Gli eroi nazionali costituiscono una categoria umana di grandissimo interesse. Fin dalla notte dei tempi questi uomini straordinari hanno ispirato poeti e prosatori, che, immortalandone la gloria, hanno fatto di loro figure in bilico tra Storia e Mito. Non a caso, tra i generi letterari tradizionalmente considerati “alti”, a occuparsi di simili individui sono soprattutto l’epica e la storiografia. Tuttavia, queste discipline non sono in grado di restituire al lettore un ritratto completo di siffatti personaggi. Non bisogna dimenticare nemmeno lo sconfinato repertorio di racconti aneddotici che spesso si accompagna a figure di questo tipo: racconti che gettano una luce nuova e insolita su eroi solitamente percepiti come monolitici, facendone emergere il lato umano. È questo il caso del passo in questione, tratto dal settimo libro dei Dicta et Facta Memorabilia di Valerio Massimo, dedicato a Scipione l’Africano (Val. Max. VII 3.3).
Scipio quoque superior praesidium calliditatis amplexus est: ex Sicilia enim petens Africam, cum e fortissimis peditibus Romanis trecentorum equitum numerum complere vellet neque tam subito eos posset instruere, quod temporis angustiae negabant sagacitate consilii adsecutus est: namque ex his iuvenibus, quos secum tota Sicilia nobilissimos et divitissimos sed inermes habebat, trecentos speciosa arma et electos equos quam celerrime expedire iussit velut eos continuo secum ad oppugnandam Karthaginem avecturus. Qui cum imperio ut celeriter, ita longinqui et periculosi belli respectu sollicitis animis paruissent, remittere <eis> Scipio illam expeditionem, si arma et equos militibus suis tradere voluissent, edixit. Rapuit condicionem inbellis ac timida iuventus instrumentoque suo cupide nostris cessit. Ergo calliditas ducis providit ut [si] quod protinus imperaretur, grato prius, deinde remisso militiae metu, maximum beneficium fieret.
Oggetto del brano è un episodio verificatosi nelle fasi finali della seconda guerra punica, durante i preparativi per la spedizione in Africa (205/204 a.C.). Scipione, che si trova in Sicilia in attesa di salpare alla volta di Cartagine (ex Sicilia petens Africam), vorrebbe impiegare alcuni dei suoi uomini più valorosi in un nuovo reparto di cavalleria, ma si trova a corto di armamenti adatti e di tempo per procurarseli. Si vede perciò costretto a fare ricorso all’astuzia (praesidium calliditatis amplexus est […] sagacitate consilii adsecutus est): convoca a sé i giovani delle famiglie siciliane più nobili, che erano entrati a far parte del suo seguito (quos secum habebat), e dà loro ordine di presentarsi provvisti di armi e cavalli di pregio, come se dovessero accompagnarlo nella spedizione ormai prossima. I giovani, tanto ricchi quanto poco propensi a guerreggiare in prima persona (nobilissimos et divitissimos, sed inermes), pur obbedendo prontamente (celeriter), non si mostrano troppo entusiasti alla prospettiva di vedersi spediti a combattere sul suolo africano (periculosi belli respectu sollicitis animis), motivo per cui accettano di buon grado un’ulteriore proposta avanzata da Scipione: cedere ai Romani il loro equipaggiamento, in cambio di un’esenzione dalla partecipazione diretta alla campagna. Il compromesso risulta vantaggioso per tutti: per i giovani, che possono tornare nelle loro case, a fronte di una perdita tutto sommato sostenibile e consci di avere rafforzato la propria posizione presso uno degli uomini più potenti della Roma di allora; ma anche per Scipione, che vede risolto un problema di non poco conto.
