La radice indoeuropea *medhu, “idromele”, che deriva per sincope della liquida da *mel-dh-, variante di *melǝ- “macinare” (da cui il latino molere, il greco μύλλω, il gotico mulda “terra polverosa”, probabile origine del toponimo Moldavia, l’albanese mjel “farina” ecc.), è molto cara alla grammatica storica, avendo un’ampia attestazione letteraria in numerose lingue.
In greco il termine, per influsso delle vicine culture mediterranee non indoeuropee, passa presto a indicare anche il vino. Celeberrimi sono i simposi platonici o i banchetti omerici dove l’alcool è, ovviamente, immancabile. Un esempio dei secondi lo troviamo nel decimo libro dell’Odissea:
ἥμεθα δαινύμενοι κρέα τ᾽ ἄσπετα καὶ μέθυ ἡδύ:
ἦμος δ᾽ ἠέλιος κατέδυ καὶ ἐπὶ κνέφας ἦλθε.
(Hom. Od. X 184-185)
Ulisse, in esplorazione sull’isola di Eea, di proprietà della dea Circe, trova un provvidenziale cervo abnorme. Lo trafigge, lega le gambe tra di loro con una corda ricavata sul momento dai fusti vegetali e lo trascina in spalla, sorreggendosi sulla sua lancia perché la preda pesa troppo. Quando i compagni affamati lo vedono arrivare a riva traboccano di gioia e stupore. Nel banchetto che seguirà la carne è definita ἄσπετα (“immensa”, per le proporzioni della preda), mentre il vino ἡδύ (epiteto che ha precise corrispondenze nel vedico). Ancora una volta il genio omerico ci regala uno splendido tramonto mediterraneo.
Ma il vino non è sempre momento di condivisione e di gioia dopo le fatiche di un viaggio lungo e incerto e della caccia in una selva ignota. Consideriamo questi versi delle Argonautiche:
ἦέ τοι εἰς ἄτην ζωρὸν μέθυ θαρσαλέον κῆρ
οἰδάνει ἐν στήθεσσι, θεοὺς δ᾽ ἀνέηκεν ἀτίζειν
(Ap. Rh. Arg. I 477-478)
Prima della partenza della nave diretta verso la costa orientale dell’odierno Mar Nero, alla ricerca del vello d’oro (un sensazionale escamotage di re Pelia per levare di mezzo il giovane destinato a spodestarlo), Ida conforta Giasone, colto da improvviso senso di inadeguatezza, facendo leva sulla sua forza che, sostiene, può addirittura rimpiazzare l’aiuto divino. Parole che pesano. Ecco allora che Idmone, l’indovino che morirà azzannato dal cinghiale Caledonio (che Ida a sua volta ucciderà per vendicarlo), lo biasima e rammenta la malasorte di chi, prima di lui, pensò di poter fare a meno degli dei. Il vino può dunque obnubilare il cuore degli uomini, inducendoli alla tracotanza.
Ma non è tutto: nel vino, è noto, è riposta la verità. Allo stesso modo, l’idromele può essere fonte di profonda saggezza, specie se vi si trova immerso l’occhio di un dio:
drekkr mjǫð Mímir
morgin hverjan
af veði Valfǫðrs.
(Vǫluspá 28)
“Ogni mattina Mímir beve l’idromele dal pegno di Odino.”
Ci troviamo nella Vǫluspá, il primo carme dell’Edda poetica, nonché la Teogonia dei germani. Mímir è il guardiano del pozzo della sapienza dove Odino (Valfǫðrs, “padre dei caduti in battaglia”, epiteto condiviso con Sigfrido) lasciò il suo occhio come pegno per potersi dissetare. Nelle società nordiche l’idromele rivestiva un ruolo importantissimo ed esistevano vere e proprie sale, antesignane degli odierni caffè, dedicate alla sua consumazione (e alla socializzazione). Esso era concepito come una sorta di birra alla spina, sgorgante ininterrottamente dalle mammelle della capra Heiðrún, uno degli animali che brucano dai rami dell’Yggdrasill, l’immenso frassino che sorregge i nove mondi della cosmologia germanica. L’idromele è dunque dolcezza e vita, latte materno e garanzia di fecondità.
