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  • Arcadia sull’Hudson

    Arcadia sull’Hudson

    Riprendo il ciclo di post dedicati all’Arcadia, con una prospettiva un po’ inusuale, almeno a occhi europei. Trovatomi a New York per un convegno su temi bucolici, ho scoperto l’esistenza di una scuola pittorica che si chiama “Hudson River School”, un movimento artistico sviluppatosi in America nel cinquantennio che va, grosso modo, dal 1825 al 1875, in parallelo all’opera di letterati come Henry David Thoreau (1817-1862) e Ralph Waldo Emerson (1803-1882). Devo all’amico Carlo Bottone, allora risiedente a New York, sia la visita alle sale del Metropolitan Museum dedicate a questa scuola pittorica, sia una gita (che molto consiglio a chi si trovasse da quelle parti) lungo le rive dell’Hudson, un piacevole complemento e diversivo dal caos organizzato della metropoli americana. Un ricordo per me indelebile e graditissimo.

    A chi volesse notizie precise e scientifiche su quella scuola pittorica, segnalo gli ottimi siti del Metropolitan Museum – che offre 54 dipinti, tutti commentati, e altro materiale informativo – e della Wadsworth Collection (un museo di Hartford, nel Connecticut), consultabili alle pagine https://www.metmuseum.org/toah/keywords/hudson-river-school/ e https://www.thewadsworth.org/collection/hudson-river-school/. Io qui non voglio esibire una dottrina che non ho, e che del resto in rete si può recuperare abbastanza facilmente. Dalle considerazioni intorno a quei dipinti – quelli che ho visto, quanto meno – vorrei ricavare tre suggestioni, che a me paiono tre forme del riuso arcade operato dai pittori di quella scuola.

    Il primo caso: ci sono dipinti che, pur rappresentando paesaggi più o meno reali della Valle dell’Hudson, sarebbero illustrabili con versi virgiliani, anche se la loro origine non è mai da cercare in Virgilio ma in una (presunta) osservazione dal vero e/o in una riproduzione di modelli pittorici inglesi – Turner e Constable in prima linea. Dico presunta osservazione dal vero, sia perché i dipinti raffigurano, quando hanno un’indicazione precisa, più i luoghi vicini alle sorgenti del fiume, nella zona delle Adirondack Mountains, che non quelli nei dintorni di New York, e io quei luoghi non li ho visti; sia perché, pur conservando ancora oggi la valle, man mano ci si allontana da Manhattan, un aspetto prettamente bucolico, il paesaggio in centocinquanta anni si è comunque alterato, ed è difficile capire quanto quei dipinti siano fotogrammi reali, e quanto pesi su di loro il velo dell’idealizzazione, assai forte nella poetica di questi pittori. Ecco così, ad esempio, una perfetta illustrazione del virgiliano ipsae lacte domum  referunt distenta [uberacapellae, IV 21, nel dipinto di Asher Brown Durand intitolato River Scene e datato 1854 (in realtà sono boves e non capellae, ma il resto cambia poco); oppure, ecco l’ille meas errare boves, ut cernis di I, 9, raffigurato dal quadro Autumn Oaks di George Inness, ca. 1878; il grandioso panorama proposto da The Beeches, ancora di Durand, datato 1845, in cui il pastore che, giustamente, agit gregem secondo i precetti virgiliani richiama di nuovo in mente la prima egloga, pur ridotto com’è a elemento miniaturizzato sullo sfondo di questi alberi maestosi; o, sempre di Durand (1853), le mucche che si abbeverano inter flumina nota di High Point, Shandaken Mountains (una località dello Stato di New York, vicino alla attuale città di Olive). 

    (Durand, River Scene, 1854)
    (Inness, Autumn Oaks, 1878)
    (Durand, The Beeches, 1845)
    (Durand, The Beeches, 1845, part.)
    (Durand, High Point – Shandaken Mountains, 1853, part. )

    Vengo alla seconda tipologia di intervento, che è quella della illustrazione di presunti luoghi geografici dell’Arcadia, in genere più facilmente inventati che conosciuti dal vero (la Grecia di inizio Ottocento non è ancora una meta turistica troppo sicura). Ecco ad esempio Evening in Arcady di Thomas Cole (1845); oppure, dello stesso pittore, ecco Dream of Arcady, del 1838. Sono paesaggi ideali, non diversi da quanto avevano fatto, con l’Italia, i Poussin e i Lorrain in un’altra, più antica stagione, e non diversi da quanto, per certe regioni dell’Italia (la valle di Tivoli e la Sicilia) fanno ancora gli stessi pittori della scuola dell’Hudson. Riporto, a titolo di esempio, una veduta di Taormina dove, sotto al maestoso panorama dell’Etna, si alternano rovine vere e di invenzione (l’autore è sempre Thomas Cole, 1843).

    (Cole, Evening in Arcady, 1845)
    (Cole, Dream in Arcady, 1838)
    (Cole, View of Taormina, 1843)

