Non ha goduto della meritata celebrità la bella pubblicazione curata da Roberta Piastri del De Redemptione Italica di Giovanni Faldella (Edizioni Mercurio, 2 voll., Vercelli 2011). Diciamo subito: Faldella, esponente ben noto della Scapigliatura Piemontese, negli anni che vanno dal 1915 al 1927 scrisse una storia del Risorgimento italiano, dal rientro di Vittorio Emanuele I a Torino (1814) all’annessione di Roma al Regno (1870). La scrisse in latino, giustificando variamente la sua scelta. Il latino nobilita e dà valore di epos all’impresa risorgimentale; il latino è sentito come lingua eterna, in grado di trasmettere il racconto al di là dei confini geografici e cronologici. Con uguale procedimento, in ambito diverso, ma non intenti davvero differenti, sappiamo oggi che sotto l’obelisco del Foro Romano venne sepolta, quasi come un messaggio in bottiglia da lasciare ai posteri, un’enfatica esaltazione del fascismo e del duce. Il latino, per la sua valenza storica, è stato caricato anche di questi segni!
Sull’argomento riferisce ampiamente il dotto lavoro di Roberta Piastri, che pubblica il lungo testo latino, lo traduce, lo introduce, lo annota. Nel complesso, si tratta di due volumi di oltre 1200 pagine, ricche di spunti e di idee. Faldella era nato a Saluggia, oggi provincia di Vercelli, ma allora di Novara, nel 1846; non aveva partecipato in prima persona a nessuna delle imprese che racconta. Figlio di un medico, si era laureato in Giurisprudenza a Torino nel 1868, compiendo poi il suo praticantato nello studio di Luigi Ferraris, allora ministro nel governo Menabrea III (di durata semestrale circa: la brevità dei governi è dunque stata sempre endemica nell’Italia moderna, e non sembra dipendere davvero dalle forme costituzionali o dalle norme elettorali), a breve destinato a divenire sindaco del capoluogo piemontese (dal 1878 al 1882). Era uomo della Destra Ferraris, era spostato a Sinistra Faldella – naturalmente, Destra e Sinistra del tempo, che poco hanno in comune con le denominazioni odierne – per cui, terminato il praticantato, Faldella tornò al paese natio, vi svolse la libera professione, si diede ben presto all’attività politica, ma a partire da lì. Dal 1872 al 1908 fu nel consiglio provinciale di Novara; meno bene gli andò la carriera a livello nazionale: candidatosi come rappresentante della Sinistra nel collegio di Crescentino nel 1876 e nel 1880, entrambe le volte venne sconfitto e non riuscì ad accedere alla Camera del Regno; vi entrò solo nel biennio 1881-1882, in sostituzione del precedente eletto, passato dalla Camera al Senato (al tempo, si diveniva senatori a vita e per nomina regia). Ricandidatosi nel 1882, Faldella fu nuovamente sconfitto, e riuscì ad arrivare a Roma solo nel 1886. Rimase come componente della Camera per dieci anni, fino al 1896, quando a sua volta venne nominato Senatore. Morì a Novara nel 1928. Il De Redemptione è solo una delle sue molteplici opere letterarie, che includono testi teatrali, romanzi, cronache e resoconti giornalistici, e altri titoli di vario genere. Il suo prodotto (oggi) forse più famoso è Figurine, riedito nel 2006 da Alessandra Ruffino per “Interlinea”. Se non il più importante, è certo il più emblematico, fin dal titolo: Faldella non è uomo da narrazioni lunghe e distese, ma è capace di scrivere taglienti e sarcastici bozzetti, brevi scene che restano nella memoria e colgono lo spirito di un carattere e/o di una situazione. Ciò si avverte anche nel De Redemptione, che è agiografico negli intenti, ma non nella conduzione. Convinto che nella Storia serio e faceto si mescolino continuamente, Faldella coglie spesso l’elemento comico di personaggi e racconti del Risorgimento. Da fedele suddito sabaudo, direi anche che esercita la sua verve in particolare contro tutti gli ‘irregolari’, ossia contro coloro che, come Mazzini o Garibaldi, pur appartenendo di diritto alle figure essenziali di quella Storia, vi parteciparono da, diciamo così, ‘esterni’ all’apparato sabaudo (o almeno, anche da esterni). Più cauto, ma comunque sempre portato a cogliere gli eventuali elementi comici, è invece il giudizio sui ministri di Stato, sulle figure della dinastia regnante, sui loro più stretti collaboratori.
