1 – Sir Arthur Conan Doyle, in una delle avventure di Sherlock Holmes, immagina il suo detective impegnato a togliere dai guai il giovane John Hector McFarlane, accusato dell’omicidio di Jonas Oldacre, costruttore di Lower Norwood. Nel finale dell’avventura, una volta dato un falso allarme di incendio, si spalanca una porta “in quella che sembrava una solida parete in muratura all’estremità del corridoio“, e da essa sbuca “un ometto rugoso, come un coniglio nella sua tana” (p. 48). Il costruttore scomparso e dato per morto era infatti vivo e vegeto, e si era ritirato in un piccolo rifugio, ricavato, molto opportunamente, proprio sotto le gronde: “A sei piedi dall’estremità del corridoio era stato eretto un divisorio di compensato e cemento, nel quale era abilmente dissimulata una porta. Il locale così ottenuto era rischiarato da fessure sotto le tegole. All’interno, c’erano pochi mobili sparsi e una scorta di acqua e viveri” (cfr. L’avventura del costruttore di Norwood, in Il ritorno di Sherlock Holmes, traduzione di N. Rosati Bizzotto, Milano 1991, pp. 31-51). Oldacre, cioè, si era edificato il suo piccolo rifugio nascosto, allo scopo di farsi credere morto e di mandare alla forca un innocente: intendeva infatti vendicarsi di essere stato respinto molti anni prima dalla madre di McFarlane, e voleva liberarsi dai creditori; progettava, inoltre, di ricomparire in un luogo lontano da Norwood, con un altro nome e un’altra identità.
La stanzetta ricavata sotto le gronde, paradossale “tomba per un vivo” che doveva “rinascere” sotto altro nome, evoca, con strana analogia, una notizia conservata da una glossa di Fulgenzio: [Quid sint suggrundaria]. Priori tempore suggrundaria antiqui dicebant sepulchra infantium, qui necdum quadraginta dies implessent, quia nec busta dici poterant, quia ossa quae comburerentur non erant, nec tanta inmanitas cadaveris quae locum tumisceret (Expos. serm. ant. 7 Pizzani). Il dato presenta alcune difficoltà, prima di tutto perché la forma grunda è un hapax presente solo in un glossario (Gloss. II Philox. Graec. 92). I suggrundaria sarebbero state le “tombe sotto la grondaia”: ciò sarebbe in linea con l’abitudine di murare in apposite nicchie, entro il perimetro dell’abitazione o nelle vicinanze, i bambini morti in tenerissima età, dopo pochi giorni di vita. Che nelle suggrundae venissero posti i bambini morti entro i 40 giorni, prima di mettere i denti, è notizia ricavabile anche da Plinio il Vecchio (nat. 7, 15, confortato da Iuv. 15, 39), per il quale non si usava porre sul rogo cadaveri tanto piccoli da non avere dentatura: hominem priusquam genito dente cremari mos gentium non erat.
2 – Un tale uso è attestato sino alla metà del VII sec. a.C. da scavi archeologici di resti di capanne, sia a Roma (sul Palatino e nella zona del Foro) che a Lavinio, su una prominenza nella parte nord-est del pianoro, e ad Ardea, nella località nota come Colle della Noce. Non solo: sappiamo che una simile forma di sepoltura per bambini morti in tenerissima età proseguì per tutto il Medioevo e oltre. Infatti, erano diffusi i cosiddetti santuari à répit, frequentati da quanti avessero perso un infante prima del Battesimo, una mancanza che, secondo le credenze del tempo, relegava per l’eternità l’anima del bambino nel Limbo. Era però convinzione che in alcuni santuari fosse miracolosamente possibile, per il piccolo cadavere, dare nuovamente segni di vita, e, dopo essere tornato per un attimo a respirare (da qui il nome dei santuari, à répit, letteralmente “a respiro”), venire battezzato e seppellito con tutti i conforti della religione. In caso contrario, il piccolo finiva inumato nelle gronde o in altre adiacenze al vero e proprio luogo sacro (F. Mattioli Carcano). Alcuni celebri santuari di questo tipo si trovano ad Aviot (Belgio); Overburen (Svizzera), in cui, sotto il pavimento della navata, furono ritrovati i resti di oltre 550 infanti; Blandy Les Tours, (Île de France), dove nei secoli X-XII, in una cappella successivamente dedicata a San Maurizio, vennero posizionati, presso il fonte battesimale, lungo la navata o nel sotto-gronda, circa settanta corpi, identificati come appartenenti a bambini dagli 8/9 sino ai 30 mesi, o a feti di poche settimane. Anche in Val Camonica era diffuso quest’uso, benché la gerarchia ecclesiastica cercasse di arginarlo (M. Pennacchio). Interessante è poi il caso, in Umbria, a Panicale (PG) del Santuario della Madonna delle Grondici, costruito a fine XIV secolo in onore della Madonna delle Grazie, e che ancora oggi porta il titolo di Santuario della Famiglia e della Vita nascente (www.madonnadellegrondici.it). Il termine “Grondici” sembra proprio riallacciarsi all’etimologia di grunda e al suo uso così come ci è tramandato da Fulgenzio.