    Il nome di Thomas Cole, 1801-1848, riporta alla terza e forse più importante tipologia. A lui si deve un ciclo pittorico di cinque dipinti, pensati unitariamente, con il titolo di The Course of the Empire, 1833-1836. I quadri sono monumentali (100 cm per 161, ma quello centrale 130 per 193 cm) ed erano stati pensati per essere disposti in un pannello che li racchiudesse tutti, da esibire poi nella casa del committente, tale Luman Reed. Ognuno ha un sottotitolo: Stato selvaggio; Stato arcadico o pastorale; La consumazione dell’impero (quello centrale e più grande); Distruzione e Desolazione. L’idea di fondo consiste nel rappresentare un’identica scena naturale nel suo evolversi: dallo stato di Natura, libero e felice; a quello arcade, in cui l’uomo è ancora perfettamente inserito nel ciclo della Natura; alla costruzione della civiltà, di cui si fa simbolo una fiorente città dai tratti romani; alla distruzione che la civiltà inevitabilmente comporta, perché sedentarietà, fissazione dei confini naturali, costruzione di edifici e case significano il fondarsi di un capitalismo che porta a dissidi, guerre, dissoluzioni. Come sappiamo da un post precedente, è l’idea, espressa nella vita di Virgilio scritta da Elio Donato, che le Bucoliche raffigurerebbero lo stato primitivo ma felice della società, perché i pastori hanno greggi proprie, ma non impongono divisioni al terreno, sul quale le greggi devono poter pascolare senza confini. Con la nascita dell’agricoltura e quindi delle Georgiche, si arriva alla divisione dei campi e al formarsi della proprietà privata, perché i campi non sono di tutti, ma, quando va bene, sono di chi li lavora. Questo sfocia poi nelle guerre e nelle distruzioni, di cui si sarebbe fatta immagine l’Eneide. Che in Virgilio ci fosse un simile progetto naturalmente è assai discutibile; così come non credo che Cole conoscesse Virgilio o Donato (benché, se conosceva Virgilio è anche possibile e addirittura facile che lo leggesse con il commento e attraverso il filtro di Donato, che spesso accompagnava le antiche edizioni virgiliane. Ma non ho nessun dato a riguardo di una possibile conoscenza di Virgilio da parte del nostro pittore, e non è cosa che si possa dare per scontata). Resta da segnalare come, in Virgilio sì e no, in Donato in modo più esplicito, in Cole pure, una medesima critica al mondo contemporaneo e alla società cosiddetta civile, e alle forme del vivere civile, passi sempre attraverso i medesimi luoghi, e un medesimo utilizzo dell’idea pastorale, se non proprio arcade. Questa è per me, delle tre forme di riuso prospettate dal post, quella sicuramente più interessante di tutte.

    (Cole, The Savage State ca. 1836)

    (Cole, The Arcadian or Pastoral State, ca. 1836)

    (Cole, The Consummation of the Empire, ca. 1836)

    (Cole, The Destruction, ca. 1836)

    (Cole, Desolation,ca. 1836)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Et in Arcadia ego…

    Et in Arcadia ego…

    Et in Arcadia ego è il titolo di una costante iconografica diffusa soprattutto nella pittura del XVII secolo. Da quel titolo, divenuto proverbiale, nel 1936 il critico e letterato Emilio Cecchi trasse lo spunto per le proprie memorie relative a un viaggio compiuto in Grecia due anni prima, nel 1934; il libro, tuttora reperibile in commercio, descrive la visita di Corfù, Creta e in particolare Cnosso, Delfi, Micene, Corinto e parte del Peloponneso, e infine Atene, in cerca delle più importanti tracce artistiche e archeologiche. E’ un’interessante testimonianza sulla Grecia dei tempi andati, nella quale – va sottolineato – il gusto del pittoresco, dello stereotipo folclorico e folcloristico, si mescola in continuazione con folgoranti intuizioni delle tracce lasciate dalla storia più moderna. Quanto all’iconografia propriamente detta di Et in Arcadia ego, essa è stata fatta oggetto di studio nel bel volume di Petra Maisak, Arkadien. Genese und Typologie einer idyllischen Wunschwelt, Frankfurt a.M./Bern 1981. Qui mi occuperò solo delle due attestazioni più comuni del tema: il dipinto di Poussin conservato al Louvre di Parigi, e datato 1639; il dipinto di Guercino, oggi facente parte della collezione di Palazzo Barberini a Roma, datato 1618-1622 (la datazione precisa è incerta, ma oscilla fra questi due estremi). Si tratta di due riletture dello stesso tema: a indicare la propria presenza in Arcadia, supposta come un’isola felice secondo una vulgata che non è di Virgilio, ma che risale a un certo modo tipicamente rinascimentale di interpretare e semplificare le egloghe di Virgilio, è la morte. Per quanto piacevolmente si possa vivere in Arcadia, i pastori scoprono, con curiosità e sgomento, che anche in quella sorte di paradiso terrestre ha spazio la morte. Erwin Panofsky nel 1939 scrisse un celebre saggio per mettere in evidenza l’ambiguità dell’espressione, che può riferirsi sia a un generico e generale Memento mori, sia alla persona specifica della quale si scopre la tomba (e che in questo caso si immagina essere l’artista che ha realizzato il dipinto). Come a dire: anche in Arcadia si trova la morte; oppure, anch’io, benché arcade e quindi eccelso nelle mie capacità artistiche, ho trovato la morte. Poussin sintetizza tutto questo in una scena ariosa e monumentale, che descrive il rinvenimento di un sarcofago di dimensioni da mausoleo (che, se accettiamo la prima interpretazione del titolo, potrebbe essere il sepulchrum Bianoris citato da Virgilio nella nona egloga, v. 60; oppure, la tomba di Dafni, rievocata – ma con diverso epitaffio – nella quinta egloga, vv. 42-44). Come che sia, i pastori, incuriositi e stupefatti, misurano le dimensioni dell’ampia costruzione, ne leggono l’iscrizione, mettendo un dito nelle lettere incise, così da seguirne più agevolmente la struttura; indicano la tomba a una figura femminile enigmatica (secondo alcuni una pastorella; secondo altri, una dea, o forse la Sibilla abitatrice anch’essa, in Virgilio, di antiquae silvae), e per suo tramite a noi. Una precedente versione dell’opera, più piccola di dimensioni e più raccolta nell’iconografia, mostra invece una tomba seminascosta, e non en plein air, e un atteggiamento più vivo e meno teatrale nei diversi pastori. Questo secondo (ma cronologicamente primo) dipinto, oggi conservato a Chatsworth House, nel Derbyshire, è fatto comunemente risalire al 1627, e sembra quindi una reazione abbastanza immediata e vicina al dipinto di Guercino, specie ricordando che Poussin, trentenne, nel 1624 era venuto a Roma, ospite proprio di quel cardinale Antonio Barberini nei cui appartamenti il dipinto di Guercino probabilmente già si conservava, sebbene Panofsky abbia individuato il committente dell’opera in Giulio Respigliosi, futuro papa Clemente IX, amico e collaboratore del Barberini (e anche sebbene il dipinto non sia citato nei cataloghi di Palazzo Barberini prima del 1644).

