descrittori linguistici europei
Venerdì 23 ottobre si è tenuto a Rovereto (TN) un incontro sulla certificazione. Al di là dell’occasione, che serviva per capire come organizzare la prossima prova, alla quale i colleghi della Provincia Autonoma di Trento hanno deciso di aderire, l’incontro è stato anche un’occasione per riflettere sulla certificazione e sui modelli di certificazione che si sono finora prodotti.
Semplificando un poco la questione, direi che attualmente circolano due modelli di certificazione della lingua latina, concordi in molte idee di fondo, ma discordi su alcuni particolari. Diciamo che il primo modello lo potremmo chiamare “ligure”, perché in Liguria è stato elaborato e sperimentato per ben quattro anni; l’altro modello lo chiamerei “lombardo”: è il modello di cui Guido Milanese si è fatto promotore e firmatario per il livello base, e che io a mia volta ho firmato per il livello avanzato (senza contare i molti aiuti e contributi di cui entrambi abbiamo usufruito). In che cosa consiste la differenza? Esprimo un parere personale, che coincide con quanto detto nell’incontro di Rovereto, e sollecito naturalmente interventi, proposte, discussioni.
Il modello ligure è, a mio giudizio, un modello fortemente scolastico, nel senso che considera la certificazione come indirizzata esclusivamente alle scuole e la finalizza alla verifica e alla valorizzazione delle competenze scolastiche. Anche se naturalmente le scuole restano, com’è ovvio, le referenti prime di ogni forma di certificazione, a me questo pare errato. Lo dimostrano due aneddoti, raccontati entrambi dalle colleghe di Genova presenti all’incontro: un celebre ma non meglio identificato liceo cittadino ha sempre rifiutato, per quattro anni di fila, di partecipare alla certificazione, nel timore, evidente, che i risultati scolastici e i risultati della certificazione potessero non coincidere, cosa che poi avrebbe dato adito a contenziosi e contestazioni. Secondo aneddoto: sempre a detta delle colleghe, l’esercizio dalla minore riuscita nelle ultime prove di livello base è stato il riassunto del brano proposto come testo di certificazione: cosa alla quale non stento a credere, perché anche in sede di esami universitari si riscontra una netta perdita della capacità di riassunto. Solo che la certificazione, a mio parere, dovrebbe valutare la comprensione del latino, che non coincide – o non coincide fino in fondo – con la capacità di riassumere un testo: alla mia domanda, “ma cosa sarebbe successo se il testo fosse stato fornito in italiano?”, le colleghe hanno risposto che i risultati quasi sicuramente non sarebbero mutati di molto. Ciò allora significa che con quell’esercizio si è cercato di verificare la capacità di riassunto dei candidati, non la loro capacità di utilizzo e comprensione della lingua latina (che, lo ripeto, può passare anche attraverso il riassunto, ma con molti “ma” e molti “se”). La certificazione, a questo punto, non è più stata una certificazione linguistica…
Identico discorso si può fare per la traduzione: tradurre mette in gioco molte competenze, forse troppe. E in ogni caso mette in gioco due lingue, quella di partenza (L1, nel nostro caso il latino) e quella di arrivo (L2, l’italiano). Ma la certificazione non può valere per due lingue, e laddove proponga – forse inevitabilmente – esercizi che mettono in gioco sia L1 che L2, i due ambiti devono essere distinti. Ciò significa che non si può proporre come forma certificativa una traduzione pura e semplice; e che la traduzione può anche comparire fra gli esercizi di certificazione, ma non può costituire la sola prova di certificazione…
Nel modello “ligure” c’è poi, secondo me, un’altra ragione di confusione. Nell’incontro di Rovereto le colleghe hanno parlato della loro volontà di “aderire il più possibile al quadro europeo”, dopo di che hanno però declinato questa idea nella forma di un “rientrare in una generica cornice” europea, così da salvaguardare la specificità del latino. Ma se la certificazione vuole essere “linguistica”, il latino deve essere trattato come una lingua, come ogni lingua, una qualsiasi lingua – punto e basta. Questo, sì, significa aderire al quadro europeo. Un’adesione non ammette al suo interno gradazioni e sfumature. O ci si sta, o non ci si sta. Non ci si può stare con i piedi, e tenere fuori la testa. Accogliendo un precedente offerto dal modello lombardo, anche in Liguria si è deciso di predisporre in futuro la prova secondo quattro diversi livelli, chiamati A1, A2, B1 e B2, di nuovo secondo i parametri europei. Ma mentre la distinzione fra livello A e livello B è abbastanza netta e precisa (al livello A si accede dopo il primo biennio liceale; al livello B dopo il secondo – ecco ancora una distinzione scolastica, commento io: ma in tutte le certificazioni linguistiche di questo mondo si può partecipare alla prova indipendentemente dalla classe frequentata; e nulla vieta perfino a me, che ho 50 anni e non sono alunno di nessuna scuola, di iscrivermi alla prova A, B o C di qualsivoglia lingua…), la distinzione fra A1 e A2, e quella fra B1 e B2 non lo sono per nulla. A Rovereto si è parlato di migliori o peggiori risultati, pur nell’ambito di una sufficienza globale. Ma in questo i parametri europei risultano disattesi. Nel quadro europeo (che allego), ad ogni livello corrispondono capacità e competenze diverse, dunque domande e attese diverse, da saggiare con esercizi diversi.
