Nei giorni 20 e 21 febbraio 2020, presso l’Istituto Gonzaga di Milano si è tenuto l’ormai consueto incontro di fine inverno sulla didattica, un bell’appuntamento consolidato da una mezza dozzina circa di edizioni. Argomento di quest’anno (partendo dalla divertente commedia di Enzo La Rosa, Colpi di timone, che fu cavallo di battaglia di Gilberto Govi), è stata la riflessione sul passato e sul prossimo Esame di Stato, con particolare riferimento alla prima e alla seconda prova scritta. Giuseppe Langella e Luca Serianni hanno ragionato su come tale prova orienti e debba orientare anche in futuro la didattica dell’Italiano; Claudio Citrini ha spiegato, riuscendo a farsi capire da una platea di (in gran parte) non addetti ai lavori, quali siano le perplessità che suscita l’unione troppo stretta di Matematica e Fisica nella seconda prova dei Licei Scientifici, e come tali perplessità possano essere superate, con uno sforzo di buona volontà, dall’una e dall’altra materia. Mario Lentano, Massimo Manca e Massimo Gioseffi hanno parlato della prova dei Licei classici, mettendo in evidenza croci e delizie del sistema comparatistico inaugurato nel 2019; il peso che iniziative come la Certificazione della Lingua latina possono assumere nell’insegnamento quotidiano; la struttura a format fisso prevista dal Ministero per la prova d’esame. E’ proprio a quest’ultimo tema che questo post intende dare spazio e visibilità.
Il format della prova, com’è noto, è stato fissato in maniera piuttosto rigida prima dell’estensione di qualsiasi specimen di prova stessa. Se da un lato, ovvio, alcune regole comuni erano inevitabilmente necessarie, dall’altro stabilire le regole prima di averle sperimentate è cosa sempre rischiosa. La prova così come è stata concepita è un delicato ecosistema (definizione ministeriale), che impone una certa cautela in tutti i suoi passaggi. Una prova, è stato detto, ha senso solo come conclusione di un percorso educativo, e dovrebbe poter variare (o, almeno, potersi adattare), secondo i singoli percorsi seguiti dalle singole classi. Tutti chiediamo, in sede di esame o di interrogazione, quanto sappiamo di avere insegnato a lezione. Ma le formulazioni ministeriali circa le capacità e le competenze che gli allievi dovrebbero acquisire attraverso lo studio del Latino, i modi in cui si dovrebbe realizzare l’analisi di un testo in tale lingua, e di conseguenza la struttura che vogliamo che quel testo debba assumere, sono sempre rimaste invece piuttosto vaghe. Nelle slide che allego, si è tentato di riassumere alcuni possibili traguardi che si dovrebbero raggiungere nell’apprendimento del Latino (argomento della prima diapositiva) e alcuni errori che, al contrario, andrebbero evitati tanto dai docenti quanto dai discenti di Latino (argomento della seconda diapositiva, che elenca prima quattro errori in cui non dovrebbero mai cadere i docenti, poi quattro tipici errori dei discenti).
Ora, non pare che le prove ministeriale somministrate negli ultimi anni (diciamo dal 2015 a oggi, da quando cioè il Ministero si è giustamente posto la questione dell’improponibilità di una versione “secca” e non contestualizzata) rispettino pienamente gli obiettivi elencati, e non cadano – o non inducano a cadere – negli errori appena citati. Sul tavolo della discussione è perciò giusto porre tre questioni:
La traduzione collocata, così come è collocata nell’attuale prova, quale punto di partenza, presuppone che lo studente traduca per poi lavorare sul testo. Ma se la traduzione è la più alta operazione che si può compiere su un testo, allora non può essere l’operazione preliminare. Il testo deve essere prima capito, quindi sviscerato in tutte le caratteristiche che gli sono proprie; e solo allora se ne potrà tentare una resa in una lingua diversa dalla sua, che ne restituisca il maggior numero possibile di sfumature. La prassi ministeriale abbassa invece la traduzione a mero strumento di servizio, nello stesso momento in cui, però, a parole assegna alla traduzione il peso maggiore della prova, come si evince dai criteri di valutazione. In questo si avverte un’esplicita contraddizione.