    (Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego o I pastori arcadi, 1639, Parigi, Museo del Louvre)
    (Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego, 1627, Chatsworth House)

    Quanto al dipinto di Guercino, la scena lì è più cupa. Due pastori rinvengono un teschio, sotto il quale appare l’iscrizione che conosciamo. L’ambiente è poco propizio: le selve incombono scure, tenebrose; non c’è affabilità di paesaggio, e solo sullo sfondo si apre un’immagine di luce, in un chiarore che ha però qualcosa di pretemporalesco. Anche i due pastori, perfettamente vestiti, senza figure femminili di accompagnamento (come invece avveniva nell’uno e nell’altro dipinto di Poussin), senza pose monumentali o teatrali, drappeggi pesanti e neoclassici, atteggiamenti da numi olimpici più che da pastori reali o realistici, mostrano una serietà e una seriosità che ben si adatta al messaggio complessivo del quadro, qui sicuramente da interpretare nella direzione di una presenza della morte perfino nei territori dell’Arcadia. Il teschio è elemento ricorrente nelle nature morte del XVII secolo e nel programma iconografico che va sotto il titolo di Vanitas vanitatum, del quale si conservano in tutti i musei numerose attestazioni; sul teschio di Yorick, lo ricordiamo, pochi anni prima, nel 1602, William Shakespeare aveva fatto pronunciare ad Amleto il suo Alas, poor Yorick ! I knew him, Horatio!. 

    (Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Et in Arcadia ego, ca. 1620, Roma, Galleria Nazionale d’arte antica, sede di Palazzo Barberini)

    Esiste però anche un’altra interpretazione dell’Arcadia, più in linea con la visione tradizionale dell’Arcadia come terra felice, di canti, amori, luminosi paesaggi, contrasti sanati. Ne offro due esempi. Il primo è un quadro del pittore russo Konstantin Makovsky, realizzato nel 1890, e oggi parte di una collezione privata. Nato a Mosca nel 1839, Makovsky è il tipico pittore ottocentesco (leggermente attardato, magari, rispetto alla tradizione dell’Europa occidentale), che si concentra prima su temi storici della Grande Patria Russa, poi su cartoline di genere, che dovrebbero cogliere l’anima folclorica e il vero spirito della suddetta Grande Patria. Arcadia felix, il quadro che ci interessa, fa un po’ eccezione nella sua produzione. L’Arcadia è vista come terra di pastori che suonano e cantano (sono ben in evidenza gli strumenti musicali: nei dipinti di Guercino e Poussin, se mancavano le greggi, mancavano però anche i ferri del mestiere di musici), che ballano e danzano, fra ninfe compiacenti e discinte, corpi giovani ed allettanti, elementi della tradizione dionisiaca (la tigre/pantera sulla destra del quadro), declinata in chiave erotico-sentimentale (a reggere le briglia dell’animale selvatico non è Bacco, ma un Amorino). Siamo davanti a una raffigurazione sincretica e simbolica dell’età dell’oro, con tanto di contrasti di Natura ormai felicemente appianati, più che a una rappresentazione dell’Arcadia, o anche solo del mondo virgiliano, o di ciò che del mondo virgiliano si poteva banalmente pensare.

    (Konstantin Makovsky, Arcadia felix, 1890, collezione privata)

    L’ultimo quadro che presento è opera del pittore americano Thomas Eakins. Nato nel 1840, Eakins, a parte un viaggio di studio in Europa, visse pressoché sempre nella nativa Filadelfia, della quale ritrasse scene e personaggi famosi (incluso il padre, insegnante di materie classiche). Arcadia, il dipinto che qui ci interessa, esiste anch’esso in due versioni. Nella prima, risalente al 1883 e oggi conservata al Metropolitan Museum di New York, la futura moglie del pittore, Susan Macdowell, il piccolo nipote Ben Crowell (figlio di una sorella) e un giovane allievo, James Laurie Wallace, tutti e tre piuttosto discinti, abitano, perdendosi in esso, un immenso paesaggio bucolico. I due giovani suonano uno strumento (rispettivamente, il flauto di Pan e la zampogna), mentre la donna, estasiata, di spalle allo spettatore, ma rivolta verso i due suonatori, ascolta, ninfa beata, il concerto a lei riservato. Nella seconda versione, ritenuto in genere un bozzetto preparatorio del quadro maggiore, appare invece solo la donna, drappeggiata in abito antico. Il quadro oggi fa parte di una collezione privata, e si data ovviamente agli stessi anni del dipinto maggiore. In vari musei americani si conservano anche diverse fotografie preparatorie, realizzate da Eakins per poter disporre nello studio di modelli adeguati, secondo una tecnica di cui proprio lui è considerato il principale inventore. Dell’Arcadia, anche qui più tradizionale che realmente virgiliana, viene sottolineato, nei dipinti, la capacità di realizzare una perfetta sintonia uomo/Natura, al punto che l’elemento umano, pur al centro del quadro, si perde nella complessità del paesaggio, che lo assume e quasi lo assorbe in sé.

    (Thomas Eakins, Arcadia, 1883, Metropolitan Museum of New York)
    (Thomas Eakins, An Arcadian, ca. 1883, collezione privata)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Ovidio tra gli Sciti

    Ovidio tra gli Sciti

    Un dipinto di Eugène Delacroix può fornire un utile spunto didattico per introdurre il tema dell’esilio, e in particolare la poesia ovidiana dell’esilio. Si tratta di un olio di dimensioni medie (90 x 130), esposto a Parigi nel 1859 e ora al British Museum di Londra; una seconda versione, oggi a Washington, di dimensioni più ridotte (30 x 50) e con alcune variazioni nelle figure e nel cromatismo, fu realizzata per un committente privato nel 1862. Il soggetto è Ovidio fra gli Sciti (Ovide chez les Scythes): un tema politicamente scottante, tenendo conto che dal 1856 Victor Hugo si trovava in esilio sull’isoletta di Guernsey, nel canale della Manica, per ordine di Napoleone III.

