XVIII secolo, in corrispondenza alla perdita degli ultimi brandelli dello “stato da mar”, e al conseguente sorgere di un interesse nostalgico ed erudito per il passato di Venezia. Nel tomo XXII dei Rerum Italicarum Scriptores Ludovico Antonio Muratori pubblicò le Vitae ducum Venetorum di Marin Sanudo (le Vite dei dogi, dalle origini al 1494), che abbiamo visto essere una delle prime testimonianze dirette della vicenda; la maggior parte degli altri testi che abbiamo citato saranno editi, come già detto, solo nel XIX secolo (gli Annali Veneti di Domenico Malipiero nel volume settimo dell’”Archivio Storico Italiano”, 1843/1844; La presa di Negroponte del Rizzardo nel 1844, a cura di Emmanuele Cicogna: tutti questi testi sono oggi disponibili in consultazione online); Sabellico e l’anonima cronaca di metà Cinquecento, che abbiamo avuto modo di ricordare fra i rappresentanti maggiori della leggenda nera, erano invece circolanti a stampa già dal XV-XVI secolo. Nuovi eruditi si aggiunsero ora ai vecchi: nel Dizionario storico della vita di tutti i sovrani Ottomani, del 1786, Vincenzo Abbondanza rincara la dose intorno alla leggenda che ci interessa (anche questo testo è disponibile online, grazie al programma “archive.net”). “Erizzo vedendosi soprafare sempre più dal numero spaventevole degli Ottomani si trovò in grado di non potere sfuggire la dura necessità di rendere la Cittadella, con la condizione però che il vincitore non gli togliesse la testa. Mehemet accettò la resa con la detta condizione, ma poi fece segare in mezzo l’infelice Erizzo, dicendo che li fianchi nulla avean che fare con la testa, onde lasciando quella illesa, erasi da esso pur troppo mantenuto il convenuto patto”. Il racconto prosegue presentando l’amore di Maometto per Anna come una sorta di vendetta divina per l’empietà del sultano: “Molto caro però al barbaro imperatore costò l’empio suo scherzo. Avea Erizzo una figlia per nome Anna Erizzo, damina quanto gentile e bella, altrettanto savia e timorata di Dio. Preso dagli Ottomani Negroponte e dopo massacrato l’adorabile suo genitore, capitò Anna nelle mani de’ Gianizzeri, i quali, benché licenziosi e rapiti dalla rara avvenenza di quella sventurata signorina, ciò nonostante rimasti sorpresi da una somma venerazione per ella, non ardirono farle minima insolenza”. I Giannizzeri portano Anna al cospetto di Maometto: “Anzi, dalla meschina singhiozzante e piangente caldamente supplicati a toglierle la vita e ad accoppiarla al cadavere del trucidato suo genitore, le risposero di non poter loro disporre della vita di lei ma ch’ella piuttosto disponesse di loro. Gli fecero bene intendere che se essa voleva sarebbe stata nell’Imperiale Serraglio una Principessa delle più fortunate della terra”. Dalle parole si passa all’azione: “Fu pertanto Anna condotta avanti il vincitor Mehemet, che ne rimase ben tosto innamorato. Anna però, come non affettò una inopportuna fierezza verso del vincitore, non mostrò neppure minimo turbamento”. Naturalmente, tanta (nobile) ritrosia stimola ancora di più la passione di Maometto: “Più che mai rapito il Soldano dal portamento modesto e tranquillo della schiava Erizzo, le si accostò tutto tenero ed espressivo, per notificarle il suo ardore. Ma la Veneziana scorgendo il suo nemico ancor fumante del paterno sangue, e richiamando sempre più alla mente i doveri della Cristiana sua Religione e quelli ancora d’una amorosa figlia, pronta e risoluta a Mehemet rispose ch’ella era vergine e cristiana, e perciò non doveva e non voleva acconsentire a suoi desideri”. Tanta ostinazione spinge il sultano a cambiare tattica: “Credendo il Soldano che questo rifiuto non provenisse che dal condonabile trasporto di una fresca e giusta passione, fece portare Anna nel suo Imperiale Serraglio di Costantinopoli e fattole assegnare un appartamento il più splendido con un equipaggio veramente imperiale, non lasciava di fare il possibile ora con le carezze ora con le minacce per espugnare quest’altra fortezza, assai più ostinata dì quella materiale poco prima da esso dopo tanti stenti vinta e conquistata. La Erizzo però quale scoglio avvezzo agli urti più furiosi del mare [un’immagine ariostesca] dette sempre la medesima risposta”. Si arriva così all’ultimo atto della tragedia: “Stanco adunque Mehemet di più lungamente pregare, promettere e minacciare senza profitto, intimò ad Anna che tra poche ore scegliesse o di compiacerlo o di morire. La Veneziana senza punto esitare rifiutò di contentare il Soldano ed elesse di morire, onde villanamente strascinata fuori dalla presenza di Mehemet fu decapitata”.

    Ho parlato di tragedia, anche se qua e là la tragedia, almeno così come la presenta Abbondanza, ha qualche tratto di (involontaria) comicità. In effetti, della storia si occuparono sia il teatro tragico, sia quello comico: risale al 1783 il dramma Anna Erizio di Vincenzo Antonio Formaleoni, 1752-1797, personaggio oggi dimenticato dai più, ma che meriterebbe maggiore interesse, per la sua biografia al limite del romanzesco. Già nel 1773, dieci anni prima, Angelo Maria Barbaro aveva invece scritto un testo parodico, Maometto in Negroponte, ovvero sia Anna Erizzo, che Cicogna, dal quale discendono tutte queste informazioni, giudica divertente ma immorale (in effetti, messo in scena solo nel tardo XX secolo, il testo ha dell’improponibile: basti dire che Anna si vendica di Maometto castrandolo, e che Erizzo e Balbo, sul punto di essere impalati, fanno battutacce da caserma sulla sorte che li aspetta).

    Passata la moda del revival nostalgico delle antiche glorie di Venezia – che dalla fine del secolo ha perso autonomia e libertà e ha ora ben altro cui pensare – scompare di nuovo anche la vicenda di Paolo e Anna Erizzo. Del resto, sul finire del XVIII secolo l’immagine dei Turchi è cambiata: essi vengono visti, come un po’ tutti gli orientali, ora come nemici crudeli e implacabili, ma allo stesso tempo anche savi e capaci di atti generosi (si pensi al Selim Bassà [Pascià] del mozartiano Ratto dal serraglio, 1782); ora come figure da ridicolizzare, ingenui stupidotti destinati a immediata sconfitta e derisione ogni qual volta pensino di confrontarsi con la superiore abilità degli Europei (si pensi al Mustafà della rossiniana Italiana in Algeri, 1813, o al Selim del Turco in Italia, pure di Gioachino Rossini, 1814). Ho portato tre esempi musicali, ma i casi si potrebbero facilmente moltiplicare guardando alla letteratura e al teatro di prosa. E’ però proprio la musica che in questi stessi anni, a cavallo fra i due secoli, fa della “turcheria” un vero sottogenere; mentre nei palazzi mitteleuropei le turcherie vanno a gara con le cineserie e le altre decorazioni di (presunta) origine orientale, nell’abbellire stanze e saloni principeschi. Le cose cambiano drasticamente alla fine del secondo decennio del secolo diciannovesimo. Due le cause evidenti: dal congresso di Vienna in avanti, per tutta Europa, si diffondono le società e le azioni (e le pubblicazioni) filelleniche, ossia di quel movimento volto a dare voce alla causa greca, e a presentare i Turchi, padroni assoluti della penisola ellenica, come tiranni e invasori. L’attualità politica viene in aiuto: basti pensare a una vicenda come quella di Parga, una cittadina epirota sulla quale gli Inglesi estendevano un loro protettorato (la città era stata un possesso veneziano, finito alla Francia dopo Campoformio e all’Inghilterra alla fine delle guerre napoleoniche). Nel 1819 gli Inglesi cedettero Parga agli Ottomani; la popolazione, in larga misura greca e veneziana, fu perciò costretta a lasciare le proprie case. A Londra, Ugo Foscolo scrisse sul tema un articolo di fuoco (On Parga, “Edinburgh Review” del 1819), che spinse il Parlamento britannico a un dibattito sulla scelta compiuta; a Parigi, Andrea Mustoxidi pubblicò, in forma anonima, l’importante Exposé des faits qui ont accompagné et suivi la cession de Parga. Negli anni successivi, sull’avvenimento intervennero anche Giovanni Berchet e (nel 1831, a vicenda ormai terminata) Francesco Hayez, con il dipinto oggi alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia. Nel 1819 si ebbero i primi tentativi di insurrezione armata in Grecia; nel 1821 iniziò, a partire proprio dall’Epiro, la vera guerra di liberazione. Figure come Giovanni Antonio Capodistria, 1776-1831, e Alessandro Ypsilanti, o società come la Φιλική Εταιρεία, fondata a Odessa nel 1814, molto si diedero da fare per difendere l’immagine di una Grecia invasa e martoriata dai Turchi. Uomini come George Byron o Santorre di Santa Rosa sacrificarono la loro vita per combattere al fianco degli insorti.

    Anche Anna e Paolo Erizzo diedero il loro piccolo contributo alla rinata causa greca: all’inizio del 1820 il conte napoletano Cesare della Valle, duca di Ventignano, 1776-1860, compose una tragedia intitolata Anna Erizo, nella quale veniva recuperata la trama narrata da Abbondanza e Formaleoni. Della Valle è un personaggio tipico di una certa cultura del tempo: nobile, istruito, accolto a corte, ma senza ruoli di prestigio, pratica molti generi letterari. Nella commedia tratta temi contemporanei, sul modello di quanto viene da Parigi (L’ambizioso, Dopo ventisette anni, Una scommessa fatta a Milano e vinta a Verona, Le dolcezze del matrimonio, Il seccatore sono alcuni dei suoi titoli). Nel teatro tragico è molto più conservatore: Ippolito, Ifigenia, Medea, Romeo e Giulietta sono i diretti antecedenti della Anna Erizo. Anche in poesia si nota una patina fortemente classicheggiante: il poema Il Vesuvio, del 1810, è una sorta di rifacimento/adattamento dell’Aetna pseudo-virgiliano; Lalage nello studio del Canova, del 1814, è una composizione ecfrastica, che loda Canova attraverso alcune delle sue sculture. Anna Erizo rappresenta, in certa misura, un uovo fuori dal cesto della sua restante produzione “alta”, dovuto, io credo, alla volontà più o meno inconscia di sfruttare le vicende contemporanee, recuperando una “leggenda nera”, come l’abbiamo chiamata, in cui il Turco oppressore e crudele si contrappone alla nobile coppia europea, costituita da Paolo e Anna; ma questa, pur sconfitta e morente, appare come la vincitrice morale dello scontro fra culture contrapposte.