3 – Ma, se si mantenesse in questa direzione, il nostro discorso si inerpicherebbe lungo la via di un’indagine storico-archeologica. Torniamo invece alle testimonianze storiche antiche, anzi, a uno dei più antichi storici romani, Cassio Emina (II sec. a.C.). Il frg. 14 Santini [11 Peter² = 14 Chassignet] così dice: Hinc [scil. “a verbo grundire”] quoque Grundiles Lares dictos accepimus, quos Romulus constituisse dicitur in honorem scrofae quae triginta pepererat. Haec ita esse hoc modo adfirmat Cassius Hemina in secundo Historiarum: pastorum vulgus sine contentione consentiendo praefecerunt aequaliter imperio Remum et Romulum, ita ut de regno pararent inter se. Monstrum fit, sus parit porcos triginta, cuius rei fanum fecerunt Grundilibus.
Balza subito agli occhi che il nome di Remo viene anteposto a quello di Romolo; inoltre, i rapporti fra i due vengono presentati in modo pacifico. Subito dopo, si trova l’accenno al monstrum cui si deve l’istituzione dei Lares Grundiles, apparentemente senza un connettivo che lo leghi alla prima parte del frammento. I Lares evocati sono messi in correlazione non con le grundae, ma con i grugniti del maiali. Il racconto sembra inserirsi non tanto nel tema tradizionale dell’animale-guida che, fermandosi, indica il luogo di una nuova fondazione, ma va, invece, nel senso di una divisione del potere regale fra Romolo e Remo, e di una fondazione collaborativa del fanum dei Lares Grundiles da parte dei gemelli. Quanto al rapporto fra i due, il frammento di Cassio Emina fa balenare che i pastori, in origine, si riunissero in un’assemblea. Il potere, pertanto, venne conferito a Romolo e Remo (ita ut de regno pararent inter se), invitati poi a decidere tra loro. L’Origo gentis Romanae ci parla della fase successiva: cum inter se Romulus ac Remus de condenda urbe tractarent in qua ipsi pariter regnarent (23, 1): il pariter della Origo corrisponde all’aequaliter di Cassio Emina. Che il rapporto fra i due gemelli resti armonioso è un dato proprio di quella che potremmo definire una versione minoritaria del racconto mitico; invece, a detta di Plutarco e di Dionigi di Alicarnasso (Plut. Rom. 9, 4; Dion. Hal. Ant. Rom. 1, 85, 4-5), rivalità e discordie sarebbero iniziate presto. Due sono gli episodi salienti nella tradizione: la competizione dei presagi e la morte di Remo. In entrambi i casi, si riscontra un grande numero di versioni.
