Il 29 maggio 1453 Costantinopoli cadde in mano ai Turchi. Fu la fine dell’Impero Romano d’Oriente, un fatto di enorme portata, il cui valore non sfuggì a nessuno. Nel 1976 Agostino Pertusi ha pubblicato per la Collezione Lorenzo Valla due bellissimi volumi, dedicati l’uno alle testimonianze dei contemporanei, l’altro all’eco suscitata dall’avvenimento nel mondo. Gibbon celebrò la fine di Bisanzio nel capitolo 68 della sua monumentale History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776-1789). Georgji Ostrogorsky con la Storia dell’impero bizantino (1940, ma l’edizione definitiva è quella tedesca del 1963) e Steven Runciman in The Fall of Constantinople 1453 (1965), e poi naturalmente anche molti altri, hanno contribuito a rendere celebre l’avvenimento, trasformando la data in uno di quei riferimenti che tutti ricordano. E’ invece forse meno noto che Maometto II, il conquistatore di Bisanzio, aveva, all’epoca, solo ventun anni e che avrebbe continuato le sue conquiste fino alla morte, sopraggiunta nel 1481. Tre le principali direttrici seguite da Maometto: l’Anatolia e il Mar Nero, con la conquista dell’impero di Trebisonda (1461); l’Egeo e la Grecia continentale (Atene si arrese ai Turchi nel 1456; il Despotato di Morea, inclusi Sparta, Mistrà e Corinto, nel 1460); i Balcani. Qui Maometto incontrò le maggiori resistenze, che non gli impedirono tuttavia di conquistare Scutari nel 1478; di attraversare l’Adriatico e assaltare Otranto nel 1480 (l’avvenimento è al centro di un romanzo di Maria Corti, L’ora di tutti, 1962); di affacciarsi perfino sull’Istria e il Friuli. Poco noto è anche che l’avanzata turca non si fermò con la morte di Maometto: la guerra contro i Genovesi e, soprattutto, contro i Veneziani nelle acque dell’Egeo e del Mediterraneo Orientale terminò solo con la fine della cosiddetta “seconda guerra di Morea”, nel 1718. In quell’occasione furono infatti cancellate le ultime persistenze veneziane sul suolo di Grecia. In ambito balcanico (e non solo), gli Asburgo si contrapposero ai Turchi ancora nel 1792, quando cioè, per dire, la Rivoluzione Francese era già cominciata. Vienna, la capitale degli Asburgo, venne assediata nel 1529, così come Bratislava, e anche nel 1683. Belgrado (vanamente assalita da Maometto nel 1456) fu conquistata dai Turchi nel 1521 e il dominio asburgico su di essa fu sempre precario (1688-1690; 1717-1739; 1789-1791). Buda e l’Ungheria per quasi due secoli furono dominio turco, sino alla riconquista della città nel 1686 e alla battaglia di Mohács dell’anno successivo. A tutti è nota la battaglia di Lepanto, nell’ottobre del 1571, i cui effetti furono però più propagandistici e psicologici, che reali: la Lega Santa, formatasi dopo la sanguinosa caduta di Cipro in mano ai Turchi nell’agosto di quello stesso anno (un fatto che aveva destato particolare clamore, per la sorte crudele riservata ai Veneziani che difendevano l’isola), non riuscì a recuperare nessuno dei territori perduti, e Cipro venne ceduta definitivamente ai Turchi tre anni più tardi, nel 1574. La guerra di Candia si concluse, nel 1671, con il passaggio di Creta agli Ottomani.
