Che il latino sia una lingua “difficile” da imparare è un dato di fatto: questa difficoltà la sperimenta sulla sua pelle ogni studente, e di conseguenza la sperimenta, il più delle volte, e malgré lui, chi il latino lo insegna, dato che, spesso, la prima e peggiore prova che deve superare è la necessità di sfondare il muro di gomma della resistenza mentale della classe (“Non mi piace e non lo capisco”). Sarà allora interessante scardinare per un momento la tradizionale impostazione biennio-grammatica / triennio-letteratura, per proporre qualche riflessione a partire dal segmento testuale dedicato da Petronio alle “chiacchiere dei liberti” (Sat. 41, 10-46) e allo sfogo del liberto che parla a ruota libera in Sat. 57.
Idea di base è che questi testi possano essere molto utili anche nel biennio, non solo per illustrare la tradizione del banchetto romano o per parlare della condizione dei liberti, ma per istituire un parallelismo con i nostri tempi, per invitare cioè alla riflessione fra lingua standard e lingua parlata. E’ infatti sempre bene sottolineare in classe che anche i Romani ripensavano la loro lingua, si ponevano il problema della sua comunicabilità, nonché della sua relativa “inadeguatezza” rispetto a quella greca. Scopo di queste letture petroniane non sarà solo far passare alla classe un momento di leggerezza dopo il tempo dedicato alla teoria grammaticale. L’intento è dimostrare che il latino non è “difficile” soltanto per noi, ma era tale per tutti coloro che dovevano impararlo, e che spesso, oltre duemila anni fa, si trovavano di fronte alle stesse difficoltà dello studente contemporaneo. L’importante è guidare gli studenti a una riflessione sul valore della grammatica e delle regole grammaticali. La grammatica, in fondo, è un’astrazione (perfino quella latina). L’eccezione, l’anomalia, la difformità dalla norma possono perciò essere censurate, oppure essere fatte oggetto di un apprendimento puramente mnemonico; ma altrimenti, come si propone qui, possono diventare momento di riflessione sul valore pedagogico delle deviazioni dalla forma standard, nonché sullo statuto delle lingue come entità vive e in evoluzione continua, e perciò mai completamente arginabili, pena la loro morte. Quella che noi definiamo “norma grammaticale”, in altre parole, discende – anche – da una valutazione statistica. E, visto che nelle classi abbiamo di fronte spesso ragazzi intelligenti e curiosi, dotati di senso critico e capaci di interessarsi e appassionarsi; ma visto soprattutto che, ormai, anche nel liceo (dati i nuovi percorsi di studio) il latino si studia per interesse, e lo si sceglie, è utile forse non demolire, ma quanto meno attutire il pregiudizio che separa univocamente ciò che è “errore”, da ciò che è “giusto”. Ovvero, bisogna sì spiegare la grammatica, ma smitizzare la rigidità della norma, rendendo consapevoli gli allievi che il più delle volte essa risponde solamente a un criterio frequenziale.
Soffermiamoci sulle chiacchiere dei liberti in Sat. 41, 10-46 e sulla sfuriata del liberto che si sente offeso in Sat. 57. La prima sequenza si colloca nel provvidenziale intervallo in cui Trimalchione si è allontanato per un’impellente necessità, e quindi gli invitati, liberi dalla straripante personalità dell’anfitrione, si esprimono senza troppe remore. Perutelli, nel 1985, parlava di “commedia”, e prima ancora Ciaffi, nel 1955, utilizzava la parola “intermezzo”. Ma più importante del singolare impasto di generi letterari che si riscontra in queste righe, è la loro forma, che presenta un irripetibile, e mai ripetuto, sguardo di scorcio sulla lingua dei liberti, di quei personaggi che cioè hanno imparato il latino da adulti, diremmo oggi come L2, cioè come seconda lingua, una volta giunti da schiavi nella ricca e prospera Italia, con tutte le sue opportunità di promozione sociale. Questi liberti, spesso originari della pars orientalis del Mediterraneo, come indica il loro nome (Dama, Seleuco, Ganimede, Echione ecc.), sono tutti di madrelingua greca e non hanno studiato latino alla scuola del grammaticus o del rhetor. Sono “venuti dal niente”, e li possiamo immaginare farsi strada nel mondo con furbizia e con forza, come dei self made men in tono minore, alla maniera di Trimalchione stesso. Per questo, nel parlato, utilizzano una lingua immaginosa, esplosiva, vivacissima, che procede per accumulo di immagini, proverbi, similitudini animali, hapax, a volte veri e propri errori ortografici e morfologici (verbi deponenti usati come attivi; genere maschile e neutro scambiati di continuo fra loro).