4 – Ennio racconta la competizione dei presagi in ann. 1, 72-77 Sk. = 77-82 Vahl.² (= frg. 51 Traglia). Remora, nome che Remo avrebbe voluto dare alla città da lui fondata, è un indizio importante, perché testimonia la connessione del nome Remus con remorari, “ritardare”. Celerità e lentezza sono concetti concorrenti nel racconto delle origini: per esempio, Wiseman, nel suo studio degli anni Novanta, ricondusse il racconto a un’interpretazione in chiave non tanto di storia delle religioni, ma piuttosto politica, del mito dei due gemelli, legato alla conquista progressiva del potere da parte dei plebei. Se, infatti, un doppio fondatore per un’istituzione unitaria sembra una contraddizione intrinseca, la leggenda di Romolo e Remo si formerebbe a partire dalla metà alla fine del IV secolo a.C. come riflesso, calato nelle lontane origini della comunità, di quelle controversie politiche che agitarono Roma, con particolare riferimento al periodo fra 367 e 342 a.C., quando anche per i plebei divenne possibile accedere al consolato. Circa la disputa fra i gemelli, Dionigi, Plutarco e l’Origo Gentis Romanae affermano che essa riguardava non soltanto il nome da dare alla città, ma anche il luogo dove fondarla: Romolo la voleva sul Palatino, Remo in un luogo chiamato Remoria (secondo Dionigi), Remorion (secondo Plutarco) o Remuria (Origo Gentis Romanae), identificato ora con l’Aventino, ora con un colle accanto al fiume, “a circa trenta stadi da Roma” (Dionigi), oppure a “cinque miglia dal Palatino” (Origo Gentis Romanae).
Quanto alla vittoria, il passo di Ennio, sebbene lacunoso, pare indicare che, dopo il calar della luna, un solo uccello fosse apparso a Remo sulla sinistra, il lato propizio secondo l’aruspicina etrusca e romana. Anche altre versioni della storia affermano che Remo vide per primo gli uccelli, ma in numero di sei, di contro ai dodici di Romolo, cosicché gli auguri attribuirono la vittoria a quest’ultimo. L’Origo Gentis Romanae, 23, 2-4, racconta che, quando Remo riferisce al gemello di aver avvistato sei avvoltoi, Romolo gli risponde che gliene mostrerà subito dodici, ed essi appaiono prontamente, accompagnati da tuoni e lampi mandati da Giove. Di fronte a tanti e tali segni della predilezione divina, Remo rinuncia senza contestazioni. Si tratta di una profezia sorprendente, in cui la lentezza di Remo viene battuta dalla fretta di Romolo: la lentezza contrapposta alla velocità, come dicevamo, è uno dei nuclei tematici fondamentali del racconto mitico.
5 – Certo è che la successiva tappa della storia, l’uccisione di Remo, diventa particolarmente imbarazzante, tanto che una versione, quella di Licinio Macro, di marca razionalista, risalente al 70 a.C. e confluita poi in Livio 1, 7, 2, lasciava l’uccisore di Remo senza identità, affermando come la contesa per gli auspici avesse provocato una lotta generale e confusa. Nel tumulto, Remo era rimasto ucciso: l’accento qui cade più sul clima di contrasto che interessa tutta la folla, che sulla gelosia e sulla rivalità individuali. Su questa via, la razionalizzazione più macroscopica si ha nel De re publica di Cicerone, (2, 4; cfr. anche Vell. 1, 8, 4), che cita Remo una sola volta, a proposito della fabula dell’abbandono e del salvataggio dei gemelli, attribuendo sempre e solo a Romolo il comando dei pastori, l’attacco ad Alba Longa e l’uccisione di Amulio. Subito dopo, Cicerone afferma che, una volta ottenuto tale onore, Romolo avrebbe progettato la fondazione di una città sotto auspici propizi e la costituzione di una res publica. Quindi, Cicerone cambia radicalmente argomento, lanciandosi in una digressione sui pregi del luogo scelto dal fondatore e sulla disposizione delle mura della città; poi, troviamo una breve allusione alla fondazione, considerata oramai un fait accompli (rep. 2, 5-12). Sul fratricidio, in effetti, Cicerone glissa elegantemente, ma non perché intenda seguire una versione che parli di una morte accidentale di Remo. Al contrario, egli sembra ben consapevole che di fratricidio si trattò, come rivela un passo del De officiis (3, 41).