Inoltre, il format dovrebbe avere sufficiente elasticità per adattarsi a testi diversi, secondo il principio che ogni testo deve avere il format che meglio lo possa valorizzare. In caso contrario, si rischia di chiedere al testo di adattarsi al format, e non al format di adattarsi al testo. E’ proprio quello che è successo nel 2019, con esiti non sempre troppo felici. Inutile invece ribadire il sacrosanto diritto dei testi ad esistere di per sé stessi, non come strumenti di prova, ma come mezzi comunicativi dai quali trarre considerazioni sul loro argomento, la loro struttura narrativa e/o argomentativa, lo stile e il pensiero del loro autore ecc. ecc. Infine: introducendo domande che esulano dal testo, si impedisce alle suddette domande di trasformarsi in aiuti alla comprensione, confondendo fra loro conoscenze (che per essere testate non abbisognano del testo di partenza, anzi lo trasformano in semplice pretesto), con competenze (da intendersi come capacità di muoversi su quel testo specifico).
Analizziamo tre delle ultime prove d’esame: ossia, la maturità del 2015 (Tacito), quella del 2017 (Seneca), la maturità suppletiva del 2019 (Quintiliano). Quest’ultima costituisce, in ordine di tempo, l’ultimo prodotto ministeriale. Va riconosciuto che nel passaggio dall’una all’altra prova si nota un lodevole perfezionamento dello strumento interrogativo, a dimostrazione di un percorso magari ancora in fieri, ma certamente intrapreso con grande coraggio e piena determinazione. Si notano però anche alcune contraddizioni, Nelle slide che seguono, i testi ministeriali (suddivisi per ragioni di comodo in più diapositive) sono contrassegnati da vari colori, una legenda dei quali si ritrova in fondo alla prima serie di slide. Nei testi di Seneca e Quintiliano che costituiscono rispettivamente la seconda e la terza serie di diapositive, il colore arancione sottolinea quelle parti di testo che in teoria dovrebbero essere state riassunte nel paratesto, ma il cui riassunto sembra poco corrispondente all’originale. Brevi commenti dopo ogni testo daranno voce ad alcune delle perplessità fin qui evidenziate.
Se da un lato il breve riassunto iniziale era, nel 2015, una lodevole novità, dall’altro nel brano compaiono personaggi (alcuni secondari, come Lucullo; altri essenziali alla continuità del racconto, come Macrone), il cui riconoscimento da parte dello studente è abbastanza improbabile – né è possibile fidarsi troppo nella memoria degli studi di storia antica, che avrebbero dovuto essere molto approfonditi per arrivare a includere anche personaggi di tale rango, e che comunque, al momento della prova, sono molto lontani nel curriculum degli studenti. Peggio va con quelle che sono le usanze tipiche di Tacito. Le affermazioni iniziali hanno senso solo ricordando la ben nota simulatio ac dissimulatio che, sulla base del Catilina sallustiano, Tacito assegna continuamente a Tiberio. L’irrequietezza dell’imperatore, che per molti anni vaga fra le ville della Campania e il palazzo di Capri, a volte avvicinandosi, ma mai riuscendo più a vincere la propria ritrosia ad entrare in Roma, è un dato che viene presupposto dalle affermazioni della seconda frase. G. Caesar è, naturalmente, Caligola, indicato dal riassunto con il suo più celebre nomignolo (si saranno ricordati gli studenti che si tratta della stessa persona?). Ma l’uso tacitiano prevede che Caesar e basta sia Tiberio, non Caligola. Ed è Tiberio dunque, che, dopo essersi sentito male, quando inizia a star meglio aspetta, speranzoso e in silenzio, che cosa consegua a tale miglioramento (una frase che di per sé si sarebbe però adattata abbastanza bene anche a Caligola, e che solo l’usus dicendi tacitiano ci assicura riferita al nonno, non al nipote). Ma quanti studenti saranno stati in grado di indovinare l’usus scribendi tacitiano? E ancora: quanti avranno capito l’equivalenza fra il “famoso medico” del riassunto (e dell’inizio del racconto) e l’amicus abscedens del seguito? Caricle non è come medico che pratica la sua auscultazione del polso, ma, come spiega Svetonio (Tib. 72), e convivio egrediens manum sibi osculandi causa apprehendit. A confronto di queste incertezze, la porzione di testo davvero riassunta è, a ben vedere, minima, e forse anche, nel complesso, relativamente poco utile, se non addirittura fuorviante.