Nella loro stralunata inventiva, i liberti sono capaci di autentici colpi di genio, neo-formazioni più espressive che corrette, come il topanta che in Sat. 37 qualifica, nelle parole dell’invitato che parla ad Encolpio, Fortunata, la moglie di Trimalchione. La donna è diventata “il tuttofare” (Canali), “le bras droit” (Ernout), “the one and only” (Smith), il factotum, insomma, del marito. Topanta trova corrispondenza nel latino omnia esse (Ovidio, met. I 292 e Lucano III 108), ed è un lessema variamente interpretato: alterazione della tradizione manoscritta; prestito dal greco, distorto però nella terminazione; ripresa di Erodoto I 122; oppure, banale fraintendimento popolare (to + panta, in cui panta è trascrizione dell’accusativo maschile singolare, con un errore nel genere dell’articolo e nel caso). Sedgwick nel 1925 rimandava a CIL VI, 25861: ambula, sequaere me cum oenophoru (sc. oenophoro?), cum calice et tapantione. E Biville nel 1995 ipotizzava che la frase Trimalchionis topanta est sia esito di una nominalizzazione a partire dall’espressione greca panta einai tinì, a mezzo della sostantivazione dell’aggettivo con l’articolo singolare neutro e complemento in genitivo. Pensiamo poi a pulcherrimum bacciballum di Sat. 61, riferito all’ostessa Melissa, ricordata dal suo antico amico. L’espressione è stata tradotta come “brin de fille” (Ernout), ed equivale al nostro “un gran pezzo di ragazza”, Questo “vivace hapax onomatopeico” (M.G. Cavalca) affonda le sue radici nel realismo popolare. Il termine si spiega in rifermento a bac(c)a, “perla” e la formazione in- ballum (gr. – ballos), del tipo saraballum (vaso di forma tondeggiante e ampia parte inferiore), con allusione forse alla fisicità prorompente della donna. Di Melissa, però, Nicerote, dopo avercene fatto immaginare la formosità, dice che, pur essendo ostessa, era benemoria e onesta. La genialità petroniana sta anche nel contrasto fra il volgarismo pesante del pur espressivo sostantivo, e l’elativo del raffinato aggettivo pulcher al superlativo (qui utilizzato, per giunta, da un incolto).
Nella lingua dei liberti petroniani troviamo espressioni idiomatiche e grecismi di vario tipo (prestiti e non solo). Tale impasto linguistico è molto interessante a livello antropologico, per la tranche de vie che rivela, ma anche dal punto di vista linguistico. Siamo di fronte a un brano vivacissimo, un unicum nella storia della letteratura latina. Naturalmente, non significa che Petronio riporti “alla lettera” una serie di discorsi presi dalla strada e inseriti sic et simpliciter nella sua opera. Va ribadito che Petronio sottopone il suo materiale a una revisione e controllo strenui: questo è tutt’altro che “materiale grezzo e non filtrato” (P. Santini), e nemmeno è una “trascrizione diretta”, di un dialogo fra cittadini, diremmo oggi, di estrazione socio-culturale medio-bassa. Siamo invece di fronte a un testo raffinatissimo, alla cui base, però, è innegabile, sta l’osservazione, spassionata e divertita, di quello che era il latino di parlanti di scarsa cultura e sprovvisti di un’educazione formale. Può essere allora importante, per gli studenti, vedere che i medesimi errori che compiono loro nell’apprendimento del latino si riscontrano anche nei discorsi di chi questa lingua la imparava da “straniero” a Roma, e per motivi di prima sopravvivenza. Con tutti i distinguo del caso, possiamo pensare che Petronio stia mettendo in scena personaggi che, fatte le debite proporzioni, commettono errori analoghi a quelli del ginnasiale o dello studente del biennio alle prese con una lingua “altra”.
