Riprendiamo in mano la storia della resa di Negroponte. Riassumo la puntata precedente: nel 1470, al culmine della prima vera contesa militare fra Ottomani (recenti conquistatori di Bisanzio) e Veneziani (costretti a difendere il loro “stato da mar”, e attivi in tal senso sin dal 1463: prima con una serie di successi, poi, dopo la sconfitta subita nelle acque di Patrasso nel 1467, giocando essenzialmente in difesa), il Negroponte, alias l’Eubea, diventa il terreno della contesa. Dominio veneziano fin dalla fine del XIII secolo (dopo che i Crociati se ne erano appropriati nel 1204), l’Eubea viene ora investita da un potente esercito turco sia per terra che per mare. Il comandante della flotta veneziana nulla fa per difendere l’isola, che resta abbandonata a se stessa. Attaccata dalle truppe di Maometto II già dall’inizio di giugno, la città di Calcide resiste a una serie di assalti e a un lungo assedio, ma a metà di luglio si deve arrendere. Avviene così una grande strage di uomini, donne, bambini, come usano fare gli Ottomani quando incontrano una forte resistenza sul loro cammino. La cosa desta scalpore, così come, circa un secolo più tardi, la stessa vicenda replicata a Cipro determinerà sì la perdita dell’isola da parte di Venezia, ma anche la reazione “occidentale”, che si concreta nella Lega Santa e nella battaglia di Lepanto (1571). Dei difensori di Negroponte è ignota la vera sorte. In particolare, del bailo Paolo Erizzo si dice che sia morto combattendo; o che sia stato sgozzato personalmente da Maometto; o che sia stato impalato. Una leggenda (o almeno, speriamo che tale solo sia), però particolarmente fortunata, lo vuole segato in due all’altezza dell’addome, per rispettare la promessa, fatta da Maometto, di non torcergli nemmeno un capello della testa. La leggenda “nera” si arricchisce, nel tempo, di un ulteriore dettaglio: oltre a Paolo, sarebbe morta anche sua figlia (la cui esistenza è tutt’altro che certa, e la cui presenza sull’isola suona altamente improbabile), catturata da Maometto, che di lei si sarebbe invaghito. Ai dinieghi della giovane, il sultano l’avrebbe fatta strangolare. Un melodramma perfettamente già scritto, insomma, anche se a quella data il melodramma vero e proprio doveva ancora ufficialmente nascere!
Aggiungo ancora che la vicenda della figlia di Anna ricorda semmai un altro episodio narrato dal vicentino Angiolello, ossia la storia di Irene, donna greca, da lui conosciuta durante la prigionia a Bisanzio. Di questa donna, sua prigioniera, Maometto si sarebbe in effetti invaghito, ma l’avrebbe poi fatta uccidere davanti a tutta la corte, per dimostrare che niente e nessuno poteva distrarlo dal suo ruolo di conquistatore di nuove terre. La vicenda è stata resa celebre da una novella del Bandello, la decima del primo libro, ed è ricordata (con varie inesattezze) anche fra le pagine di Proust. Nel XVII secolo la leggenda della figlia di Erizzo mi sembra invece poco produttiva di nuovo materiale, o almeno non ne conosco io. Torna di moda nel XVIII secolo, in corrispondenza alla perdita degli ultimi brandelli dello “stato da mar”, e al conseguente sorgere di un interesse nostalgico ed erudito per il passato di Venezia. Nel tomo XXII dei Rerum Italicarum Scriptores Ludovico Antonio Muratori pubblicò le Vitae ducum Venetorum di Marin Sanudo (le Vite dei dogi, dalle origini al 1494), che abbiamo visto essere una delle prime testimonianze dirette della vicenda; la maggior parte degli altri testi che abbiamo citato saranno editi, come già detto, solo nel XIX secolo (gli Annali Veneti di Domenico Malipiero nel volume settimo dell'”Archivio Storico Italiano”, 1843/1844; La presa di Negroponte del Rizzardo nel 1844, a cura di Emmanuele Cicogna: tutti questi testi sono oggi disponibili in consultazione online); Sabellico