Perché portare l’attenzione su questo testo? Perché penso che sia sfruttabile non solo come lettura colta, ma anche a scopi didattici. Il latino di Faldella è tendenzialmente corretto (qualche piccola svista è ravvisabile qua e là, soprattutto nell’uso dei pronomi). Non è banale, ma, naturalmente, è meno complesso di quello di un parlante nativo. Offre racconti spesso singolari, che hanno una loro compiutezza e, a scegliere opportunamente le pagine, anche una divertente piacevolezza. Faldella non pubblicò mai la propria opera, salvo brevi estratti su rivista. Le sue carte passarono, alla morte, per mani varie, approdando da ultimo alla Biblioteca Comunale di Torino, da dove la Piastri le ha tratte con lavoro encomiabile e paziente. Faldella pensava di inserire il De Redemptione in quella tradizione di epitomi di Storia Patria che aveva una lunga ascendenza, e che proprio nella Epitome Historiae Patriae di Tommaso Vallauri (1857) aveva, all’epoca, forse il risultato più alto (certo, il più noto). Faldella immaginava di continuare quella tradizione, allo stesso tempo proponendosi di ‘vivificare’ il latino con il racconto di vicende ancora relativamente recenti, da sostituire agli antichi racconti di battaglie fra popoli ormai scomparsi e quindi, a suo giudizio, poco interessanti per gli studenti del tempo. Oggi, forse, non la penseremmo così; però, mi è capitato di sentire raccontare che vengono ancora usati in classe letterature e trattati storici di inizio Novecento, per avvalersi del latino in cui sono scritti, così da fare lezione su testi ‘monolingue’: ma una letteratura e un trattato di Storia non possono essere solo forma, devono avere anche un contenuto, e le posizioni critiche di cento e passa anni fa non sono più sostenibili, nemmeno a livello estetico. Da parte sua, Faldella non offre una Storia continuativa, non pretende tanto: offre un repertorio di racconti e di temi, spesso divertenti, che nello stesso tempo mostrano con chiarezza il continuo riuso (ed abuso) dell’immaginario classico.
Quanto ho detto, si può esemplificare con un brano a sé. Siamo al capitolo 11 del libro VII. Faldella sta raccontando quella che noi chiamiamo Seconda Guerra di Indipendenza, nel 1859. Protagonista della vicenda in esame è Garibaldi: attraversato il confine fra Piemonte e Austria a Sesto Calende, all’estremo sud del Lago Maggiore, egli sconfigge gli Austriaci a Varese e poi li insegue, con i Cacciatori delle Alpi, lungo la direttrice per Como. Qui, deviando dalla strada maestra, si scontra di nuovo con loro a San Fermo (oggi San Fermo della Battaglia), alle porte del capoluogo, e ne riporta una nuova vittoria, che spinge a ulteriore ritirata l’esercito nemico. La fascia settentrionale della Lombardia diventa così territorio sabaudo, e poi, a breve, italiano. Dopo la battaglia, Garibaldi si riposa come ospite della famiglia Raimondi, marchesi con vari possedimenti nella zona e ferventi avversari del governo austriaco. In particolare, a Gironico (sulla strada fra Varese e Como, l’attuale SP 17, detta, non per nulla, “Garibaldina”), viene accolto nella villa dei nobili amici, tuttora esistente. Poco prima della battaglia di Varese, stante il racconto di Garibaldi stesso, egli aveva incontrato, in veste di ‘staffetta’ animata da entusiasmi irredentistici, la giovane marchesina Giuseppina Raimondi (1841-1918), all’epoca non ancora diciottenne. Fra i due era scoppiata una scintilla (o almeno: il fuoco è certo dalla parte di lui, meno si capisce l’atteggiamento di lei), che avrebbe portato, il 24 gennaio dell’anno dopo, a celebrare le nozze, affrettate dal fatto che la marchesina attendeva un bambino, che peraltro nascerà morto. Il giorno delle nozze avviene l’imprevisto: subito dopo la loro celebrazione, Garibaldi viene accostato da un cugino della sposa, che gli recapita una lettera anonima, dalla quale si apprende che la marchesina è stata amante anche di altri uomini, fra cui, pare, il cugino stesso e un ufficiale dell’esercito, tale Luigi Caroli. Seguono un litigio, una scenata, l’abbandono del talamo nuziale. Le nozze saranno annullate nel 1880, esattamente vent’anni più tardi, consentendo a entrambi i contraenti di risposarsi con persone diverse e regolarizzare le nuove unioni maturatesi nel frattempo (Caroli, cui fu impedito di partecipare all’impresa dei Mille, venne invece accettato nel gruppo di garibaldini che, senza Garibaldi, parteciparono all’insurrezione della Polonia contro la Russia nel 1863; catturato e relegato in Siberia, vi morì nel 1865).