    L’opera di Della Valle (anch’essa recuperabile online) non merita molta attenzione; ma a dicembre del 1820, sempre a Napoli, andò in scena il Maometto II di Rossini, che invece è, per struttura e arditezza musicale, un autentico capolavoro. Autore del libretto era lo stesso Della Valle, non senza molti interventi del musicista. Regista dell’intera operazione dovette però essere, con ogni probabilità, l’astuto impresario Domenico Barbaja, che all’epoca guidava il San Carlo (e non solo); aveva portato Rossini a Napoli fin dal 1815; gli aveva lasciato ampia possibilità di sperimentare; aveva radunato una compagnia quasi fissa di artisti di primissimo ordine. Barbaja era un uomo con un senso del teatro fortissimo, che sapeva come fare a raccogliere il consenso del pubblico. E in effetti, se guardiamo alle opere di Rossini del periodo napoletano, Maometto II, con il suo tema non classico e non biblico, rappresenta se non proprio un’eccezione assoluta, quanto meno una rarità. Il suo legame con l’attualità politica è insolito; il dramma ha una struttura che fuoriesce dagli schemi del tempo; la derivazione da una tragedia di pochi mesi prima non ha eguale (l’altra opera in certa misura assimilabile, l’Elisabetta regina d’Inghilterra, 1815, deriva da un drammone del Settecento). Ecco dunque la trama dei due atti dell’opera. Atto primo: Maometto minaccia di distruggere il Negroponte se non verranno aperte le porte al suo esercito. Il giovane Calbo esorta il governatore Paolo Erisso a resistere e combattere. La figlia di Erisso, Anna, è destinata in sposa a Calbo, ma rivela di essere innamorata di un giovane, Uberto di Mitilene, conosciuto casualmente alcuni mesi prima. Risuonano i cannoni che annunciano l’entrata dei Turchi in città. Anna, Calbo ed Erisso vengono catturati, gli altri si salvano sulla rocca. Entra in scena Maometto, che si rivela essere Uberto, e propone la salvezza a Paolo in cambio della figlia; al rifiuto, condanna tutti a morte. Anna lo prega di salvare il padre e Calbo, che spaccia per suo fratello. Maometto propone ad Anna di sposarlo, ed Erisso ripudia la figlia. Atto secondo: i Veneziani hanno respinto l’attacco alla rocca, e i Turchi retrocedono. Maometto si reca al campo donando ad Anna un anello, che le garantirà salvezza. Erisso e Calbo riescono a fuggire e si rifugiano nei sotterranei del tempio. Anna li raggiunge e impone loro di salvarsi, facendo avere loro l’anello e abiti musulmani; poi chiede al padre di unirla in matrimonio a Calbo, sulla tomba della madre. Rimasta sola, viene accerchiata dai Turchi; Anna rivela a Maometto di non essere la sorella, ma la sposa di Calbo, e si pugnala tra lo sconcerto generale.

    Già dal riassunto ritroviamo la leggenda ben nota e i personaggi che ormai conosciamo, magari con i cognomi trasformati ora in nomi (Alvise Calbo diventa così il giovane Calbo, affidato secondo consuetudine del tempo a voce femminile di contralto, Adelaide Chamel, alias Comelli; Giovanni Condulmiero è risolto nel semplice Condulmiero, luogotenente e confidente di Paolo, ecc.). La trama non potrebbe essere più operistica di così: la giovane è contesa fra il padre e fra l’amante, da cui però l’allontana la situazione storica e politica – restando a Rossini, è il nodo cruciale già del Tancredi, datato 1812 e derivato da Voltaire, ma non solo di quello. Anche la presenza di un genero meglio accetto al padre che all’eroina ci riporta al prototipo del Tancredi, pur dovendo riconoscere che Calbo è certo più simpatico e ‘positivo’ di Orbazzano (il suo corrispondente nell’altra opera) e che, a differenza di quello, che viene ucciso dal rivale, Calbo muore sì, ma dopo avere vinto, almeno idealmente, la contesa con Maometto. Insomma, adattamenti ci sono, ma nella sostanza l’opera è un tipico melodramma di inizio Ottocento, ravvivato (oltre che dalle geniali scelte rossiniane, ma qui il discorso non mi compete) solo dal richiamo di grande effetto a un passato che giusto in quegli anni era tornato di moda. Dalla tragedia di Della Valle (e/o dall’opera di Rossini) discendono infatti una Anna Erizio, tragedia di Giuseppe Vedeghe, del 1830; e un’altra Anna Erizio di Giovanni Francesco Gambara, edita a Brescia nel 1832. Nel campo musicale, ricordiamo ancora una Anna Erizzo andata in scena a Palermo nel 1851, musica di Paolo Fodale, libretto di Pietro Bozzo. Ignoro i suoi rapporti con il titolo di Della Valle e Rossini: nell’elenco dei personaggi scompare Condulmiero e si raddoppia il Selim confidente di Maometto, che ora dà spazio a un Omar e un Osmanno, “duci musulmani”. Altro non saprei però dirne.

    E’ più interessante seguire le vicende dell’opera rossiniana. Alla prima, pare, non piacque troppo, ma poi girò abbastanza. Degna di nota è l’edizione di Venezia, del 1823: forse perché a Venezia la vicenda toccava un tasto dolente, forse perché l’attualità politica registrava un clima mutato (i Turchi cominciavano a subire le prime sconfitte), fatto sta che il finale venne ora mutato, aggiungendo un assai improbabile arrivo in extremis di Calbo e Paolo che liberano Anna accerchiata e costringono Maometto alla ritirata. A teatro, si sa, è possibile di tutto! E del resto Rossini non si spese molto per questa riedizione, tant’è che il nuovo finale fu quasi interamente costruito sfruttando musica derivata da precedenti suoi melodrammi. Nel 1826 a Lisbona il Maometto II tornò in scena con il finale originario, assai più convincente (e coinvolgente). Ma proprio il 1826 segna l’ultima tappa della nostra storia. A quella data Rossini ha rescisso da tempo il contratto con Barbaja e Napoli, dopo la Zelmira del 1822 (opera di ambientazione classica: gli empiti attualizzanti si sono infatti esauriti presto). A Venezia ha presentato l’ultimo suo capolavoro italiano, Semiramide (1823); dal novembre di quell’anno si è trasferito a Parigi, con un compito essenzialmente organizzativo, “directeur de la musique et de la scène” del Théâtre royal italien (all’inizio, in condirezione con Ferdinando Paër, poi del tutto da solo). A Parigi Rossini aveva debuttato con un’opera di interesse encomiastico, il Viaggio a Reims, farsa capolavoro che celebra però un avvenimento storico preciso, l’incoronazione di Carlo X a re di Francia, avvenuta nel 1825. Ne conseguì che l’opera, passato l’avvenimento che celebrava, fu tolta dalle scene dopo solo tre repliche (tornerà in repertorio, creando furore, solo negli anni Ottanta del secolo scorso). Nel 1826 Rossini venne perciò chiamato a comporre, finalmente, qualcosa di più sostanzioso, che giustificasse la sua venuta a Parigi e il contratto, assai lucroso, con il quale era stato attirato nella capitale francese. Nasce così Le siège de Corinthe, rifacimento francese del Maometto II. Questa volta non si trattava solo di aggiungere un finale posticcio, e poco altro. Il dramma venne riscritto, in francese, da Giuseppe Luigi Balocchi, 1766-1832, cui si doveva già il libretto del Viaggio a Reims, e da Alexandre Soumet, 1788-1845, un affermato drammaturgo dell’Académie française, autore di tragedie intitolate Clytemnestre (1822), Saül (1822), Cléopâtre (1824), anche se il suo colpo migliore, Norma, ou L’infanticide (1830), a quella data era ancora di là dal venire. Non cambia solo questo, naturalmente: vengono mutati i nomi, visto che a Parigi i personaggi della Venezia quattrocentesca poco avrebbero detto. Anna divenne così Pamyra; Calbo (affidato ora a un tenore, e non più a una voce femminile: nel caso, il celebre Adolphe Nourrit) si chiamò Néoclès; Paolo si trasformò nell’un po’ ridicolo Cléomène, un nome che però gli garantiva uno status da personaggio di tragedia greca; Condulmiero si fece Hiéros, e fedele al proprio nome assunse tratti più sacerdotali. I due atti diventarono tre, grazie alla facile divisione dell’originario atto secondo in due; all’inizio del nuovo secondo atto venne aggiunto un improbabile intermezzo ballettistico, secondo gli usi di Parigi; vari pezzi cambiarono di posizione. Ma, soprattutto, la scena si spostò dall’Eubea a Corinto. Perché Corinto? Non c’è una vera risposta. Corinto, come indica la nostra foto di copertina, si presta perfettamente all’idea di una cittadella isolata, che grazie alla propria posizione può resistere a un lungo assedio. La città ha un passato illustre e glorioso, nel 1822 era stata liberata, non senza spargimento di sangue, dal giogo turco, peraltro reimposto poco dopo, con la riconquista del Peloponneso da parte degli Ottomani nel 1825. L’idea di un lungo assedio e di assalti ripetuti per terra e per mare, che accomuna la Corinto di Balocchi e Soumier alla Negroponte di Della Valle, ricorda però soprattutto il destino di un’altra città greca, presa d’assalto dai Turchi nel 1822, all’inizio della guerra di liberazione; riassediata nel 1823; e poi, di nuovo, nel 1825; infine, costretta a capitolare all’inizio del 1826, anche se gli estremi difensori, piuttosto che cadere in mano turca, preferirono fare saltare la fortezza e morire così in massa. Mi riferisco a quella Missolungi che, all’estremo opposto del golfo di Corinto (sul lato acarnano del golfo stesso), nell’immaginario ottocentesco era divenuto un simbolo della cultura romantica fondata sulla classicità e sui valori patriottici di una possibile nuova Europa, unita nella lotta e nella difesa del proprio passato. Sarà un caso? Bisognosi di presentarsi a Parigi con un testo forte, Rossini e i suoi collaboratori tornarono a riproporre con qualche necessario adattamento un’operazione già perfettamente riuscita pochi anni prima a Napoli, e nella quale idealismo sentimentale, sapiente marketing, perfetto timing politico-propagandistico si fondevano tra loro, nel nome della libertà della Grecia e del debito che tutta Europa ha contratto con essa. Il Negroponte si fece così Corinto; e la cultura europea acquisì due capolavori al posto di uno.