e l’anonima cronaca di metà Cinquecento, che abbiamo avuto modo di ricordare fra i rappresentanti maggiori della leggenda nera, erano invece circolanti a stampa già dal XV-XVI secolo. Nuovi eruditi si aggiunsero ora ai vecchi: nel Dizionario storico della vita di tutti i sovrani Ottomani, del 1786, Vincenzo Abbondanza rincara la dose intorno alla leggenda che ci interessa (anche questo testo è disponibile online, grazie al programma “archive.net”). “Erizzo vedendosi soprafare sempre più dal numero spaventevole degli Ottomani si trovò in grado di non potere sfuggire la dura necessità di rendere la Cittadella, con la condizione però che il vincitore non gli togliesse la testa. Mehemet accettò la resa con la detta condizione, ma poi fece segare in mezzo l’infelice Erizzo, dicendo che li fianchi nulla avean che fare con la testa, onde lasciando quella illesa, erasi da esso pur troppo mantenuto il convenuto patto”. Il racconto prosegue presentando l’amore di Maometto per Anna come una sorta di vendetta divina per l’empietà del sultano: “Molto caro però al barbaro imperatore costò l’empio suo scherzo. Avea Erizzo una figlia per nome Anna Erizzo, damina quanto gentile e bella, altrettanto savia e timorata di Dio. Preso dagli Ottomani Negroponte e dopo massacrato l’adorabile suo genitore, capitò Anna nelle mani de’ Gianizzeri, i quali, benché licenziosi e rapiti dalla rara avvenenza di quella sventurata signorina, ciò nonostante rimasti sorpresi da una somma venerazione per ella, non ardirono farle minima insolenza”. I Giannizzeri portano Anna al cospetto di Maometto: “Anzi, dalla meschina singhiozzante e piangente caldamente supplicati a toglierle la vita e ad accoppiarla al cadavere del trucidato suo genitore, le risposero di non poter loro disporre della vita di lei ma ch’ella piuttosto disponesse di loro. Gli fecero bene intendere che se essa voleva sarebbe stata nell’Imperiale Serraglio una Principessa delle più fortunate della terra”. Dalle parole si passa all’azione: “Fu pertanto Anna condotta avanti il vincitor Mehemet, che ne rimase ben tosto innamorato. Anna però, come non affettò una inopportuna fierezza verso del vincitore, non mostrò neppure minimo turbamento”. Naturalmente, tanta (nobile) ritrosia stimola ancora di più la passione di Maometto: “Più che mai rapito il Soldano dal portamento modesto e tranquillo della schiava Erizzo, le si accostò tutto tenero ed espressivo, per notificarle il suo ardore. Ma la Veneziana scorgendo il suo nemico ancor fumante del paterno sangue, e richiamando sempre più alla mente i doveri della Cristiana sua Religione e quelli ancora d’una amorosa figlia, pronta e risoluta a Mehemet rispose ch’ella era vergine e cristiana, e perciò non doveva e non voleva acconsentire a suoi desideri”. Tanta ostinazione spinge il sultano a cambiare tattica: “Credendo il Soldano che questo rifiuto non provenisse che dal condonabile trasporto di una fresca e giusta passione, fece portare Anna nel suo Imperiale Serraglio di Costantinopoli e fattole assegnare un appartamento il più splendido con un equipaggio veramente imperiale, non lasciava di fare il possibile ora con le carezze ora con le minacce per espugnare quest’altra fortezza, assai più ostinata dì quella materiale poco prima da esso dopo tanti stenti vinta e conquistata. La Erizzo però quale scoglio avvezzo agli urti più furiosi del mare [un’immagine ariostesca] dette sempre la medesima risposta”. Si arriva così all’ultimo atto della tragedia: “Stanco adunque Mehemet di più lungamente pregare, promettere e minacciare senza profitto, intimò ad Anna che tra poche ore scegliesse o di compiacerlo o di morire. La Veneziana senza punto esitare rifiutò di contentare il Soldano ed elesse di morire, onde villanamente strascinata fuori dalla presenza di Mehemet fu decapitata”.