Fra gli avvenimenti che destarono particolare scalpore va annoverata la conquista turca dell’Eubea, o, come si chiamava allora, il Negroponte, avvenuta nell’estate del 1470. L’isola aveva fatto parte dei domini bizantini fino al 1204; in occasione della quarta crociata era passata in parte sotto il controllo di Bonifacio di Monferrato, in parte sotto quello di Guglielmo di Champlitte, in parte ancora sotto quello di Venezia. Dopo varie vicende, nel 1276 Venezia ne aveva acquisito il controllo più o meno totale, o direttamente o attraverso suoi protettorati (l’isola rimase divisa in tre). Alla caduta di Costantinopoli, i Veneziani reagirono abbastanza freddamente, e furono tra i primi a riconoscere con un accordo formale le conquiste di Maometto (1454). La guerra contro i Turchi iniziò, per loro, solo nel 1463. La nomina di Vettor Cappello a ‘capitano generale da mar’ (di fatto, l’ammiraglio della flotta veneziana: “stato da mar” è il nome che Venezia dava ai suoi possessi in Grecia e nell’Egeo) li portò infatti a una serie di importanti successi, bruscamente interrotti dalla sconfitta subita nel 1467 nelle acque di Patrasso e dalla morte dell’ammiraglio, in quello stesso anno. A Cappello fu dato come successore Nicolò Canal, più disposto a una politica attendista (per questo, una volta tornato in patria, sarà processato e condannato al confino). Nel 1470 la controffensiva turca, sempre guidata da Maometto, concentrò la propria attenzione sul Negroponte. Maometto si mise alla testa di un forte esercito di terra, che sbarcò all’isola grazie a un ponte di barche lungo ca. 50m (la larghezza minima dell’Euripo); nel contempo, l’isola venne assalita da una potente flotta per via di mare. Canal non intercettò la flotta turca; non assalì il ponte di barche, pur presentandosi più volte nelle acque dell’Euripo; anche durante i giorni dell’assedio vero e proprio preferì attendere rinforzi piuttosto che portare aiuto agli assedianti.
L’assalto alla fortezza di Calcide, capoluogo dell’isola, iniziò il giorno 14 giugno; venne ripetuto il 20 giugno; poi, la città fu investita dalle forze turche anche il 5 luglio e l’8 luglio. L’assalto definitivo si ebbe il 12 luglio. I Veneziani sgombrarono la città e si ritirarono nella fortificazione al suo sommo , ma anche lì dovettero presto cedere le armi. La reazione turca fu terribile: l’intera popolazione di origine veneta fu massacrata o ridotta in schiavitù.
Al comando delle operazioni militari c’era il bailo (= balivo, esito medievale del latino baiulus, un magistrato al servizio dello Stato) Paolo Erizzo – o Erizo, Erisso ecc., la grafia di tutti i nomi è, a questa data, piuttosto mobile, così come le indicazioni sui nomi di battesimo. Erizzo aveva fatto parte del Collegio dei Savi, un’importante magistratura veneziana, negli anni 1448-1452, e nel 1463 era stato baivo a Cipro, dove aveva ben meritato facendo da arbitro nella contesa che opponeva i fratellastri Carlotta e Giacomo Lusignano (Giacomo, figlio illegittimo di Giovanni II, venne favorito dai Veneziani, perché dal 1468 divenne marito di una nobildonna veneta, Caterina Corner o Cornaro, che, ereditata l’isola alla morte di Giacomo, l’avrebbe poi ceduta a Venezia, ritirandosi a vita privata ad Asolo). Accanto all’Erizzo c’erano il provveditore Alvise Calbo e il previsto nuovo bailo Giovanni Bondumier (pare, anzi, che Bondumier avesse già preso il comando dell’isola, ma Erizzo vi sarebbe rimasto ugualmente a combattere). La sorte di questi uomini, ancorché incerta, fu terribile. Il nobile veneziano Marin Sanudo ricorda nelle sue Vite dei dogi veneziani che nella carneficina seguita all’assedio “fu morto Lionardo Calbo bailo, Giovanni Bondinier capitano, e Paolo Erizzo che avea compiuto l’esser bailo, e molti altri nostri gentiluomini che ivi erano”. Nei più tardi Sommarii di Storia veneta, redatti da Sanudo negli anni 1522-1524, dice invece: “Non voglio restar di scriver questo, come i Turchi, intrati in Negroponte et presi Zuan Bondimier bailo, Alvixe Calbo rettor, et etiam Paolo Erizo, i quali menati davanti al Signor, parte fono segati per mezo, parte fati amazar”. Giacomo Rizzardo, nell’operetta La presa di Negroponte fatta dai Turchi ai Veneziani nel 1470, scritta a ridosso degli avvenimenti, anche se stampata solo nel XIX secolo, scrive che “il Signor Turco [Maometto II] trovò messer Polo Erizzo bailo di Negroponte, onde che colle sue propie mani il Signor Turcho lo scannò, e lavossi le mani e’l volto del suo sangue”. Più complessa la testimonianza portata da Domenico Malipiero nei suoi Annali veneti dall’anno 1457 al 1500 (anch’essi editi ufficialmente solo nel XIX secolo): “Polo Erizo Bailo s’havea reduto in Patriarcado per mazor segurtà, e s’havea fatto schiavo d’un Bassà, el qual ghe havea promesso de salvarghe la vita, e per mantegnirghe la fede, ghe havea raso i caveli, la barba e le cegie [le ciglia], e l’havea vestido de saco, e dovea mandarlo a Napoli [Nauplia] per indur quella città a darse al Turco, protestandoghe che non se dando, faria morir tutti come ha fatto quei da Negroponte”. […] Malipiero muove anche delle critiche ai difensori veneziani: “Le scarse provision della Signoria, e del Capitano Generale [Nicolò Canal], incredulo e timoroso, e de Polo Erizo Bailo e de Alvise Calbo Capitanio, ne ha fatto perdere quell’isola ditta anticamente Eubea; la qual s’havia conservato seguramente, se fosse stà fatto avanti ‘l bisogno le provision necessarie, perché Turchi in la espugnazione è stadi in pericolo d’esser rotti; e se ‘l General dava ajuto in tempo a quei de dentro, el Turco no levava mai più la testa”. Ancora diversa la testimonianza di Giovanni Maria Angiolello, un soldato vicentino che aveva partecipato alle operazioni militari, venne fatto prigioniero, e scrisse dei diarii delle sue avventure orientali, che portò con sé tornando in patria, e che sono stati pubblicati a Bucarest nel 1909, e poi varie altre volte, anche in Italia, con titoli spesso differenti. Secondo Angiolello, “Paolo Erizzo, bailo della città, che fu ucciso nel primo assalto, cioè a difesa del bourkos [la fortificazione più esterna della città]”.
