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  • Una proposta per Cesare

    Una proposta per Cesare

    Perdurando il periodo della cosiddetta “Didattica a distanza” (DAD), ho ritenuto opportuno proporre ai miei studenti anche delle verifiche scritte. Naturalmente, tale esigenza non è nata da un’ansia docimologica o dalla preoccupazione di non avere sufficienti elementi di valutazione, dal momento che la circostanza eccezionale imporrà duttilità anche su questo aspetto dell’azione didattica. Come tutti i colleghi, anche io ho pensato soprattutto  all’opportunità di non creare una frattura difficilmente recuperabile, dopo un’interruzione prolungata, in  termini di capacità di  analizzare e rielaborare concetti, idee, forme espressive, in una produzione scritta.

    Ma come strutturare uno scritto di latino in modo che la prova corrisponda – almeno in parte – alle fatiche e alle capacità individuali di ogni studente, e non a forme di solidale e condivisa collaborazione tra compagni e frenetica consultazione di fonti più o meno attendibili? Pur tra molte incertezze, alla fine ho predisposto per la mia classe terza (liceo scientifico) una verifica sul De bello civili di Cesare.

    Faccio alcune premesse didattiche e tattiche. La prima: il brano proposto  non era noto ai ragazzi, ma loro conoscevano il De bello civili, avendo letto e analizzato insieme a me  I, 3-4 (in italiano); I, 7 (italiano); III, 82 (italiano); III, 90-91 (in latino); III, 96 (in latino). Per ovvi motivi, ho fornito io stessa la traduzione del brano, dal momento che sarebbe stato impossibile verificare le reali competenze traduttive a distanza. Le domande poste miravano a ricondurre obbligatoriamente gli studenti sul testo latino, e a fare in modo che la traduzione in italiano fosse solo un aiuto, ma non la base delle loro riflessioni.

    Dal momento che il mio liceo usa la piattaforma GSuite, ho caricato il compito su classroom dieci minuti prima del videocollegamento, nel corso del quale ho chiarito le richieste e spiegato le consegne, per non dare troppo tempo di “guardarsi in giro”, a discapito dell’originalità e della profondità dell’approccio al testo da analizzare e commentare. Gli studenti hanno lavorato senza il mio controllo, ho solo chiesto di caricare su classroom i loro compiti entro due ore. A fronte di domande differentemente impegnative, ho pensato di valutare percentualmente ogni singola risposta e di adottare, quali criteri per l’attribuzione dei punteggi,  la pertinenza (sempre fondamentale, ma in particolare con le attuali modalità didattiche, dal momento  che, se un ragazzo scarica qualcosa di generico sul testo o l’autore, la pertinenza è il primo elemento a soccombere), la ricchezza delle conoscenze e la capacità di analisi , l’originalità e la forma espressiva.

    Non sarei sincera se non precisassi che ho lavorato con una classe di grande spessore (lo scorso anno, in seconda liceo, otto studenti hanno conseguito  la certificazione linguistica di latino, a vari livelli) e quindi, anche a distanza, ho potuto leggere e correggere un certo numero di elaborati eccellenti, ricchi contenutisticamente e analiticamente, originali, personali. Ecco dunque la prova somministrata, leggibile (e scaricabile) secondo le consuete regole d’uso dei PDF:

    Ora che ho corretto e restituito tutti i compiti, posso dire che le prove rispecchiano in modo piuttosto attendibile i profili di questi ragazzi, nei punti di forza e in quelli di debolezza. Sicuramente ci sono state forme di aiuto reciproco, ma ho l’impressione che queste siano state limitate e attivate solo a fronte di quelle domande che gli studenti avrebbero trovato complesse anche in classe, e quindi ammetto di non essere in grado di capire fino in fondo se attribuire  la vaghezza e la ripetitività di certe risposte a un lavoro “messo in condivisione” o alla complessità richiesta per  elaborare affermazioni puntuali e convincenti a certi quesiti.

    In particolare, mi riferisco alle domande 2 e 5; nel primo caso, alcuni hanno fatto fatica a passare da una semplice descrizione della struttura sintattica del testo a una prospettiva analitica, soprattutto a un’indagine sul rapporto tra sintassi e tematiche. Nel secondo caso, alcuni studenti hanno fatto fatica a esprimere un giudizio su un giudizio, semplificando la risposta in direzione di un commento ai testi di Cesare (prescindendo dalle parole di Canali) o – al contrario – in direzione di un commento alle parole di Canali (trascurando o scivolando lievi sui testi di Cesare). Ma questo è un problema che riscontro anche nelle verifiche di italiano, quindi trasversale e non di pertinenza esclusiva del latino.

    © Letizia Forte, 2020

  • Testo al centro

    Testo al centro

    Più volte si è sentita esprimere la convinzione (anche dalle pagine di questo sito), che la traduzione di un testo, quale che sia la lingua in cui si esprime l’originale, debba essere solo l’ultima tappa di un percorso più lungo e vada quindi affrontata, specie nella forma scritta, solo nel momento in cui lo studente, insieme all’insegnante, abbia già svolto un lavoro di comprensione e di analisi profonda del testo di partenza. Il discorso vale, ovviamente, anche per il latino. Anzi, soprattutto per il latino. L’eterogeneità dei percorsi liceali che prevedono lo studio di questa materia, caratterizzati da un diverso numero di ore settimanali scuola per scuola, il permanere o meno della disciplina nel percorso quinquennale e le diverse finalità alle quali, stanti le indicazioni ministeriali, lo studio del latino dovrebbe oggi guardare, rendono assolutamente necessario esplicitare l’impossibilità di cercare nella traduzione una sorta di risposta unica e universale al testo; e allo stesso tempo anche l’assurdità di costruire muri, figli di un malinteso grammaticalismo e della “flotta di Roma” che non è “romana”, al posto di aprire ponti con il mondo classico e innalzare nuovi edifici sulle fondamenta di quello.

    Propongo dunque qui, a partire da questa convinzione, un possibile testo di esercitazione (da sfruttare così come è, o come semplice modello), che si immagina valido per studenti di fine biennio o di terzo anno, e che può essere utilizzato come prova di accertamento linguistico o come verifica pratica delle nozione acquisite nel percorso di letteratura. Il brano che si presenta contiene infatti una serie di costrutti che, stando alla maggior parte dei libri di grammatica del biennio, sono stati ampiamente affrontati a metà circa del secondo anno.

    Partiamo dunque dal testo. Ho scelto un passo di Cesare, De bello Gallico VI, 24.

    Fuit antea tempus, cum Germanos Galli virtute superarent, ultro bella inferrent, propter hominum multitudinem agrique inopiam trans Rhenum colonias mitterent. […] Nunc quod in eadem inopia, egestate, patientia qua Germani permanent, eodem victu et cultu corporis utuntur; Gallis autem provinciarum propinquitas et transmarinarum rerum notitia multa ad copiam atque usus largitur, paulatim adsuefacti superari multisque victi proeliis ne se quidem ipsi cum illis virtute comparant.

    Dall’originale ho eliminato un ac iniziale, che, come spesso accade in Cesare, collega il capitolo con quello che precede. In realtà, volendo inserire il brano in un contesto che lo renda più facilmente comprensibile (e, personalmente, penso che avrei fatto così in classe), mi sembrerebbe opportuno accompagnare il testo con il capitolo che viene prima e con quello che viene dopo, in originale ma accompagnati da una traduzione italiana, come succede nella pratica delle prove olimpiche e, in misura solo parziale, per la seconda prova dell’esame di Stato nei licei classici. Allo stesso modo, ho tolto la parte centrale del capitolo, facilmente recuperabile per chi la volesse reintegrare, perché meno incentrata sulla contrapposizione antea / nunc che mi premeva mettere in evidenza. Le frasi tagliate, con i loro riferimenti alle popolazioni che hanno successivamente occupato la silva Hercynia e all’’auctoritas di Eratostene e degli altri geografi greci consultati da Cesare, mi sembravano divagare da questo e spostare l’attenzione dal nucleo centrale del brano. Naturalmente, diverso sarà l’atteggiamento di chi, come detto, nel testo cerca una verifica dell’agire letterario di Cesare e di chi, come farò ora invece io, al brano è interessato principalmente per il suo nocciolo concettuale e per le possibilità di verifica che esso offre.

    In tale prospettiva, ritengo possibili tre diversi approcci, applicabili in contesti e situazioni differenti. Non si tratta di scegliere l’uno piuttosto che l’altro, alla ricerca di quale sia il metodo migliore; ognuno è semplicemente in grado di suscitare domande diverse, così da sollecitare risposte e competenze diverse. Pertanto, una volta somministrato il testo alla classe, si chiederà di rispondere alle domande che seguono. Valgono due regole generali: la risposta va formulata in italiano; parte integrante della risposta è però l’individuazione della frase latina che la determina, e che va sottolineata nel testo e trascritta come elemento irrinunciabile della risposta. Ecco dunque le tre possibilità.

    PRIMO APPROCCIO: comprendere “dal” testo

    1. Per quale motivo i Galli, nel passato, hanno colonizzato il territorio dei Germani?
    2. Che cosa è cambiato nel corso del tempo per le popolazioni germaniche?
    3. Quali elementi hanno determinato la trasformazione dei Galli?
    4. La debolezza dei Galli con quali parole è esplicitata in conclusione del brano?