Vengo alla mia idea di certificazione: la certificazione deve essere puramente linguistica, quindi non può mettere in gioco competenze “altre” rispetto a quelle linguistiche, se non nella minima misura in cui la lingua è sempre espressione di una cultura, e viceversa ogni cultura nella lingua trova la sua massima espressione. La certificazione, poi, non deve corrispondere a nessun esercizio scolastico, e con nessun esercizio scolastico deve coincidere o ad esso si può sostituire (per questo ci sono semmai le prove delle “Olimpiadi della classicità” e i numerosi certamina sparsi per il mondo); chiunque vi può accedere, nel momento in cui se ne sente pronto – in una forma ideale, la certificazione dovrebbe potersi tenere almeno due volte l’anno, in sedi fisse, a date fisse; non mira al controllo di competenze diverse dal possesso della lingua; deve articolarsi su diversi livelli, ai quali corrispondano esercizi e domande diverse – non necessariamente testi diversi, fatto salvo che al livello avanzato debbono sempre corrispondere testi complessi, al livello base testi più semplici e meno articolati. Infine, non può prescindere, specie al livello avanzato, da un uso anche attivo della lingua, senza del quale non si possiede mai veramente una lingua. A quest’ultimo punto è facile obiettare: ma noi possediamo della lingua latina quasi soltanto le testimonianze letterarie, rispetto alle quali è ovvio che l’atteggiamento di noi moderni non può essere altro che di ricezione passiva. E meno male che è così, aggiungo. Fra gli appassionati d’opera, categoria alla quale appartengo, un sottogenere diffuso è fatto di racconti di cantanti o aspiranti tali che pretendono di parlare l’italiano perché conoscono a memoria i libretti del nostro melodramma ottocentesco: immaginatevi con quali effetti esilaranti… Tutto questo è dunque vero: ma resta che, di nuovo, c’è confusione fra certificazione linguistica e scopi scolastici della medesima: a scuola noi leggeremo pure opere letterarie, e solo quelle. Ma una certificazione linguistica non è una certificazione scolastica, e non può quindi prescindere dal pur minimo possesso della lingua, anche nella sua forma attiva (possesso che poi, a mio giudizio, si riflette pure sulla capacità di leggere le opere letterarie, che saranno scritte, è ovvio, in una lingua “altra”, e certo “migliore” di quella che noi pratichiamo, ma della quale si rende possibile di cogliere appieno il valore proprio attraverso il confronto con la lingua che noi pratichiamo). Mi spiego con un aneddoto. Ho sottoposto agli studenti universitari, aspiranti futuri insegnanti di latino – corso magistrale, modulo rivolto a chi vorrebbe insegnare latino – il gioco riportato anche in questo sito, alla pagina dei giochi, appunto, e intitolato “Conversation Pieces”. Si tratta di scrivere una breve frase, che dia voce a personaggi di quadri più o meno celebri. Risultato: i ragazzi si sono divertiti moltissimo; le frasi escogitate erano spesso ingegnose; ma nessuno è stato capace di scrivere una semplice riga in un latino che sembrasse vagamente latino, e che non contenesse strafalcioni… Non credo che quegli strafalcioni indichino un deficit di conoscenze grammaticali; ma certamente indicano un deficit nella capacità d’uso di una lingua che pure si vorrebbe insegnare, ma non si sa maneggiare, nemmeno al livello elementare. Nei documenti europei, il livello A1 viene di solito introdotto con una battuta: “serve a evitare di finire in prigione non appena si pensa di dire qualche cosa in quella lingua”. Qui ci troviamo di fronte ad aspiranti livelli C1 (il livello professionale) che in prigione ci finirebbero eccome, e direttamente, e senza passare dal via!