Siamo fra il dramma e la farsa. Naturalmente, la dietrologia che ci è tipica non ha mancato di vedere in questo episodio un complotto contro Garibaldi, oppure la prova della dabbenaggine del medesimo, o ancora una fosca trama ordita dal cugino di lei, probabile autore della lettera anonima, al limite del peggiore melodramma. La cosa non ci interessa. Passati gli anni, e ormai morti e sepolti i protagonisti della vicenda, resta la situazione ‘boccaccesca’ e, alla fine, risibile, che vede tutti uscirne complessivamente sconfitti. Proprio per questo elemento, che è nel suo DNA narrativo, Faldella si compiace di raccontare la scena, di per sé non necessaria allo sviluppo del racconto. Eccone l’incipit:
Est marchionissa ista Raimunda. Garibaldus autem potest ei dicere: «Si me non veterum commendant magna parentum nomina, mihi ex virtute nobilitas coepit… Mihi nova nobilitas est». Florebat marchionissa suis viginti veribus. Heros quinquagenarius et ultra. At placebat iuveni heroidi ille celsus super equum, liberaturus civitatem suam vultuque ita laeto, ut vicisse iam crederes Austriam usque ad Vindobonam. Videbatur arma resurgentis portans victricia Troiae. Erant Garibaldi dulces et caerulei oculi, rutilae comae, teres corpus, magica figura et tantum ad impetum valida. Erat benevolentia singularis, conciliandaeque hominum mulierumque gratiae ac promerendi amoris mirum et efficax studium. Facile iuvenis marchionissa omnes Garibaldo tribuit corporis animique virtutes, et quantas nemini contigisse satis credebat: formam et fortitudinem egregiam, ingenium praecellens.
Questa la traduzione della Piastri: È una marchesa questa Raimondi. Garibaldi però potrebbe dirle: «Se non mi raccomandano i grandi nomi dei miei avi, ho tratto la mia nobiltà dal valore… La mia è una nobiltà recente». La marchesa era nel fiore delle sue venti primavere; l’eroe cinquantenne e oltre. Ma piaceva alla giovane eroina quello ritto sul cavallo, venuto a liberare la sua città e col volto così lieto che avresti potuto credere che avesse già sconfitto l’Austria fino a Vienna. Sembrava che portasse le armi vittoriose di una risorgente Troia. Erano dolci e celesti gli occhi di Garibaldi, rosse le chiome, ben tornito il corpo, affascinante la figura ed energica per un così grande assalto. Era di una singolare benevolenza e aveva una straordinaria ed efficace capacità di conciliarsi il favore di uomini e donne e di conquistarsi l’amore. Facilmente la giovane marchesa attribuì a Garibaldi tutte le qualità del corpo e dell’anima e quante credeva che non fossero toccate a nessun altro: una bellezza e un forza straordinarie, un’intelligenza superiore.
Proviamo ora a lavorare sopra il testo. Credo che si possano dare due livelli di lettura, uno più rivolto alla sua scomposizione e comprensione elementare, l’altro a metterne in mostra i clichés narrativi. Partiamo dal primo livello. Direi che possiamo darci questo schema: operazione iniziale deve essere distinguere la struttura del testo; per fare questo, occorre individuare i connettivi che legano le frasi (e, quindi, il pensiero), così da seguirne l’andamento complessivo; va poi valutato chi sta parlando, quali sono la voce e il punto di vista da cui si guarda all’azione narrata, facendo emergere i segnali linguistici che aiutano nella ricerca; infine, i diversi snodi in cui si è così suddivisa la struttura vanno analizzati uno per uno, alla ricerca di quei segnali linguistici e, soprattutto, lessicali, che possano risultare portatori di giudizio, anche solo implicito.