Che i giovani siciliani si mostrino rinunciatari di fronte alla lotta in prima persona, che pure li riguarda da vicino, non è di per sé sorprendente: colpisce, semmai, la serie di termini, tutti particolarmente espressivi, con i quali Valerio delinea questa situazione. La gioventù siciliana è imbellis ac timida (termini che rimarcano il concetto espresso in precedenza dall’aggettivo inermis, accostato in modo quasi beffardo a due pomposi superlativi come nobilissimi et divitissimi), e non si limita ad accettare la proposta, ma rapuit condicionem, mostrandosi quasi smaniosa di ritirarsi dall’impresa (cupide cessit) e di lasciare ai Romani il suo prezioso equipaggiamento. Fin qui, nulla di strano. Se, invece, ci si concentra sulla figura di Scipione, le cose si fanno più complesse. Il ritratto disegnato da Valerio Massimo ha infatti un carattere insolito, come si può evincere da alcune scelte lessicali atipiche. Le azioni di Scipione sono inquadrate da Valerio come un atto di calliditas per ben due volte: all’inizio (praesidium calliditatis amplexus est) e alla fine del racconto (calliditas ducis providit ut […] maximum beneficium fieret), ossia in posizioni enfatiche che – stando a quanto sappiamo dello stile e della forma dei Dicta et Facta Memorabilia – coincidono con i momenti di introduzione e valutazione dell’aneddoto. Il fatto è che calliditas, parola la cui gamma di significati spazia dalla prontezza d’ingegno all’astuzia, sembra sposarsi male con il ritratto ideale del buon dux romano, tenuto a guidare l’esercito più che con l’astuzia con il consilium e la prudentia (qualità che, peraltro, vengono esplicitamente riconosciute a Scipione: Valerio parla della sua sagacitas consilii e usa il verbo provideo, e l’intera sezione dell’opera è dedicata a mostrare esempi di felicitas nata in pectoribus sapientia praeditis e che dictis factisque prudentibus enitescit, sia pure con la variante specifica di indicare casi che, passati a sapientia proximo deflexu ad vafri<ti>ae nomen, per avere successo fallacia vires adsumpserunt e laudem occulto magis tramite quam aperta via petierunt).
Particolarmente significativo a corroborare quanto detto finora è ciò che racconta Livio, X 22. Nel pieno della terza guerra sannitica (l’anno è il 296 a.C.), Lucio Volumnio Flamma Violente, già console in carica, ma rieletto nuovamente per l’anno successivo, acconsente, su richiesta del collega Quinto Fabio Massimo Rulliano, a cedere il consolato a Publio Decio Mure, con cui Fabio aveva precedentemente condiviso il consolato e la censura. Nel suo discorso in lode dei due, Volumnio ricorda come entrambi fossero viros natos militiae, factis magnos, ad verborum linguaeque certamina rudes, aggiungendo che ea ingenia consularia esse: callidos sollertesque, iuris atque eloquentiae consultos […] urbi ac foro praesides habendos. Della guida degli eserciti (principale prerogativa dei consoli in età repubblicana) dovevano occuparsi, secondo Volumnio, uomini d’azione, non quanti fossero avvezzi alle sottigliezze della vita civile, nella quale più facilmente possono trovare campo virtù come la sollertia e la calliditas. Non mancano figure non allineate a questo principio, naturalmente, la più celebre delle quali è un altro Quinto Fabio Massimo, il Cunctator, la cui politica attendista gli procurò infatti feroci critiche (Polyb. III 89-90 e 103). Motivo per cui non sorprende che Cicerone nel De officiis (I 108) lo chiami callidus, mentre Nepote lo definisce addirittura callidissimus (Hann. 5,9).