    Questa modalità ha un limite evidente. Cercando la traduzione sui molti siti per studenti disponibili in rete, è relativamente facile fornire la risposta in italiano e poi risalire da questa alla frase in latino che la giustifica. Questa tipologia di lavoro è perciò consigliabile in situazioni in praesentia, dove la possibilità di accedere alla rete è assente (o, almeno, dovrebbe esserlo). Il pregio di quest’approccio è la possibilità di superare, soprattutto per gli studenti del biennio, l’ansia della traduzione, permettendo nel contempo di far capire che prima della traduzione è imprescindibile la comprensione del brano. Volendo, naturalmente, è sempre possibile integrare questa formulazione con domande di più stretta osservanza grammaticale. Valga d’esempio, nel nostro brano, la possibilità di individuare particolari costrutti quali il cum narrativo, le subordinate causali, i participi congiunti etc…

    SECONDO APPROCCIO: comprendere un mondo

    In questo secondo caso, le modalità di somministrazione del testo e di risposta ai quesiti formulati non sono differenti. Cambia semplicemente il focus delle domande. Pertanto, si tratta di un esercizio che non è necessariamente alternativo al primo, ma che si può immaginare come suo complemento. Ecco allora due possibili domande suscitate dal brano:

    1. Nel brano è possibile scorgere, da parte di Cesare, un collegamento polemico anche con il presente di Roma? Se sì, in quale parte tale riferimento viene, secondo te, esplicitato?
    2. Nella frase Trans Rhenum colonias mittere Cesare usa il termine “colonia”, vocabolo strettamente “romano”, per indicare operazioni politico-militari dei Galli. Che cosa si intende nel mondo latino per colonia?

    Tali domande hanno lo scopo non solo di verificare la comprensione del brano, ma anche di aiutare a costruire un collegamento tra ciò che si legge e ciò che già si conosce (o si dovrebbe conoscere). Ovviamente, le domande possono essere modificate a piacere, partendo da quanto ciascun docente ha approfondito nello sviluppare le competenze di “civiltà” della cultura latina, come suggerito dalle cosiddette “indicazioni Gelmini”, e/o dal contributo interdisciplinare che ha offerto il collega di Storia del biennio. Va osservato che per rispondere a queste domande la traduzione del brano ricavata da qualche sito può essere certo d’aiuto, ma non è dirimente. Il lavoro di fondo deve venire per forza di cose realizzato dallo studente, e deve essere realizzato mettendo in relazione fra loro vari strumenti e varie acquisizioni di sapere, nessuna delle quali è di per sé in grado di sostituirsi alla sua autonoma rielaborazione del tema.

    TERZO APPROCCIO: comprendere “nel” testo

    Anche in questo caso le modalità di somministrazione del testo e di risposta ai quesiti formulati possono restare le stesse. Cambia di nuovo, però, il focus delle domande. Per questo, si tratta sempre di un esercizio non necessariamente alternativo ai precedenti. Ecco quindi altre due possibili domande suscitate dal brano:

    1. Alla prima riga si fa riferimento a un passato in cui Germanos Galli virtute superabant; cosa intende qui Cesare con il sostantivo virtus?
    2. Il termine virtus ritorna nel finale del brano. Perché è così importante questo concetto all’interno del passo in esame? Che cosa vuole far comprendere Cesare nel suo racconto?

    In questo approccio, l’idea è di partire dal testo per scavare nella sua profondità. I brani hanno sempre un messaggio che vogliono veicolare, ed è importante aiutare gli studenti a percepire il senso profondo di quanto leggono. Oltre alla grammatica, quindi, e alla “semplice” comprensione di ciò che accade, è necessario che essi sappiano intuire anche il valore del brano che leggono, prescindendo dalla sua traduzione in italiano, che, anzi, nel migliore dei casi finisce per essere tutt’al più uno strumento di servizio, ma non la finalità del lavoro (e quindi il recuperarla via internet non aiuta per davvero lo scavo del testo, visto che questa resta un’attività lessicale e concettuale, che inevitabilmente deve partire dalla lingua originale).

    Come s’è detto, i tre approcci proposti possono essere utilizzati contemporaneamente; nulla vieta di costruire una prova che abbia al suo interno obiettivi diversi e richieda competenze diverse, e che possa quindi mettere in luce livelli diversi di profondità nell’accostarsi a un testo. Se il primo approccio meglio si presta a una prova in praesentia, come s’è detto, e fosse anche la “presenza virtuale” cui ci costringono questi giorni, gli altri due non solo non hanno una simile necessità, ma addirittura possono trarre beneficio dall’absentia. In tutti i casi, rinunciando a un (intrinsecamente impossibile) tentativo di trasporre alla lettera un messaggio da una lingua a un’altra, non diventa però per questo automaticamente impossibile mantenere vivo il dialogo con il mondo classico. Vicini, lontani, presenti, assenti. Nulla, in realtà, cambia per davvero.

    ©  Davide Marelli, 2020

  • Sallustio e Catilina

    Sallustio e Catilina

    In questi giorni di sosta obbligata e didattica ‘in remoto’ proviamo ad offrire alcune riflessioni che consentano di affrontare in modo originale un testo molto conosciuto e frequentato nelle scuole come il De coniuratione Catilinae di Sallustio. Di fronte a un’opera di tale fama si può correre a volte il rischio di un approccio pago di una certa fissità; al contrario, il De Coniuratione rappresenta ancora oggi una questione aperta e tutta da discutere, intrigante e irrisolvibile. Proponiamo qui tre differenti spunti di lavoro.

    Il primo, come è stato già richiamato in un post precedente di questo stesso sito, riguarda la data di composizione dell’opera. Nei manuali e nelle antologie scolastiche Sallustio è considerato un autore della tarda repubblica, ed è tendenzialmente accostato a Cesare e a Cicerone, non senza ragione. L’età di Cesare e Cicerone fu infatti fondamentale per Sallustio: ad essa risalgono la sua maturità di uomo e di politico e il suo ingresso nella Storia che conta; in quegli anni esercitò il governo sulla provincia dell’Africa Nova, sia pure (pare) cedendo alla tentazione di saccheggi e rapine che gli costarono la definitiva e ingloriosa uscita dal Senato. Fu un periodo decisivo, perciò, per l’uomo Sallustio, che tuttavia non era ancora divenuto scrittore.

    Gli stessi manuali che lo inseriscono tra gli autori di età cesariana e tardo repubblicana fanno risalire la data di composizione della sua prima opera, il De coniuratione appunto, a un intervallo tra il 43 e il 41 a.C. Questa datazione ‘avanzata’ nasce in Francia con Gaston Boissier (che nel 1905 propose di far risalire la scrittura al 42-41 a.C.), ed è stata accolta da molti e importanti studiosi (un altro, Gino Funaioli, nel 1921 aveva pensato di allargare l’intervallo temporale, posponendo la conclusione della composizione dell’opera al 40 a.C.). Sebbene sia impossibile accertare la verità, data l’assenza nel De coniuratione di espliciti riferimenti agli eventi politici contemporanei, alcuni elementi corroborano l’ipotesi di Boissier. Innanzitutto, è improbabile che Sallustio abbia intrapreso la scrittura di un’opera sulla congiura di Catilina mentre uno dei principali protagonisti di quegli avvenimenti era ancora in vita (alludo a Cicerone). L’inizio della composizione dell’opera dovrebbe perciò essere successivo al dicembre del 43, data di morte dell’oratore. Ronald Syme, di conseguenza, suggeriva che l’opera, se iniziata dopo il dicembre del 43, difficilmente poteva essere stata conclusa nel 42. Sempre Syme ha osservato che nella seconda monografia di Sallustio, il Bellum Iugurthinum, sembra trasparire un giudizio sul secondo triumvirato e le proscrizioni dei triumviri: l’ondata di vendette e ingiustizie che seguirono i provvedimenti di Antonio, Ottaviano e Lepido, dice Syme, aveva lasciato il segno e modificato la visione politica di Sallustio, il quale, ai tempi della composizione del De coniuratione, probabilmente era stato testimone ‘in presa diretta’ di quegli avvenimenti.

    Il De coniuratione dunque (se accettiamo una datazione grossomodo definibile come 42-41 a.C.) sarebbe sì l’opera di un uomo che figura tra gli ultimi senatori della Repubblica; ma il momento storico in cui Sallustio compose la sua monografia è successivo alla morte di tutti i personaggi che vi fanno da protagonisti, e con essi è morto anche l’ordinamento repubblicano. Sallustio, perciò, scrive già immerso in un day-after, e anche molto after, nel bel mezzo di un periodo macchiato di sangue nel quale si sapeva bene che cosa fosse terminato, ma non si poteva ancora intravedere ciò che sarebbe nato (come diceva Gramsci, con riferimento ad altro periodo storico, il vecchio mondo era già morto, ma il nuovo non era ancora nato: e Sallustio non ne vedrà la nascita, essendo morto a sua volta prima dello scontro finale tra Antonio e Ottaviano). Sallustio, dunque, come forma mentis era senz’altro un uomo della tarda repubblica, ed era stato un compagno dell’autore del De bello civili. Ma, come scrittore, appartiene a un momento successivo, un momento di profonda crisi e disorientamento, e di tale collocazione temporale occorre tenere conto nel considerare la sua opera. Si può registrare, ad esempio, che Sallustio compone il De coniuratione Catilinae negli stessi anni in cui Virgilio è al lavoro sulle Bucoliche. L’autore del De coniuratione costituisce dunque l’estrema esperienza di un ‘prima’ ma, allo stesso tempo, è anche la prima voce del ‘dopo’, ossia dell’età del secondo triumvirato.

    Il secondo spunto è direttamente collegato al primo. Perché Sallustio scelse di tornare sulla congiura di Catilina nel bel mezzo delle nuove proscrizioni dei triumviri? Perché farlo venti anni dopo gli avvenimenti narrati? Il passato non si riprende mai per pura curiosità. Che cosa dovette vedere Sallustio in quegli avvenimenti di così pertinente al presente suo e dei suoi contemporanei?

    La scelta della congiura come soggetto non era scontata. Catilina è una figura protagonistica forte e poteva garantire il pathos che Sallustio desiderava (un pathos ‘ellenistico’, si dice spesso). Ma non mancavano altri candidati autorevoli, ad esempio Silla o Pompeo. Si  ricordi che il peso storico della congiura di Catilina, evento epocale a detta di Cicerone e dello stesso Sallustio (facinus memorabile sceleris atque periculi novitate, capitolo IV, 4), è stato messo in discussione da diversi studiosi nel corso del Novecento. Anzi, c’è addirittura chi ha ipotizzato che la congiura sia in realtà una delle più grandi fake news di tutti i tempi, orchestrata da Cicerone con sapiente regia mediatica per eliminare un personaggio scomodo come Catilina e assicurare un successo politico a sé e a chi gli era vicino (Waters, 1970). Senza entrare nel merito, l’esistenza stessa di queste posizioni deve indurci a problematizzare la scelta di Sallustio, che avviene non cento anni dopo i fatti, ma venti, quando molti dei suoi testimoni diretti erano ancora in vita.