    © Massimo Gioseffi, 2021

  • La presa di Negroponte

    La presa di Negroponte

    Il 29 maggio 1453 Costantinopoli cadde in mano ai Turchi. Fu la fine dell’Impero Romano d’Oriente, un fatto di enorme portata, il cui valore non sfuggì a nessuno. Nel 1976 Agostino Pertusi ha pubblicato per la Collezione Lorenzo Valla due bellissimi volumi, dedicati l’uno alle testimonianze dei contemporanei, l’altro all’eco suscitata dall’avvenimento nel mondo. Gibbon celebrò la fine di Bisanzio nel capitolo 68 della sua monumentale History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776-1789). Georgji Ostrogorsky con la Storia dell’impero bizantino (1940, ma l’edizione definitiva è quella tedesca del 1963) e Steven Runciman in The Fall of Constantinople 1453 (1965), e poi naturalmente anche molti altri, hanno contribuito a rendere celebre l’avvenimento, trasformando la data in uno di quei riferimenti che tutti ricordano. E’ invece forse meno noto che Maometto II, il conquistatore di Bisanzio, aveva, all’epoca, solo ventun anni e che avrebbe continuato le sue conquiste fino alla morte, sopraggiunta nel 1481. Tre le principali direttrici seguite da Maometto: l’Anatolia e il Mar Nero, con la conquista dell’impero di Trebisonda (1461); l’Egeo e la Grecia continentale (Atene si arrese ai Turchi nel 1456; il Despotato di Morea, inclusi Sparta, Mistrà e Corinto, nel 1460); i Balcani. Qui Maometto incontrò le maggiori resistenze, che non gli impedirono tuttavia di conquistare Scutari nel 1478; di attraversare l’Adriatico e assaltare Otranto nel 1480 (l’avvenimento è al centro di un romanzo di Maria Corti, L’ora di tutti, 1962); di affacciarsi perfino sull’Istria e il Friuli. Poco noto è anche che l’avanzata turca non si fermò con la morte di Maometto: la guerra contro i Genovesi e, soprattutto, contro i Veneziani nelle acque dell’Egeo e del Mediterraneo Orientale terminò solo con la fine della cosiddetta “seconda guerra di Morea”, nel 1718. In quell’occasione furono infatti cancellate le ultime persistenze veneziane sul suolo di Grecia. In ambito balcanico (e non solo), gli Asburgo si contrapposero ai Turchi ancora nel 1792, quando cioè, per dire, la Rivoluzione Francese era già cominciata. Vienna, la capitale degli Asburgo, venne assediata nel 1529, così come Bratislava, e anche nel 1683. Belgrado (vanamente assalita da Maometto nel 1456) fu conquistata dai Turchi nel 1521 e il dominio asburgico su di essa fu sempre precario (1688-1690; 1717-1739; 1789-1791). Buda e l’Ungheria per quasi due secoli furono dominio turco, sino alla riconquista della città nel 1686 e alla battaglia di Mohács dell’anno successivo. A tutti è nota la battaglia di Lepanto, nell’ottobre del 1571, i cui effetti furono però più propagandistici e psicologici, che reali: la Lega Santa, formatasi dopo la sanguinosa caduta di Cipro in mano ai Turchi nell’agosto di quello stesso anno (un fatto che aveva destato particolare clamore, per la sorte crudele riservata ai Veneziani che difendevano l’isola), non riuscì a recuperare nessuno dei territori perduti, e Cipro venne ceduta definitivamente ai Turchi tre anni più tardi, nel 1574. La guerra di Candia si concluse, nel 1671, con il passaggio di Creta agli Ottomani.

    Fra gli avvenimenti che destarono particolare scalpore va annoverata la conquista turca dell’Eubea, o, come si chiamava allora, il Negroponte, avvenuta nell’estate del 1470. L’isola aveva fatto parte dei domini bizantini fino al 1204; in occasione della quarta crociata era passata in parte sotto il controllo di Bonifacio di Monferrato, in parte sotto quello di Guglielmo di Champlitte, in parte ancora sotto quello di Venezia. Dopo varie vicende, nel 1276 Venezia ne aveva acquisito il controllo più o meno totale, o direttamente o attraverso suoi protettorati (l’isola rimase divisa in tre). Alla caduta di Costantinopoli, i Veneziani reagirono abbastanza freddamente, e furono tra i primi a riconoscere con un accordo formale le conquiste di Maometto (1454). La guerra contro i Turchi iniziò, per loro, solo nel 1463. La nomina di Vettor Cappello a ‘capitano generale da mar’ (di fatto, l’ammiraglio della flotta veneziana: “stato da mar” è il nome che Venezia dava ai suoi possessi in Grecia e nell’Egeo) li portò infatti a una serie di importanti successi, bruscamente interrotti dalla sconfitta subita nel 1467 nelle acque di Patrasso e dalla morte dell’ammiraglio, in quello stesso anno. A Cappello fu dato come successore Nicolò Canal, più disposto a una politica attendista (per questo, una volta tornato in patria, sarà processato e condannato al confino). Nel 1470 la controffensiva turca, sempre guidata da Maometto, concentrò la propria attenzione sul Negroponte. Maometto si mise alla testa di un forte esercito di terra, che sbarcò all’isola grazie a un ponte di barche lungo ca. 50m (la larghezza minima dell’Euripo); nel contempo, l’isola venne assalita da una potente flotta per via di mare. Canal non intercettò la flotta turca; non assalì il ponte di barche, pur presentandosi più volte nelle acque dell’Euripo; anche durante i giorni dell’assedio vero e proprio preferì attendere rinforzi piuttosto che portare aiuto agli assedianti.

    L’assalto alla fortezza di Calcide, capoluogo dell’isola, iniziò il giorno 14 giugno; venne ripetuto il 20 giugno; poi, la città fu investita dalle forze turche anche il 5 luglio e l’8 luglio. L’assalto definitivo si ebbe il 12 luglio. I Veneziani sgombrarono la città e si ritirarono nella fortificazione al suo sommo , ma anche lì dovettero presto cedere le armi. La reazione turca fu terribile: l’intera popolazione di origine veneta fu massacrata o ridotta in schiavitù.

    Al comando delle operazioni militari c’era il bailo (= balivo, esito medievale del latino baiulus, un magistrato al servizio dello Stato) Paolo Erizzo – o Erizo, Erisso ecc., la grafia di tutti i nomi è, a questa data, piuttosto mobile, così come le indicazioni sui nomi di battesimo. Erizzo aveva fatto parte del Collegio dei Savi, un’importante magistratura veneziana, negli anni 1448-1452, e nel 1463 era stato baivo a Cipro, dove aveva ben meritato facendo da arbitro nella contesa che opponeva i fratellastri Carlotta e Giacomo Lusignano (Giacomo, figlio illegittimo di Giovanni II, venne favorito dai Veneziani, perché dal 1468 divenne marito di una nobildonna veneta, Caterina Corner o Cornaro, che, ereditata l’isola alla morte di Giacomo, l’avrebbe poi ceduta a Venezia, ritirandosi a vita privata ad Asolo). Accanto all’Erizzo c’erano il provveditore Alvise Calbo e il previsto nuovo bailo Giovanni Bondumier (pare, anzi, che Bondumier avesse già preso il comando dell’isola, ma Erizzo vi sarebbe rimasto ugualmente a combattere). La sorte di questi uomini, ancorché incerta, fu terribile. Il nobile veneziano Marin Sanudo ricorda nelle sue Vite dei dogi veneziani che nella carneficina seguita all’assedio “fu morto Lionardo Calbo bailo, Giovanni Bondinier capitano, e Paolo Erizzo che avea compiuto l’esser bailo, e molti altri nostri gentiluomini che ivi erano”. Nei più tardi Sommarii di Storia veneta, redatti da Sanudo negli anni 1522-1524, dice invece: “Non voglio restar di scriver questo, come i Turchi, intrati in Negroponte et presi Zuan Bondimier bailo, Alvixe Calbo rettor, et etiam Paolo Erizo, i quali menati davanti al Signor, parte fono segati per mezo, parte fati amazar”. Giacomo Rizzardo, nell’operetta La presa di Negroponte fatta dai Turchi ai Veneziani nel 1470, scritta a ridosso degli avvenimenti, anche se stampata solo nel XIX secolo, scrive che “il Signor Turco [Maometto II] trovò messer Polo Erizzo bailo di Negroponte, onde che colle sue propie mani il Signor Turcho lo scannò, e lavossi le mani e’l volto del suo sangue”. Più complessa la testimonianza portata da Domenico Malipiero nei suoi Annali veneti dall’anno 1457 al 1500 (anch’essi editi ufficialmente solo nel XIX secolo): “Polo Erizo Bailo s’havea reduto in Patriarcado per mazor segurtà, e s’havea fatto schiavo d’un Bassà, el qual ghe havea promesso de salvarghe la vita, e per mantegnirghe la fede, ghe havea raso i caveli, la barba e le cegie [le ciglia], e l’havea vestido de saco, e dovea mandarlo a Napoli [Nauplia] per indur quella città a darse al Turco, protestandoghe che non se dando, faria morir tutti come ha fatto quei da Negroponte”. […] Malipiero muove anche delle critiche ai difensori veneziani: “Le scarse provision della Signoria, e del Capitano Generale [Nicolò Canal], incredulo e timoroso, e de Polo Erizo Bailo e de Alvise Calbo Capitanio, ne ha fatto perdere quell’isola ditta anticamente Eubea; la qual s’havia conservato seguramente, se fosse stà fatto avanti ‘l bisogno le provision necessarie, perché Turchi in la espugnazione è stadi in pericolo d’esser rotti; e se ‘l General dava ajuto in tempo a quei de dentro, el Turco no levava mai più la testa”. Ancora diversa la testimonianza di Giovanni Maria Angiolello, un soldato vicentino che aveva partecipato alle operazioni militari, venne fatto prigioniero, e scrisse dei diarii delle sue avventure orientali, che portò con sé tornando in patria, e che sono stati pubblicati a Bucarest nel 1909, e poi varie altre volte, anche in Italia, con titoli spesso differenti. Secondo Angiolello, “Paolo Erizzo, bailo della città, che fu ucciso nel primo assalto, cioè a difesa del bourkos [la fortificazione più esterna della città]”.

    Fra le testimonianze più affascinanti che rievocano la caduta del Negroponte e la sorte dei suoi difensori ci sono le parole dell’umanista Marco Antonio Coccio, detto Sabellico, perché originario della campagna laziale. Allievo di Pomponio Leto all’Accademia Romana, Sabellico (1436-1506) aveva insegnato in varie città dell’attuale Triveneto. In mezzo a molte altre pubblicazioni (e a incarichi importanti: gli fu affidata, ad esempio, la collezione di codici bizantini arrivati a Venezia dopo il 1204, base dell’attuale raccolta della Marciana), nel 1487 pubblicò le Historiae rerum Venetarum ab urbe condita o Decades rerum Venetarum, una storia di Venezia dalle origini ai tempi suoi, poi proseguita da Pietro Bembo. Il testo è particolarmente importante perché, commissionato dalla Serenissima, rappresenta una sorta di versione ufficiale di Stato. Nel finale del libro ottavo della decade terza (pp. 902-903 dell’edizione di Basilea, 1556, di cui mi avvalgo), viene rievocata la conquista turca del Negroponte. Eccone il testo, adattato alle norme grafiche classiche, a favore dei lettori:

    Cadebat ingens sagittarum multitudo in miseros cives: crebri tormentorum ictus muros, propugnacula, viros uno tempore affligebant. Aderant Leonardus Calvus, praefectus urbis, Ioannes Bondomerius legatus, Paulus Hericius praetor, ac plerique alii patricii viri, quorum alii stationes obeundo propugnatores hortabantur, alii intenti erant ad opem ea parte ferendam qua suos maxime laborare audivissent. Et quamvis tot milia hostium muribus haererent, haud tamen ab ea parte, qua interdiu Venetae triremes conspectae fuerant, vultum avertere. Miseri Chalcidenses manus ad illas, oculos ad coelum intendere, nigra praeterea signa, praesentem fortunam testantia, sub lucem summa turri praefigunt, quibus non solum periculo, sed pietate etiam moti, qui in Euripo erant miseris subvenirent. Oppugnatio, hostibus sibi invicem succedentibus, eo ardore quo per noctem urbem adorta fuerat, eodem sine intermissione ad lucem protracta, ita Chalcidenses fatigaverat ut qui ad Burchianam portam erant, vulneribus, inedia, pervigilio affecti, secundam circa diei horam nudos hostibus muros deseruerint. Qua primum irruptione facta, ubi intra moenia Barbarus conspectus est, confestim undique muri relicti sunt. Tum vero longe lateque in miseros cives caedes tota urbe evagata, caesi magistratus alii alio loco: Leonardus Calvus in foro, Bondimerius legatus in aedibus Pauli Andreotii, a quo commentarios de Chalcide excidio accepimus. Hericium, qui munitiore se loco cum suis tenebat, accepta ab Othomano fide, ubi in eius potestatem venit, medium secari iussit: cavillatus perfidus hostis, pollicitum se cervici non lateribus parsurum. Inde crudele edictum proposuit, ut puberes omnes ad unum obtruncarentur ac capitale esset si quis supra viginti annos quenquam natum servasset. Tum vero in miseros cives et alios quos adversa fortuna ibi deprehenderat, licentia saevitum: miserabiles caedes passim editae, nullum discrimen ordinum, nullius dignitatis ratio habita. Caesorum capita in Divi Francisci area, pro curia et ante Patriarchicam domum coacervata luctuosum mulieribus ac pueris exhibuere spectaculum. Ipsa cadavera passim iacentia, ne postea suo faetore coelum inficerent, in proximum Euripum sunt proiecta. Sub id fere tempus quo urbs capta est, triremes, quas per noctem praefectus accersiverat, cum iam nihil usui essent, afuere. Tum vero ubi Veneta signa in turribus suppressa viderunt, certioribusque aliis signis urbem captam esse sensere, ingenti dolore defixi, cum lachrimis illius moenia intueri. Inde, quia parum tutum erat illic esse, maesti retro cursum tenuerunt.

    Mi sembra una bella pagina di latino, che racconta una vicenda un po’ insolita e al di fuori delle normali letture scolastiche (e della quale, al momento, non si danno traduzioni online!). Per un uso in classe andrà, naturalmente, ampiamente introdotta e spiegata, oppure commentata o leggermente ritoccata in certi riferimenti alla stretta contemporaneità, a seconda delle finalità per cui la si vorrà utilizzare. Dal punto di vista linguistico, a parte alcuni improvvisi infiniti narrativi (come intueri), o la costruzione del perfetto passivo con fui anziché con sum (già attestata, peraltro, in Eutropio), e il non scorretto ma inutile ablativo di luogo summa turri in luogo del dativo che ci saremmo aspettati (in dipendenza da praefigunt) o l’arcaico e raro evagare in luogo della più comune forma deponente, non mi pare che ci siano vere difficoltà. In ogni caso, quello che racconta il Sabellico è che il povero Erizzo venne segato a mezzo, dopo che l’Ottomano (Maometto II) gli aveva promesso di salvargli la testa, ma non, con gioco perverso e crudele, i fianchi!

    Assistiamo dunque qui al sorgere di una “leggenda nera” circa i Turchi e il loro comportamento. Gli Ottomani e Maometto non sono infatti solo crudeli, cosa che in guerra può anche succedere, ma appaiono come sleali e ingannatori, perfidi direbbero i Latini, cavillatori. Di questa leggenda è ulteriore testimonianza una cronaca anonima di metà Cinquecento, pubblicata come appendice alle Historiarum Demonstrationes di Leonico Calcondila (Basileae 1556),. La cronaca torna ad occuparsi del Negroponte a quasi un secolo di distanza dalla sua perdita, ma in contemporanea a nuove conquiste e nuove stragi degli Ottomani nell’Egeo:

    “Mentre si facevano queste cose [le stragi in città], Paolo Erizzo podestà del luogo si rifugiò nella fortezza con pochi de primarii cittadini, altri pochi essendone evasi. Presa la città e riportata vittoria, il Turco fece impalare tutti gli italiani che si trovò; altri fece lapidare, altri segare per mezzo, altri di varie e crudeli maniere di strazio morire. Et in quella miserabile strage devesi credere pugnassero vestite ď’armi a guisa di Amazzoni molte belle donne sì vergini che maritate, perché molte fra’ cadaveri se ne trovarono estinte. In questo mezzo una unica figlia del podestà della città, vergine castissima e piacevole di aspetto, fu condotta per la sua bellezza dinanzi al Turco, e poiché non volle assolutamente acconsentire alle disoneste sue voglie e alle larghe promesse, fu subito scannata”.

    Le vergini guerriere che combattono in nome della fede cristiana e la figlia del bailo di cui Maometto (il Turco) si incapriccia, ma che poi fa uccidere perché lei non vuole cedere alle sue voglie, aggiungono un ulteriore tocco alla leggenda e virano in chiave melodrammatica un avvenimento che aveva, viceversa, il sapore del dramma della Storia. A Venezia i matrimoni e le nascite dei figli legittimi del patriziato venivano registrati nel cosiddetto “Libro d’oro”, dal quale Paolo Erizzo non risulta sposato. Il dato non è del tutto probante. Resta però il sospetto che questa figlia anonima (cui poi, come vedremo in un altro post, fu assegnato il nome di Anna), vergine e guerriera, disposta a morire pur di non tradire la religione degli avi e di non concedersi alle brame di Maometto, appare, a giudizio dei posteri, più un personaggio da leggenda che una persona reale. Fondata nel sedicesimo secolo, la leggenda di Anna, chiamiamola così, tornerà a farsi viva nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo. Ma di questo, parleremo altrove.

    © Massimo Gioseffi, 2021

  • An honorable man

    An honorable man

    Un viaggiatore svizzero di passaggio a Londra, il numismatico e antiquario Thomas Platter, ci racconta di avere assistito, nel 1599, a una rappresentazione teatrale sulla morte di Giulio Cesare. E’ l’informazione che ci permette di datare il celebre dramma di William Shakespeare (1564-1616), The Tragedy of Julius Caesar.

    Fra i personaggi più notevoli dell’opera, in cui Cesare svolge un ruolo tutto sommato marginale, c’è la figura di Marco Antonio, il cui discorso ai funerali del dittatore è, credo, ben noto a tutti. Sia nelle parole dei cospiratori che gli sono ostili e lo vorrebbero morto assieme a Cesare (Cassio in prima fila), sia nella scena dei Lupercali, Antonio nel dramma è presentato come l’ottimo servitore, umile e acquiescente ai desideri del suo padrone. Quando Cesare gli chiede, nel caso che Antonio vinca la gara dei Lupercali, di toccare il grembo della moglie Calpurnia, per curarla della sua sterilità, Antonio risponde: When Caesar says ‘Do this’ it is performed. Bruto, parlando di lui con Cassio, gli riconosce qualche spirito, ma nelle discussioni circa il suo destino dopo il cesaricidio lo definisce più volte (prima in casa di Bruto stesso; poi nella curia dove il dramma si è appena consumato) una persona poco pericolosa, un semplice rampollo di Cesare, destinato a non sopravvivere una volta che sia tolta di mezzo la pianta principale. Il suo ritratto migliore lo fornisce Cesare stesso, quando lo invita a tenergli lontano Cassio (dunque, ecco di nuovo un Antonio servizievole, al punto da svolgere la funzione di ‘maggiordomo’ di “casa Cesare”). Cassio è tutto l’opposto di Antonio, il cui ritratto viene così’ fuori per contrapposizione: Cassio non ride, non scherza, non ama il teatro e la musica, legge e riflette sul mondo e sulle persone (Antonio, si intuisce, no, e vive di pura istintività). Appena ucciso Cesare, i congiurati si chiedono dove sia Antonio: Trebonio, uno di loro, li rassicura. Alle prime avvisaglie di pericolo è fuggito a casa sua, amazed, stupefatto, spaventato. Eppure, Antonio è motore della vicenda in almeno due occasioni: la prima quando, dopo avere vinto i Lupercali, pone per ben tre volte sulla testa di Cesare la corona destinata al vincitore (Not a crown, just a coronet!). Cesare rifiuta l’omaggio, ma i congiurati vedono nel gesto la materializzazione concreta del loro timore che un giorno egli possa farsi re. Dopo il cesaricidio, Antonio manda presso la Curia un servitore, che tasti il terreno; poi si presenta di persona, garantendo la propria solidarietà agli avversari, rivendicando la legittimità del proprio affetto per Cesare, suo amico e mentore, ma assicurando anche della propria disponibilità a riconoscerne i limiti storici e politici, rinunciando quindi a proseguirne l’opera o a vendicarne la morte. Com’è noto, Antonio chiede poi ai congiurati (e dopo un’accesa discussione fra di loro, ottiene di poterlo fare, grazie al favore di Bruto), la possibilità di celebrare Cesare al suo funerale – Shakespeare, qui come in altre parti della tragedia, comprime i tempi e fa avvenire in stretta contemporaneità avvenimenti che non si erano svolti in così rapida successione come vorrebbe farci credere (Cesare fu ucciso il 15 marzo; i funerali si tenenero il 20 di quello stesso mese).

    Nel testo di Shakespeare, non appena gli è stato accordato il permesso di tenere questo suo discorso, Antonio, rimasto solo con il cadavere del dittatore, getta la maschera e dichiara la propria natura infernale:

    O pardon me, thou bleeding piece of earth, / That I am meek and gentle with these butchers. / Thou art the ruins of the noblest man / That ever livèd in the tide of times. / Woe to the hand that shed this costly blood! / Over thy wounds now do I prophesy / (Which like dumb mouths do open their ruby lips / To beg the voice and utterance of my tongue) / A curse shall light upon the limbs of men; / Domestic fury and fierce civil strife / Shall cumber all the parts of Italy; / Blood and destruction shall be so in use / And dreadful objects so familiar / That mothers shall but smile when they behold / Their infants quartered with the hands of war, / All pity choked with custom of fell deeds; / And Caesar’s spirit, ranging for revenge, / With Ate by his side come hot from hell, / Shall in these confines with a monarch’s voice / Cry “Havoc!” and let slip the dogs of war, / That this foul deed shall smell above the earth / With carrion men groaning for burial.