Ho parlato di tragedia, anche se qua e là la tragedia, almeno così come la presenta Abbondanza, ha qualche tratto di (involontaria) comicità. In effetti, della storia si occuparono sia il teatro tragico, sia quello comico: risale al 1783 il dramma Anna Erizio di Vincenzo Antonio Formaleoni, 1752-1797, personaggio oggi dimenticato dai più, ma che meriterebbe maggiore interesse, per la sua biografia al limite del romanzesco. Già nel 1773, dieci anni prima, Angelo Maria Barbaro aveva invece scritto un testo parodico, Maometto in Negroponte, ovvero sia Anna Erizzo, che Cicogna, dal quale discendono tutte queste informazioni, giudica divertente ma immorale (in effetti, messo in scena solo nel tardo XX secolo, il testo ha dell’improponibile: basti dire che Anna si vendica di Maometto castrandolo, e che Erizzo e Balbo, sul punto di essere impalati, fanno battutacce da caserma sulla sorte che li aspetta).
Passata la moda del revival nostalgico delle antiche glorie di Venezia – che dalla fine del secolo ha perso autonomia e libertà e ha ora ben altro cui pensare – scompare di nuovo anche la vicenda di Paolo e Anna Erizzo. Del resto, sul finire del XVIII secolo l’immagine dei Turchi è cambiata: essi vengono visti, come un po’ tutti gli orientali, ora come nemici crudeli e implacabili, ma allo stesso tempo anche savi e capaci di atti generosi (si pensi al Selim Bassà [Pascià] del mozartiano Ratto dal serraglio, 1782); ora come figure da ridicolizzare, ingenui stupidotti destinati a immediata sconfitta e derisione ogni qual volta pensino di confrontarsi con la superiore abilità degli Europei (si pensi al Mustafà della rossiniana Italiana in Algeri, 1813, o al Selim del Turco in Italia, pure di Gioachino Rossini, 1814). Ho portato tre esempi musicali, ma i casi si potrebbero facilmente moltiplicare guardando alla letteratura e al teatro di prosa. E’ però proprio la musica che in questi stessi anni, a cavallo fra i due secoli, fa della “turcheria” un vero sottogenere; mentre nei palazzi mitteleuropei le turcherie vanno a gara con le cineserie e le altre decorazioni di (presunta) origine orientale, nell’abbellire stanze e saloni principeschi. Le cose cambiano drasticamente alla fine del secondo decennio del secolo diciannovesimo. Due le cause evidenti: dal congresso di Vienna in avanti, per tutta Europa, si diffondono le società e le azioni (e le pubblicazioni) filelleniche, ossia di quel movimento volto a dare voce alla causa greca, e a presentare i Turchi, padroni assoluti della penisola ellenica, come tiranni e invasori. L’attualità politica viene in aiuto: basti pensare a una vicenda come quella di Parga, una cittadina epirota sulla quale gli Inglesi estendevano un loro protettorato (la città era stata un possesso veneziano, finito alla Francia dopo Campoformio e all’Inghilterra alla fine delle guerre napoleoniche). Nel 1819 gli Inglesi cedettero Parga agli Ottomani; la popolazione, in larga misura greca e veneziana, fu perciò costretta a lasciare le proprie case. A Londra, Ugo Foscolo scrisse sul tema un articolo di fuoco (On Parga, “Edinburgh Review” del 1819), che spinse il Parlamento britannico a un dibattito sulla scelta compiuta; a Parigi, Andrea Mustoxidi pubblicò, in forma anonima, l’importante Exposé des faits qui ont accompagné et suivi la cession de Parga. Negli anni successivi, sull’avvenimento intervennero anche Giovanni Berchet e (nel 1831, a vicenda ormai terminata) Francesco Hayez, con il dipinto oggi alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia. Nel 1819 si ebbero i primi tentativi di insurrezione armata in Grecia; nel 1821 iniziò, a partire proprio dall’Epiro, la vera guerra di liberazione. Figure come Giovanni Antonio Capodistria, 1776-1831, e Alessandro Ypsilanti, o società come la Φιλική Εταιρεία, fondata a Odessa nel 1814, molto si diedero da fare per difendere l’immagine di una Grecia invasa e martoriata dai Turchi. Uomini come George Byron o Santorre di Santa Rosa sacrificarono la loro vita per combattere al fianco degli insorti.