Veniamo alla prova del 2017:
La scelta di Seneca ha reso, per assurdo, la prova più facile. In fondo, Seneca dice qui esattamente le cose che ci si aspettano da lui, e alle quali spesso, forse anche troppo spesso, si riduce il latino ministeriale. Certamente, il riassunto aiuta a capire l’invocazione rivolta nel testo a Lucilio, o il nesso essenziale, e centrale nella porzione di testo sottoposta ad esame, philosophandum est. Vorrei però mettere a confronto il riassunto scritto dal Ministero per la parte finale del brano e il brano stesso. Secondo il Ministero, Seneca invita “a non perdere mai la passione per l’impegno nella riflessione critica e consapevole”; nell’originale si legge invece che la filosofia adhortabitur ut deo libenter pareamus, ut fortunae contumaciter; haec docebit ut deum sequaris, feras casum. Tralascio l’opposizione, di sapore vagamente virgiliano, tra sequi e ferre dell’ultima dicotomia. Mi limito ad osservare l’importanza del contrasto fra i due avverbi, libenter e contumaciter, entrambi relativamente rari, entrambi molto sonanti e fortemente insistiti. Per etimo, richiamano una contrapposizione fra libet (e libertas) e contumacia. Ma contumacia per i Latini è un concetto giuridico – non andrebbe mai sottovalutata la tendenza dei Romani a pensare per categorie giuridiche. Contumax è l’accusato che non si presenta al processo (l’espressione italiana che ne deriva, “processo in contumacia” conserva traccia di questo valore). Come scrive il Digesto (XLII 1, 53) Contumacia est eorum qui ius dicenti non obtemperant; contumax est qui litteris evocatus, praesentiam sui facere contemnet. Nelle narrazioni di Tacito, un tipico esempio di persona contumax, pur se non definita esplicitamente così, è Urgulania, amica di Livia, che, citata in tribunale nel 16 d.C. per una questione di debiti, non solo non si presenta al processo, ma in modo ostentato si reca a palazzo, dall’amica imperatrice (che però, per mettere fine alla situazione incresciosa, provvede lei a pagare la somma dovuta: ann. II 34). Ma contumacia è la parola con la quale, fin dall’Agricola, Tacito descrive l’opposizione dura e pervicace, contro tutto e contro tutti, che rischia però di essere dannosa per chi la pratica e priva di frutti per la comunità (come Tacito dice di Trasea Peto, ann. XIV 12). Seiano conta di rovinare Agrippina maior, la vedova di Germanico, puntando sulla di lei contumacia (ann. IV 12); Pisone aveva infastidito Germanico in Oriente con la sua contumacia, come riconosce il discorso ufficiale di Tiberio (ann. III 12); a Trasea Peto i suoi accusatori rimproverano la contumacia verso Nerone (ann. XVI 22 e 28). Si potrebbe continuare. Dico solo che già Cicerone aveva lodato la contumacia di Socrate contro i suoi giudici (Tusc. I 71), ma nello stesso tempo rimproverava a Verre insolentia, contumacia e superbia (Verr. II 4,41; gli ultimi due termini del tricolon sono già in Verr. II 3,5). Che magnifica parola, e che magnifica possibilità di contrapposizione con libenter nel testo senecano! Che occasione sprecata di riflettere sul testo e sulla sua lingua! Ma, soprattutto, ricordiamo la formula con cui tutto ciò è riassunto nel cappello: “non perdere mai la passione per l’impegno nella riflessione critica e consapevole”. C’è vera corrispondenza?