6 – Eppure, nonostante le numerose versioni accumulatesi riguardo alla storia di Romolo e Remo, anzi, di Remo e Romolo, come dice Emina, va sottolineato che le parole di Cicerone (cui cum visum esset utilius solum quam cum altero regnaret), esattamente come quelle dell’annalista, sembrano avere senso soltanto se i gemelli avessero regnato insieme per un certo periodo, prima della morte di Remo. Esattamente come Liv. 1, 13, 4-14, 3 allude a un regno congiunto di Romolo e Tito Tazio, anche in questa fase si profilerebbe un caso di diarchia. E non è nemmeno da escludersi che l’allusione al regno simultaneo di Remo e Romolo sia una prefigurazione abbastanza trasparente del consolato. Cassio Emina, con la sua forma mentis eziologica, riferì il prodigio della scrofa con trenta porcellini non al tempo di Enea, ma a quello di Romolo e Remo. È interessante notare come un fatto in altri ambiti e in altri autori riferito alla vita di Enea, venga attribuito a quella di Romolo e Remo, coerentemente con quel fenomeno che si potrebbe definire “romulizzazione”, che è peculiare dell’annalistica tardo-repubblicana e funzionale ad accrescere la reverenza per istituzioni e riti, se riferiti alla figura del fondatore e al passato più remoto della città. La “romulizzazione” si coagula attorno a tre figure, che polarizzano l’attenzione: non solo quella del fondatore, Romolo, ma anche Numa e Servio Tullio. Ma, nel passaggio da II a I sec. a.C., è Romolo a diventare assoluto protagonista di questo fenomeno
7 – In epoca molto successiva, del resto, una forma di diarchia è ravvisabile anche nell’azione di governo di Augusto e Agrippa. Ricordiamo, nell’Eneide, la grande profezia di Giove a Venere sul destino dei discendenti di Enea (Aen. 1, 291 ss.), laddove si dice che Remo cum fratre Quirinus iura dabunt (vv. 292-293): Quirino, Romolo divinizzato, è identificabile come Augusto, che rifiutò però di portare il nome di Romolo (Suet. Aug. 7). Remo, presentato come vivo e regnante con il fratello, è forse identificabile con Agrippa, uomo di umili natali (cfr. Servio, ad Verg. Aen. I 292). E se Romolo e Remo crebbero nella modesta capanna di Faustolo, fu proprio nella casa di Augusto che Agrippa andò a vivere dopo il 25 a.C., dato che la sua dimora era stata distrutta da un incendio (Cassio Dione 53, 27, 5). Agrippa, è addirittura chiamato dal princeps “collega“ (Res Gestae, 8, 2, anche se propriamente il termine è qui riferito al censimento). L’assassinio del gemello, consegnato dalla tradizione, diventa presto un problema non da poco; e diventerà ancora più serio in età augustea. Poi, negli anni in cui si prepara la non semplice transizione da Augusto a Tiberio, il discorso imperiale si focalizza sul tema della Concordia, al punto tale che, nel racconto della “più antica storia di Roma” di Ovidio, met. 14, 772-804, viene cancellata la figura di Remo, eliminando così la problematica del fratricidio, tanto presente nei Fasti. Come a dire: nessuna maggiore garanzia di concordia che essere figli unici!
Dunque, se Augusto è prefigurato da Romolo, o meglio, se Romolo prefigura Augusto, è evidente che il fondatore non può avere ostentato atteggiamenti tirannici, né avere commesso un fratricidio. Sempre Ovidio, in fast. 4, 849-856, a proposito dei Parilia, fece propria una versione che potremmo definire elegantemente discolpatoria: Romolo piange disperato davanti alla pira di Remo, rendendogli i dovuti onori funebri, insieme a Faustolo e ad Acca Larentia. Quella notte lo spirito di Remo appare a Faustolo e alla moglie, chiedendo loro di persuadere Romolo a tributargli un giorno commemorativo, che diventerà noto con il nome di Remuria, celebrato il 9 maggio e dedicato agli avi sepolti, esattamente in coincidenza dei Lemuria, quando i Romani celebravano i Lemures, nel mese di Mercurio, tra la festa dei Lares Praestites, che cadeva nel giorno delle Calende e la festa di Hermes-Mercurio nel giorno delle Idi.