    Ovvero, tentandone una traduzione la più letterale possibile: “Perdonami, tu, pezzo di terra sanguinante, / perché io sono mite e gentile con questi macellai. / Tu sei ciò che resta dell’uomo più nobile / che abbia mai vissuto nella marea dei tempi. / Ma guai alla mano che ha versato questo prezioso sangue! / Sulle tue ferite ora io profetizzo / (ferite che, come bocche mute, aprono le loro labbra di rubino / per implorare la voce e l’espressione della mia lingua): una maledizione si accenderà sui corpi degli uomini; / furori domestici e feroci lotte civili / ingombreranno tutte le parti d’Italia; / sangue e distruzione saranno / così comuni, oggetti terribili e così familiari, / che le madri non potranno fare a meno di sorridere quando vedranno / i loro bambini squartati dalle mani della guerra. / Ogni pietà sarà soffocata dall’assuefazione alle azioni più crudeli; / e lo spirito di Cesare, infuriando in cerca di vendetta, / con Ate al fianco, viene ribollendo dall’inferno, / ed entro questi territori, con la voce di un monarca, / griderà ‘Distruzione e morte!’, e lascerà sfogare i cani della guerra, / al punto che questa turpe azione puzzerà sulla terra / per il gran numero di carogne umane che gemono in attesa di sepoltura”.

    Un po’ come le streghe del successivo Macbeth (1606), insomma, Antonio ripromette (e si ripromette) strage, rovina e morte. Prima di presentarsi alla folla presso il cadavere di Cesare, fa infatti ancora in tempo a stringere un’alleanza con Ottaviano – altra sgrammaticatura storica del tragediografo, naturalmente – grazie al quale si ripromette di dare pieno sfogo alla propria vendetta.

    Il discorso di Marco Antonio sul cadavere di Cesare è un capolavoro della retorica classica. Intervenendo subito dopo Bruto, che ha giustificato la propria azione con argomenti di fredda razionalità, Antonio progressivamente infiamma gli animi di una folla poco convinta, rievocando i meriti di Cesare verso il popolo di Roma, la sua modestia, la sua umiltà. Nello stesso tempo, con una famosa litote più volte ripetuta, usata come tormentone, Antonio celebra Bruto, l’uomo d’onore, la cui integrità e sincerità (di azione e parola) non possono essere messe in discussione. In questo modo, contrastando gli elogi di Bruto, che appaiono sempre più obbligati e di maniera, con quelli di Cesare, che appaiono sempre più numerosi e convinti, Antonio scava il terreno sotto i Cesaricidi, e spinge la folla, incosciente e incostante come sempre in Shakespeare, a decidere la morte dei congiurati. Ne fa le spese, vittima inconsapevole, il poeta Gaio Elvio Cinna, scambiato per Lucio Cornelio Cinna, il congiurato. Si realizza così quel progetto di confusione e morte cui Antonio aveva dato espressione nelle parole riportate in precedenza. Ecco ora invece il celebre discorso (elimino alcuni interventi della folla, che interrompono qua e là il flusso oratorio e indicano il progressivo mutare degli umori, e una parte relativa al testamento di Cesare):

    Friends, Romans, countrymen, lend me your ears. / I come to bury Caesar, not to praise him. / The evil that men do lives after them; / The good is oft interred with their bones. / So let it be with Caesar. The noble Brutus / Hath told you Caesar was ambitious. / If it were so, it was a grievous fault, / And grievously hath Caesar answered it. / Here, under leave of Brutus and the rest / (For Brutus is an honorable man. / So are they all, all honorable men), / Come I to speak in Caesar’s funeral. / He was my friend, faithful and just to me, / But Brutus says he was ambitious, / And Brutus is an honorable man. / He hath brought many captives home to Rome, / Whose ransoms did the general coffers fill. / Did this in Caesar seem ambitious? / When that the poor have cried, Caesar hath wept; / Ambition should be made of sterner stuff. / Yet Brutus says he was ambitious, / And Brutus is an honorable man. / You all did see that on the Lupercal / I thrice presented him a kingly crown, / Which he did thrice refuse. Was this ambition? / Yet Brutus says he was ambitious, / And sure he is an honorable man. / I speak not to disprove what Brutus spoke, / But here I am to speak what I do know. / You all did love him once, not without cause. / What cause withholds you, then, to mourn for him? / O judgment, thou art fled to brutish beasts, / And men have lost their reason! Bear with me; / My heart is in the coffin there with Caesar, / And I must pause till it come back to me. / But yesterday the word of Caesar might / Have stood against the world. Now lies he there, / And none so poor to do him reverence. / O masters, if I were disposed to stir / Your hearts and minds to mutiny and rage, / I should do Brutus wrong and Cassius wrong, / Who, you all know, are honorable men. / I will not do them wrong. I rather choose / To wrong the dead, to wrong myself and you, / Than I will wrong such honorable men.

    “Amici, romani, concittadini, prestatemi orecchio. Vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno vive dopo di loro; il bene è spesso interrato con loro. Così sia per Cesare. Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso. Se era così, era una colpa grave, e Cesare ne ha risposto gravemente. Ecco, con il permesso di Bruto e degli altri (perché Bruto è un uomo che non mente, e lo sono tutti, tutti uomini che non mentono), vengo a parlare al funerale di Cesare. Era mio amico, fedele e giusto verso di me, ma Bruto dice che era ambizioso, e Bruto è un uomo che non mente. Cesare ha riportato a Roma molti prigionieri, i cui riscatti hanno riempito le casse generali. Sembra questo, in Cesare, ambizioso? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha pianto con loro; l’ambizione dovrebbe essere fatta di una materia più dura. Eppure, Bruto dice che era ambizioso, e Bruto è un uomo che non mente. Voi tutti avete visto che al Lupercale gli ho presentato tre volte una corona regale, che egli ha rifiutato tre volte. Era questa ambizione? Eppure, Bruto dice che era ambizioso, e certo è uno che non mente. Non parlo per smentire ciò che ha detto Bruto, ma sono qui per dire ciò che so. Voi tutti lo amavate un tempo, e non senza motivo. Quale motivo vi trattiene dunque ora dal piangerlo? O giudizio, tu sei passato alle bestie brutali, e gli uomini hanno perso la ragione! Portami con te, Cesare; il mio cuore è nella bara con te, e devo riposarmi finché esso non torni da me. Solo ieri la parola di Cesare avrebbe potuto opporsi all’intero mondo. E ora lui giace lì, e nessuno è così povero da volergli rendere omaggio. O signori, se io fossi intenzionato a suscitare nei vostri cuori e nelle vostre menti la rivolta e la rabbia, farei torto a Bruto e a Cassio, che, lo sapete tutti, sono uomini che non mentono. Non farò loro questo torto. Preferisco fare un torto ai morti, a me e a voi, piuttosto che fare un torto a uomini così di parola”.

    A questo punto, Antonio punta sulla mozione degli affetti, mostrando il mantello di Cesare lacerato dalle ferite. E’ quello stesso mantello di cui parla Cesare nel De bello Gallico, e che, con il suo colore rosso, segnala ai soldati romani la presenza del loro comandante, la condivisione da parte sua delle loro stesse fatiche, il suo essere primus inter pares. Con un’altra figura retorica, la prosopopea, Antonio dà voce e forma a ognuna delle ferite visibili sulla veste, assegnandole ora all’uno ora all’altro dei congiurati, che da “honorable” passano a “envious and traitors men”.

    If you have tears, prepare to shed them now. / You all do know this mantle. I remember / The first time ever Caesar put it on. / ’Twas on a summer’s evening in his tent, / That day he overcame the Nervii. / Look, in this place ran Cassius’ dagger through. / See what a rent the envious Casca made. / Through this the well-belovèd Brutus stabbed, / And, as he plucked his cursèd steel away, / Mark how the blood of Caesar followed it, / As rushing out of doors to be resolved / If Brutus so unkindly knocked or no; / For Brutus, as you know, was Caesar’s angel. / Judge, O you gods, how dearly Caesar loved him! / This was the most unkindest cut of all. / For when the noble Caesar saw him stab, / Ingratitude, more strong than traitors’ arms, / Quite vanquished him. Then burst his mighty heart, / And, in his mantle muffling up his face, / Even at the base of Pompey’s statue / (Which all the while ran blood) great Caesar fell. / O, what a fall was there, my countrymen! / Then I and you and all of us fell down, / Whilst bloody treason flourished over us. / O, now you weep, and I perceive you feel / The dint of pity. These are gracious drops. / Kind souls, what, weep you when you but behold / Our Caesar’s vesture wounded? Look you here, / Here is himself, marred as you see with traitors.

    “Se avete lacrime, preparatevi a versarle ora. / Tutti conoscete questo mantello. Io ricordo perfino / la prima volta che Cesare lo indossò. / Fu in una sera d’estate nella sua tenda, / il giorno che sbaragliò i Nervii. / Guardate, in questo punto è passato il pugnale di Cassio. / Vedete che squarcio fece l’invidioso Casca. / Attraverso quest’altro squarcio l’amato Bruto lo trafisse, / e, mentre strappava via il suo maledetto pugnale, / guardate come il sangue di Cesare lo seguì, / come si precipitò fuori dalle porte per capire / se era Bruto a bussare così scortesemente, oppure no; / Perché Bruto, come sapete, era l’angelo di Cesare. / Giudicate voi, o dèi, quanto Cesare lo amava! / Questo fu il taglio peggiore di tutti. / Perché quando il nobile Cesare vide Bruto che lo pugnalava, / l’ingratitudine, più forte delle braccia dei traditori, / lo sconfisse del tutto. Allora scoppiò il suo cuore potente, / e, coprendosi il volto nel mantello, / alla base della statua di Pompeo / (che per tutto il tempo fu bagnata di sangue) il grande Cesare cadde. / Oh, che caduta fu quella, miei compatrioti! / Allora io, voi e tutti noi siamo caduti, / mentre il tradimento sanguinario fioriva su di noi. / Ora piangete, e vedo che sentite / il peso della pietà. Queste sono gocce gradite. / Anime gentili, che fate, piangete nel vedere / la veste del nostro Cesare trafitta? Guardate qui, / qui c’è lui stesso, ucciso, come vedete, dai traditori”.

    Antonio ha cambiato così l’ottica con cui guardare ai fatti e, dopo un ulteriore riferimento al testamento di Cesare (che ometto, alla pari del precedente), invita i concittadini a passare all’azione. Il ritornello degli honorable men assume ora carattere decisamente sarcastico, così come fasulle sono le indicazioni di personale umiltà e la celebrazione di Bruto come bravo oratore (ma vuoto di fatti). Antonio, nel contempo, si presenta come uno della folla, che ha gli stessi gusti e gli stessi sentimenti della folla, e all’occorrenza anche gli stessi limiti. Riconosciamo qui il politico da manuale, sapendo che ogni generazione ha il suo Antonio, che dietro alla (apparente) umiltà e bonomia nasconde desiderio di caos e di potere.

    Good friends, sweet friends, let me not stir you up / To such a sudden flood of mutiny. / They that have done this deed are honorable. / What private griefs they have, alas, I know not, / That made them do it. They are wise and honorable / And will no doubt with reasons answer you. / I come not, friends, to steal away your hearts. / I am no orator, as Brutus is, / But, as you know me all, a plain blunt man / That love my friend, and that they know full well / That gave me public leave to speak of him. / For I have neither wit, nor words, nor worth, / Action, nor utterance, nor the power of speech / To stir men’s blood. I only speak right on. / I tell you that which you yourselves do know, / Show you sweet Caesar’s wounds, poor poor dumb mouths, / And bid them speak for me. But were I Brutus, / And Brutus Antony, there were an Antony / Would ruffle up your spirits and put a tongue / In every wound of Caesar that should move / The stones of Rome to rise and mutiny.