Fra le testimonianze più affascinanti che rievocano la caduta del Negroponte e la sorte dei suoi difensori ci sono le parole dell’umanista Marco Antonio Coccio, detto Sabellico, perché originario della campagna laziale. Allievo di Pomponio Leto all’Accademia Romana, Sabellico (1436-1506) aveva insegnato in varie città dell’attuale Triveneto. In mezzo a molte altre pubblicazioni (e a incarichi importanti: gli fu affidata, ad esempio, la collezione di codici bizantini arrivati a Venezia dopo il 1204, base dell’attuale raccolta della Marciana), nel 1487 pubblicò le Historiae rerum Venetarum ab urbe condita o Decades rerum Venetarum, una storia di Venezia dalle origini ai tempi suoi, poi proseguita da Pietro Bembo. Il testo è particolarmente importante perché, commissionato dalla Serenissima, rappresenta una sorta di versione ufficiale di Stato. Nel finale del libro ottavo della decade terza (pp. 902-903 dell’edizione di Basilea, 1556, di cui mi avvalgo), viene rievocata la conquista turca del Negroponte. Eccone il testo, adattato alle norme grafiche classiche, a favore dei lettori:
Cadebat ingens sagittarum multitudo in miseros cives: crebri tormentorum ictus muros, propugnacula, viros uno tempore affligebant. Aderant Leonardus Calvus, praefectus urbis, Ioannes Bondomerius legatus, Paulus Hericius praetor, ac plerique alii patricii viri, quorum alii stationes obeundo propugnatores hortabantur, alii intenti erant ad opem ea parte ferendam qua suos maxime laborare audivissent. Et quamvis tot milia hostium muribus haererent, haud tamen ab ea parte, qua interdiu Venetae triremes conspectae fuerant, vultum avertere. Miseri Chalcidenses manus ad illas, oculos ad coelum intendere, nigra praeterea signa, praesentem fortunam testantia, sub lucem summa turri praefigunt, quibus non solum periculo, sed pietate etiam moti, qui in Euripo erant miseris subvenirent. Oppugnatio, hostibus sibi invicem succedentibus, eo ardore quo per noctem urbem adorta fuerat, eodem sine intermissione ad lucem protracta, ita Chalcidenses fatigaverat ut qui ad Burchianam portam erant, vulneribus, inedia, pervigilio affecti, secundam circa diei horam nudos hostibus muros deseruerint. Qua primum irruptione facta, ubi intra moenia Barbarus conspectus est, confestim undique muri relicti sunt. Tum vero longe lateque in miseros cives caedes tota urbe evagata, caesi magistratus alii alio loco: Leonardus Calvus in foro, Bondimerius legatus in aedibus Pauli Andreotii, a quo commentarios de Chalcide excidio accepimus. Hericium, qui munitiore se loco cum suis tenebat, accepta ab Othomano fide, ubi in eius potestatem venit, medium secari iussit: cavillatus perfidus hostis, pollicitum se cervici non lateribus parsurum. Inde crudele edictum proposuit, ut puberes omnes ad unum obtruncarentur ac capitale esset si quis supra viginti annos quenquam natum servasset. Tum vero in miseros cives et alios quos adversa fortuna ibi deprehenderat, licentia saevitum: miserabiles caedes passim editae, nullum discrimen ordinum, nullius dignitatis ratio habita. Caesorum capita in Divi Francisci area, pro curia et ante Patriarchicam domum coacervata luctuosum mulieribus ac pueris exhibuere spectaculum. Ipsa cadavera passim iacentia, ne postea suo faetore coelum inficerent, in proximum Euripum sunt proiecta. Sub id fere tempus quo urbs capta est, triremes, quas per noctem praefectus accersiverat, cum iam nihil usui essent, afuere. Tum vero ubi Veneta signa in turribus suppressa viderunt, certioribusque aliis signis urbem captam esse sensere, ingenti dolore defixi, cum lachrimis illius moenia intueri. Inde, quia parum tutum erat illic esse, maesti retro cursum tenuerunt.