8 – Tornando a Cassio Emina, e alla prima parte del frg. 14 Santini (il parto miracoloso della scrofa), secondo M. Chassignet, collocarlo alle origini di Roma invece che all’inizio della leggenda albana, il cui eroe era, appunto, Enea riflette, con tutta probabilità, la volontà di trasferire a Roma, e non attribuire più ad Alba Longa, questo simbolo della supremazia sul Latium. Sarebbe tuttavia sorprendente che uno storico tanto attento alle istituzioni arcaiche e alle leggende di fondazione come Cassio Emina non avesse tenuto conto di tale tradizione: Varrone (R. R. 2, 17-18) afferma che esistevano addirittura degli ex voto e le reliquie del corpo dell’animale. Schilling arrivò perciò a ipotizzare una duplicazione di tale evento eccezionale, nel senso che la tradizione collocherebbe – ed Emina sarebbe al corrente di ciò – il portentum a Lavinio, o all’arrivo di Enea nel Lazio. Già in Emina troveremo una decisa perdita del significato originale del racconto, conseguenza del rovesciamento nell’ordine delle priorità Lavinio-Roma. Per usare le parole di Schilling «L’omen des trente porcelets, quelle que soit son interprétation, ne s’inscrit en effet que dans la perspective d’une proliferation à partire de la cité de Lavinium». Gli unici autori – Cassio Emina e successivamente Nonio Marcello (p. 164 L., che adotta per il nome di queste divinità, Lares Grundules, il vocalismo in –u-) – che paiono discostarsi dalla tradizione relativa a Lavinio, menzionando un culto romano di questi Lari Grundili, sembrano non opporsi, ma apportare, al contrario, un elemento complementare: la trasposizione a Roma di un culto originario di Lavinio, alla maniera del culto dei Penati, che esisteva in entrambe le città. Il fanum dei Lares Grundiles, segnalato a Roma da Emina, si potrebbe spiegare come probabile trasposizione a Roma di un altro culto originario di Lavinio. Se poi guardiamo le due parti del frammento di Cassio, apparentemente slegate fra loro, sembra che il prodigio, che allude ai concetti di abbondanza e proliferazione, e senza che la scrofa e i lattonzoli vengano sacrificati – come invece accade, ad esempio, in Virgilio, Aen. 8, 84-85 – rimandi positivamente al momento in cui si fissa il regnum di Roma e il suo governo, che deve essere garante e custode di abbondanza e prosperità. Ed è interessante notare come le divinità dei Lares praestites, custodi di Roma, vengano identificate nelle figure di bambini allattati da una lupa in uno specchio proveniente da Preneste, databile al 340 a.C. circa. I Lares praestites sono i figli gemelli di Lara o Lala, la ninfa troppo loquace che aveva consigliato alla sorella Giuturna di rifuggire dalle profferte amorose di Giove, il quale, quindi, le strappò la lingua, relegandola agli Inferi. Avrebbe dovuto guidarla verso di essi Mercurio, che, però, si invaghì di lei, secondo quel che narra Ovidio in fast. 2, 583-616 e la violentò lungo il cammino. Per quanto riguarda il culto derivato da questo monstrum del parto della scrofa, la mentalità eziologico-razionalista di Emina trapela dalla conclusione del frammento, laddove si parla dell’edificazione del fanum ai Lares Grundiles, identificati come “Lari che grugniscono”, da grunnire. Ma sicuramente, al di là di questo dato archeologico, e al di là della difficoltà linguistica del legame grunda/grundiles, collegare la voce grunda alla prima interpretazione da noi esaminata, vuole dire ribadire l’importanza della compattezza del gruppo familiare, anche dopo la morte di uno dei componenti, e i suoi diritti sul suolo occupato dalla casa. In altre parole, questa interpretazione sottolineava lo stretto rapporto dei Lares Familiares con la dimora, che trova nella gronda (grunda) la sua estrema demarcazione.
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– T. P. Wiseman, Remo: un mito di Roma, trad. di E. Ercolini, Roma 1999.
© Silvia Stucchi, 2018
Un ringraziamento particolare al prof. Carlo Santini per i preziosi suggerimenti e spunti offerti
Cercavo proprio in questi giorni di districarmi tra le feste del calendario romano e il loro significato… grazie per l’acuta (non elementare) investigazione!
Grazie per l’apprezzamento, benche’ammetta che vorrei dedicare alle festivita’-ad alcune di esse, almeno-un contributo specifico.