Vengo alla prova suppletiva del 2019. La struttura si è fatta più articolata. Ci sono un’introduzione, un pre-testo, il testo, un post-testo, un testo greco a confronto (Isocrate), tre domande, una di contenuto, una di lingua, una di cultura generale. Ecco il risultato finale:
Per semplicità, segnalo solo poche cose. Avendo scelto l’incipit della Institutio Oratoria, il pre-testo è praticamente inesistente, e quindi è del tutto inutile, anzi l’impressione è che la versione inizi dal paragrafo 2 solo per consentire al paragrafo 1 di fare da pre-testo. Fra l’altro, è nel pre-testo, non nel testo, che si ravvisa la definizione dell’oratore come vir bonus. Il testo, con buona pace del riassunto proposto, si concentra su una quaestio differente. E quaestio è parola secondo me capitale, perché appartiene al lessico di scuola, quello che è proprio di Quintiliano e adatto all’inizio di un manuale scolastico (sia pure un manuale di alto livello, come è l’Institutio). Nunc quaestio ponitur, leggiamo in pressoché tutti i commenti antichi, e poi segue una digressione. Ma la quaestio posta da Quintiliano pone in contrapposizione vis ingenii e copia dicendi, come a dire qualità naturali e innate, e qualità acquisite e acquisibili: ad esempio, tramite un manuale, come quello che l’Autore ha appena composto, e che nelle righe iniziali dell’opera invita il suo lettore a leggere. Per Quintiliano, ovviamente, servono entrambe le doti, e riconosce che questo era anche il parere ciceroniano, che parlava di oratori allo stesso tempo sapientes (= vis ingenii) ed eloquentes (= copia dicendi). Tutto ciò, continua Quintiliano, si acquisisce tramite i manuali di retorica (come il suo), non i trattati di filosofia, che hanno uno scopo più generico. Ora, che cosa rimane di tutto questo nel riassunto ministeriale? Poco o nulla, a mio parere, visto che lì si parla di “un buon cittadino” riprendendo la definizione di vir bonus del paragrafo 1 e della vulgata quintilianea – ma qui Quintiliano parla di regere consiliis urbes, fundare legibus, emendare iudiciis, che non sono le azioni di un normale, qualsiasi “buon cittadino”, ma del reggitore dello Stato; e l’idea di base è che la filosofia può costruire bravi cittadini privati, ma solo l’oratoria crea capaci figure pubbliche. E della contrapposizione fra ingenium e copia dicendi, che cosa rimane nella formulazione “qualità professionali, una vasta cultura e profonda integrità morale”? Anche qui ben poco, o almeno poco di riconoscibile. Vengo infine alle domande (il post-testo, parlando della corruzione morale introdotta dal denaro liquido, che ha toccato anche l’oratoria, mi sembra di nuovo del tutto inutile, se non addirittura fuorviante). La prima chiedeva di illustrare, partendo dal testo, il “tema del rapporto tra eloquenza e valori morali nel contesto della vita pubblica”, che però è molto discutibile che sia il tema illustrato dal testo, come s’è visto. Difficile quindi anche riconoscere le parole chiave del testo (o, quanto meno, difficile riconoscerle in questa prospettiva). Quanto all’ultima domanda, chiedeva di soffermarsi su qualche opera o testo “in cui viene affrontato il tema dell’importanza dell’eloquenza per la formazione del cittadino e la sua partecipazione alla vita politica e sociale”. Una domanda affascinante, che lascia molto campo libero alle risposte, forse addirittura troppo libero, visto che le risposte andrebbero compresse negli spazi, misurati, della griglia prevista (10/12 righe). Ma, soprattutto, un tema che esula dal testo, e non riflette alcuna comprensione di esso.