    Vero protagonista del dipinto è il paesaggio, improntato a un gusto tipicamente tardoromantico, con la natura che giganteggia affascinante e distante: brullo l’insieme, rada la vegetazione (un cespuglio, due piccoli alberi), rari gli interventi dell’uomo (nessun segno di coltivazione del terreno, povere capanne dal tetto di paglia sulla sinistra e sullo sfondo a destra). Lo scenario è animato da figure umane e animali: gli uomini sono vestiti succintamente, in prevalenza in toni del marrone e ocra, che riprendono quelli del paesaggio (in qualche caso potrebbe trattarsi di pellami piuttosto che di tessuti), la maggior parte scalzi e barbuti, alcuni armati di frecce e scudo; in primo piano una donna, ritratta di schiena, munge una cavalla (un dettaglio che doveva risultare davvero esotico al raffinato pubblico parigino e che non incontrò il favore della critica). Quasi al centro, un poco sulla sinistra rispetto all’osservatore, spicca la figura del poeta, completamente estranea al contesto: l’effetto di forte scarto si crea prima di tutto tramite le scelte cromatiche del bianco immacolato e del blu intenso del vestiario (i colori della Madonna nella più tradizionale delle iconografie), che non trovano corrispondenza precisa in nessun altro dettaglio del dipinto; i calzari bianchi con minute decorazioni dorate esprimono un’eleganza urbana (e ricordano i phaecasia, gli stivaletti bianchi alla moda indossati da Encolpio in Satyricon 82, 3); appoggiato sul terreno, al fianco del poeta, si trova del materiale scrittorio, sembrerebbe un ampio rotolo aperto. Molte delle figure sono rivolte verso Ovidio, in un atteggiamento non ostile ma di curiosità (il bambino con il grande cane lupo) e in un caso almeno di rispetto e offerta (l’uomo inginocchiato con il cestino, sostituito da una ragazza nella versione del 1862), così che la disposizione delle figure può ricordare un’adorazione dei pastori.

    L’opera di Delacroix rivela una certa consonanza con la Stimmung delle elegie ovidiane dell’esilio, pur prendendosi la libertà di sostituire la cittadina di confine, Tomi, con un paesaggio naturale e aperto. Le caratteristiche della natura sono del resto abbastanza rispondenti alla descrizione ovidiana di una regione aspra e selvaggia, sferzata dai venti e coperta di neve e di ghiaccio per buona parte dell’anno, costituita da terreni incolti, praterie brulle e sterili, con acqua di cattiva qualità (insomma, una specie di Siberia sul mar Nero) – si potrà confrontare specialmente la coppia di elegie di tristia III, 10 e 12, dedicate rispettivamente all’inverno e alla primavera a Tomi. Se in queste descrizioni ovidiane non pare esservi molto di oggettivo (la cittadina era in realtà una colonia greco-romana ormai pacificata e di popolazione prevalentemente greca; quanto al clima, vi si coltivava e vi si coltiva tuttora la vite), esse tuttavia racchiudono un nucleo di verità, in quanto esprimono per immagini l’esperienza sconvolgente dell’improvviso e violento sradicamento dal proprio mondo vissuta dal più grande poeta della sua epoca, poco più che cinquantenne e all’apice della fama. E particolarmente efficace, e a suo modo fedele allo spirito del testo ovidiano, risulta il dipinto nel rendere l’isolamento intellettuale del protagonista. Ovidio diviene qui la trasposizione pittorica di potenti immagini poetiche come quelle dei ‘grandi esiliati’ di Baudelaire: Andromaca a Butroto o il cigno, con i suoi gesti folli “comme les exilés”, o l’albatro, simile al poeta “exilé sur le sol” (protagonisti di poemi pubblicati in quegli anni e poi riediti nel 1861, nella seconda edizione de I fiori del male, dove Le Cygne è dedicato proprio a Victor Hugo, il grande esule francese, che a Guernsey stava componendo Les Miserables [apparsi poi a Bruxelles, nel 1862]).

    Eug??ne Delacroix, 1798 - 1863 Ovid among the Scythians 1859 Oil on canvas, 87.6 x 130.2 cm Bought, 1956 NG6262 http://www.nationalgallery.org.uk/paintings/NG6262

    Delacroix (1798-1863), già in fine di carriera al momento della composizione del dipinto, in giovinezza era stato, lo ricordiamo, fra i grandi alfieri della pittura romantica. Amico personale tanto di Hugo, la cui casa in Notre-Dame-des-Champs aveva frequentato, quanto di Baudelaire, che teneva in camera da letto le litografie di Amleto firmate dal pittore, Delacroix con i suoi dipinti si era più volte proposto di illustrare i grandi capolavori accetti al Romanticismo francese (Dante, Shakespeare, Scott e Byron), come anche di intervenire sui principali fatti politici vissuti dalla sua generazione (la rivolta della Grecia contro i Turchi; la rivoluzione del 1830, che portò sul trono di Francia Luigi Filippo, suo antico committente). Nel trattare temi classici, Delacroix si era sempre compiaciuto di rivolgere il proprio occhio alla modernità e alla commistione delle iconografie. Significativo antecedente del lavoro compiuto su Ovidio è infatti il ritratto di Medea mentre uccide i figli (Médée furieuse), del 1838, ma poi ripreso anche nel 1862, oggi conservato a Lille, nel quale l’eroina greca è immersa in uno schema piramidale che ricorda la leonardesca Vergine delle rocce e mostra il proprio seno – in ossimorico contrasto con il gesto che sta per compiere – come nell’illustrazione della Carità di Andrea del Sarto. Una mamma pagana, che porta con sé, come Ovidio nel dipinto da cui siamo partiti, alcuni simboli della Cristianità, ma che infonde loro nuova vita in virtù del diverso tema che sono chiamati ad illustrare.