Passiamo brevemente in rassegna i due testi, Sat. 41, 10-46, e lo scoppio di furore del liberto che si sente offeso dalle risate sguaiate di Ascilto di Sat. 57. Ecco l’elenco dei principali “errori” in essi reperibili:
Sat. 41
–Calfecit per calefecit.
–Plane matus per il superlativo in forma sintetica, con uso dell’aggettivo matus, estraneo al registro aulico
–Vinus per vinum (su evidente calco del greco maschile oinos: ma quanti studenti pensano a fons, lapis e cinis come a sostantivi femminili, sul modello dell’italiano!)
–Pataracina: il testo è incerto, ma pare “una storpiatura plebea di un termine greco, quale patàchinon, capace boccale” (A. Aragosti), forse contaminata con il latino patera, nella versione plebea patara. Più macchinoso, ma convincente, oltre un secolo fa, Heraeus ne fa un ibrido popolare da patachnon, forse pronunciato epenteticamente patachinon su influsso osco.
–Sat. 42:
–frigori leicasin dico, espressione scurrile che non solo risente del greco, ma ne è quasi una perfetta traslitterazione, paragonabile al nostro “Mando il freddo a….quel paese” (Ernout traduce con l’espressione “s’en foutre”). Tale forma triviale è particolarmente appropriata in bocca a Seleuco, in un contesto marcato da solecismi morfologici (Sat. 42, 2, fui….in funus; 42, 5, fatus, cfr. infra) o neoformazioni ardite (cfr. baliscus di Sat. 42, 1) che risentono del greco, con tutta probabilità lingua madre del liberto. Del resto, tutti noi sperimentiamo che fra le prime espressioni che si imparano in una lingua straniera vi sono insulti e improperi, ma anche che uno straniero, che pure abbia imparato bene una lingua, spesso usa ancora le espressioni triviali del suo Paese d’origine.
–baliscus =formazione ibrida, dal latino balineum/ balneum + il suffisso diminutivo –iscus, formalmente simile al greco –iskos.
–Homo bellus, tam bonus : bellus per pulcher è una costante del latino petroniano, specialmente in bocca ai liberti. Qui il liberto ha forse in mente – ma molto ribassato! – l’ideale greco della kalokagathìa.
– Fui in funus : il complemento di stato in luogo richiederebbe in con l’ablativo. Ma probabilmente il liberto si confonde, per analogia con il greco, fra eimì, “essere”, ed eìmi, “andare”, e aggiunge il complemento di moto a luogo.
–Medici illum perdiderunt, immo magis malus fatus (fatum in latino è di genere neutro, ma viene usato al maschile, personalizzandolo).
Sat. 43:
-vendidit enim vinum quantum ipse voluit: quantum non è certo la forma sintatticamente più corretta per indicare il prezzo. L. Canali traduce: “ché vendette il vino a quanto gli garbò”; A. Aragosti con “vendette il vino al prezzo che volle”.
-Non mehercules illum puto domo canem reliquisse: domo in luogo del locativo domi.
– Nemo curat quid annona mordet: troviamo mordet in luogo del più corretto congiuntivo mordeat; ma del resto, quanti, oggi nel parlato usano ancora il congiuntivo? L’espressione, leggermente modificata, è ancora comune: quante volte abbiamo visto, nelle nostre città, negli ultimi mesi, manifesti sindacali e politici, o titoli di giornale secondo i quali “La crisi morde ancora”?
Sat. 46:
-Quia tu, qui potes loquere, non loquis (cfr. Sat. 45 Oro te, inquit Echion centonarius, melius loquere). L’espressione sembra modellata sul greco boulomai + inf., mentre oro richiederebbe la completiva volitiva espressa con ut + cong. Il liberto ha qui coniugato come attivo un verbo deponente. O forse si deve intendere per loquere un congiuntivo presente ma coniugato come un verbo della I e non della III coniugazione deponente? In entrambi i casi, si tratta di quello che oggi qualificheremmo come un errore morofologico (nel primo caso, anche sintattico).