    Per affrontare la questione (perché Catilina?) occorre un’attenta lettura del testo. Una prima evidenza: all’infuori del protagonista, nell’operetta un ruolo importante è riconosciuto solo a Cesare, Catone e Cicerone. I primi due sono gli attori del dibattito in senato sulla condanna a morte dei Catilinari; il terzo è l’antagonista diretto di Catilina. Da qui si può cominciare a cercare una risposta: Sallustio con la congiura di Catilina ha scelto una vicenda che gli permettesse di citare tre fra i principali protagonisti degli ultimi venti anni della Repubblica, chiamando così a raccolta figure fondamentali anche per il passato più recente. Esse vengono fotografate un attimo prima che tutto precipitasse: Cesare e Catone nel 63, sebbene già autorevoli e influenti, erano ancora all’inizio delle loro rispettive carriere; con la repressione della congiura Cicerone si consacrava come grande leader ottimate; intanto, Pompeo preparava il ritorno trionfale dall’Asia. Mettere in scena Cesare, Catone e Cicerone, e con loro il senato romano, Crasso, e l’ombra di Pompeo sullo sfondo, ha allora il sapore di una resa dei conti con una pagina della Storia di Roma, che si prolunga ben oltre i fatti narrati e che ingombra di sé tutto il ventennio appena trascorso…

    Non mi soffermo sul trattamento riservato da Sallustio a Cicerone nell’opera, né sul dilemma dei discorsi di Cesare e Catone (problemi tuttora aperti). Offro alcune riflessioni sulla sola figura di Cesare all’interno del De coniuratione. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti sul nesso tra la congiura e la contemporaneità di Sallustio, per lungo tempo ci si è rifatti alla posizione di Eduard Schwartz (1897), per il quale il De coniuratione sarebbe nato come opera di propaganda militante, allo scopo di difendere Cesare e attaccare Cicerone, autore di una sorta di ‘libro nero’ (il misterioso De consiliis suis, mai arrivatoci) nel quale avrebbe accusato apertamente Cesare di aver preso parte alla congiura di Catilina. Questa opinione oggi è stata ricalibrata: nell’opera sallustiana non c’è livore verso Cicerone, il quale riceve un trattamento tutto sommato equilibrato. Resta vero, però, che Cesare, fin dal 63 a.C., venne più volte avvicinato a Catilina, ed è evidente che Sallustio ha operato alcune manipolazioni del materiale a sua disposizione per allontanare il più possibile il nome di Cesare da Catilina e dai suoi piani rivoluzionari (si veda ad esempio l’inizio delle macchinazioni di Catilina, retrodatato al 64 a.C. e associato fin da subito a Crasso, non a Cesare: retrodatare l’effettivo inizio della congiura aggrava le responsabilità di Catilina e indirettamente scagiona Cesare, che non compare in scena prima del capitolo XLIX, vittima delle calunnie di due senatori che, guarda caso, tentano di coinvolgerlo nella congiura a causa di rivalità personali).

    Sallustio tuttavia opera una strategia ben più singolare per liberare Cesare da ogni sospetto, e lo fa attraverso la costruzione del personaggio di Catilina. Catilina, infatti, presenta su di sé tutte le caratteristiche che la propaganda avversa aveva addebitato a Cesare: Catilina ha tra i suoi precedenti una condotta sessuale scandalosa; è un corruttore di giovani e, attorno a lui, si addensa la folla di tutti coloro che a Roma hanno bisogno di favori illeciti o si trovano sul lastrico (si confronti, per esempio, quanto si legge nel capitolo XIV con quello che Svetonio dice di Cesare nella di lui biografia, capitolo XXVII); e, ça va san dire, Catilina aspira alla tirannide. Ma non è tutto: Catilina giustifica la sua rivolta con la difesa della propria dignitas ed esorta i suoi a vindicare se in libertatem (cap. XX). Ci ricorda qualcuno? Si guardi al De bello civili,I, 4, 4 e 22, 4. Sallustio sceglie dunque di difendere Cesare addossando su Catilina tutte le accuse che erano state rivolte al dittatore, il quale appare completamente estraneo ai fatti della congiura ed è invece accostato a Catone per virtù e integrità morale. Concludo però questa parte con uno spunto ‘di crisi’: si provi a guardare, in quest’ottica, anche al finale dell’opera. Qui Catilina, non senza scandalo di alcuni lettori, esce di scena in maniera a dir poco straordinaria: il combattimento e la morte eroica a Pistoia sembrano minare l’immagine del crudele e perverso nemico dello Stato fin lì alimentata; egli, come ogni ineccepibile generale, appare un Cesare a tutti gli effetti, e nella morte assomiglia perfino a Decio Mure. Che cosa può significare questa contraddizione, definita da La Penna con la celebre formula della ‘paradossalità’? Catilina è un anti-Cesare, ma è molto di più di questo. È in questo suo essere un concentrato di bene e di male che il Catilina di Sallustio si offre come figura emblematica degli ultimi anni della repubblica. Non è da escludersi che quest’ultima considerazione possa avere delle ripercussioni anche sull’interpretazione del Cesare sallustiano, ma lascio aperta la riflessione.

    Terzo e ultimo spunto. A un lettore attento non sfugge la presenza insistita dei giovani all’interno del De coniuratione: Catilina sceglie i filii delle migliori famiglie di Roma, li corrompe, li addestra e se ne serve per le sue trame criminali. Egli, in particolare, attira a sé giovani che desiderano uccidere i propri genitori, per ottenerne il patrimonio al quale non avrebbero potuto avere accesso fino alla morte dei loro padri, come prescriveva l’istituto giuridico della patria potestas (ci si riferisce al temuto crimine di parricidium, vera e propria ossessione sociale di Roma, sul quale si veda il recente libro di Eva Cantarella, Come uccidere il padre, Milano, Feltrinelli, 2017). Tuttavia, se Catilina contribuisce ad alimentare tra i padri-senatori il timore del parricidio, all’interno del De coniuratione, in realtà,assistiamo sempre al fenomeno inverso. Sono sempre i figli a morire per mano dei padri. Muore il figlio di Catilina ucciso da Catilina stesso (cap. XV), muore un giovane di nome Fulvio, ucciso dal padre che non lo vuole unito ai Catilinari (cap. XXXIX), è rievocato il mitico omicidio del console Torquato, che aveva assassinato il figlio vittorioso, ma disubbidiente ai suoi ordini (cap. LII). Che cosa si cela dietro a questa catena di giovani morti nel De coniuratione? Siamo di fronte a un livello profondo del pensiero sallustiano. Nella Roma corrotta del presente si continuano ad assassinare i figli per il bene dello Stato, come avevano fatto Torquato o Bruto nella Roma dei maiores. Sallustio lega così il passato al presente, tramite la ripetizione degli stessi gesti, dentro a un ineludibile contrasto. I gesti, terribili e virtuosi, sono gli stessi degli antenati: ma nella Roma degenerata di Catilina il loro valore non è più lo stesso: perché è il filo della Storia che sembra essersi ormai definitivamente perso.

    ©  Bernardo Cedone, 2020

  • Le monete di Cesare

    Le monete di Cesare

    Cesare non si lasciò sfuggire la possibilità di controllare un altro importante mezzo di propaganda politica: la coniazione di monete. Infatti, la moneta era, ed è tuttora, uno strumento facilmente trasmissibile, non solo fra gli individui, ma anche da un luogo all’altro. Coniare monete offrì quindi un duplice vantaggio a Cesare, da un lato propagandistico, dall’altro economico, poiché per sostenere le spese della guerra civile egli si impossessò del tesoro dell’aerarium e stabilì, senza l’autorizzazione del Senato, che una seconda zecca monetaria lo seguisse nelle campagne militari, mentre in precedenza l’unica possibilità di coniare monete era utilizzare la zecca situata presso il tempio di Giunone Moneta sul Campidoglio, posta sotto la responsabilità dei tresviri monetales.

    Fra le prime emissioni coniate da Cesare si trova una serie di nove aurei, composti da oro purissimo. Essi presentano sul diritto un ritratto femminile, identificato con Venere, a cui è accompagnato il simbolo ⟂II, da interpretare come la cifra romana LII, indicante gli anni di Cesare; sul rovescio la rappresentazione di un trofeo di armi galliche, fra le quali si riconoscono uno scudo, un elmo, una carnyx (uno strumento musicale dei Galli) e un’ascia. Il confronto dei dati presenti sulle due facce dell’aureo ha generato pareri discordi sulla data e sul luogo della sua emissione e sul messaggio che doveva suggerire.

    (RRC [= M. H. Crawford, Roman Republican Coinage, 1974] 452/1)

    L’incertezza è generata dalla discordia tra le fonti antiche nello stabilire l’età esatta della morte di Cesare, avvenuta a 56 anni secondo Plutarco, a 55 anni secondo Svetonio. Infatti, considerando la data di nascita di Cesare, l’emissione potrebbe essere avvenuta fra il 50 a.C. e il 48 a.C., rispettivamente in Gallia o in Illirico. Dunque, se Cesare fosse nato nel 102 a.C. avrebbe coniato l’aureo nel 50 a.C. in Gallia e il rovescio sarebbe stato un mezzo per celebrare la sua vittoria sulle popolazioni galliche, sottomesse alla forza militare di Roma. Al contrario, se la data di nascita fosse da collocare nel 100 a.C. a 52 anni Cesare sarebbe stato impegnato in Illirico e Grecia contro Pompeo e il suo esercito. In questo caso l’emissione sarebbe servita per ricordare alle sue truppe che la sconfitta di Durazzo altro non era che il preludio alla vittoria finale, come già avvenuto a Gergovia e ad Alesia in Gallia, motivo per cui sarebbe giustificata la presenza di un trofeo con armi galliche. L’ipotesi più probabile è la prima: dopo essersi impossessato dell’oro gallico, l’urgenza con cui Cesare si impadronì di quello custodito nell’aerarium di Roma (49 a.C.) contrasta con l’idea che la coniazione fosse avvenuta nel 48 a.C., prima o dopo la battaglia di Farsalo, in quanto l’oro gallico era finito e Cesare aveva urgente bisogno di quello situato a Roma.