    delacroix medea

    © Elena Merli, 2017

    I dipinti sono concessi in libero usufrutto, per ragioni di studio, sui siti dei rispettivi musei che ne detengono la proprietà

  • Virgilio illustrato II – Macerata

    Virgilio illustrato II – Macerata

    Per questo post userò due fonti: l’ottimo volume Tutta per ordine dipinta. La Galleria dell’Eneide di Palazzo Buonaccorsi a Macerata, pubblicato nei “Quaderni della Soprintendenza di Urbino” dalla casa editrice Quattroventi nel 2011; il sito di Palazzo Buonaccorsi stesso, reperibile all’indirizzo web http://www.maceratamusei.it/Engine/RAServePG.php/P/253410050406. Come si vede, non presento nulla di nuovo. Ma il caso di Palazzo Buonaccorsi è, secondo me, emblematico di come si debbano e si possano costruire le ricerche circa l’Eneide e le sue illustrazioni.

    Andiamo con ordine. Palazzo Buonaccorsi, dal 1967 proprietà del Comune di Macerata e oggi – dopo un importante restauro – adibito a sede del Museo Civico della Carrozza e della Galleria di Arte Moderna, era, come dice il nome, la residenza di città della famiglia Buonaccorsi. Erano questi proprietari terrieri originari di Montesanto, un piccolo centro del contado, poi inurbatisi e divenuti illustri grazie al cardinalato raggiunto da Buonaccorso Buonaccorsi (1620-1678), elevato alla porpora da Clemente IX nel 1669, e inviato da Clemente X come legato pontificio a Bologna nel 1673. Portando avanti l’ascesa politica e sociale della famiglia, nell’anno 1701 Simone Bonaccorsi aveva acquistato dagli Orsini la contea laziale di S. Pietro in Sabina, nei dintorni di Rieti, divenendo così feudatario dello Stato della Chiesa. Da qui, l’idea di celebrare nella città di provenienza della famiglia la conquistata grandezza, con un palazzo degno del nuovo rango. Il progetto fu iniziato da Simone e portato a compimento, dopo la sua morte avvenuta nel 1708, dal figlio Raimondo, che costituiscono i committenti dell’opera che ci interessa. Alla realizzazione di essa contribuirono più persone, sotto la direzione di Giovan Battista Contini, un allievo del Bernini. Gloria della nuova costruzione era la Galleria (la sala delle feste e di rappresentanza), voluta da Raimondo e ricca di fastose decorazioni. Fra di esse, due progetti si segnalano fra tutti. La volta è illustrata con le Nozze mitologiche di Bacco e Arianna, opera di Michelangelo Ricciolini e di suo figlio Niccolò, che vi lavorarono il primo dal 1710 al 1712, il secondo dopo il 1713, per completare l’opera lasciata incompiuta dal padre, tornato all’improvviso a Roma (dove i due avevano un rinomato studio). La scelta del mito ha un’ovvia motivazione: fin dai sarcofagi paleocristiani la vicenda di Arianna, protagonista di una morte e resurrezione (sentimentale), donna mortale trasformata in divinità dall’unione con il dio, ha assunto valore simbolico delle speranze di ogni buon Cristiano. In aggiunta, nel volume citato all’inizio del post Gabriele Barruca suggerisce un legame fra il mito (e la figura di Bacco) e l’animale simbolo araldico della famiglia Buonaccorsi, la tigre. La vicenda di Bacco e Arianna, insomma, andrebbe letta come un’allusione simbolica alla famiglia e al suo ruolo sociale.

    Quanto detto già lascia capire che la Galleria non è solo un luogo di raccolta di opere d’arte (la famiglia collezionava dipinti fin dal ‘600, quando ancora abitava a Montesanto), ma risponde a un preciso progetto intellettuale e di propaganda sociale. Questo è importante: come ricordavo nel post precedente, non si tratta solo di riconoscere che determinati dipinti illustrino scene dell’Eneide, ma di cercare di capire – attraverso l’esame della storia di quei dipinti, della loro finalità originaria, della collocazione prevista, del ruolo che essi dovevano assolvere all’interno di questa collocazione – come essi si inseriscano nella lettura che dell’Eneide è stata compiuta nei secoli, come si facciano non solo illustrazione, ma anche interpretazione del poema virgiliano. È anche importante riconoscere che questa operazione non è quasi mai compiuta dall’artista (che, al limite, può essere analfabeta), né dal committente (che si sarà limitato a pagare, o al più avrà espresso idee generiche sui suoi desideri), ma da una serie di figure intermedie, da ricostruire volta per volta. Nel caso di Macerata, i documenti d’archivio della famiglia dimostrano che anima dell’operazione fu un fratello di Raimondo, a nome Filippo, abate di S.Quirico e barone di Micigliano. Abate, dunque ecclesiastico, e dunque – secondo gli standard del tempo – acculturato e dotto. È lui l’umanista che sta dietro all’operazione.

    In che cosa consiste questa operazione? Attraverso i legami di famiglia e una serie di intermediari attivi sul mercato dell’arte, Raimondo e Filippo pensarono di decorare i dodici spazi che si aprono lungo le pareti della Galleria, separati dalle finestre, con dodici dipinti di pittori diversi, ma tutti chiamati a illustrare scene dell’Eneide. La parete di fondo (per chi entra nella Galleria dall’esterno) reca un tredicesimo dipinto, posto sopra la porta di fronte a chi entra, illustrante il tema allegorico de La Chiesa annienta gli dèi pagani. Chiaro a questo punto il messaggio: l’Eneide viene letta, in prospettiva dantesca, diremmo noi, come il poema della fondazione di Roma; ma la fondazione di Roma non è importante per l’imperium che la città ha esercitato sul mondo, ma come una tappa essenziale per lo stabilirsi del ruolo e della funzione della Chiesa. La famiglia Buonaccorsi, neo-feudataria di quella istituzione, dall’alto del soffitto controlla e garantisce la riuscita dell’impresa.