Anche Anna e Paolo Erizzo diedero il loro piccolo contributo alla rinata causa greca: all’inizio del 1820 il conte napoletano Cesare della Valle, duca di Ventignano, 1776-1860, compose una tragedia intitolata Anna Erizo, nella quale veniva recuperata la trama narrata da Abbondanza e Formaleoni. Della Valle è un personaggio tipico di una certa cultura del tempo: nobile, istruito, accolto a corte, ma senza ruoli di prestigio, pratica molti generi letterari. Nella commedia tratta temi contemporanei, sul modello di quanto viene da Parigi (L’ambizioso, Dopo ventisette anni, Una scommessa fatta a Milano e vinta a Verona, Le dolcezze del matrimonio, Il seccatore sono alcuni dei suoi titoli). Nel teatro tragico è molto più conservatore: Ippolito, Ifigenia, Medea, Romeo e Giulietta sono i diretti antecedenti della Anna Erizo. Anche in poesia si nota una patina fortemente classicheggiante: il poema Il Vesuvio, del 1810, è una sorta di rifacimento/adattamento dell’Aetna pseudo-virgiliano; Lalage nello studio del Canova, del 1814, è una composizione ecfrastica, che loda Canova attraverso alcune delle sue sculture. Anna Erizo rappresenta, in certa misura, un uovo fuori dal cesto della sua restante produzione “alta”, dovuto, io credo, alla volontà più o meno inconscia di sfruttare le vicende contemporanee, recuperando una “leggenda nera”, come l’abbiamo chiamata, in cui il Turco oppressore e crudele si contrappone alla nobile coppia europea, costituita da Paolo e Anna; ma questa, pur sconfitta e morente, appare come la vincitrice morale dello scontro fra culture contrapposte.
L’opera di Della Valle (anch’essa recuperabile online) non merita molta attenzione; ma a dicembre del 1820, sempre a Napoli, andò in scena il Maometto II di Rossini, che invece è, per struttura e arditezza musicale, un autentico capolavoro. Autore del libretto era lo stesso Della Valle, non senza molti interventi del musicista. Regista dell’intera operazione dovette però essere, con ogni probabilità, l’astuto impresario Domenico Barbaja, che all’epoca guidava il San Carlo (e non solo); aveva portato Rossini a Napoli fin dal 1815; gli aveva lasciato ampia possibilità di sperimentare; aveva radunato una compagnia quasi fissa di artisti di primissimo ordine. Barbaja era un uomo con un senso del teatro fortissimo, che sapeva come fare a raccogliere il consenso del pubblico. E in effetti, se guardiamo alle opere di Rossini del periodo napoletano, Maometto II, con il suo tema non classico e non biblico, rappresenta se non proprio un’eccezione assoluta, quanto meno una rarità. Il suo legame con l’attualità politica è insolito; il dramma ha una struttura che fuoriesce dagli schemi del tempo; la derivazione da una tragedia di pochi mesi prima non ha eguale (l’altra opera in certa misura assimilabile, l’Elisabetta regina d’Inghilterra, 1815, deriva da un drammone del Settecento). Ecco dunque la trama dei due atti dell’opera. Atto primo: Maometto minaccia di distruggere il Negroponte se non verranno aperte le porte al suo esercito. Il giovane Calbo esorta il governatore Paolo Erisso a resistere e combattere. La figlia di Erisso, Anna, è destinata in sposa a Calbo, ma rivela di essere innamorata di un giovane, Uberto di Mitilene, conosciuto casualmente alcuni mesi prima. Risuonano i cannoni che annunciano l’entrata dei Turchi in città. Anna, Calbo ed Erisso vengono catturati, gli altri si salvano sulla rocca. Entra in scena Maometto, che si rivela essere Uberto, e propone la salvezza a Paolo in cambio della figlia; al rifiuto, condanna tutti a morte. Anna lo prega di salvare il padre e Calbo, che spaccia per suo fratello. Maometto propone ad Anna di sposarlo, ed Erisso ripudia la figlia. Atto secondo: i Veneziani hanno respinto l’attacco alla rocca, e i Turchi retrocedono. Maometto si reca al campo donando ad Anna un anello, che le garantirà salvezza. Erisso e Calbo riescono a fuggire e si rifugiano nei sotterranei del tempio. Anna li raggiunge e impone loro di salvarsi, facendo avere loro l’anello e abiti musulmani; poi chiede al padre di unirla in matrimonio a Calbo, sulla tomba della madre. Rimasta sola, viene accerchiata dai Turchi; Anna rivela a Maometto di non essere la sorella, ma la sposa di Calbo, e si pugnala tra lo sconcerto generale.