    Gli aurei della seconda coniazione, in tutto noti in tredici pezzi, hanno un carattere religioso e civile e sono accompagnati da simboli e inscrizioni relative alle cariche rivestite da Cesare. Al centro del diritto sono raffigurati una scure e un culullus, un vaso in terracotta utilizzato durante i sacrifici, simboli del pontificato; ai loro lati le scritte CAESAR e DICT. Sul rovescio si osserva una situazione analoga: una corona di alloro circonda una brocca e un lituus, simboli dell’augurato, carica che Cesare ricoprì dal 47 a.C.; gli oggetti sono accompagnati dall’iscrizione ITER, fondamentale ai fini della datazione perché indica che Cesare assunse per la seconda volta la carica di Dictator, assegnatagli fra il 48 a.C. e il 47 a.C., nello stesso anno in cui sconfisse Farnace II, re del Ponto. L’emissione è collegata proprio a questo episodio, perché dall’Asia Minore provengono alcuni esemplari della serie, e ad esso farebbe riferimento la corona di alloro presente sul rovescio. Pertanto, la coniazione di questi aurei sembra avere fini politici, ribadendo l’importanza delle cariche civili e religiose, di cui Cesare era ai vertici.

    (RRC 456/1a)

    La terza emissione aurea realizzata da Cesare è datata al gennaio 44 a.C., è l’unica avvenuta a Roma e se ne conoscono trentuno esemplari. Sul diritto sono incisi il busto di una figura femminile, probabilmente Venere, e l’iscrizione CAES DIC QUAR ; sul rovescio la scritta COS QVINC è circondata da una corona di alloro. Le celebrazioni della quarta dittatura e del quinto consolato permettono di datare con sicurezza la moneta, dal momento che Cesare assunse le cariche all’inizio del 44 a.C. Questa emissione sembra la sintesi delle due precedenti, perché riassume la coesistenza della simbologia militare, documentata dalla prima coniazione, e di quella religiosa, presente nella seconda. Infatti, Cesare, possedendo entrambi i titoli contemporaneamente, aveva acquisito un potere assoluto, rappresentato dalla carica di Dictator, celebrata nella sua ultima emissione aurea.

    (RRC 481/1)

    Nel 46 a.C. e nel 45 a.C., esattamente fra la seconda e la terza emissione aurea di Cesare, si collocano rispettivamente le coniazioni di aurei di Aulo Irzio e Munazio Planco. che, pur non essendo riconducibili direttamente a Cesare, rendono comunque evidente la volontà di celebrare il Dictator, che aveva nominato i suoi collaboratori rispettivamente pretore e praefectus urbi.  E proprio a commemorare questi eventi doveva servire la coniazione degli aurei.

    Gli aurei di Irzio, datati al 46 a.C., presentano sul diritto il ritratto di una donna con il capo velato, identificata con Vesta o Pietas, circondata dall’inscrizione C. CAESAR COS TER; sul rovescio un lituo, un vaso e un’ascia accompagnati dalla dicitura A HIRTIUS PR.

    (RRC 466/1)

    Quelli di Planco, del 45 a.C., al diritto raffigurano il busto di una Vittoria alata e la scritta C. CAES DIC TER; al rovescio un praefericulum, un vaso utilizzato durante i sacrifici, e l’inscrizione L. PLANC PR. VRB.

    (RRC 475/1a)

    Le emissioni monetarie di Cesare non si limitarono agli aurei, ma interessarono anche altri valori, in particolar modo il denario. Tutti i tipi erano in stretta relazione con Cesare e costituirono un mezzo per promuovere la sua persona e le sue imprese. Un denario del 49 a.C. proveniente dalla Spagna settentrionale o dalla Gallia meridionale ha raffigurato sul diritto la scritta CAESAR sovrastata da un elefante mentre calpesta una serpe, gesto interpretato come un’allusione alla guerra civile fra Cesare e Pompeo, in perpetua discordia come gli elefanti e i serpenti, la cui eterna lotta è ricordata da un passo di Plinio (nat.VIII, 32). Sul rovescio ci sono emblemi pontificali e sacerdotali, quali un simpulum, una coppa usata durante i sacrifici, un aspergillum, con il quale si irrorava l’acqua, un apex, simbolo dei Salii, e un’ascia.

    (RRC 443/1)

    Un denario battuto nel 48 a.C. dal magistrato monetario Lucio Ostilio Saserna ha suscitato notevole interesse per via di un ritratto maschile raffigurato sul diritto. Il volto è quello di un guerriero gallico, identificato da alcuni come Vercingetorige, il quale, al momento della realizzazione di questa moneta, si trovava nel carcere Tulliano a Roma in attesa del trionfo di Cesare, e avrebbe quindi potuto fare da modello per gli incisori.

    (RRC 448/2a)

    Anche Enea divenne emblema della propaganda cesariana. Infatti, su un denario del 47 a.C. Cesare pose Venere al diritto e al rovescio Enea, in nudità eroica, con Anchise e il palladio. L’eroe troiano era simbolo identitario della gens Iulia e venne sfruttato come mezzo di affermazione politica. In questa serie di monete è interessante notare però l’assenza di Iulo/Ascanio, che entrò nell’iconografia numismatica solo sotto il principato degli Antoninî.

    (RCC 458/1)

    Dopo la fine del conflitto civile Cesare ottenne, per primo fra i cittadini romani, l’onore di apporre sul diritto dei denari autorizzati dal Senato e coniati dai quattuorviri monetales il suo ritratto, con la menzione della dittatura perpetua e sul rovescio l’effigie di Venere. In una serie di denarii, in cui Cesare è stato raffigurato velato capite, compare anche il titolo parens patriae, attribuitogli all’inizio del 44 a.C. È probabile che in questo modo Cesare abbia provato a realizzare quello che riuscì a portare a termine soltanto Ottaviano, ovvero porre la coniazione delle monete sotto controllo diretto di chi era al comando, grazie all’aiuto di uomini fidati.

    (RRC 480/19)

    Nemmeno dopo le Idi di marzo la figura di Cesare scomparve dalla monetazione romana, anzi vi furono diversi riferimenti a lui o alla sua morte negli anni immediatamente successivi al 44 a.C. sia da parte dei Cesariani che da quella dei Cesaricidi. Marco Antonio e Ottaviano desideravano presentarsi come eredi del defunto Dictator; i Cesaricidi come liberatori di Roma. Delle monete dei Cesaricidi, però, si conservano rarissimi esemplari, dato che dopo la sconfitta subita a Filippi, si assistette a una damnatio memoriae di persone e oggetti collegati alla loro fazione, e le monete da loro coniate, probabilmente rifuse, persero di valore.

    (RRC 508/3)

    © Niccolò Chiesa, 2019

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  • Cesare e i suoi ritratti

    Cesare e i suoi ritratti

    Nella scultura ufficiale romana l’intento celebrativo superava il momento di astratto interesse formale. Ciò era possibile perché l’arte romana aveva trovato nell’uso pubblico il canale per veicolare messaggi celebrativi e politici a sostegno dell’ideologia al potere. In particolare, nel caso delle statue e dei ritratti a determinare l’effetto espressivo non era solo la tipologia della raffigurazione, ma anche il luogo in cui veniva collocata e l’inscrizione che l’accompagnava.

    Inizialmente era il Senato che, riconosciuto il valore di un’azione, premiava il singolo cittadino attraverso una statua. La letteratura latina offre, a questo titolo, vari aneddoti: Plinio ha dedicato al tema diversi capitoli del libro XXXIV della Naturalis Historia; Tito Livio e Valerio Massimo chiariscono come queste onorificenze potessero essere ottenute da chiunque, senza che l’estrazione sociale o il sesso fossero delle barriere. Il primo, infatti, riporta l’episodio di Clelia (II, 13 – ricordato anche da Plinio, XXXIV, 28-29, e Virgilio, Eneide VIII, 651), ragazza romana ostaggio di Porsenna, dal quale riesce a liberare sé e altre donne e a fuggire a nuoto, meritandosi così la prima statua equestre della storia romana, disposta sulla via Sacra. Valerio narra invece la vicenda del puer Emilio Lepido (III, 1), troppo giovane per arruolarsi nell’esercito, ma già meritevole della corona civica, degli spolia del comandante avversario e della collocazione sul Campidoglio di una statua con la bulla e la toga praetexta.

    A partire dalla tarda repubblica, crebbe notevolmente da parte dei singoli uomini politici la necessità di proclamare il proprio potere e lo status sociale attraverso nuove costruzioni o immagini, che divennero strumento di propaganda. Cesare si inserì in questa tradizione, sfruttando le onorificenze ricevute in seguito ai trionfi.

    Le sue statue suscitarono, e suscitano ancora, grande incertezza (Zanker le definisce “irritanti”) sulle intenzioni monarchiche di Cesare. Già nel suo Foro, pur mostrandosi nelle vesti tradizionali del generale vittorioso con una statua pedestre e una equestre, Cesare risultava sprezzante delle regole repubblicane, dal momento che entrambe le statue erano loricate, mentre nei confini del pomoerium era vietato stare armati né potevano comparire raffigurazioni in armi. Ma altre statue tentavano di presentare Cesare addirittura come un dio o un semidio, senza che sia chiaro se fossero uno strumento di propaganda anticesariana o un tentativo mal riuscito di celebrazione da parte di quella cesariana. Fra queste si ricordano una statua in avorio che sfilava insieme agli agalmata degli dèi nella processione verso il Circo Massimo; un’altra collocata nel tempio di Quirino (con l’augurio di Cicerone che Cesare diventasse ben presto “collega” del dio), accompagnata dall’inscrizione “dio invincibile”, già epiteto di Romolo; infine, una terza eretta nell’area capitolina insieme a quelle dei re, in una collocazione alquanto ambigua, perché accanto a quella di Bruto, rappresentato con una spada sguainata. Così, l’antico e il nuovo liberatore erano collocati l’uno vicino all’altro, e se da un lato Cesare era posto alla stregua di Romolo e Bruto e si vedeva concessa pari dignitas, dall’altro i suoi detrattori non persero l’occasione di sottolineare la sua aspirazione al regno.

