Lo scorso 17 novembre, nell’ambito del Convegno L’università e la formazione iniziale dei docenti, promosso dal “Centro per la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento” e dall’Università degli Studi di Bergamo, si è tenuto un workshop in cui si è discusso sul valore della Certificazione della Lingua Latina nell’attuale programmazione scolastica.
Non è questo il luogo per specificare nuovamente in che cosa consista la Certificazione, ma senz’altro è opportuno evidenziare che la sua necessità è sentita da più parti, sia nell’ambito della scuola superiore, appesantita dalla demotivazione di allievi e docenti, sia all’interno delle Facoltà di Lettere, che denunciano come le conoscenze pregresse degli studenti siano spesso inadeguate per affrontare gli esami curricolari. A mio parere, per salvare le sorti della nostra disciplina non è altrettanto utile il tentativo di inserire il latino fra le materie che possono concorrere all’ICGSE (International General Certificate in Secondary Education) di Cambridge, che non prevede una certificazione della lingua latina, ma l’uso dell’inglese come lingua veicolare in discipline diverse (insegnate in compresenza con un madrelingua) e che consente, previo superamento di un esame di certificazione in almeno due discipline, l’accesso a facoltà straniere. Il programma è già stato inserito in alcune scuole superiori, come ad esempio il liceo classico Galvani di Bologna (www.liceogalvani.it) e il liceo scientifico Salvemini di Bari (www.liceosalvemini.it), ma a me sembra utile soprattutto come operazione di marketing per quegli istituti; non ritengo invece che possa davvero aumentare il successo del latino, a meno che non si faccia leva sulla valenza di ‘passaporto per l’Europa’ dell’eventuale superamento dell’esame della disciplina in inglese. Senz’altro più in linea con una vera preoccupazione per la lingua direi che sia “Probat”, un progetto già del 2013 dei licei Trissino di Valdagno (VI) e Brocchi di Bassano (VI), esemplato sul modello di certificazione ‘ligure’ – anche se non mi risulta che finora l’esperienza abbia portato ad un’ufficializzazione della certificazione per la regione Veneto, con qualche protocollo d’intesa fra CUSL e USR. In ogni caso l’iniziativa, così come il desiderio della Provincia Autonoma di Trento di istituire una certificazione e la medesima attenzione riscontrata in altre regioni, rendono senz’altro ancora più meritorie l’opera ‘pioneristica’ della Liguria, che si è mossa già nel 2012, e della regione Lombardia, attiva in questo campo negli anni 2014 e 2015.
Va precisato che a livello europeo esisterebbero degli standard comuni elaborati dal programma “Euroclassica”, divisi in otto livelli, che dovrebbero consentire agli studenti di spostarsi da un Paese all’altro senza riprendere da capo l’apprendimento della materia; tuttavia, essi sono applicati solo in alcuni Stati, ma non in Italia, dove i livelli, almeno per le scuole con un curriculum di latino forte, risultano sottodimensionati. È comunque essenziale muoversi in questa direzione: solo un riconoscimento nell’ambito dell’Unione Europea può ridare dignità all’insegnamento del latino. Non intendo dire con questo che la tradizione, la metodologia e gli insegnanti italiani debbano apprendere da quanto accade negli altri Paesi, ma che, purtroppo, nell’attuale società che vede la fuga all’estero come panacea della crisi nazionale, l’ideale per la rinascita di interesse nei confronti del latino sarebbe poterlo includere appunto, a tutti gli effetti, fra le lingue europee e, conseguentemente, provvedere a una certificazione di competenze assimilabile, mutatis mutandis, a quella delle lingue moderne. Se, infatti, all’inizio del nuovo millennio il dibattito più accanito fra gli addetti ai lavori era sulla metodologia da utilizzare per un insegnamento più incisivo della disciplina, si è poi svelato il vero arcano del fallimento didattico: il latino non ha nessun riconoscimento sociale, a differenze dell’inglese o della matematica, imparati, o quanto meno studiati obtorto collo, in quanto essenziali per affrontare le facoltà prestigiose che ‘garantiscono’ un futuro brillante. Certo, dopo la riforma Gelmini anche il calo del monte ore dedicato alla materia nei licei diversi dal classico non ha di sicuro favorito la causa del latino. Ma ho constatato personalmente, che, archiviate le pur legittime lamentele, una decorosa conoscenza della lingua si può ancora raggiungere almeno al liceo scientifico, spero anche in quello delle scienze umane. Va inoltre riconosciuto che materie di indirizzo, sempre per lo scientifico, quali la fisica o le scienze naturali debbono combattere con la stessa limitazione, e nemmeno l’inglese, nonostante i proclami ministeriali, ha tratto vantaggio orario dalla riforma.