E dunque, vediamo di scomporre il testo nelle sequenze narrative:
1) Est marchionissa ista Raimunda. …… 2) Garibaldus autem potest ei dicere: «Si me non veterum commendant magna parentum nomina, mihi ex virtute nobilitas coepit… Mihi nova nobilitas est». …… 3) Florebat marchionissa suis viginti veribus. Heros quinquagenarius et ultra. …… 4) At placebat iuveni heroidi ille celsus super equum, liberaturus civitatem suam vultuque ita laeto, ut vicisse iam crederes Austriam usque ad Vindobonam. Videbatur arma resurgentis portans victricia Troiae. …… 5) Erant Garibaldi dulces et caerulei oculi, rutilae comae, teres corpus, magica figura et tantum ad impetum valida. Erat benevolentia singularis, conciliandaeque hominum mulierumque gratiae ac promerendi amoris mirum et efficax studium. ….. 6) Facile iuvenis marchionissa omnes Garibaldo tribuit corporis animique virtutes, et quantas nemini contigisse satis credebat: formam et fortitudinem egregiam, ingenium praecellens.
Torniamo ora ad analizzarle una per una:
Est marchionissa ista Raimunda. Affermazione, secca, perentoria, che serve a introdurre il personaggio e a metterne in evidenza il tratto che più la segnala, ossia il titolo nobiliare (al quale non terrà fede con il suo comportamento) – marchionissa è ovviamente termine del latino medievale e moderno; la sua collocazione a sinistra della frase (d’ora in poi, sx), accanto al verbo est, ne accentua il risalto, insinuando che questo possa essere stato un motivo di particolare attrattiva.
Garibaldus autem potest ei dicere: «Si me non veterum commendant magna parentum nomina, mihi ex virtute nobilitas coepit… Mihi nova nobilitas est». La presenza di autem indica il cambio di prospettiva, dalla marchesina a Garibaldi, non a caso dislocato a sx, all’inizio della frase. Lei è nobile per nascita ed educazione, la nobiltà (o celebrità? Il valore classico di nobilitas) di lui è recente e frutto delle sue stesse azioni (è un self-made man, per dirla in linguaggio moderno). Il latino classico però non esalta la novitas, né sociale né comportamentale e l’insistenza su nova, in gioco allitterante con nobilitas, sembra rimarcare un simile dato. A sottolineare la pomposità della vanteria del Generale, Faldella presenta infatti anche una citazione da Ovidio, Amores I 3, 7-8. Ovidio non è autore che ci si aspetta far parte dell’orizzonte di letture di Garibaldi (che infatti potest dicere, ma certo non avrà detto davvero così). Nel passo citato, il poeta si celebra come figlio di un semplice eques, che spera di fare sua la puella appena conquistata, auspicando di esserne ricambiato nella passione, ora e negli anni a venire, dal momento che lei saprà riconoscere in lui qui pura norit amare fide (il che, applicato alla situazione di Garibaldi e agli esiti che si conoscono futuri, ha tratti convenienti, ma un sottofondo di amaro sarcasmo).
Florebat marchionissa suis viginti veribus. Heros quinquagenarius et ultra. La dislocazione a sx del verbo principale sottolinea il cambio di argomento: si parla dell’età dei due ‘innamorati’, nettamente segnalata dalla contrapposizione dei numeri: venti primavere (= anni) per lei, lui è quinquagenario e oltre (Garibaldi era del 1807, lei del 1841, in realtà: qui siamo fra estate 1859 e inizio 1860). La forte differenza d’età avrebbe dovuto mettere in guardia Garibaldi, ma così non è stato.
At placebat iuveni heroidi ille celsus super equum, liberaturus civitatem suam vultuque ita laeto, ut vicisse iam crederes Austriam usque ad Vindobonam. Videbatur arma resurgentis portans victricia Troiae. L’inizio con at segnala un forte stacco da quanto precede. Qui sono elencate le virtù fisiche di Garibaldi, così come le vede la marchesina (per questo dislocata a sx, con l’ironico herois a qualificarla, femminile del precedente heros appena usato per lui: la Raimondi è impetuosa a parole e per disposizione d’animo, ma poco o nulla ha fatto per i combattimenti; lui si è conquistato nobilitas tramite la virtus, in perfetto accordo con gli stilemi classici e la definizione tradizionale di heros). L’ampliarsi delle azioni di Garibaldi è a climax e arriva fino all’iperbole derisoria: Garibaldi sembra un nobile guerriero in posa classica, alto sul cavallo, sembra avere già conquistato Como, anzi sembra avere già conquistato perfino Vienna, quando in realtà non ha conquistato ancora nemmeno Como (liberaturus, futuro di intenzionalità)!