Già dal riassunto ritroviamo la leggenda ben nota e i personaggi che ormai conosciamo, magari con i cognomi trasformati ora in nomi (Alvise Calbo diventa così il giovane Calbo, affidato secondo consuetudine del tempo a voce femminile di contralto, Adelaide Chamel, alias Comelli; Giovanni Condulmiero è risolto nel semplice Condulmiero, luogotenente e confidente di Paolo, ecc.). La trama non potrebbe essere più operistica di così: la giovane è contesa fra il padre e fra l’amante, da cui però l’allontana la situazione storica e politica – restando a Rossini, è il nodo cruciale già del Tancredi, datato 1812 e derivato da Voltaire, ma non solo di quello. Anche la presenza di un genero meglio accetto al padre che all’eroina ci riporta al prototipo del Tancredi, pur dovendo riconoscere che Calbo è certo più simpatico e ‘positivo’ di Orbazzano (il suo corrispondente nell’altra opera) e che, a differenza di quello, che viene ucciso dal rivale, Calbo muore sì, ma dopo avere vinto, almeno idealmente, la contesa con Maometto. Insomma, adattamenti ci sono, ma nella sostanza l’opera è un tipico melodramma di inizio Ottocento, ravvivato (oltre che dalle geniali scelte rossiniane, ma qui il discorso non mi compete) solo dal richiamo di grande effetto a un passato che giusto in quegli anni era tornato di moda. Dalla tragedia di Della Valle (e/o dall’opera di Rossini) discendono infatti una Anna Erizio, tragedia di Giuseppe Vedeghe, del 1830; e un’altra Anna Erizio di Giovanni Francesco Gambara, edita a Brescia nel 1832. Nel campo musicale, ricordiamo ancora una Anna Erizzo andata in scena a Palermo nel 1851, musica di Paolo Fodale, libretto di Pietro Bozzo. Ignoro i suoi rapporti con il titolo di Della Valle e Rossini: nell’elenco dei personaggi scompare Condulmiero e si raddoppia il Selim confidente di Maometto, che ora dà spazio a un Omar e un Osmanno, “duci musulmani”. Altro non saprei però dirne.
E’ più interessante seguire le vicende dell’opera rossiniana. Alla prima, pare, non piacque troppo, ma poi girò abbastanza. Degna di nota è l’edizione di Venezia, del 1823: forse perché a Venezia la vicenda toccava un tasto dolente, forse perché l’attualità politica registrava un clima mutato (i Turchi cominciavano a subire le prime sconfitte), fatto sta che il finale venne ora mutato, aggiungendo un assai improbabile arrivo in extremis di Calbo e Paolo che liberano Anna accerchiata e costringono Maometto alla ritirata. A teatro, si sa, è possibile di tutto! E del resto Rossini non si spese molto per questa riedizione, tant’è che il nuovo finale fu quasi interamente costruito sfruttando musica derivata da precedenti suoi melodrammi. Nel 1826 a Lisbona il Maometto II tornò in scena con il finale originario, assai più convincente (e coinvolgente). Ma proprio il 1826 segna l’ultima tappa della nostra storia. A quella data Rossini ha rescisso da tempo il contratto con Barbaja e Napoli, dopo la Zelmira del 1822 (opera di ambientazione classica: gli empiti attualizzanti si sono infatti esauriti presto). A Venezia ha presentato l’ultimo suo capolavoro italiano, Semiramide (1823); dal novembre di quell’anno si è trasferito a Parigi, con un compito essenzialmente organizzativo, “directeur de la musique et de la scène” del Théâtre royal italien (all’inizio, in condirezione con Ferdinando Paër, poi del tutto da solo). A Parigi Rossini aveva debuttato con un’opera di interesse encomiastico, il Viaggio a Reims, farsa capolavoro che celebra però un avvenimento storico preciso, l’incoronazione di Carlo X a re di Francia, avvenuta nel 1825. Ne conseguì che l’opera, passato