    Con quest’ultima statua Cesare voleva dare rilievo al proprio ruolo di difensore della libertas Urbis, tema poi intensificato con l’innalzamento di una statua cinta sul capo dalla corona obsidionalis, interpretata come liberazione dello Stato dall’assedio degli avversari. A partire da quel momento le corone vennero sempre marmorizzate, diventando una caratteristica della ritrattistica romana successiva, mentre in precedenza sulle statue di chi meritava questi onori veniva posta una vera e propria corona. Anche dopo le Idi di Marzo le statue di Cesare non cessarono di creare divisione: da un lato i Cesaricidi aprirono fucine di smaltimento per fondere i metalli con cui erano state eseguite, dall’altro Ottaviano fece erigere altre rappresentazioni di Cesare divinizzato.

    Sono meno controversi i ritratti di Cesare, fra i quali si trovano due esemplari a lui contemporanei: il cosiddetto Cesare Tusculum e quello rinvenuto nel Rodano presso Arles, la colonia cesariana di Arelate. Entrambi sono molto diversi dai ritratti postumi, più conformi alle idee e alla direttive espresse dal principato di Ottaviano.

    Il viso del ritratto di Tuscolo (oggi conservato al museo archeologico di Torino) mostra una magrezza estrema ed esibisce rughe profonde sulla fronte e sulle guance. Questi elementi hanno permesso di datare il ritratto agli ultimi anni di vita del dictator, o poco dopo la sua morte. Certamente si tratta del profilo di un Cesare maturo, presentato nelle vesti di un politico accorto. Per il suo realismo il ritratto si colloca inequivocabilmente nella tradizione repubblicana, per la quale l’esigenza di differenziarsi dagli avversari politici rendeva necessaria la massima attenzione alla resa dei dettagli dei lineamenti fisici.

    (Il Cesare “Tusculum”)

    È invece controversa l’identificazione con Cesare del ritratto scoperto nel 2007 sulla riva destra del Rodano, presso l’antica Arelate. Il ritratto potrebbe essere stato scolpito nel 49 a.C., in occasione dell’assedio di Marsiglia, o nel 46 a.C., anno in cui Cesare dedusse la Colonia Iulia Paterna Arelate Sextanorum. Infatti, la deduzione della colonia può giustificare la presenza di un ritratto onorifico di Cesare, forse inserito in uno spazio pubblico durante la celebrazione per la fondazione della città, o sopra un monumento trionfale dal quale lo sguardo di Cesare incontrava il Rodano e contemplava Arelate. Ciò che colpisce immediatamente è il realismo del viso, scolpito con estrema cura, e la presenza di caratteristiche plastiche individuali. Vi è raffigurato un uomo imberbe, d’età matura, con diverse rughe profondamente incise, che simulano il cedimento della pelle e connotano il volto di un politico concentrato in grandi pensieri. Il profondo realismo estetico, privo di pietà, contraddistingue il volto e contribuisce a collocare l’opera in quel filone ritrattistico tipico della tarda repubblica, in cui un’espressività molto forte riflette il carisma e i valori della virtus e del mos maiorum.

    (Il presunto Cesare di Arles)

    L’identificazione con Cesare si fonda sulla compatibilità cronologica del pezzo con l’età cesariana e sulle caratteristiche comuni con il ritratto di Tusculum. Inoltre, l’esecuzione finissima e l’uso di un marmo pregiato indicano una committenza molto alta. In effetti, sembra poco probabile che un magistrato romano o uno dei notabili locali abbia potuto farsi rappresentare alla maniera di Cesare, anche perché l’immagine di questi non era ancora stereotipata.

    Dopo la morte di Cesare la fisionomia del Dictator si riequilibrò in visioni più armoniose e idealizzate. È il caso dei ritratti Chiaramonti e Pisa, risalenti a un originale dell’età del secondo triumvirato, o comunque riconducibili a uno stesso modello, che potrebbe anche essere lo stesso ritratto Chiaramonti. Questi due busti illustrano un Cesare divinizzato, fuori dal tempo, la cui espressione sembra risentire della chiara volontà di Ottaviano di ricordare Cesare come l’incarnazione ideale del fondatore dell’Impero Romano.

    (Il Cesare Chiaramonti)

    Il ritratto di Cesare è presente anche sul diritto dei denari autorizzati dal Senato e coniati dai quattuorviri monetales, dopo il termine del conflitto civile, quando Cesare ottenne, primo fra i cittadini romani, l’onore di apporlo con la menzione della dittatura perpetua, accompagnato sul rovescio dall’effigie di Venere.

    (Denarium effigiante Cesare)

    Riassumendo: l’atteggiamento ambiguo di Cesare verso la tradizione repubblicana si manifesta in primo luogo nei loci prescelti per apporre la sua immagine: il Campidoglio e il Foro Romano erano i luoghi pubblici più ambiti per la collocazione di statue, ma è indubbio che acconsentire ad onori come la traductio in pompa e avere una propria statua nel tempio di Quirino era un gesto audace, che suscitò reazioni negative, perché Cesare accettò, se non addirittura scelse in prima persona, due sistemazioni inusuali e contrarie alla tradizione repubblicana. Non passò inosservato nemmeno il tentativo di creare un legame con Romolo, che offriva il modello per la divinizzazione: una propaganda che si rivolse contro Cesare stesso, perché i Cesaricidi organizzarono il suo assassinio pensando proprio alla versione cruenta della morte di Romolo.

    © Niccolò Chiesa, 2019

  • Il foro di Cesare

    Il foro di Cesare

    Con il pretesto di rinnovare le strutture più antiche per adeguarle al nuovo status di Roma, divenuta centro egemone dell’area mediterranea, Cesare realizzò un’opera di “cosmesi” edilizia della città, a partire dall’area del Foro Romano, nella quale eclissò i monumenti e i luoghi repubblicani.

    Più di ogni altra iniziativa architettonica, il Forum Iulium costituì l’opus maius dell’edilizia cesariana. I lavori per costruirlo furono iniziati nel 54 a.C., dopo che Cesare aveva acquistato le aree private a nord del comitium, incaricando Cicerone e Oppio di espropriare i terreni. I costi delle operazioni furono ingenti e salirono dai sessanta milioni di sesterzi preventivati a cento milioni, forse anche a causa di una speculazione ai danni di Cesare.

    Il complesso sorse fra l’area del preesistente Foro Romano e le pendici del Campidoglio e del Quirinale, motivo per il quale furono eseguiti interventi di incisione sulle pareti tufacee dei due colli. L’audacia degli interventi è evidente fin da questa azione: intaccando il Campidoglio, non erano state tagliate le pendici di un colle qualsiasi, ma quelle del colle che ospitava l’arx e il tempio dedicato alla Triade Capitolina.

    Per di più, l’area del comitium era interessata dalla presenza di luoghi di culto sacri a Venere Cloacina, il cui sacello si trovava sopra un corso d’acqua sotterraneo, con una specifica valenza purificatrice: ciò contribuì a offrire a Cesare una solida base simbolica e religiosa per costruire il complesso, in virtù della sua (presunta, ma da lui molto celebrata) discendenza da Venere; nello stesso tempo, però, pose il problema del venire a intaccare un’altra area sacra.

    Di fatto, durante lo scavo delle fondamenta gli operai violarono un’antica necropoli, le cui tracce (un gruppo di nove fosse circolari datate fra l’età del Bronzo Finale e l’inizio dell’età del Ferro, più un pozzo circolare di epoca tardo-arcaica e una cisterna a tholos del IV secolo a.C.) sono venute alla luce durante le campagne archeologiche del 2005-2008. Il ritrovamento, in tutte le strutture, di una conchiglia sottolinea una funzione specifica di questo ornamento: la sua presenza in contesti funerari potrebbe essere motivata dall’obbligo, avvertito dai costruttori cesariani, di purificare la loro azione empia per mezzo di atti piaculatori. La conchiglia, inoltre, è legata alla sfera della simbologia acquatica e della sessualità femminile, che trova, nel mondo greco-romano, la sua massima espressione nella mitologia delle ninfe e di Venere. In ogni caso, Cesare intervenne direttamente nel rito riparatore, nella sua qualità di Pontifex Maximus.

    Il complesso fu inaugurato insieme al tempio di Venere Genitrice in occasione del trionfo del 46 a.C. sulla Gallia, l’Egitto e l’Africa, nonostante a quella data i lavori non fossero ancora completati.

    Il Foro realizzato da Cesare, esteso in direzione est-ovest, si presentava come una grande piazza rettangolare, pavimentata con lastroni di travertino, circondata su tre lati da un doppio portico su due ordini, e chiusa sul quarto lato dall’Aedes Veneris Genetricis. Dietro al portico della navata meridionale si trovava una serie di tabernae, da intendere come uffici pubblici o luoghi destinati a raccogliere gli archivi giudiziari, perché il Forum Iulium non aveva carattere commerciale, ma era lo spazio in cui i Romani discutevano gli interessi dello Stato. Escludere le attività commerciali dalla piazza fu un chiaro ed evidente segno propagandistico, volto a concentrare l’attenzione sul nuovo dominatore di Roma e sulla sua divinità protettrice.

    Alla piazza si poteva accedere solo dal lato opposto al tempio di Venere: il cittadino, entrando, si trovava così in un contesto chiuso e fortemente incentrato sul tempio, che sorgeva su un alto podio ed era il reale protagonista del Foro.

    Il sistema decorativo scandiva il particolare rapporto fra Cesare, il Foro e le divinità legate al mondo acquatico. Ovidio ricorda la presenza di una serie di fontane dedicate alle ninfe in modo che il tempio fosse percepito come un ninfeo, dedicato alle ninfe e, di nuovo, a Venere. Così, la piazza era a tutti gli effetti una sorta di grande “santuario” della Gens Iulia.