Non a caso, madhu in sanscrito è anche un aggettivo che significa “dolce”. Inoltre, in questa lingua, a differenza che in greco o in norreno, tale termine può designare la primavera, il primo mese dell’anno o il miele (oltre che, beninteso, l’idromele):
yathāruhya mahāvr̥kṣam apahr̥tya tato madhu
aprāśya nidhanaṃ gacchet karmedaṃ nas tathopamam
(Mahābhārata XII X 10)
“Il tuo gesto [rifiutare il regno] è come quello di chi, arrampicatosi su di un alto albero e avendo preso del miele, incontra la morte prima di poterlo assaporare.”
Siamo nel Śantiparvan (“libro della pace”, il più lungo). Le due parti in lotta (Kaurava e Pandava, cugini tra loro) hanno accettato la pace dopo diciotto giorni di guerra nella piana dei Kuru (Kurukṣetra) a nord dell’odierna Delhi. I Pandava hanno vinto, inferendo numerosissime perdite ai nemici (se ne sono salvati solo tre); non si è fatta attendere la reazione del dio Shiva, che li ha decimati in una carneficina notturna per mano di Aśvatthāman, uno dei tre superstiti. Yudhishitra, il primogenito di re Pandu, è sopravvissuto con i suoi quattro fratelli e altri due Pandava ed è il nuovo monarca. Il libro costituisce uno speculum principis ricco di aneddoti, come l’intero poema. A parlare è Bhima (secondogenito di Pandu ed erede apparente al trono). Rivolto al nuovo sovrano lo esorta all’azione perché questi, preso da forte spaesamento, vorrebbe vagare nella foresta e menare vita ascetica e contemplativa, lontano dall’agire politico. Occorre rimproverarlo, paragonandolo a quegli idioti che a furia di recitare come pappagalli i Veda ammattiscono, elaborando la similitudine che abbiamo letto. I valori della pietà e dell’abnegazione non sono incompatibili con quelli della casta guerriera (e regale); l’importante è agire rinunciando ai frutti dell’azione: viene ribadito il messaggio della Bhagavadgītā. Non a caso Arjuna (il terzogenito che prima di diventare ministro della difesa e della giustizia è stato il destinatario della predicazione del dio Krishna) interviene dando manforte a Bhima. Il madhu diviene un interessante simbolo del potere, dipinto come un bene ambito, raggiungibile solo a costo di lunghi sforzi (che possono addirittura lasciare dietro di sé una lunga scia di lutti), da conservare a qualunque costo.
Abbandonato il titubante sovrano in buone mani, possiamo tornare in Europa. Il termine latino per “idromele” è un derivato di mel: mulsum (<*melsos). La radice indoeuropea in questo caso è *meli-t che, a differenza di *medhu a cui peraltro non è legata, indica sempre e solo il miele, mai anche la bevanda.
Appius “Igitur relinquitur” inquit “de pastione uillatica tertius actus de piscinis”. “Quid tertius?” inquit Axius. “An quia tu solitus es in adulescentia tua domi mulsum non bibere propter parsimoniam, nos mel neclegemus?” Appius nobis “Verum dicit”, inquit. “Nam cum pauper cum duobus fratribus et duabus sororibus essem relictus, quarum alteram sine dote dedi Lucullo, a quo hereditate me cessa primum et primus mulsum domi meae bibere coepi ipse, cum interea nihilo minus paene cotidie in conuiuio omnibus daretur mulsum”.