    Ecco l’elenco dei dodici quadri che ci interessano:

    I. Antonio Balestra, Venere appare a Enea e Acate

    II. Giovanni Giorgi, Enea fugge da Troia

    III. Giovan Gioseffo dal Sole, Butroto

    IV. Nicolò Bambini, Enea racconta a Didone la caduta di Troia

    V. Francesco Solimena, Enea e Didone si inoltrano verso la grotta

    VI. Marcantonio Franceschini, Mercurio sveglia Enea

    VII. Gregorio Lazzarini, Il suicidio di Didone

    VIII. Giuseppe Gambarini, Enea stacca il ramo d’oro

    IX. Giacomo del Po, Il dio Tevere

    X. Luigi Garzi, Venere nella fucina di Vulcano

    XI. Paolo De Matteis, Venere offre le armi a Enea

    XII. Gregorio Lazzarini, Il duello fra Enea e Mezenzio.

    Due dati saltano agli occhi. Il primo, la varietà degli artisti. Solo Gregorio Lazzarini è responsabile di due illustrazioni, anziché una sola. Sono artisti di ambito svariato: Napoli (De Matteis e Solimena), Roma (Del Po) e Garzi, pur toscano di nascita), Bologna (Dal Sole, Franceschini e Gambarini), il Veneto (Balestra, Bambini, Giorgi e Lazzarini). Il valore dei dipinti, diciamolo subito, non è altissimo. Fra di loro c’è però un capolavoro, il quadro di Solimena (non a caso, finito a Houston). Chi ha familiarità con questo artista, o con le chiese di Napoli dove molto ha lavorato, non se ne stupirà affatto. Secondo elemento: nella scelta dei temi è abbastanza rispettata la trama dell’Eneide, con la sola scomparsa dei libri V, VII (un libro di transizione) e IX (un libro dal quale Enea è assente). L’ordine del testo eneadico non è però rispettato nella dislocazione delle tavole entro la Galleria, come si intravede anche dalla fotografia (vi si riconoscono chiaramente la porta di fondo, il quadro allegorico sulla Chiesa militante e, a sinistra, l’apparizione di Venere a Enea e Acate, e sul lato sinistro della Galleria la grande scena della battaglia con Mezenzio). Ma quello che colpisce per davvero è che la trama si interrompe al libro X, al duello con Mezenzio. Sembra quasi che questi sia l’avversario italico di Enea, non Turno. Il che, però, si capisce, ricordando che Mezenzio nel poema è l’impius Mezentius, il contemptor deum. Vale a dire, l’anti-Enea per eccellenza e il simbolo di quella empietà (dei pagani), che la Chiesa “fondata” (anche) da Enea ha definitivamente sconfitto. L’intento propagandistico guida pure in questo caso le scelte artistiche ed espressive.

    Il quadro di Solimena è bellissimo: nella fascia alta una dea (presumibilmente Venere, data la presenza degli Amorini, oppure la Notte: il poema vorrebbe però che fosse Giunone a presiedere all’unione nella grotta) controlla l’intera scena e provvede a che tutto vada secondo le regole. Venti alati riversano la pioggia dalle brocche; un amorino più grande degli altri (Cupido?) scocca la freccia fatale (fuori tempo massimo, rispetto al racconto virgiliano). Sullo sfondo, in un panorama tempestoso, uomini a piedi e a cavallo si danno alla fuga, in cerca di riparo. Una luce innaturale illumina le due figure in primo piano: Didone, in veste da cacciatrice, ma con eleganza da mannequin (lo conferma Virgilio), addita ad Enea la grotta, che non si vede, alla sinistra di chi guarda; Enea viene preso per mano dalla donna, e da lei guidato. La sua lancia punta a terra, essendo divenuta inutile; il gioco delle gambe rivela la fretta del suo passo, diretto all’opposto delle figure che gli stanno alle spalle. Il viso di lui è fisso nel viso di lei: sicuro, tranquillo e sorridente quello della donna; con espressione fra speranzosa e incredula quello di lui. Simili fortune non capitano tutti i giorni!

    Qui l’illustrazione si fa interpretazione: Didone è l’uomo forte della situazione, Enea coglie l’attimo favorevole; Enea è solo: i suoi uomini gli voltano le spalle. Quelle di Cartagine saranno davvero per lui dulces terrae, ma saranno anche le terre in cui si consuma il distacco del capo dal suo seguito e dalla sua missione: dux femina facti, commenterebbe il poeta, vir uxorius lo chiama esplicitamente Mercurio.

    Gli altri dipinti sono più banali: il bisogno di illustrazione prevale su quello di interpretare, ora puntando al togliere (Gambarini: forse in omaggio alla brevitas virgiliana?), ora al sovrabbondare, in un bisogno di affastellare cose ed oggetti, con antiquaria precisione (Bambini: ma l’importanza assegnata al lampadario centrale è tratto virgiliano). Giorgi fa additare la via del futuro ad Ascanio, il fondatore della gens Iulia – Creusa sullo sfondo sembra la S.Cecilia di Raffaello, e ha il martirio scritto sul volto; Dal Sole immerge Butroto in un’oscurità cimiteriale, idea anch’essa già di Virgilio; Franceschini trasforma la scena in un’allegoria: Cupido si allontana con l’arco spezzato, in movimento diagonalmente opposto a quello del dio – sulla tolda della nave in cui dorme Enea (è evidentemente la seconda apparizione di Mercurio: varium et mutabile femina) un putto soffia in una conchiglia e chiama alla navigazione; Lazzarini disegna, nell’uno come nell’altro quadro, una generica scena di melodramma; De Matteis fa apparire il Tevere, testimone della consegna delle armi e della consacrazione dell’eroe, sotto forma di vecchio seminudo e recline.