Erant Garibaldi dulces et caerulei oculi, rutilae comae, teres corpus, magica figura et tantum ad impetum valida. Erat benevolentia singularis, conciliandaeque hominum mulierumque gratiae ac promerendi amoris mirum et efficax studium. La dislocazione a sx del verbo sottolinea di nuovo il cambio di argomento. Ora non siamo più nel punto di vista (d’ora in poi, pdv) della marchesina, ma è il narratore esterno che ci dice le qualità di Garibaldi. La ripetizione, con lieve variazione, erant…erat distingue qualità fisiche e qualità morali. Si tratta di un ritratto ideale d’eroe, secondo stereotipi e cliché già propri della retorica antica.
Facile iuvenis marchionissa omnes Garibaldo tribuit corporis animique virtutes, et quantas nemini contigisse satis credebat: formam et fortitudinem egregiam, ingenium praecellens. Il commento finale del narratore è riassunto dall’avverbio facile, che – come tutti gli avverbi e gli aggettivi qualificativi – porta in sé l’idea di un giudizio autoriale: date le premesse di prima, era ovvio che la marchesina si innamorasse o si fingesse innamorata di Garibaldi, di cui sono di nuovo riassunte le qualità, con formula tipica della retorica antica (e di nuovo distinte in doti fisiche – forma et fortitudo – e doti morali – ingenium). È un gioco della seduzione reciproca, anche se la seduzione della marchesina è, con il senno di poi, assai dubbia, e il tono della narrazione sfocia più volte nell’ironico e nell’iperbolico (l’iperbole è una delle forme riconosciute della comicità).
Se ora vogliamo tornare sul passo per metterne in evidenza gli elementi costitutivi, possiamo osservare come nel capitolo in questione, Faldella presenti il ritratto ideale di Garibaldi quale eroe che rispetta tutti gli stereotipi dell’eroismo e della kalokagathìa fissati dalla tradizione antica, greca e latina. Si tratta però di un ritratto in cui il punto di vista dell’Autore si mescola con quello (interessatissimo) della marchesina Raimondi, e nel quale certi elementi ironici – in particolare, l’uso smaccato delle iperboli e alcune scelte di vocaboli ambigui, nel diverso significato che hanno in antico e in moderno – preludono già a quell’elemento tragicomico che, come sappiamo, affiorerà con le nozze future. Garibaldi è così allo stesso tempo celebrato e messo a distanza, come succede per tutti gli altri ‘irregolari’ che pure hanno contributo all’idea risorgimentale, e che dunque Faldella non deride mai troppo apertamente, ma di cui non condivide nemmeno fino in fondo il ruolo. E’ bello, alto, biondo/rossiccio, dagli occhi azzurri, il corpo agile e forte. La sua forma prelude alla fortitudo, che è dote fisica, ma anche morale, “et est virtus animi qua labores suscipiuntur considerate et dolores constanter perferuntur” (Forcellini), un’immagine ideale del combattente, una virtus imperatoria in sommo grado (Cic. Pro lege Manilia 29), ma utilissima anche, nel suo valore figurato, agli interessi della marchesina e della situazione contingente. Dalla fortitudo si passa facilmente all’ingenium, tanto praecellens quanto quella era ingens, che è l’insieme delle doti naturali che fanno dell’uomo virtuoso un uomo virtuoso (e del babbeo un babbeo, secondo che si consideri). Garibaldi, dal canto suo, ha però una volontà di piacere, che dovette essere allettata dall’idea di essere piaciuto a una donna tanto più giovane, e nobile, e politicamente attiva e disinibita (secondo il racconto delle di lui Memorie gli si era presentata a Varese da sola, senza altra scorta che quella di un sacerdote di casa), ma che finisce per essere, in un certo senso, il suo tallone d’Achille, ciò che non lo mette in guardia dalla disparità di situazione e dai rischi che essa poteva comportare (e che, nei fatti, si dimostrerà comportare). In questo gioco delle parti si consumano insomma, da un lato gli ideali antichi, dall’altro le vanità moderne, che in nome di quegli ideali e di una loro (improbabile) riproposizione nel nuovo tempo vanno incontro a guai e disfatte. Il testo ha perciò sì una superficie leggera, ma nasconde ugualmente una drammatica verità.