Nell’incontro di Rovereto sono stati proposti anche tre nuovi esercizi, non mai applicati, credo, nella certificazione in Lombardia. Uno consiste nel dimostrare la propria comprensione del testo proposto attraverso l’apposizione di un titolo adeguato. L’esercizio è interessante, ma mi lascia perplesso, forse perché io mi diverto spesso ad apporre titoli allusivi, sottili, normalmente non capiti. E del resto, chi potrebbe dire dal titolo di che cosa parla Guerra e pace? E se l’altro romanzo di Tolstoj si intitola Anna Karenina, com’è che per metà e forse più si interessa alle vicende di Levin? Il secondo esercizio, proposto anche come seconda prova di maturità da Luigi Spina nell’incontro qui a Milano, consiste nel fare tradurre un brano, accompagnando poi la traduzione con un commento esplicativo delle scelte compiute. Anche questo mi lascia perplesso: il rischio, secondo me, è di scoprire che le intenzioni erano buone, ma l’esito finale un po’ meno. Se traduzione però deve essere (e non è detto che sia), tradurre è, a mio giudizio, scegliere: e allora a cosa serve sapere che le intenzioni erano giuste, se la resa finale non rispetta le intenzioni? E se le rispetta, a cosa serve esplicitarle? In quel caso, la traduzione si difende da sola, no? Infine, terza proposta, fare valutare – in assoluto, o con domande mirate relative a singoli passaggi – due o più traduzioni d’autore, accostate tra loro in forma contrastiva. Anche su questo avrei da ridire. Alla mia obiezione, “e quale sarebbe la traduzione migliore?”, mi è stato risposto “la più fedele”. Fedele a cosa, fedele a chi? Pound, com’è noto, tradusse Properzio conservando i suoni dell’originale (più modestamente, Fortini fece qualcosa del genere per il carme I 11 di Orazio, intitolandolo “Orazio in un bordello basco”). Venne aspramente criticato, ovviamente, specie dall’Accademia. Ma lui si difese sempre, sostenendo di essere stato fedelissimo a Properzio, e a quanto di Properzio lo aveva colpito. Certo, non si capisce niente in quella traduzione; e invano vi cercheremmo Cinzia e gli amanti di Tivoli – il Properzio cui siamo abituati. Ma siamo sicuri che Pound avesse torto? Parlare ancora di “fedeltà” di una traduzione non rischia di portare indietro l’orologio di un secolo o suppergiù? E questa può essere una prova di certificazione (altra cosa, ancora una volta, da un percorso didattico, svolto in classe, con la guida dell’insegnante, sul tema della traduzione contrastiva di un singolo e determinato testo, che è operazione in sé legittima)? La certificazione, per essere tale, io credo che debba essere universale, valida per chiunque a quella prova si sottoponga, indipendentemente dai percorsi svolti in classe. E le domande devono essere costruite in modo tale che ad ognuna di esse corrisponda sempre una risposta una, unica, univoca, universale, e matematicamente commisurabile. Solo così potrò certificare quella competenza che, una, unica, univoca ecc. corrisponde alla richiesta fatta, all’esercizio proposto.
Che ci si sia sempre riusciti, anche in Lombardia, non oserei dirlo: ma questo significa che la certificazione ha ancora un lungo cammino da compiere. Le idee però devono essere chiare da subito. Oppure, ho torto io?
© Massimo Gioseffi, 2015 (massimo.gioseffi@unimi.it)