    “Buoni amici, dolci amici, non lasciate che io susciti una così improvvisa ondata di ammutinamento. Quelli che hanno voluto questa morte sono persone la cui parola è sincera. Non so quali ragioni private abbiano avuto, ahimè, che li hanno spinti a fare ciò che hanno fatto. Sono saggi e onesti, e senza dubbio vi risponderanno con buone argomentazioni. Non vengo, amici, a trascinare via il vostro cuore. Non sono un oratore come Bruto, ma, come voi tutti mi conoscete, sono un uomo semplice e schietto, che amava il suo amico, e loro lo sanno bene, se mi hanno dato il permesso di parlare in pubblico di lui. Perché io non ho né spirito, né facondia, né valore né capacità di azione, né l’espressione, né il potere della parola per smuovere il sangue degli uomini. Io parlo solo in modo corretto. Vi dico quello che voi stessi sapete, vi mostro le ferite del caro Cesare, povere, povere bocche mute, e dico loro di parlare per me. Ma se io fossi Bruto, e Bruto Antonio, allora sì che ci sarebbe un Antonio capace di arruffianarsi i vostri spiriti e di dare lingua a ogni ferita di Cesare, così da muovere le pietre di Roma a sollevarsi e ammutinarsi”.

    Riporto ora alcune interpretazioni celebri del discorso (la lunghezza è variabile, a seconda dei brani di partenza). Nel 2016 Damian Lewis, attore inglese di cinema (fra cui il recente Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino) e di fortunate serie televisive, ma anche molto attivo sulle scene londinesi, nel teatro di prosa e di musical, ha registrato una parte del discorso per il giornale The Guardian, espressamente perché fosse caricato su youtube (era il quarto centenario dalla morte del drammaturgo). La clip, che si interrompe alla prima battuta di commento dei cittadini, si gioca tutta sull’espressività dell’interprete, sui suoi occhi estremamente vicini allo spettatore, sulla bocca da cui vediamo letteralmente sprizzare la saliva e il veleno man mano che aumenta l’enfasi retorica del discorso – un effetto molto televisivo, che a teatro non sarebbe possibile, ma che rende coinvolgente il tutto, nonostante l’assenza di costumi, scene, qualsiasi tentativo di “ricostruire” il momento drammatico. E’ la celebrazione della pura forza dell’interpretazione. Il ritmo è veloce, serrato, a tratti forse perfino troppo (lo strumento del web impone che tutto duri pochi minuti). I concetti non si sedimentano nella mente degli ascoltatori, antichi o moderni che siano: perché non sono le idee a contare. Perfetto modello di politico, Antonio vince per la varietà sottile delle sue inflessioni e la capacità di persuasione del suo intero essere e agire, non per quello che dice, che conta solo relativamente.

    La versione più classica della scena è quella contenuta nel film di Joseph L. Mankiewicz (1953). Interpreta Marco Antonio un giovanissimo Marlon Brando, non ancora trentenne, ma già aureolato dal successo ottenuto con A Streetcar named Desire di Tennessee Williams (1952). Nella clip ci sono alcune battute finali non incluse nel testo di prima, in cui Antonio insiste sul testamento di Cesare, che ha nominato suo erede l’intero popolo romano (l’argomento più forte di tutti, nella visione smaliziata e senza illusioni di Shakespeare). L’interpretazione è tutta giocata sulla forza visiva di Brando, che volutamente evita un’eccessiva varietà di accenti, per costruire piuttosto una climax di furore, che, pur insistendo ossessivamente su uno stesso tasto, riesce a fare montare a poco a poco la reazione della folla. Nel complesso, l’intera scena è un monumento plastico al personaggio e a chi gli ha dato la propria carne, versione moderna di dittatori urlanti ben noti alla prima metà del Novecento. Straordinario il gesto di Antonio alla fine della prima parte del discorso, prima che la macchina da presa si sposti sulla folla. In un momento privato, con le spalle voltate al pubblico, con un semplice sguardo Antonio/Brando rivela tutto il lato demoniaco del personaggio.

    Charlton Heston interpretò curiosamente per ben due volte il personaggio di Antonio, in un film assai notevole del 1950 (ci torneremo sopra in altra sede) e in un altro del 1970, distribuito in Italia con il titolo Ventitré pugnali per Cesare. A quella data, il quarantasettenne Charlton Heston, già all’inizio della fase finale della sua carriera, non aveva forse più il physique du rôle per interpretare il trentanovenne Marco Antonio, anche perché nella immaginazione popolare e nel testo stesso di Shakespeare permane l’idea di un personaggio più giovane della sua età anagrafica. La regia del nulla più che onesto Stuart Bridge risolve il tutto puntando alla grandiosità da kolossal anni Sessanta. Heston, però, regge complessivamente bene la parte, rendendo con fluidità e varietà di accenti e di toni le battute del personaggio, risolvendone i diversi sentimenti quasi attraverso l’adozione di due voci differenti, una più roca, una più acuta. La clip è ‘ più lunga delle precedenti, e include l’intero discorso di Antonio.

    Nel 2012 la Royal Shakespeare Company, una compagnia specializzata nel mettere in scena opere di Shakespeare, in inverno al Barbican Center di Londra, in estate a Stratford-on-Avon, luogo natale del poeta, presentò uno spettacolo la cui novità appare a prima vista. Siamo nel mondo del politicamente corretto e della globalizzazione. La regia di Gregory Doran e l’interpretazione di Ray Fearon (attore di teatro assai noto in Gran Bretagna, apparso anche nella saga cinematografica di Harry Potter; londinese di nascita, ma originario dell’India) vogliono sottolineare l’eterno ripetersi delle stesse storie a tutte le latitudini geografiche e cronologiche. Come effetto di questa opera di attualizzazione, finisce per emergere quale dato essenziale il legame di Antonio con Cesare, in virtù del quale Antonio, di qualunque Antonio della Storia si tratti, piange in Cesare, di qualunque Cesare si tratti, soprattutto un amico e un compagno di lotta. Fearon è decisamente bravo, a tratti è perfino ironico, ad esempio nell’ampia gestualità con la quale accompagna le parole, e soprattutto nei sempre diversi gesti con i quali scandisce e sconfessa il riferimento agli honorable men. L’impressione generale è però che, come spesso succede in queste attualizzazioni, l’attenzione del contesto si accentri più sulla trasposizione che sulla resa dei dettagli interpretativi, come avviene nella descrizione della folla o nello spazio concesso a dettagli funerari ovviamente estranei al testo originale.

    Ogni rivoluzione ha la sua controrivoluzione: nel 2017, la medesima compagnia si è affrettata a tornare a uno Julius Caesar con tutte le carte in regola. La regia è di Angus Jackson; Antonio è interpretato da James Corrigan, oggi rinomato attore di cinema. Scene, costumi, reazioni attoriali sono da manuale. Corrigan adotta volutamente un tono sottomesso, nel quale risalta soprattutto l’amico che celebra l’amico, e però pur partendo da un ambito privato arriva a provocare una reazione pubblica. Nel fare così, Corrigan non sbaglia un colpo; anche la folla, per una volta tanto, non ha nulla di macchiettistico. Nel complesso, forse, il tutto risulta però meno interessante proprio dal punto di vista registico, e l’impressione mia personale è quella di un passo indietro rispetto alle provocazioni precedenti. Un Giulio Cesare che ha qualcosa di televisivo, ma ha perso qualcosa sul piano dell’epica.

    La discussione è però aperta. Ringrazio Elena Sandre e Jessica Gentile per gli spunti che mi hanno offerto, e attendo i pareri di molti.

    © Massimo Gioseffi, 2021

  • Spartacus

    Spartacus

    Dopo un silenzio di circa un anno, dovuto a una serie massiccia di attacchi virali al sito, avendo trovato (si spera) un’adeguata protezione, proviamo a riprendere le pubblicazioni di “Latinoamilano”. Lo facciamo con l’omaggio a un compositore francese noto anche in Italia, ma per non più di un paio di titoli, che poco rappresentano la sua vasta produzione musicale. Il compositore è Camille Saint-Saëns, 1835-1921. Bambino prodigio, noto pianista ed organista (la sua sinfonia numero 3, del 1886, uno dei pochi brani rimasti in repertorio, ha come sottotitolo “sinfonia con organo”), Saint-Saëns iniziò a comporre intorno ai sedici anni. Nel 1863, a ventotto anni, scrisse una ouverture intitolata Spartacus, che è il brano che ci interessa. Per completezza, ricordo che Saint-Saëns è l’autore di un oratorio trattato però comunemente come opera lirica, Samson et Dalila, 1877; di una famosa fantasia per pianoforte e orchestra, Le carnaval des animaux, 1886; della Danse macabre, 1874, un breve poema sinfonico, affine in questo al testo in esame. Ouverture, a metà Ottocento, non significa infatti brano di apertura di uno spettacolo più ampio (di solito, un’opera lirica), ma è una composizione a sé stante, di breve durata, da usare appunto come “scaldavoce” nei concerti sinfonici che in Francia, come in tutta l’Europa centrale, stanno diventando di moda (l’Italia è in leggero ritardo, ancora dominata quasi integralmente dal teatro operistico). A fare da modello furono i poemi sinfonici di Franz Liszt, 1811-1886, composizioni a tema, di varia lunghezza, che non rispettano la struttura classica di una sinfonia e non sono divisi in movimenti nettamente separati fra loro, pur avendo naturalmente, al loro interno, variazioni tematiche, ritmiche e tonali. Liszt fu amico di Saint-Saëns, e suo mentore negli anni della formazione come pianista e compositore (due attività nelle quali anche Liszt eccelleva).

    La nostra ouverture nasce da ragioni contingenti: Saint-Saëns partecipa a un concorso bandito da una società musicale di Bordeaux, che vince; in precedenza, aveva già vinto un altro concorso bandito dalla medesima società, con una ouverture intitolata Urbs Roma. Dopo gli anni Sessanta dell’Ottocento, non sembra che la nostra composizione abbia più riscosso molto interesse, fino ai giorni nostri. Scrivendo al suo editore, che voleva realizzare nel 1904 un’edizione di tutte le opere di Saint-Saëns, il musicista citò questo brano, indicandolo però come ormai defunto, legato a circostanze specifiche e indegno di essere ripreso in considerazione. Il legame con Spartaco è molto incerto: Saint-Saëns non scrive musica a programma, e non ha lasciato una descrizione di come vada letto il testo, che propone più suggestioni che vere descrizioni. Quello che si percepisce è la presenza di un primo tema piuttosto roboante, a fanfara, nel quale prevalgono gli ottoni e le trombe, forse a rappresentare le lotte del personaggio antico. C’è poi un secondo tema, introdotto dagli archi, più mite e dolce, pensieroso e sospeso, meditativo – verrebbe da dire, come se Saint-Saëns volesse dare corpo all’animo protoromantico e sognatore del gladiatore ribelle, che pensa alla patria, alla possibilità di una vita normale, agli affetti che gli sono stati negati. Nella struttura complessiva dell’opera entrambi i temi tornano più volte, ma è il primo che alla fine prevale, travolgendo il secondo. La coda finale, assai movimentata, potrebbe essere una raffigurazione della battaglia di Petelia, 71 a.C., nella quale Spartaco trovò (probabilmente) la morte. Saint-Saëns la presenta come impetuosa, ma, grazie allo spazio concesso alle trombe, anche come trionfale, indipendentemente, verrebbe da pensare, dal suo esito storico.