    Tra l’altro, Cesare collocò al centro due statue che lo raffiguravano: una equestre, in bronzo, in origine un’opera di Lisippo raffigurante Alessandro Magno, cui Cesare sostituì la testa con la propria; l’altra loricata, nonostante le regole sacrali vietassero che all’interno del Pomerio ci fossero uomini in armi o loro rappresentazioni.

    Senza dubbio Cesare voleva edificare intorno all’area del Foro un complesso di edifici pubblici legati al suo nome e a quello della Gens Iulia, ma non riuscì a vedere la conclusione dei lavori progettati. Dopo la sua morte, fu Ottaviano a riavviare le operazioni nel 42 a.C., portando a termine il progetto cesariano, che però subì numerosi rifacimenti nei secoli successivi, fino a mutare in modo radicale il proprio aspetto.

    Quello che qui interessa evidenziare è però che, anche come urbanista, Cesare fu una figura audace e innovativa, che venne a rappresentare una sorta di spartiacque fra il vecchio e il nuovo. Fu infatti il primo a personalizzare un’area nel cuore politico di Roma, creando un luogo consacrato a lui e alla sua gens; anticipò l’evoluzione cui andava incontro Roma; indirizzò la successiva monumentalizzazione della città. Dopo di lui, Augusto, Vespasiano, Domiziano e Traiano costruirono ciascuno il proprio foro monumentale, riconoscendo nell’operazione un importante strumento di propaganda, secondo il modello offerto loro da Cesare. E questa è, appunto, la seconda osservazione che giustifica il post: Cesare fu, ben prima di Ottaviano (che però seppe perfezionare la prassi), il vero creatore di una politica indirizzata alla gloria personale. Egli riconobbe il “potere delle immagini”, per dirla con Zanker (che parla di Augusto), e ne fece un uso disinvolto e spregiudicato, volto alla celebrazione di sé attraverso la propria stirpe. Nelle intenzioni di Cesare, probabilmente, i lavori di costruzione del Foro a lui intitolato non dovevano apparire troppo diversi dalla stesura dei Commentarii. In un caso come nell’altro, si trattava di realizzare un monumento destinato a segnalare alle generazioni contemporanee l’esatta misura della propria grandezza, e a tramandare a quelle a venire il proprio nome e la propria gloria.

    (Il Foro di Cesare da Nord, con le colonne del Tempio di Venere,
    con i restauri di età traianea)
    (Planimetria del Foro di Cesare)




    (Paul Bigot, 1870-1942, plastico del Foro)



    © Niccolò Chiesa, 2019

  • Cesare alla prova

    Cesare alla prova

    Nel maggio scorso, presso il Liceo “Alessandro Volta” di Como si è svolta la decima edizione del certamen intitolato “Non omnis moriar”. Nato da un’idea di Cristina Boracchi, dirigente scolastico del Liceo “Daniele Crespi” di Busto Arsizio, il certamen è rivolto a studenti di quinta ginnasio e secondo anno del Liceo classico. Alle spalle della gara c’è un sistema di rete che include, o ha incluso nel corso del decennio, tutti i Licei classici della provincia di Varese: il “Cairoli” del capoluogo, il “Crespi” di Busto, il “Pascoli” di Gallarate, il “Legnani” di Saronno e, nelle passate edizioni, anche quei licei (come il “Sacro Monte” di Varese, lo “Stein” di Gavirate e il “Curie” di Tradate) che nel frattempo hanno soppresso le loro sezioni di classico. Capofila è il liceo di Busto, ma le altre scuole collaborano alla pari; edizione dopo edizione, hanno ospitato le prove della gara e si sono assunte, a turno, l’onere dell’organizzazione e della premiazione. Dal 2018 anche il Liceo “Volta” di Como è entrato nella rete, dopo avere partecipato per diversi anni da “esterno”, con i propri allievi. Come lui, hanno contribuito alle diverse edizioni del torneo anche alcune scuole milanesi (i licei “Beccaria”, “Berchet” e “Parini”), o addirittura extra-lombarde (i licei “Carlo Alberto” di Novara e “Parodi” di Acqui Terme). 

    Non è però il decennale, pur importante, né il fatto che il certamen sia uno dei pochi rivolti a studenti del primo biennio liceale, a giustificare questo post. La commissione, costituita da docenti in rappresentanza delle diverse scuole della rete, nell’ambito di un decennio ha selezionato altrettanti brani di Cesare, tratti indifferentemente dall’uno o dall’altro dei Commentarii, e li ha sottoposti all’esercizio degli studenti. Da sempre, il brano si accompagna a un rapido questionario, di 4/5 domande al massimo, via via perfezionatosi, ma fin da subito volto a verificare tanto la competenza grammaticale quanto il livello di comprensione del testo proposto ai giovani traduttori. Avendone la possibilità, offriamo qua, per la curiosità di tutti i lettori, il campionario dei dieci testi, sperando di fornire così uno strumento utile di orientamento, applicabile nella didattica quotidiana. Punto di orgoglio della commissione è che la decisione finale, anche quando difficile e sofferta, è stata sempre fatta dipendere dalle domande di comprensione e valutazione del testo (quelle meno strettamente grammaticali, l’ultima o al massimo le ultime due di ciascuna prova), talora perfino a dispetto di una resa apparentemente – ma, a questo punto, solo superficialmente – migliore. Nell’ottica, che da queste pagine è stata più volte propugnata, che tradurre sia solo una parte del comprendere; e comunque, comprendere sia l’operazione essenziale e più importante di tutte.

    prova 2009

    prova 2010

    prova 2011

    prova 2012

    prova 2013

    prova 2014

    prova 2015

    prova 2016

    prova 2017

    prova 2018

     

    © Massimo Martini, 2018

  • L’imperativo categorico

    L’imperativo categorico

    Cesare, si sa, è un autore sempre inflazionato nelle letture scolastiche, ridotto perlopiù a repertorio di versioni facili, da tradurre senza interesse alla forma e al contenuto, ma soltanto al rispetto delle regole grammaticali in esse applicate e da verificare attraverso di loro; oppure, al possesso di un lessico elementare di termini militari – quando la conoscenza di tale lessico non sia stata demandata a un utilizzo fideistico del dizionario bilingue – e a una generica, e spesso molto lassa, disponibilità ad accettare qualsiasi livello di consequenzialità logica nella resa traduttoria degli studenti. Il post che qui presentiamo parte invece da un’esperienza maturata in una classe Seconda di un noto Liceo delle Scienze Umane della Brianza. In quell’ambito, all’interno di una classe già segnata dai mali sopra elencati, e di per sé perciò difficile, perché in possesso di un’identità, di metodi e di abitudini da scardinare, abbiamo voluto proporre una lettura guidata dei brani di Cesare presenti nel libro di testo in adozione (I. Domenici, Id est. Corso di lingua e cultura latina, Paravia, Torino, 2012). Naturalmente, non è stato semplice chiedere agli alunni la disponibilità e il coraggio di provare qualcosa di diverso, un metodo nuovo (visto, proprio per questo, con sospetto e diffidenza), che pretendesse da loro non una meccanica applicazione di regole grammaticali apprese più o meno correttamente, ma l’utilizzo dell’intelligenza e della capacità di comprendere, o almeno intuire, il messaggio che il testo latino voleva veicolare. Abituati a un libro di testo quasi del tutto sprovvisto di brani in lingua, gli studenti erano soliti tradurre brevi frasi con il solo scopo di trovarvi applicata la regola di grammatica presentata nelle pagina precedente. Il latino era poco dissimile dalla matematica: regola ed esercizio, regola ed esercizio. Nei brani e nelle frasi affrontate secondo loro non c’era nessuno che comunicasse qualcosa a un pubblico, ma tanti piccoli puzzle creati in laboratorio, giusto per essere risolti. Il rapporto con il testo consisteva nella semplice, e consolidata, traduzione, sia nei compiti assegnati a casa, sia nelle prove di verifica in classe (incredibilmente, l’unico momento in cui leggevano un testo in latino che superasse le due righe).

    Partendo da Cesare, è parso allora opportuno chiedere qualcosa di diverso: posticipare l’imperativo “traduci” e passare prima attraverso la comprensione dei brani proposti. Il brano, e non singole frasi, è diventato così per la prima volta l’elemento portatore di significato; non più un esercizio di grammatica, ma il mezzo per conoscere una storia. Ai ragazzi, una volta somministrati i testi oggetto di esercizio, è stato infatti chiesto di rispondere, in italiano, a una serie di domande relative al contenuto dei testi, per dimostrare di avere capito il latino. Ciò li ha obbligati a guardare ai brani proposti come a dei messaggi, scritti da una persona concreta, per un pubblico concreto, con una struttura sintattica e stilistica finalizzata a ottenere qualcosa, attraverso un pensiero che si distende e si esplica in congiunzioni, artifici retorici, artifici letterari.

    Lo sguardo degli studenti, all’inizio, è stato perplesso, stupito. Diligenti per abitudine interiore, erano vistosamente spaesati dalla novità. Non è stato un momento facile, per nessuna delle parti in causa. Eppure, anche se con qualche difficoltà, e non senza incidenti e incomprensioni, nemmeno limitati alla sola classe!, a poco a poco la nebbia si è diradata. Molti hanno apprezzato il lavoro svolto e alla fine hanno esplicitato la soddisfazione per avere visto aprirsi, per la prima volta nella loro vita, un dialogo con un mondo lontano, diverso, sconosciuto. Leggere Cesare (o almeno leggere qualche brano di Cesare) ha significato provare ad ascoltare che cosa avesse da dire, perché gli servisse trovare un nemico da combattere, come fosse sempre riuscito a trovarlo e a giustificare così il proprio ruolo e la propria carriera. Perdersi nella cartina delle Gallie, cercare di capire che cosa fosse successo prima e che cosa presumibilmente sarebbe successo dopo il brano volta per volta proposto è stata per tutti un’esperienza nuova. Capire è venuto prima di tradurre. Non è questo il senso del latino?