Mi sembra una bella pagina di latino, che racconta una vicenda un po’ insolita e al di fuori delle normali letture scolastiche (e della quale, al momento, non si danno traduzioni online!). Per un uso in classe andrà, naturalmente, ampiamente introdotta e spiegata, oppure commentata o leggermente ritoccata in certi riferimenti alla stretta contemporaneità, a seconda delle finalità per cui la si vorrà utilizzare. Dal punto di vista linguistico, a parte alcuni improvvisi infiniti narrativi (come intueri), o la costruzione del perfetto passivo con fui anziché con sum (già attestata, peraltro, in Eutropio), e il non scorretto ma inutile ablativo di luogo summa turri in luogo del dativo che ci saremmo aspettati (in dipendenza da praefigunt) o l’arcaico e raro evagare in luogo della più comune forma deponente, non mi pare che ci siano vere difficoltà. In ogni caso, quello che racconta il Sabellico è che il povero Erizzo venne segato a mezzo, dopo che l’Ottomano (Maometto II) gli aveva promesso di salvargli la testa, ma non, con gioco perverso e crudele, i fianchi!
Assistiamo dunque qui al sorgere di una “leggenda nera” circa i Turchi e il loro comportamento. Gli Ottomani e Maometto non sono infatti solo crudeli, cosa che in guerra può anche succedere, ma appaiono come sleali e ingannatori, perfidi direbbero i Latini, cavillatori. Di questa leggenda è ulteriore testimonianza una cronaca anonima di metà Cinquecento, pubblicata come appendice alle Historiarum Demonstrationes di Leonico Calcondila (Basileae 1556),. La cronaca torna ad occuparsi del Negroponte a quasi un secolo di distanza dalla sua perdita, ma in contemporanea a nuove conquiste e nuove stragi degli Ottomani nell’Egeo:
“Mentre si facevano queste cose [le stragi in città], Paolo Erizzo podestà del luogo si rifugiò nella fortezza con pochi de primarii cittadini, altri pochi essendone evasi. Presa la città e riportata vittoria, il Turco fece impalare tutti gli italiani che si trovò; altri fece lapidare, altri segare per mezzo, altri di varie e crudeli maniere di strazio morire. Et in quella miserabile strage devesi credere pugnassero vestite ď’armi a guisa di Amazzoni molte belle donne sì vergini che maritate, perché molte fra’ cadaveri se ne trovarono estinte. In questo mezzo una unica figlia del podestà della città, vergine castissima e piacevole di aspetto, fu condotta per la sua bellezza dinanzi al Turco, e poiché non volle assolutamente acconsentire alle disoneste sue voglie e alle larghe promesse, fu subito scannata”.
Le vergini guerriere che combattono in nome della fede cristiana e la figlia del bailo di cui Maometto (il Turco) si incapriccia, ma che poi fa uccidere perché lei non vuole cedere alle sue voglie, aggiungono un ulteriore tocco alla leggenda e virano in chiave melodrammatica un avvenimento che aveva, viceversa, il sapore del dramma della Storia. A Venezia i matrimoni e le nascite dei figli legittimi del patriziato venivano registrati nel cosiddetto “Libro d’oro”, dal quale Paolo Erizzo non risulta sposato. Il dato non è del tutto probante. Resta però il sospetto che questa figlia anonima (cui poi, come vedremo in un altro post, fu assegnato il nome di Anna), vergine e guerriera, disposta a morire pur di non tradire la religione degli avi e di non concedersi alle brame di Maometto, appare, a giudizio dei posteri, più un personaggio da leggenda che una persona reale. Fondata nel sedicesimo secolo, la leggenda di Anna, chiamiamola così, tornerà a farsi viva nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo. Ma di questo, parleremo altrove.
© Massimo Gioseffi, 2021