    La figura di Spartaco piacque molto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quando la sua rivolta divenne simbolo di empiti romantici, appunto, o post-romantici, e di una prima coscienza delle diseguaglianze sociali. Il garibaldino Raffaello Giovagnoli, nel 1874, pubblicò un romanzo ispirato al ribelle antico, cui lo stesso Garibaldi si degnò di scrivere una prefazione; sia Alessandro Manzoni, 1785-1873, che Ippolito Nievo, 1831-1861, scrissero delle tragedie (o degli abbozzi di tragedia) ispirate al personaggio, quella di Manzoni rimasta allo stato di progetto intorno agli anni 1821-1825, quella di Nievo inedita fino a oltre cinquant’anni dalla morte dell’autore (fu pubblicata solo nel 1919). The Gladiators, 1939, è il romanzo d’esordio dell’ungherese Arthur Koestler, più noto per il successivo Darkness at Noon, “Buio a mezzogiorno”, 1940, testimonianza delle purghe staliniste scritta a Guerra Mondiale già iniziata. In musica, l’omaggio più importante a Spartaco è costituito dal balletto di Aram Khachaturyan, del 1954, di forte impronta bolscevica (Stalin era morto l’anno prima), che si dichiara ispirato al romanzo di Giovagnoli. Anche il cinema, naturalmente, ha dato spazio più volte alla figura del gladiatore ribelle, da un film muto di Giovanni Vidali, del 1913, al celebre film di Stanley Kubrick del 1960, in cui Spartaco è presentato come una sorta di Cristo proletario e protocomunista, da contrapporre al Cristo dei Vangeli (si ricordi la scena della morte in croce, fatto tutt’altro che documentato dalle fonti antiche, ma ricorrente anche in altre raffigurazioni moderne, con la moglie e il figlio ai piedi del legno, la crux commissa che ricorda l’iconografia cristiana, la promessa di un futuro diverso e migliore, che rende nobile il sacrificio di Spartaco). La televisione ha dedicato al personaggio una miniserie americana di successo, 2010-2013, nella quale gli ingredienti sesso-sangue-arena sono presentati come tipici dell’Antichità. Il fumetto ha celebrato Spartaco nella serie di Alix, il personaggio creato da Jacques Martin sulla rivista Tintin (album numero 12, Le Fils de Spartacus, del 1974). Gli Spartachisti di Rosa Luxembourg e Karl Liebknecht (1916) presero naturalmente a loro volta nome dallo schiavo ribelle. Del resto, già Karl Marx, lettore di Appiano, in una lettera a Engels del 1861 aveva definito Spartaco un grande generale, un carattere nobile e un autentico rappresentante del proletariato antico.

    (i sottotitoli sono attivabili direttamente dal sito)

    A Saint-Saëns va dunque riconosciuto un ruolo di precursore nell’interesse per il personaggio. La sua lettura sarà, forse, più romantica che storicamente informata o socialmente determinata; e il tema delle lotte e delle battaglie è, nella ouverture, abbastanza superficialmente delineato, come s’è detto, legato a una propulsione ritmica che permea tutto il testo e alle fanfare degli ottoni che aprono e chiudono la composizione. Resta però che alla data del 1863 Spartaco non era una figura rappresentativa, come si può pensare che sia oggi. Sul piano operistico, l’unico titolo a me noto è un’opera del Settecento, lo Spartacus di Giuseppe Persile (o Porsile), andato in scena a Vienna nel 1726, e poi ripreso solamente al festival di Schwetzingen, nel 2009 (non ne sono riuscito a recuperare la registrazione). Persile, compositore molto noto ai suoi tempi – e l’opera ebbe in effetti un certo successo, forse anche grazie alla principale interprete femminile, la celebre Faustina Bordoni; ma dovette colpire gli spettatori la scena di pazzia poco prima del finale – è oggi totalmente sconosciuto, come lo era del resto già nell’Ottocento, ed è significativo che uno strumento come “wikipedia” abbia una voce a lui dedicata solo nella sua versione tedesca (https://de.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Porsile). Altro segno di quanto veniamo suggerendo, il celebre Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi, la cui prima edizione risale al 1946, cita il romanzo di Giovagnoli, ma nel volume dedicato ai personaggi ignora la voce “Spartaco”. Si riconferma così l’originalità di Saint-Saëns e un interesse, dunque, non solo musicale, ma anche storico per la sua composizione.

    © Massimo Gioseffi, 2021

  • I giovani nelle Metamorfosi

    I giovani nelle Metamorfosi

    Come affrontare a scuola un poema complesso e sfuggente come le Metamorfosi di Ovidio? Inevitabilmente si tratta di selezionare, di banalizzare forse: gli spazi e i tempi dettati dai programmi scolastici non consentono a chi insegna di essere ambizioso come Ovidio e di abbracciare l’intera storia (dell’opera, e del mondo in essa rappresentato). Questa, allora, la proposta che avanzo: siccome ci si rivolge a dei giovani (gli studenti), si dedichi attenzione ai giovani che compaiono nel poema. Due sono i vantaggi di un simile approccio: il primo è occuparsi di personaggi che sono teoricamente già noti agli studenti da letture pregresse, o che non possono non essere loro noti; il secondo, potere richiamare Virgilio, punto di confronto ineludibile per i poeti epici venuti dopo di lui, e quindi anche per lo stesso Ovidio.

    Virgilio, l’ha spiegato Massimo Gioseffi in un articolo del lontano 2008, è l’autore che per primo apre le porte dell’epica a figure di adolescenti, accomunate dall’anelito a cimentarsi precocemente nella guerra, spesso per dimostrarsi all’altezza dei padri; solo che la guerra non è un gioco da ragazzi, e i giovani sono quasi sempre destinati a soccombere in una lotta che si configura impari fin dall’inizio. Ovidio riprende questa dialettica giovane-vecchio, padre-figlio, ma in maniera originale. I giovanissimi che popolano l’orizzonte delle Metamorfosi si cimentano a loro volta in azioni intempestive e non commisurate alle loro capacità; ma, a differenza di quanto avviene nell’Eneide, queste azioni non hanno nulla di eroico. Sono solo audaci (per qualsiasi mortale, figurarsi quindi per chi non ha ancora raggiunto il pieno controllo delle proprie capacità!), oppure incaute o anche solo semplicemente inconsapevoli. Da ciò deriva una seconda differenza rispetto a Virgilio,  differenza che ha a che fare con l’atteggiamento del poeta nei riguardi dei propri personaggi. Virgilio compiange simpateticamente le vittime della guerra, a prescindere dallo schieramento di appartenenza, e quale che ne sia la responsabilità circa l’epilogo drammatico cui vanno incontro. Ovidio, invece, non mostra necessariamente simpatia per i “suoi” giovani: essi sono artefici della propria rovina, senza sconti e senza riscatto. La rovina è anzi, spesso, la conseguenza diretta della loro giovinezza e delle caratteristiche, in gran parte negative, associate dal mondo latino a questa età.

    Ecco allora tre proposte di lettura, dedicate ad altrettanti personaggi delle Metamorfosi: tutti (o quasi)a confronto, ideale o reale, con gli insegnamenti dei rispettivi padri. Per ognuno di essi offro qui un breve sunto, volutamente orientato, della vicenda in cui è coinvolto e la motivazione della scelta. In allegato, aggiungo una possibile “traduzione” didattica degli episodi esaminati. Alcune precisazioni: le tre proposte sono destinate, idealmente, a una classe quarta di liceo classico o scientifico. “Idealmente”, perché l’allegato può essere scaricato, modificato e riadattato a seconda dei contesti e delle intenzioni di ogni comunità entro la quale si pensi di leggere i testi. Le proposte sono concepite anche come alternative, e non necessariamente come sommative.

    Ancora, in merito ai tempi e agli spazi: tutti i percorsi prevedono una parte di lavoro da eseguire in classe, una parte a casa, a cura degli studenti. In classe si svolgono le fasi di elicitazione, di comprensione e di analisi dei testi. Le acquisizioni vengono rielaborate e riepilogate nella fase di sintesi, in un’ottica di dialogo fra insegnante e alunni. A casa viene assegnata l’analisi, per così dire, “letteraria” dei brani proposti, sulla scorta di confronti con i modelli e le rielaborazioni successive.

    Fetonte è il primo personaggio di questa rassegna dedicata ai giovani nelle Metamorfosi: il primo per collocazione nella compagine dell’opera (I e II libro), e forse anche per importanza, dato che l’episodio che lo vede protagonista è uno dei più lunghi del poema. E dei più noti: numerose sono state le interpretazioni, anche politiche (si pensi all’analisi proposta da Alessandro Barchiesi). Personalmente, intendo soffermarmi sulla interpretazione letterale del testo. Due i nuclei tematici principali della vicenda: il primo è la conferma della paternità del ragazzo, condizione preliminare – in una società spiccatamente patrilineare come quella romana – all’affermazione della propria identità. Il secondo concerne l’incapacità di Fetonte di guidare il carro del Sole. Il dio, per convincere il ragazzo che è veramente suo figlio, gli ha concesso di domandare qualsiasi cosa voglia. Fetonte chiede di essere, per un giorno, auriga del cocchio con cui il dio porta la luce sulla terra. La richiesta è densa di significato: Fetonte vuole sostituirsi al padre nel compito che gli è proprio e che più lo qualifica. Se si mostrasse all’altezza, dimostrerebbe di esserne il degno figlio. Il Sole, di fronte alla richiesta, rimpiange la propria promessa, e tenta di fare cambiare idea al figlio. Significativamente, il primo argomento a cui ricorre è proprio la giovinezza e la debolezza che ad essa è intrinseca: Magna petis, Phaethon, et quae nec viribus istis / munera conveniant nec tam puerilibus annis (vv. 54-55). L’aggettivo puerilis, preceduto dall’avverbio rafforzativo tam, fa apparire la richiesta come il capriccio di un bambino, che non si rende conto di stare scherzando col fuoco (nel vero senso della parola). In seguito, il Sole fa notare a Fetonte che ciò che desidera non è adatto a un mortale: chiedendo di guidare il carro, infatti, pretende più di quanto perfino un dio potrebbe sperare. Le aspirazioni di Fetonte sono inadeguate e determinate dall’inconsapevolezza, come segnalato dall’attributo nescius (v. 589). In tale inconsapevolezza sarei incline a vedere, di nuovo, un riferimento alla giovane età del figlio: agli occhi del padre, Fetonte appare un ragazzetto in preda alla propria ambizione, che non sa quello che vuole. Infine, il Sole promette a Fetonte che la mancata soddisfazione della richiesta sarà compensata dall’ottenimento di qualunque altra cosa possieda l’universo ricchissimo. La risposta è prevedibile: il giovane non sa individuare il proprio ruolo nel mondo, ed è eccessivo nelle ambizioni. A questo punto, il Sole si rassegna. Fa un ultimo tentativo per convincere Fetonte a non volersi sostituire a lui: ma Fetonte conferma il suo essere inscius delle proprie forze e si butta con foga sul carro. L’epilogo è tragico, ma tutto inscritto nelle premesse del racconto: Fetonte è debole e nuovo al mestiere (l’accezione negativa sottesa all’idea di novitas nel mondo romano trova qui conferma), il cocchio non gli risponde. Quando si rende conto dell’altezza vertiginosa cui l’ha condotto la propria ambizione e che, alla prova dei fatti, non è in grado di dominare, il giovane si fa prendere dalla paura, trema e sviene. Finalmente è consapevole della propria responsabilità: adesso rimpiange di avere ottenuto dal padre ciò che voleva; preferirebbe, dice, chiamarsi figlio di Merope. Ma è troppo tardi: l’universo rischia la catastrofe e Giove interviene a salvare la situazione. Con le sue folgori colpisce Fetonte, che rotola giù dal carro tanto agognato e precipita nel fiume Eridano.      