Proprio alla luce di quanto detto, e in particolare dell’auspicio di un quadro europeo di riferimento, ritengo che sia fondamentale avvicinare il più possibile la certificazione delle competenze della lingua latina a quella degli altri idiomi europei, e farle invece prendere le distanze dai certamina, che devono rimanere in vita e che hanno una loro importanza, ma del tutto differente. A tale proposito, credo essenziale limitare il più possibile la prova di traduzione e le domande riferite alla civiltà, fatto salvo che, per la gestione adeguata del lessico, è indispensabile una conoscenza del mondo latino che permetta una contestualizzazione dei brani proposti, nel tempo e nell’ambiente appropriati. È vero che la versione dal latino, molto più che dalle lingue vive, è un esercizio fondamentale per sviluppare la capacità di analisi di un testo ‘cristallizzato’ e valutare l’aspetto diacronico della lingua, lontano dall’urgenza della comunicazione immediata. Ed è innegabile che la traduzione sviluppi delle competenze trasversali, difficilmente raggiungibili con lo svolgimento di altri compiti. Tuttavia sono, appunto, competenze trasversali, e non specifiche della materia. Non si tratta di dare un taglio più o meno ‘scolastico’ alla certificazione. Ha ragione Silvana Rocca a dire, nell’introduzione al XXIX volume della serie Latina Didaxis, pubblicato a Genova nel 2014, p. 9, che ‘la comprensione del testo è il primo passo che l’allievo deve compiere per avviare quel processo interpretativo-produttivo funzionale alla traduzione’. Però, l’insegnamento della materia attualmente è troppo ‘versiocentrico’, mi si passi il neologismo, soprattutto per quanto concerne il cosiddetto metodo ‘tradizionale’. Mi chiedo se non sarebbe il caso di porre maggiormente l’accento sulla comprensione tout court, soprattutto in quegli indirizzi, come lo scientifico, in cui la disciplina, a voler essere eufemistici, ha ormai una valenza ‘ancillare’. Ciò non significa abolire la versione, proprio per quel valore interdisciplinare che le è specifico e di cui ho parlato prima – valore che è preziosissimo. Si tratta di diversificare le prove di verifica scolastiche e di testare così competenze differenti, non ‘oscurate’ – se così posso esprimermi – da una cattiva gestione, ad esempio, delle strutture e del lessico della lingua d’arrivo. Forse il problema non tocca tanto il liceo classico; ma dopo anni di insegnamento allo scientifico mi sono accorta che gli studenti, in altissima percentuale, perdono progressivamente la dimestichezza con la traduzione, fino a rendere i testi in una lingua dubbia, ben lontana dall’italiano corrente; il che denota una notevole incomprensione del brano di partenza. Questi stessi ragazzi, appena conclusa la maturità, nella migliore delle ipotesi vendono il loro dizionario di fronte alla scuola, ai malcapitati che iniziano il loro ciclo di studi. Voglio invece sperare, forse in un eccesso di ottimismo, che chi ha tradotto magari in modo meno preciso per quanto concerne la correttezza morfo-sintattica, ma capendo quanto leggeva, non disdegnerà di ‘dare un’occhiata’ a un testo in lingua originale anche in futuro. Non vedrà infatti il latino come una materia per iniziati, ma come una lingua, con una letteratura fatta di testi, talora perfino piacevoli da leggere – sia pure con l’aiuto di una traduzione, ma senza necessariamente rifiutare di gettare uno sguardo all’originale: come si può fare con l’inglese, il francese, lo spagnolo.
Oltre a questo, la certificazione di modello ‘lombardo’ prevede domande specifiche sulla sintassi ed esercizi di manipolazione linguistica, soprattutto di trasformazione di frasi in strutture equivalenti, che certo non consentono una preparazione approssimativa, ma che, pur senza coinvolgere le abilità traduttive, permettono di verificare le competenze analitiche, in ottemperanza con le ‘linee guida’ del ministero. Non nego che ai livelli più alti, per esempio al B2, si possa tener conto anche della versione, proprio per la peculiarità del latino rispetto alle lingue moderne; ma penso che rispecchi meglio una reale conoscenza della lingua un esercizio di breve composizione in latino, con risposte riferite al brano letto e analizzato. Credo quindi che il punto cruciale non sia quanto adattare la certificazione alla consolidata pratica scolastica, ma piuttosto quanto si sia disposti a rendere duttile l’insegnamento del latino, a prescindere dalla metodologia scelta, per preparare gli studenti ad affrontare prove diversificate – anche quelle di una certificazione che avvicini di più il latino a una vera e propria lingua e possa fargli acquistare un po’ di fascino e di attualità…
© Ilaria Torzi 2015 (ilaria.torzi@unibg.it)
Ilaria Torzi è docente presso il Liceo Scientifico Statale ‘Vittorio Veneto’ di Milano e l’Università degli Studi di Bergamo