    Ecco allora una selezione di alcuni quadri (le immagini vengono tutte dal volume citato, i cui autori conservano i diritti di copyright):

    1.  Antonio Balestra

    balestra

    2. Giovanni Giorgi (il dipinto è conservato alla Galleria Nazionale delle Marche, Urbino)

    giorgi

    3. Nicolò Bambini

    bambini

    4. Francesco Solimena (Museum of Fine Arts, Houston, Texas)

     solimena

    5. Marcantonio Franceschini (Galleria Nazionale delle Marche, Urbino)

    franceschini

    6. Giuseppe Gambarini (Galleria Nazionale delle Marche, Urbino)

    gambarini

    7. Paolo De Matteis (Galleria Nazionale delle Marche, Urbino)

    de matteis

    8. Gregorio Lazzarini

    lazzarini

    9. Francesco Mancini

    mancini

    © Massimo Gioseffi, 2016

  • Virgilio illustrato I – Pompei

    Virgilio illustrato I – Pompei

    Inizio una serie di post dedicati alle illustrazioni virgiliane. Può sembrare strano, ma non esiste una pubblicazione moderna che offra un catalogo esaustivo e ragionato delle illustrazioni all’Eneide. Forse perché il materiale è perfino troppo…

    Non è naturalmente mia intenzione sostituirmi a quel testo, che dovrà essere il prodotto di molti, certosini ricercatori. Qui vorrei offrire un po’ di immagini, con una logica che le giustifichi. In internet qualcosa di simile è stato tentato da un sito francese, realizzato dall’Académie di Nancy-Metz, con il titolo “De l’Énéide aux images” (www4.ac-nancy-metz-fr/langues-anciennes/Textes/Virgile/Venus.htm). Il sito si articola in quattro capitoli (“Venus”, “Anchise”, “Énée, Didon”, “Énée, Virgile, enfers et prophétie”) e non tiene conto solamente delle illustrazioni all’Eneide, ma di tutto il materiale genericamente eneadico, con o senza riferimento diretto a Virgilio. Inoltre, del poema, non sono presi in considerazione tutti gli episodi; delle immagini fornite sono indicati con precisione i dati catalogici e di conservazione, ma la loro suddivisione non consente di ricostruire né ambienti, né luoghi o materiali – una storia che abbia senso, insomma – delle illustrazioni medesime. L’interdisciplinarietà è una bella cosa, e nell’interdisciplinarietà il latino troverà, anche in futuro, un proprio spazio, anche quando non lo si insegnerà più come materia a sé stante. Però, anche l’interdisciplinarietà bisogna saperla fare: accumulare o, peggio, accatastare i dati può essere provocatorio, ma non costruisce granché. L’idea alla base di questi post è allora che ognuno di essi deve avere un tema unitario: il luogo in cui sono nate le illustrazioni, l’occasione, il materiale (tele dipinte, ma anche oggetti preziosi, arazzi, mosaici, cassoni da biancheria con decorazioni auliche ecc. ecc.). È nel progetto unitario, infatti, che si riconosce il senso di ogni singola operazione: l’illustrazione diventa così lettura, e si fa parte della storia del testo.

    Incomincio da un luogo che è, in un certo senso, un non-luogo: Pompei. Solo l’eruzione del 79 d.C. ha trasformato Pompei in un museo consultabile nella quotidianità di una data sicura, realizzando almeno in parte quell’unità cui facevo cenno prima. Proprio Pompei ci consente però di distinguere fra illustrazioni sicuramente connesse a Virgilio e all’Eneide e illustrazioni solo genericamente richiamantesi al mito di Enea.

    Partiamo da una delle più famose, l’affresco in IV stile pompeiano, datato fra 54 e 79 d.C., proveniente dalla cosiddetta casa di Sirico (e oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 9009), che raffigura Enea curato da Iapige.

    01 enea e japige

    Nell’affresco si riconoscono chiaramente Enea, in abito militare e nella posa del guerriero ferito, nota anche da altri modelli iconografici; il medico Iapige, in abito servile, chinato a cauterizzare la ferita; Ascanio, affranto, alla sinistra del padre, che gli cinge le spalle in un gesto di affetto e di conforto (di lì a poco, prima di riprendere la battaglia, Enea rivolgerà al figlio le uniche parole dirette che gli sentiamo pronunciare nel poema). Sullo sfondo alcuni soldati passano e guardano – durante l’assenza di Enea dal campo i combattimenti non si interrompono. A sinistra, in secondo piano, così da mantenere l’illusione prospettica del movimento e della distanza, si avvicina Venere, a petto scoperto, veste disciolta, capelli al vento, piedi intenti alla corsa. In mano reca un ramoscello di dittamo, la pianta miracolosa che consentirà la guarigione di Enea, riuscendo laddove l’arte medica di Iapige si deve riconoscere sconfitta. Ora, tutto questo episodio è narrato nel XII libro dell’Eneide e, per quanto ne sappiamo, solo nell’Eneide. È un’invenzione virgiliana, che introduce un tocco di favoloso in un poema dove il favoloso è spesso bandito, ma che qui ci sta bene perché siamo poco prima del finale (i vv. 318-323 per il ferimento, 383-431 per la guarigione) e l’episodio serve a sancire il carattere divino di Enea, che non può essere ferito; se viene ferito, lo è da mano ignota, come appunto accade; che se è ferito, per guarire ha bisogno di una pianta magica e un’aiutante divina (o meglio: alla cui guarigione cooperano, senza farsi pregare, pianta magica e aiutante divina). Rispetto al racconto di Virgilio viene cancellata la figura di Acate, il fidus Achates che ha aiutato l’eroe claudicante ad allontanarsi dal campo; Ascanio ha veste di puer, che mal si conviene a un campo di battaglia (anche se lui non partecipa ai combattimenti); Venere è affannata e discinta per la corsa, ma anche per indicare che… è Venere. Il resto è un’illustrazione fedele, e interessante, dell’arte di un medico nella prima metà del I secolo d.C.