    È lo stesso Ovidio ad accostare Fetonte e Icaro nell’elegia proemiale dei Tristia. Anche Icaro esce di rotta e finisce per volare troppo in alto; tentativo che, per entrambi, si risolve in un fallimento: Fetonte precipita nell’Eridano, Icaro nel mare che da lui prende il nome. Se il Sole si era però mostrato troppo accondiscendente nei confronti del figlio (salvo pentirsene e cercare di farlo ravvedere, quando ormai è troppo tardi), le responsabilità di Dedalo sembrano accentuarsi. È lui il colpevole dell’esilio da Atene; è sempre lui a volere fare ritorno in patria per mezzo di un volo inadatto a un mortale, e quindi a maggiore ragione tale per un puer, quale è suo figlio. Ma Ovidio non risparmia nemmeno Icaro: è Icaro che, ignarus sua se tractare pericla (met. VIII 196), si compiace dell’apparato di penne costruitogli dal padre, entro il quale si pavoneggia prima e dopo di sperimentarlo nel volo. E sempre Icaro che, inebriato dall’audacia della nuova esperienza, cum puer audaci coepit gaudere volatu (met. VIII 223), si avvicina troppo al sole, dimentico dei consigli paterni, e provoca così lo scioglimento delle ali che il padre gli aveva fabbricato. Dedalo e Icaro sono figure che dovrebbero essere già note alla classe, perché sono state incontrate nella presentazione del carme 64 di Catullo e del VI libro dell’Eneide. La rielaborazione ovidiana del mito consente di approfondire la loro vicenda. Proprio il confronto con i pochi versi virgiliani può risultare però particolarmente significativo sia del diverso modo di costruire la narrazione da parte dei due poeti, sia del diverso pathos e valore morale che ognuno di essi attribuisce alla vicenda. Un esempio di audacia punita per l’uno come per l’altro poeta: ma mentre Ovidio insiste, come s’è visto, sulle colpe umane dei suoi protagonisti, Virgilio (che pone il mito come esempio di coppia mortale che sfida le leggi della Natura, esattamente come di lì a poco faranno, con la catabasi da vivo di Enea, anche l’eroe troiano e suo padre) assegna al racconto un valore quasi “figurale”, e lo trasformazione nell’ammonizione a non volere trascendere le leggi della vita, se non si ha la sicurezza del favore divino. Facilis descensus Averno.

    L’ultimo personaggio che propongo in questo percorso è Proserpina. La dea si segnala rispetto ai due casi precedenti, in quanto il racconto che la riguarda mette in gioco un universo al femminile, con una figlia e una madre, e non un padre (situazione per la quale non sarebbero mancati altri possibili casi, così come numerosi sono ancora i casi di giovani inscii, uno per tutti Narciso). Ho però scelto Proserpina proprio per la possibilità di una declinazione tutta al femminile della sua vicenda, e tutta entro un ambito divino. Anche Proserpina, infatti, come Fetonte e Icaro, vanifica i tentativi del genitore (qui, una genitrice) di conservarla in vita. La ragazza viola la condizione che Giove aveva posto a Cerere perché la figlia potesse tornare stabilmente sulla terra. Cibandosi di sette chicchi di melograno mentre passeggia nei campi dell’Averno, ella sancisce la propria appartenenza a quel regno per altrettanti mesi dell’anno e compie una scelta che non è però, così come la propone il poeta, un atto voluto e meditato di affermazione di sé e della propria autonomia, ma un gesto compiuto per leggerezza, senza stare a pensarci troppo, avvenuto cultis dum simplex errat in hortis (met. V 535).

    Simplex, ignarus, nescius: l’aggettivazione messa in campo da Ovidio è ferrea e significativa. L’audacia, nel bene e nel male, è caratteristica connaturata alla giovinezza; audax era, fin dalla sua prima apparizione (Aen. VIII 110), anche il virgiliano Pallante, l’icona forse più bella dei giovani nell’Eneide. Ma audax e audacia sono, in latino, voces mediae, parole che si possono interpretare in senso tanto positivo quanto negativo. L’epica si era perciò incaricata di spiegare ai lettori come, e con quali cautele, l’audacia andasse incanalata, per diventare dote costruttiva, e non distruttiva, di sé e degli altri. Virgilio aveva posto il problema, individuando nella dinamica padri/figli e nel bisogno emulativo che i figli nutrono nei confronti dei padri l’elemento di forza, ma anche di rischio, nel rapporto fra le generazioni. Ovidio, più attento alle ragioni interiori dei suoi personaggi, evidenzia quali siano le ragioni di un possibile fallimento di quella dinamica. Ai giovani di oggi il compito di tornare a discutere sull’argomento, con le loro proposte e le loro convinzioni!

    © Valentina Chinese, 2021

  • Theseus (percontatio impossibilis)

    Theseus (percontatio impossibilis)

    PERCONTATOR Hodie, nolite mirari, Theseum percontabimur, qui clarissimus est e fortissimis viris quorum res gestae in fabulis, sive mythis, ut Graeci aiunt, narrantur. Nunc Theseus ipse de se dicet. En, adspicite, ex Inferis regressus iam ad nos venit! Ecce ille qui Minotaurum, monstrum horrendum, necavit ac res magnas gessit. Plaudite Theseo!

    THESEUS Vobis gratias ago. Salvete omnes.

    PERCONTATOR O Theseu, scimus te Athenis ortum esse, et regem Atheniensium fuisse. Quomodo tantam civitatem regere valuisti?

    THESEUS Quantum virium et ingenii in me fuit, regnavi.

    PERCONTATOR Nisi fallor, etiam pater tuus Aegeus praeclarus rex Atheniensium fuit. Qualis autem fuit vita tua in tam nobili genere?

    THESEUS Genus meum non modo nobile, sed etiam divinum esse dicitur; tradunt enim me filium Neptuni  Aithraeque esse. Sed hos rumores extinguere nolim.

    PERCONTATOR Siquidem a parentibus divinis ortus esse diceris, iis pares fuerunt res gestae tuae mirabiles. Nonne vero Minotaurum, horribile monstrum, necavisti? De eo, quaeso, nobis narra.

    THESEUS Verum ut confitear, in regia domo manere maluissem, quam Cretam petere, sed pueros puellasque Athenienses, qui quotannis illuc mittebantur ut laniarentur a Minotauro, servandos esse censebam. Praeterea ut ad Cretam proficiscerer, mihi suasit spes aeternae famae qua, occiso Minotauro, frui apud posteros possem. Itaque Cretam petivi, et… Sed omnes sciunt quid tunc evenerit.

    PERCONTATOR Dicunt te adiutum esse ab Ariadne, pulcherrima Minois regis filia, et eam tecum Athenas fugisse. Cur autem eam in insula Naxo reliquisti?

    THESEUS Ubi primum Ariadnam vidi, amore capi mihi visus sum. Cum autem, et ipsa scilicet amore capta mei, mihi opem tulisset, eam mecum abduxi, sed dum Athenas versus navigamus, Ariadnam a me non amari intellexi. Qua de causa eam in litore Naxi relinquere volui. Neque vero mei me consilii pudet: nam secunda fortuna ei contigit ut a Baccho uxor duceretur. Quam nisi ego reliquissem, nec deo nupsisset, nec ipsa dea facta esset.

    PERCONTATOR Omnes, Theseu, alia tua egregie facta sciunt. Visne nobis de iis aliquid referre?

    THESEUS Non de omnibus rebus a me gestis glorior, hoc fateor. Praesertim aegre fero quod erga Pirithoum amicum pessime me gessi. Scito nos rapere Helenam voluisse, quae, etsi tunc puerula erat, iam omnium pulcherrima mulierum futura esse videbatur. Ego et Pirithous disseruimus uter nostrum Helenam uxorem ducturus esset, et fortuna me delegit. Puellam ideo rapui et una cum ea aufugi. Iam eam amplexurus eram, cum – pro dolor! – fratres eius, gemini illi divini, me consecuti, virginem Spartam reduxerunt. Postea Pirithous, Proserpinae amore incensus, a me petivit ut a Plutone eam eriperemus. Sed deus ille nos ab Inferis aufugientes deprehendit et dura, immo durissima poena, nos punivit: coegit igitur nos ferreis catenis vinctos considere perpetuo super acutissima saxa. Nisi Hercules me liberasset, adhuc illic considerem apud Piritoum. Is enim in Inferis manet manebitque in aeternum.

    PERCONTATOR Itaque, ut te servares, amicum reliquisti! Istud quidem laudari non potest. Quid autem de ceteris rebus a te gestis? Suntne eae laude dignae?

    THESEUS Sunt certe de quibus glorier: glorior quod Amazones ex Attica expuli, quae Athenas petiverant; glorior quod terribilem taurum Marathonium interfeci, qui vapores igneos e naribus emittebat… neque scilicet tauros amo, ut patet. Dum taurum persequor, memini me ab Hecale, anicula comissima, hospitio exceptum esse. Necata autem fera, redii illius domum, sed eam mortuam inveni. Itaque Hecali tauri caput dicavi, ut grati animi pignus.

    PERCONTATOR Postremo hoc habeo quod te rogem: probasne quae de te fabularum scriptores tradiderunt?

    THESEUS Tradiderunt me virum fortem patriaeque amantissimum fuisse. Hoc quidem veritati respondet, quamquam, ut antea demonstravi, non omnia a me praeclare facta sunt, immo nonnullorum me pudet. Puto tamen me et laude dignum esse, siquidem vestigia mei manent in Graecorum fabulis.

    PERCONTATOR Theseu, gratias multas tibi ago, qui nobiscum colloqui dignatus sis, et valeas in beatorum sedibus.

    THESEUS Gratiam ego vobis habeo. Sed tempus est hinc discedendi: exspectat enim me in inferis Pluto.

    © Ivana Milani, 2021