-Sat. 57:
Il parlante si qualifica come regis filius, affermando di aver preferito essere civis Romanus quam tributarius. Egli ha una maggiore capacità di dominare la morfosintassi del latino: per esempio, usa correttamente il congiuntivo nell’espressione Bellum pomum, qui rideatur alios (però usa bellum, invece di pulcher); usa (si intuisce lo sforzo di parlare correttamente nel momento in cui risponde – a muso duro, diremmo oggi – a una persona colta che ha riso di lui) il futuro anteriore in dipendenza dal futuro semplice: Ad summam, si circumminxero illum, nesciet qua fugiat. Quest’ultima espressione, nonostante il contesto scurrile, rivela una certa capacità di organizzare un discorso con una buona tenuta logica, senza sbriciolarlo in espressioni idiomatiche, frasi fatte e luoghi comuni, dato che l’espressione riprende il concetto espresso con il qui non valet lotium suum di poco precedente, utilizzando fra l’altro anche il qua avverbio relativo e il congiuntivo (cfr. anche l’espressione Quid habet quod rideat?). Poi, però, il parlante usa l’infinito attivo convivare (tu melius convivare soles) in luogo di convivari; usa ridiclei, per ridiculi. Il tutto è rinforzato da avverbi e modi di dire che tradiscono l’origine e la mentalità popolare: sed in molle carne vermes nascuntur, “nella carne molle nascono i vermi” (it. “il medico pietoso fa la piaga cancrenosa”, sempre con insistenza sull’idea della putrefazione).
Soffermarsi un poco su questi “errori” morfologici e sintattici è utile, perché non va dimenticato che la nostra lontananza dal latino non è spaziale, ma temporale, ed è pertanto una lontananza avvertita dagli studenti come più grave, spesso terrorizzante e addirittura respingente. Da ultimo, visto che studiamo il latino per leggere i testi antichi, è importante soffermarsi, magari proprio con l’illustre exemplum di questo testo tanto vivace, sul problema della traduzione, o meglio, sul fatto che, se intendiamo bene il significato di “tradurre”, non si dovrebbe nemmeno porre il problema – che tanto angoscia lo studente – della scelta fra una traduzione “letterale” e una sedicente “traduzione libera”. La traduzione dovrebbe, anzi deve, essere non “letterale” o “libera”, ma piuttosto corretta e nello stesso tempo fruibile. Essa, cioè, deve riformulare con materiale linguistico della lingua d’arrivo, come possibile, le informazioni del testo nella lingua di partenza, o meglio, dovrebbe riformulare la maggior parte delle informazioni. Al contrario, spesso, le traduzioni che l’insegnante si trova di fronte sono in “italiota”, ossia in quella lingua fittizia, che sembra un italiano ingessato, in cui si parla di “fanciulli”; “virtù”; “discepoli”, “precettori”, con lunghissimi incisi a base di gerundi e subordinate infinite. Invece Petronio, e questi passi in particolare, si prestano molto bene a un esercizio fra quelli segnalati nelle Indicazioni Nazionali, che propongono esercizi di traduzione contrastiva. Già soltanto dal confronto fra due traduzioni italiane poco distanti temporalmente, quella di A. Aragosti (Rizzoli 1995), e quella di L. Canali (Bompiani 2001; ma Canali fu anche consulente di F. Fellini per il FelliniSatyricon), possono emergere interessanti osservazioni.
In sintesi, la lettura delle sequenze petroniane in cui prendono la parola i liberti è utile per enucleare alcuni temi trasversali all’insegnamento del latino:
- Smitizzare, a livello di premessa metodologica e storica, e pur nel doveroso rigore nella presentazione degli argomenti grammaticali, quella divisione, netta come un colpo di spada, fra ciò che in una lingua è “errore” e ciò che è “giusto”, invitando gli studenti a riflettere su un concetto fondamentale: risalire alla genesi dell’errore.
- Affrontare criticamente il problema della traduzione, magari con un esercizio di traduzione contrastiva.
- Affrontare, magari anche al biennio, la lettura di una sezione, anche limitata, di un autore come Petronio, capitale nella letteratura latina e nella storia della cultura occidentale, ma spesso compresso, per esigenze temporali, agli ultimi mesi dell’ultimo anno liceale, sotto l’incombere dell’Esame di Stato.
© Silvia Stucchi, 2018