    Riportiamo nell’allegato un esempio di testo e di scheda. Il brano, tratto dal volume indicato, è un passo famoso di Cesare, Gall. I 11. L’eserciziario presenta alcune variazioni al testo originario: per esempio, sostituisce parole ritenute difficili, o per forma o per significato, come populabantur, deponente, trasformato in vastabant alla r. 2; esplicita costrutti “impliciti”, come il cum narrativo e i riferimenti pronominali; semplifica il discorso indiretto e alcuni costrutti particolari, o non ancora in possesso degli studenti, come i supini attivi, sostituiti da altre strutture finali, e l’ablativo assoluto; omette una serie di circostanziali; soprattutto, riscrive la fine del passo. La pratica è censurabile, specie per l’entità numerica degli interventi apportati, ma è, come sappiamo, una pratica abbastanza diffusa, e forse inevitabile. In ogni caso, l’esperienza compiuta, della quale vogliamo dare qui conto, non si riferiva alla restaurazione del testo d’autore, e abbiamo perciò deciso di accettare il testo, ragionato, offerto dal libro in adozione. Gli esiti ci hanno dato piena ragione.

    Ecco dunque la scheda in formato pdf, scaricabile cliccando sul link riportato qui sotto:

    scheda cesare BG I 11

    © Davide Marelli, Massimo Gioseffi, 2018

  • Il muro di Marsiglia

    Il muro di Marsiglia

    In un certamen tenutosi in provincia di Varese (Non omnis moriar, IX edizione; quest’anno organizzato dal Liceo “Daniele Crespi” di Busto Arsizio) è stato presentato ai concorrenti, che erano tutti studenti del secondo anno provenienti da una decina di licei classici della provincia  e di altre province limitrofe, il seguente testo di Cesare:

    Caesar per litteras Trebonio magnopere mandaverat, ne per vim Massiliam expugnari pateretur, ne gravius permoti milites et Massiliensium defectionis odio et contemptione sui et diutino labore omnes puberes interficerent; quod se facturos minabantur, aegreque tunc sunt retenti quin oppidum irrumperent, graviterque eam rem tulerunt, quod stetisse per Trebonium, quominus oppido potirentur, videbatur. At hostes sine fide tempus atque occasionem fraudis ac doli quaerunt interiectisque aliquot diebus nostris languentibus atque animo remissis subito, meridiano tempore, cum alius discessisset, alius ex diutino labore in ipsis operibus quieti se dedisset, arma vero omnia reposita contectaque essent, portis se foras erumpunt, secundo magnoque vento ignem operibus inferunt. Hunc sic distulit ventus, ut uno tempore agger, plutei, testudo, turris, tormenta flammam conciperent et prius haec omnia consumerentur, quam, quemadmodum accidisset, animadverti posset. Nostri repentina fortuna permoti arma, quae possunt, arripiunt; alii ex castris sese incitant. Fit in hostes impetus; sed de muro sagittis tormentisque fugientes persequi prohibentur. Illi sub murum se recipiunt ibique musculum turrimque latericiam libere incendunt. Ita multorum mensium labor hostium perfidia et vi tempestatis puncto temporis interiit.

    Si tratta di un pezzo unitario del De bello civili, che include il finale del capitolo 13 e gran parte del capitolo 14 del secondo libro dell’opera. Il brano si riferisce all’inizio dell’assedio di Marsiglia, cui anche Lucano ha dedicato tanta parte del suo poema (il libro III). Il testo è esattamente quello di Cesare, salvo l’aggiunta della precisazione iniziale dell’oppidum di cui si stava parlando, che in Cesare si ricava dalla continuità di lettura; una nota a piè pagina spiegava anche chi fosse Trebonio. In classe credo che funzionerebbe bene il confronto fra questo brano e la narrazione lucanea, che ovviamente è di tutt’altro tono. Importante mi pare soprattutto la sottolineatura dei Marsigliesi come hostes sine fide perché fanno irruzione fuori dalla città assediata nonostante i Cesariani siano ben disposti verso di loro; Lucano, al contrario, osservando che loro soli si sono opposti all’altrimenti irresistibile avanzata di Cesare, li gratificherà di unici dotati di fides nei confronti di Roma e del suo senato, eppure sarebbero una Graia urbs!: ausa est servare iuventus / non Graia levitate fidem signataque iura, III 301-302. In fondo, Cesare aveva sì raccontato in precedenza che, stretti dall’assedio e già messi in difficoltà dalle operazioni guidate da Trebonio, i Marsigliesi avevano chiesto di attendere l’arrivo di Cesare perché si decidesse la loro sorte; ma, a parte che questo lo dice Cesare, ma non sappiamo se sia vero e gli storici moderni anzi ne dubitano, è invece sicuro che i Marsigliesi avranno ignorato la “clemenza” proposta da Cesare a Trebonio; e nemmeno si capisce come avrebbero potuto essere al corrente dei sentimenti e delle discussioni interne al campo nemico. La loro mancanza di fides si manifesta, di fatto, nell’approfittare di un’occasione propizia per fare una sortita dalla città assediata, e incendiare così parte delle macchine da guerra nemiche: una cosa che, in tempi bellici, sarebbe in effetti illegittima nel caso di tregua giurata fra le parti (come vuole Cesare), ma altrimenti è del tutto ovvia. E anche nel caso di interruzione delle tregua, è comunque avvenimento abbastanza comune per non doversene scandalizzare più di tanto – i paralleli non mancano né nei racconti di Cesare né nella tradizione epica, penso ad esempio al patto giurato e poi violato dai Latini nel dodicesimo libro dell’Eneide. Piuttosto, dal brano si evince come siano i soldati di Cesare a farsi cogliere impreparati di fronte all’assalto, anche se Cesare li scusa ricordando la loro fatica precedente e celebrando la loro pronta capacità di reazione, che subito ribalta le sorti del contrasto e in seguito permetterà di rifare in tutta fretta le opere danneggiate.

    Qui vorrei però concentrarmi su un dato, che è emerso dalla lettura delle prove dei concorrenti al certamen (una settantina circa). Fra i passaggi più difficili da interpretare è risultata la seguente frase: Fit in hostes impetus; sed de muro sagittis tormentisque fugientes persequi prohibentur. Ragione della difficoltà è stata, evidentemente, l’incapacità di molti concorrenti di capire chi siano i fugientes della situazione; chi, di conseguenza, riceva la proibizione di seguirli; di quale muro si tratti; e quale sia il rapporto di sagittis tormentisque con il resto della frase. Ora, un certamen è un certamen, e punta a individuare un podio di possibili vincitori. Una classe è invece una classe, e lì si deve puntare a traghettare al sicuro quanti più studenti possibile, auspicabilmente tutti. Cosa crea difficoltà in questa frase? A mio giudizio, tre cose, che rappresentano però anche tre tipici “errori” del nostro approccio ai testi latini. Vediamoli insieme.

    Il primo errore: l’ignoranza del lessico nelle sue specificità linguistiche. Si tende a dimenticare che ogni parola non significa pressapoco qualcosa, ma esprime un preciso concetto, non confondibile con nessun altro (salvo quando ci siano voluti giochi linguistici da parte dell’autore; ma non è il caso di Cesare). Qui si sta parlando di assedio di una città; da un lato quindi c’è una città fortificata, con le sue mura e le torri di difesa; dall’altro un accampamento provvisorio, ancorché perfettamente attrezzato, fatto in larga parte di legno, per essere facilmente costruibile e facilmente spostabile (vi si segnala infatti, come particolarità, la presenza di una torre di mattoni, turris latericia). Già questo avrebbe dovuto guidare verso l’idea che de muro si riferisca alle mura di Marsiglia e che sia da lì, quindi, che provengono sagittaetormenta (de, con tipico movimento dall’alto verso il basso). Di conseguenza, i fugientes così salvati dall’intervento di provvidenziali aiuti dall’alto devono essere i Marsigliesi, prima vincitori nella loro sortita, poi sorpresi dalla reazione dei Cesariani (già soggetto della proposizione precedente, e quindi sempre loro ad essere prohibiti dall’inseguimento).

    Il secondo errore: la difficoltà di vedere i testi nella loro interezza, limitandosi a tradurli segmento per segmento, man mano che questi si presentano allo sguardo dello studente. Agendo così, è chiaro che ci si trova davanti prima a un de muro poco perspicuo, poi a un sagittis tormentisque che non si sa bene a chi si riferisca ecc. ecc. Ma prima di tradurre ragioniamo sulla continuità del testo, ricordandoci che sì, è vero, in latino la presenza delle declinazioni consente di usare più liberamente le parole rispetto all’italiano; ma anche in latino, nonostante le declinazioni, la posizione delle parole ha pur sempre un significato. Perché allora sagittis tormentisque dovrebbe trovarsi dislocato a sinistra nelle frase, vicino a de muro, e lontano da persequi? Evidentemente, perché a de muro si riferisce, e non a persequi, con il quale non ha nessuna relazione.

    Infine, torno sulla necessità di ragionare prima di tradurre, cercando di visualizzare nella nostra mente quanto l’Autore ci ha detto e ricordando sempre che i testi sono racconti (o argomentazioni), che hanno uno sviluppo consequenziale e logico. Fatto questo, ecco che ogni cosa va subito a posto: Cesare chiede di salvare gli abitanti di Marsiglia, dando per certa la propria vittoria. Quelli, incuranti, tentano una sortita, che all’inizio sembra avere successo e consente loro di incendiare, con l’aiuto del vento, gran parte delle macchine da guerra preparate dai Cesariani. Questi ultimi sono sorpresi in ozio, e dapprima risultano incapaci di difendersi. Poi però reagiscono bene, e fit impetus in hostes, contrattaccano, mettendo in fuga quindi gli assalitori. Ma (sed), in forte opposizione a quanto appena detto, non riescono a portare a termine la loro azione (fugientes persequi prohibentur), poiché impediti, evidentemente, da sagittae e tormenta provenienti de muro. Tanto che i nemici (illi, nettamente diversificati dal precedente soggetto) arrivati sotto le mura cittadine riescono ancora a raccogliersi (se recipiunt) e a fare danni, dei quali lo stesso Cesare lamenta l’entità. Tutto appare logico.