    L’episodio più famoso dell’Eneide (e per dei cittadini romani, l’atto fondante la loro comunità) è la fuga di Enea da Troia, assieme al figlio, al padre, ai Penati. La scena ha molte raffigurazioni a Pompei, ma a differenza della precedente non ha bisogno dell’Eneide per divenire parte del racconto eneadico, perché la vicenda è nota almeno dal VI secolo a.C. e serve a contrapporre un Enea pius a un Enea traditore di Troia, come pure in alcune varianti del mito si raccontava. Quindi, meno immediato è, nel caso delle raffigurazioni che propongo ora, il richiamo al poema virgiliano: in questa declinazione della storia, l’avere Enea scelto, una volta graziato dagli Achei, di portare fuori da Troia in fiamme il padre e il figlio sta alla base della sua conclamata pietas. A Roma era ben noto, insieme ad altre raffigurazioni, il gruppo statuario che decorava l’esedra Nord-Ovest del foro d’Augusto. A Pompei la scena si trova in mosaici, affreschi, terrecotte, come quella che propongo ora, e addirittura negli ornamenti della calotta di alcuni elmi militari. Ecco per intanto la terracotta, anch’essa datata al I secolo d.C., conservata al Museo di Napoli, inv. 110338:

    terracotta

    Ed ecco un elmo decorato con la caduta di Troia (scena che ci interessa inclusa):

    SC52935

    L’episodio è talmente famoso, dicevo, che se ne danno anche delle evidenti parodie. La più celebre è un affresco proveniente dalla poco lontana Stabia (e conservato come sempre al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 9089), in cui i tre protagonisti ‘umani’ dell’episodio hanno testa canina e lunghi falli, rimandando così a certe antiche rappresentazioni vascolari di scene d’atellana:

    eneide 7

    Al contrario, sulla facciata di altra abitazione Enea è raffigurato in veste di guerriero romano, ad enfatizzare la sua condizione di ‘fondatore ideale’, se non materiale, di Roma, e di primo Romano ad honorem, che è, per l’appunto, uno dei punti fermi dell’Eneide. Qui però preferisco proporre una raffigurazione intermedia fra i due estremi citati: la scena, assai concitata, è infatti decisamente seria; il contesto meno.  Siamo nella casa di Marco Fabio Ululitremulo, di professione tessitore. Lo ricorda un graffito (CIL IV, 9131) che modifica l’inizio del poema virgiliano: Fullones ululamque cano, non arma virumque (ulula è la civetta, animale sacro ad Atena, dea della tessitura).

    eneide 5 - ululitremulus

    Enea, in fuga, in disordine, con i capelli poco curati, reca sulle spalle il padre, rimpicciolito e rinsecchito, che a sua volta tiene in mano, ben conservati nella capsa, i Penati di Troia. All’eroe è assegnata la figura di centro, che domina lo spazio e la scena. Non meno risalto è però concesso al figlio, più grande di quanto sarebbe legittimo aspettarsi, e tutt’altro che avvinghiato al braccio paterno, come lo descrive Virgilio, nella difficoltà di seguire il genitore non passibus aequis. Qui Ascanio tiene per mano il padre e, forse per risultanza prospettica, sembra guidarne l’azione. È lui del resto il futuro di Troia, è lui che fonderà Alba e darà origine alla catena di re antenati diretti di Romolo; è da lui, infine, che si faceva discendere la gens Iulia

    Una serie di affreschi è più difficile da decifrare. Ecco ad esempio una scena che, a detta degli studiosi, potrebbe rappresentare l’arrivo di Enea a Delo e la consultazione dell’oracolo di Apollo, alla presenza del sacerdote Anio; ma secondo altri raffigura la profezia di Cassandra circa l’imminente distruzione di Troia; per altri, altro ancora. L’affresco, come si intuisce, non porta indicazioni precise, e lo stato precario di conservazione non aiuta certo la comprensione (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 8999):

    cassandra o anio

    Anche nel caso del prossimo affresco, proveniente dalla cosiddetta “Casa di Meleagro”, i dubbi sono giustificati (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 8898). Nella scena è stato letto il suicidio di Didone; sullo sfondo si vede allontanarsi la nave di Enea. La regina sarebbe qui accompagnata da due ancelle e dalla raffigurazione dell’Africa, la sua terra, effigiata con corna taurine, simbolo di fertilità:

    eneide 4 - casa di meleagro

    Per non eccedere, chiudo questa rassegna con un solo, ultimo affresco, proveniente dalla cosiddetta “Casa del Citarista”. Si tratta di un dipinto nel III stile pompeiano, dunque presumibilmente anteriore al 50 d.C., nel quale viene raffigurata una coppia di giovani amanti, davanti a una grotta, inquadrata da architetture, alla presenza di altre due figure.

    enea2

    La posa dei due, la presenza del cane da caccia ai loro piedi, la grotta sullo sfondo hanno fatto ravvisare nella scena l’incontro di Enea e Didone, allo scoppiare del temporale, presso un antro nell’entroterra di Cartagine. Più problematiche le due figure umane, che sembrano in veste servile, e quindi non possono rappresentare altri personaggi dell’Eneide. Per questo, non tutti accettano l’idea che la scena debba illustrare il poema virgiliano, e sono state avanzate anche altre ipotesi. Non intendo farne qui la storia. Più mi interessa osservare che, se scena del poema ha da essere, quello che ha colpito l’anonimo pittore era la possibilità di avvalersene per una raffigurazione di carattere amoroso. Un destino al quale, come vedremo, l’Eneide sarà legata anche in non poche occasioni dell’età moderna!

    © Massimo Gioseffi e Niccolò Chiesa per i testi

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