(Varr. rust. III 16)
Nel terzo e ultimo libro (De villatica pastione) del De re rustica, dedicato a Quinto Pinnio, gli interlocutori disquisiscono degli animali allevabili nelle grandi villae. Secondo la tecnica del dialogo aristotelico ogni personaggio sviluppa una sua tesi autoconclusiva. Nel penultimo capitolo si discute dell’apicoltura, a cominciare dall’idromele. Non è un caso: il mulsum, oltre a essere impiegato nei sacrifici, apriva i banchetti (di qui il termine promulsis per indicare l’antipasto); in sostanza, i Romani iniziavano dal dolce. Nel brano notiamo che Appio vuole introdurre il tema della piscicoltura (che verrà trattato nell’ultimo capitolo), ma Assio lo blocca: occorre parlare dell’idromele. L’insinuazione, poco fine, che questi fa cade nel vuoto: Appio è sì cresciuto orfano e in povertà, ma il provvidenziale soccorso del cognato gli ha concesso il “lusso” dell’idromele. Lusso che è anche un rito di passaggio, come le sbronze degli adolescenti d’oggi il sabato sera, che con gli anni diviene un emblema dell’ospitalità e della raffinatezza. In seguito, Appio con grande zelo rivendicherà le proprie conoscenze e competenze in materia di apicoltura. L’argomento verrà trattato a 360 gradi, discorrendo di arnie, fave, miele, api, fiori, ecc. Immancabile il topos classico che vede la generazione delle api dalle carcasse dei buoi e che ritroveremo nelle Georgiche.
Lasciando questi preziosissimi insetti da salvaguardare, e tornando alla bevanda che deve quasi tutto ai loro sforzi, concludiamo il nostro assaggio con l’Asinaria di Plauto:
ARG. Iace, pater, talos, ut porro nos iaciamus. DE. Maxume.
Te, Philenium, mihi atque uxoris mortem. Hoc Venerium est.
Pueri, plaudite et mi obiactum cantharo mulsum date.
(Plaut. Asin. 904-906)
Notiamo subito l’arguta insistenza sul verbo iacio, che ci rende partecipi della concitazione, della suspense e della gioia che accompagnano un fortunato lancio dei dadi (tali, ovvero gli astragali, i dadi a quattro facce: 1, 3, 4, 6, ricavati dall’omonimo osso della capra). Il Venereus iactus era la somma più ambita (14), derivante dal lancio di quattro dadi, ognuno con faccia diversa. Era tipico invocare il nome della moglie gettandoli e, in questo caso, Demeneto lo fa premurandosi di augurarle la morte. Per festeggiare la sortita del colpo di Afrodite, ordina ai servi di applaudire e di portargli una coppa di idromele. Siamo nella scena conclusiva della commedia e l’uomo intende brindare perché avrà l’onore di giacere con la cortigiana Filenia. La moglie Artemona, tuttavia, venuta a conoscenza del tentato adulterio, punirà il marito, lasciando il figlio Argirippo in compagnia dell’etera (della quale è oltretutto il cliente originario). Demeneto è dunque una figura di vecchio libertino che non si fa alcuno scrupolo non solo a tradire la moglie, ma anche ad aiutare il figlio nella conquista della donna amata, pur di godere a sua volta del corpo della giovane. Le commedie di Plauto non sono però indirizzate alla sovversione dell’ordine costituito e dei valori del mos maiorum: Artemona (una madre-matrona che incarna gli ideali del focolare domestico) riaggiusterà le cose, lasciando a bocca asciutta il pater familias che si è spinto oltre i limiti impostigli dalla sua condizione (in primis anagrafica). In questo caso vediamo chiaramente come l’idromele funga da antipasto al piacere erotico. Del resto, la locuzione “luna di miele” deriva proprio dall’abitudine dei neosposi presso varie società europee di bere una bottiglia di tale bevanda, ricevuta in dono, per la durata di un mese e allo scopo di stimolare la libido.
© Martino Malgesini, 2020