    Non si traduce procedendo a spezzoni, dividendo il testo in sezioni prive di connessione le une con le altre: si traduce comprendendo il testo nella sua interezza e continuità, ed entrando poi nei suoi segmenti specifici. E’ quello che gli antichi chiamavano evidentia. Il Lewis-Short, strumento sempre eccellente, la glossa giustamente con “clearness, distinctness.—In rhet. lang., clearness, perspicuity; used by Cicero along with ‘perspicuitas’, as a translation of ἐνάργεια. La radice, inutile dirlo, è quella di vidēre per il latino, di un aggettivo che significa “luminoso, chiaro” per il greco. Ma io proporrei di pensare anche al greco phantasia (φαντασία) e alla sua relazione con phaino (φαίνω), “mostrare”, e phantazo (φαντάζω), “rendere visibile”. Ecco, diciamo allora così: tradurre è entrare in un testo passando dalla testa del suo Autore. Ma senza fantasia (= ‘capacità di vedere e rendere le cose visibili’), questo non è possibile. Senza fantasia, non si traduce.

     

  • Cesare e la provincia d’Asia

    Cesare e la provincia d’Asia

    Facendo seguito al post dedicato a Valerio Massimo (A modest proposal) e ad alcuni esercizi di analisi presenti nella pagina “Scuola” (relativi a passi di Livio, Tacito e Plinio), proponiamo un’analisi che possa servire come spunto di riflessione didattica, a partire da un capitolo di Cesare. Si tratta del capitolo III 32 del De Bello civili. Il lavoro immaginato è da svolgere parte in classe, parte in modo autonomo dagli studenti. Quanto scriviamo mette a frutto un’esperienza maturata presso l’Università degli Studi di Milano (con gli studenti non specialistici, del ciclo triennale) e presso il liceo “Ettore Majorana” di Desio. Incominciamo dal testo:

    Interim acerbissime imperatae pecuniae tota provincia exigebantur. Multa praeterea generatim ad avaritiam excogitabantur. In capita singula servorum ac liberorum tributum imponebatur; columnaria, ostiaria, frumentum, milites, arma, remiges, tormenta, vecturae imperabantur; cuius modo rei nomen reperiri poterat, hoc satis esse ad cogendas pecunias videbatur. Non solum urbibus, sed paene vicis castellisque singulis cum imperio praeficiebantur. Qui horum quid acerbissime crudelissimeque fecerat, is et vir et civis optimus habebatur. Erat plena lictorum et imperiorum provincia, differta praefectis atque exactoribus: qui praeter imperatas pecunias suo etiam privato compendio serviebant; dictitabant enim se domo patriaque expulsos omnibus necessariis egere rebus, ut honesta praescriptione rem turpissimam tegerent. Accedebant ad haec gravissimae usurae, quod in bello plerumque accidere consuevit universis imperatis pecuniis; quibus in rebus prolationem diei donationem esse dicebant. Itaque aes alienum provinciae eo biennio multiplicatum est.

    Prima operazione è stata la sua lettura, compiuta prima dal docente, poi dagli studenti, dopo aver predisposto per loro il capitolo secondo le indicazioni suggerite alla pagina “Scuola”, nel file “Proposte di lettura”. Dopo vario esercizio compiuto autonomamente dagli studenti, e completato in classe ascoltando e discutendo assieme le diverse registrazioni da loro effettuate (o una scelta di esse), ecco la registrazione giudicata migliore. La voce è di Mari Catricalà.

     

    Dopo la lettura c’è stata, ovviamente, la contestualizzazione del brano. In breve: la guerra civile si è spostata verso la parte orientale dell’imperium romano. I due eserciti stanno per scontrarsi a Farsalo. Cesare presenta rapidamente gli avvenimenti ed enumera le provincie schierate dalla parte di Pompeo, cercando di mostrare la loro cattiva amministrazione e l’illegalità del dominio dei Pompeiani. Nel caso specifico, è descritta la provincia d’Asia, provincia particolarmente legata alla figura di Pompeo, che l’aveva annessa all’impero di Roma, e attualmente governata da Publio Cornelio Scipione (che Cesare però non nomina mai), oligarca di antica famiglia e suocero di Pompeo. Cesare accusa gli avversari per l’eccessiva tassazione (necessità imposta, a loro dire, dai tempi militari e dalla loro situazione, in quanto lontani dall’Italia e dall’erario di Stato), l’eccessiva densità di magistrature nella provincia, la crudeltà e il comportamento ingeneroso nell’esazione delle tasse. Nel corso del capitolo, in più occasioni, Cesare lascia anche intendere che le ragioni addotte dai Pompeiani sono pretestuose e fasulle, un ritornello propagandistico svuotato di senso reale, mentre i nemici, in realtà, esercitano le loro vessazioni per puro tornaconto personale. Il suo è quindi un attacco diretto, che però non vuole troppo apparire tale.

    A livello sintattico, si riconosce una prima parte, semplice, lineare, fortemente scandita e ritmata, marcata dalla presenza del verbo principale in fine di frase (la paratassi è nettamente prevalente sulla ipotassi) e dalla successione di desinenze di imperfetto passivo o impersonale, alla terza persona, singolare o plurale (-bantur / -batur). Segue una seconda parte, che inizia con Erat provincia: il verbo è qui quasi sempre in prima posizione, e la costruzione sintattica tende a farsi più complessa. Dal punto di vista del pensiero la divisione è però ternaria: la prima frase, introdotta dal connettivo interim, sottolinea la simultaneità cronologica con quanto narrato in precedenza ed enuncia il thema (= l’argomento) del capitolo; poi, aperta da Multa praeterea e fino a donationem esse dicebant, segue una serie di exempla, che dovrebbero dare forza all’idea espressa dall’autore (gli esempi proposti restano però generici e non assumono mai la forma di casi specifici). Infine, introdotte da itaque, arrivano le conclusioni dell’autore, che presentano le conseguenze dell’azione dei Pompeiani.

    Nel lessico del capitolo si riconoscono alcuni termini tecnici del linguaggio giuridico/amministrativo, potenzialmente neutri ed asettici, mescolati però in callidae iuncturae (e spesso in endiadi) con parole, al contrario, fortemente connotative, portatrici del giudizio dell’autore. In particolare vanno segnalati il passaggio, nel definire la tassazione, da imperatae pecuniae (termine neutro, ma ossessivamente ripetuto in più forme) a tributum; la successione servorum ac liberorum [capita], che fa precedere gli schiavi ai liberi cittadini; l’endiadi acerbissime crudelissimeque facere (in cui il primo avverbio riprende e specifica l’acerbissime iniziale, allora lasciato senza commenti); espressioni fortemente connotate come avaritia [“avidità”], domo patriaque expulsi [dove “expulsi” sottintende la rapidità della loro fuga dall’Italia e l’efficacia dell’azione cesariana, che di quella fuga era stato artefice], privato compendio servire [dove “compendium” è il tornaconto personale, il guadagno privato, qui rafforzato da due aggettivi, suum e privatum che ribadiscono l’idea e da un verbo, servire = “essere schiavi” di assai forte significato espressivo]; il gioco di parole sulla provincia plena e referta (che implica la metafora non sviluppata di un convitato saturo); l’accumulo di termini simili (le otto forme di tassazioni elencate all’inizio; le quattro tipologie di magistrati ricordate a metà capitolo); la costruzione a zoom di talune frasi (ad esempio nel nesso non solum urbibus, sed paene vicis castellisque, con progressivo, ma significativo, restringimento dell’obiettivo); l’accurata disposizione dei termini (acerbissime, all’inizio, unito apò koinoù sia a imperatae che a exigebantur), oppure la loro insistenza (ad es. la ricorrenza di singula: tali sono i capita delle vittime; ma tali sono anche i villaggi saccheggiati, a delineare una rete dalla quale nessuno si salva). Alle figure dell’accumulo e dell’endiadi si aggiungono poi l’evidente ricerca di omoteleuti in contesti di particolare sgradevolezza (servorum ac liberorum, per dirne uno; oppure prolationem/donationem); l’enfasi pomposa, facilmente riconoscibile, di et vir et civis optimus, che svuota di senso le parole dei Pompeiani; l’uso del frequentativo dictitabant, che abbassa a livello di slogan le giustificazioni addotte dagli uomini di Pompeo… Infine, l’omoteleuto a rima prolationem/donationem – quest’ultimo facilmente sostituibile con il più semplice e comune donum – riduce a vacua filastrocca la concessione che i Pompeiani sono disposti a fare alle loro vittime (più uno scherno che una vera concessione), e toglie verità alla precedente concessione fatta da Cesare, quod in bello plerumque accidere consuevit: espressione in apparenza magnanima ed elegante, smentita però dalla descrizione dei comportamenti dei Pompeiani, tutt’altro che giustificati dalle circostanze esterne. Sarà anche una consuetudine dei tempi di guerra quella che viene descritta, ma il lettore abbia bene in mente che con i Pompeiani questa consuetudine assume forme di vera crudeltà (acerbissime crudelissimeque facere) e risponde in realtà a puro tornaconto personale (suo privato compendio serviebant).

    Nella pratica della classe queste indicazioni sono state ricavate dopo la lettura e prima della traduzione sistematica del brano, sollecitando gli interventi degli studenti attraverso una serie appropriata di domande, di modo che loro percepissero come proprie acquisizioni i vari elementi che via via venivano sottolineati. Ovviamente, le domande erano già strutturate in modo tale da suggerire osservazioni ed interpretazioni alle quali, suppongo, gli studenti non sarebbero arrivati da soli (o sulle quali  non si sarebbero probabilmente soffermati). Alla fine del dibattito, durato ca. un’ora, si è passati alla traduzione, divenuta così il termine di un lento processo di avvicinamento al testo, e non l’operazione sulla quale buttarsi a capofitto fin dal principio, senza avere prima ragionato sulle dinamiche e le parole del capitolo.

    Da ultimo, è stata assegnata agli studenti la prova di verifica, che ha preso la forma di una serie di domande strutturate nelle tre parti evidenziate durante l’analisi: struttura del brano, lessico in uso, contenuto complessivo. Allego in due pdf il testo della verifica e un esempio di risposta. Ne è autore lo studente Massimo De Marchi.

    matrice

    esempio di svolgimento