Ma il brano forse più significativo è probabilmente un altro passo di Livio, XLII 47, che sposta lo sguardo al di fuori dei confini dell’Italia. Nell’eterno confronto tra Romani ed externi, la calliditas, qualità ambivalente per sua stessa natura e, come detto sopra, poco conforme al ritratto ideale del dux e del civis optimus, ben si presta a definire i popoli “altri”, in particolare quelli che l’élite culturale romana aveva interesse a dipingere come ambigui e approfittatori, vale a dire Greci e Cartaginesi. È così che la calliditas assume una connotazione decisamente negativa. Nel pieno della terza guerra macedonica (ci troviamo nell’anno 171 a.C.) i legati Quinto Marcio e Aulo Atilio vengono inviati presso il re Perseo con il compito di intavolare trattative. Consci del fatto che i preparativi della guerra si sarebbero protratti ancora a lungo, i due prendono tempo, inducendo il re a credere nella possibilità di una pace. Tornati a Roma, il resoconto della loro legazione viene accolto con favore da ampia parte del senato, ma non dai più anziani, che, moris antiqui memores, negabant se in ea legatione Romanas agnoscere artes. Non era questo il modo con cui i maiores avevano condotto le loro gloriose campagne! Quei maiores che, nel nome della fides (valore, com’è noto, identitario per i Romani), non avevano esitato a denunciare a Pirro le trame ordite ai suoi danni dal suo stesso medico… Non era quello, in ultima istanza, lo spirito che aveva reso grande Roma, un concetto espresso in una sententia che aiuta anche noi ad avere le idee più chiare: religionis haec Romanae esse, non versutiarum Punicarum neque calliditatis Graecae apud quos fallere hostem quam vi superare gloriosius fuerit. La calliditas appare qui dunque relegata al ruolo poco nobilitante di definire “in negativo” i Romani (quelli veri, s’intende), separandoli da quanti, incapaci di porre fine alle controversie in modo onorevole, erano costretti a fare ricorso a mezzucci di varia natura.
Calliditas, dunque, non è il termine che ci si aspetterebbe di trovare accostato a un comandante come Scipione. Come giustificarne la presenza? In primo luogo, bisogna ricordare che Valerio Massimo non si limita a definire Scipione callidus, ma adotta una formulazione più cauta. La calliditas si configura come un praesidium, uno strumento cui fare ricorso laddove le circostanze, nello specifico le angustiae temporis citate poco dopo, lo richiedano. In quest’ottica l’astuzia di Scipione può essere interpretata come una delle varie declinazioni della sua prudentia, questa sì, come già ricordato, dote tradizionale di ogni buon comandante. C’è però un ulteriore e forse più rilevante elemento di cui tenere conto, ossia il tipo di umanità con cui Scipione deve confrontarsi. Chi sono i nobilissimi et divitissimi iuvenes del racconto? Valerio Massimo non fornisce in merito nessuna informazione, tuttavia un dato cruciale sul conto di questi ultimi è deducibile dal contesto storico della vicenda: si tratta certamente di Greci.
Il motivo è presto spiegato: i fatti narrati hanno luogo quando sono passati meno di quarant’anni dall’arrivo dei Romani in Sicilia, risalente al 241 a.C., e meno di otto dalla presa di Siracusa, evento che aveva sancito l’egemonia romana sull’intera isola. È quindi impossibile pensare che in un lasso di tempo così ristretto l’aristocrazia di etnia greca fosse già stata soppiantata da famiglie nobiliari latine. Del resto, l’epiteto inermis (ampliato poco oltre dalla dittologia timida ac imbellis) sembra adattarsi decisamente meglio alla gioventù ellenica, cui si era soliti rinfacciare una certa mollitia, e non a quella romana, la cui decadenza, secondo la tradizionale visione moraleggiante, sarebbe iniziata solo dopo la sconfitta di Cartagine nella seconda guerra punica. Sembra un’informazione secondaria, ma non è così: l’elemento etnico gioca un ruolo cruciale nel giustificare agli occhi del lettore contemporaneo di Valerio l’operato di Scipione. È infatti appurato che i Greci non godessero di buona fama presso una certa fascia dell’opinione pubblica del tempo. Lo dimostrano le già citate parole di Livio, XLII 47, ma non mancano numerose altre testimonianze di questo fenomeno: motivo per cui la calliditas di Scipione si configura come una reazione naturale alla percezione stereotipica che i Romani del I sec. d.C. dovevano avere dei Sicelioti. Il trattamento riservato ai giovani isolani è dunque proporzionato alla loro inferiorità sul piano etico e valoriale; inferiorità che Scipione si limita a rendere manifesta con le sue azioni, dando prova di sapere adattare la propria condotta al contesto e al singolo interlocutore (un comportamento che rientra nella perfetta definizione di prudentia).
© Luca Pigna, 2024