E’ possibile fare diversamente? Forse sì. Ma bisognerebbe avere una certa elasticità, come s’è detto, e non ci si dovrebbe mai allontanare dal testo proposto. Ecco un brano affascinante di Tacito, la descrizione della prima parte della “crociera” di Germanico sul Nilo (la misura è quella delle versioni ministeriali):
Qui il pre-testo non servirebbe a nulla (Tacito parla d’altro); più utile il post-testo, che continua e completa l’episodio, mostrando l’atteggiamento deferente ma un po’ populista di Germanico nei confronti dell’intellighenzia egizia. Significative sono anche le tappe della “crociera”, che ricordano due precedenti, (s)fortunate “crociere”: quella di Alessandro – alla quale vistosamente Germanico si ispira – e quella di Cesare e Cleopatra (mentre Germanico ha con sé la legittima consorte). Dunque, il para-testo (ossia, i brani riportanti quegli episodi, narrati da vari autori greci e latini) a me sembrerebbe in questo caso più importante del pre-testo, e forse anche del post-testo. E come para-testo proporrei anche il brano di Tacito, Hist. IV 81, commentato in un altro “post” di questo sito, dal titolo “I re taumaturghi”. L’Egitto non è solo la terra di Alessandro e Cleopatra; è anche la porta dell’Oriente; ma è anche, come indicava quel brano delle Historiae, la terra nella quale si consacrano i sovrani di Roma, con tratti ellenistico-orientali. Scegliere l’uno piuttosto che l’altro dei brani di contorno suggeriti comporta, come conseguenza, l’orientare la riflessione in una piuttosto che in un’altra direzione. Anche le domande, di conseguenza, dovranno inevitabilmente cambiare, a seconda della scelta operata per il contorno.
Tre mi paiono infatti i temi intorno ai quali è possibile far ruotare la discussione. Il primo, Tiberio e Germanico come caratteri contrapposti, che qui vengono pienamente alla luce. Titubante, insicuro, perennemente spaventato Tiberio, pronto a trasformare però le proprie critiche in invettiva carica di conseguenze, ma pur sempre abbastanza intelligente da cogliere subito che cosa è essenziale e che cosa no nei comportamenti altrui (i vestiti e gli atteggiamenti poco imperiali di Germanico servono a costruirsi una popolarità a basso prezzo, presentandosi nella veste di “uno come tutti, uno di voi”; ma la deviazione in Egitto ha un carattere simbolico molto più pericoloso…). L’altro è simpatico alla superficie, popolare se non populista, ma resta un enigma circa le proprie intenzioni di potere. Come è possibile che Germanico ignorasse la proibizione augustea di recarsi in Egitto? C’è della contraddizione nel suo comportamento e nelle argomentazioni che (nel brano) egli adduce, e Tacito usa non a caso il verbo praetendebatur. Quanto alle parole augustee, secondo possibile tema da sviluppare, arcana dominationis è un nesso pesantissimo. Fin dal proemio Tacito parla della non longa dominatio di Cinna e di Silla contrapposta alla lunga dominatio ottavianea, e nel ritratto di Augusto viene subito messa in evidenza la sua cupido dominandi (I 10); l’idea di nominare Marcello proprio erede appare come un subsidium dominationi (I 3), e i possibili successori dell’imperatore morente sono percepiti dai sudditi come domini (I 4). Mi fermo qui, ma è chiaro quanto dominatio (e non principatus, e non imperium) sia parola chiave del pensiero di Tacito e del giudizio che formula sul principato. Arcana, poi, rimanda a un episodio famoso: l’uccisione di Postumo Agrippa, unico possibile contendente del principato di Tiberio, invita Sallustio Crispo, anima nera del nuovo imperatore e responsabile diretto di quella morte, a ricordare che gli arcana domus (e quindi, dominationis? La radice è quella) non devono essere svelati al pubblico, perché regola del potere (condicio imperandi) è che non aliter ratio constet quam si uni reddatur. Quanto si possono fare ragionare, qui, i nostri studenti! Infine, terzo punto che mi piacerebbe sviluppare, il parallelo con Scipione in Sicilia, che a detta di Tacito aveva osservato gli stessi costumi messi in pratica da Germanico. Gli exempla del passato, si sa, fanno la Storia e la sostanza di Roma, sono il modello sul quale giudicare i nuovi regnanti. Ma Tacito suggerisce qui, a mio parere, una serie di spie linguistiche (usurpavit, aemulatione, factitavisse, quamvis flagrante adhuc Poenorum bello) che consentono di ragionare sul suo pensiero circa quest’uso politico del passato. Anche da questo passaggio, mi sembra, si possono trarre domande e suggerimenti, senza bisogno di ricorrere a un sapere esterno al brano. Il testo, come dovrebbe, basta da solo a guidare qualsiasi interrogazione; e un’interrogazione così guidata ci dice molto di più sulle capacità critiche di uno studente, rispetto a una mera esibizione di sapere.
© Massimo Gioseffi, 2020