l’avvenimento che celebrava, fu tolta dalle scene dopo solo tre repliche (tornerà in repertorio, creando furore, solo negli anni Ottanta del secolo scorso). Nel 1826 Rossini venne perciò chiamato a comporre, finalmente, qualcosa di più sostanzioso, che giustificasse la sua venuta a Parigi e il contratto, assai lucroso, con il quale era stato attirato nella capitale francese. Nasce così Le siège de Corinthe, rifacimento francese del Maometto II. Questa volta non si trattava solo di aggiungere un finale posticcio, e poco altro. Il dramma venne riscritto, in francese, da Giuseppe Luigi Balocchi, 1766-1832, cui si doveva già il libretto del Viaggio a Reims, e da Alexandre Soumet, 1788-1845, un affermato drammaturgo dell’Académie française, autore di tragedie intitolate Clytemnestre (1822), Saül (1822), Cléopâtre (1824), anche se il suo colpo migliore, Norma, ou L’infanticide (1830), a quella data era ancora di là dal venire. Non cambia solo questo, naturalmente: vengono mutati i nomi, visto che a Parigi i personaggi della Venezia quattrocentesca poco avrebbero detto. Anna divenne così Pamyra; Calbo (affidato ora a un tenore, e non più a una voce femminile: nel caso, il celebre Adolphe Nourrit) si chiamò Néoclès; Paolo si trasformò nell’un po’ ridicolo Cléomène, un nome che però gli garantiva uno status da personaggio di tragedia greca; Condulmiero si fece Hiéros, e fedele al proprio nome assunse tratti più sacerdotali. I due atti diventarono tre, grazie alla facile divisione dell’originario atto secondo in due; all’inizio del nuovo secondo atto venne aggiunto un improbabile intermezzo ballettistico, secondo gli usi di Parigi; vari pezzi cambiarono di posizione. Ma, soprattutto, la scena si spostò dall’Eubea a Corinto. Perché Corinto? Non c’è una vera risposta. Corinto, come indica la nostra foto di copertina, si presta perfettamente all’idea di una cittadella isolata, che grazie alla propria posizione può resistere a un lungo assedio. La città ha un passato illustre e glorioso, nel 1822 era stata liberata, non senza spargimento di sangue, dal giogo turco, peraltro reimposto poco dopo, con la riconquista del Peloponneso da parte degli Ottomani nel 1825. L’idea di un lungo assedio e di assalti ripetuti per terra e per mare, che accomuna la Corinto di Balocchi e Soumier alla Negroponte di Della Valle, ricorda però soprattutto il destino di un’altra città greca, presa d’assalto dai Turchi nel 1822, all’inizio della guerra di liberazione; riassediata nel 1823; e poi, di nuovo, nel 1825; infine, costretta a capitolare all’inizio del 1826, anche se gli estremi difensori, piuttosto che cadere in mano turca, preferirono fare saltare la fortezza e morire così in massa. Mi riferisco a quella Missolungi che, all’estremo opposto del golfo di Corinto (sul lato acarnano del golfo stesso), nell’immaginario ottocentesco era divenuto un simbolo della cultura romantica fondata sulla classicità e sui valori patriottici di una possibile nuova Europa, unita nella lotta e nella difesa del proprio passato. Sarà un caso? Bisognosi di presentarsi a Parigi con un testo forte, Rossini e i suoi collaboratori tornarono a riproporre con qualche necessario adattamento un’operazione già perfettamente riuscita pochi anni prima a Napoli, e nella quale idealismo sentimentale, sapiente marketing, perfetto timing politico-propagandistico si fondevano tra loro, nel nome della libertà della Grecia e del debito che tutta Europa ha contratto con essa. Il Negroponte si fece così Corinto; e la cultura europea acquisì due capolavori al posto di uno.
© Massimo Gioseffi, 2021