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  • Bernstein e Platone

    Bernstein e Platone

    Il 25 agosto 1918 nasceva a Lawrence, Massachussets, Leonard Bernstein. L’anniversario in Italia è stato abbastanza ignorato (niente paura: è successo anche a Debussy e Gounod, per restare nel campo della musica operistica di Otto/Novecento), non così all’estero. Difficile parlare di Bernstein: grande pianista, grandissimo direttore d’orchestra, importante divulgatore musicale, compositore sottovalutato dalla critica, ma amatissimo dal pubblico. Qui ricordo solo alcuni episodi molto personali: ragazzo, negli anni Settanta ascoltai le sinfonie di Beethoven nella loro continuità e completezza grazie alla serie di filmati realizzati da Bernstein con i Wiener Philarmoniker, il regista Humphrey Burton e l’attore Maximilan Schell, che recitava i testi introduttivi – uno spettacolo della Unitel poi commercializzato su DVD. In precedenza Bernstein – all’epoca, direttore principale della New York Philarmonic Orchestra – aveva realizzato già nei primi anni Sessanta una serie di concerti e di filmati televisivi, anch’essi poi fortunatamente raccolti in DVD, nei quali presentava e dirigeva numerosi capolavori del repertorio sinfonico, spiegandone la struttura, il linguaggio, il significato, con parole semplici ed esemplificazioni dal vivo. Una buona parte dei concerti era riservata a un pubblico di ragazzi, cui Bernstein sapeva parlare con semplicità, ma senza semplificazioni. Alla Scala aveva firmato due spettacoli entrati nella leggenda, Medea di Cherubini (1953, regia di Margherita Wallmann) e Sonnambula di Bellini (1955, regia di Luchino Visconti), entrambi con Maria Callas come protagonista: ma, ahimè, prima che io nascessi… (per fortuna di entrambi esiste la registrazione sonora). Nel periodo 1978-1990, l’anno della sua morte, a Milano venne poco: nel 1978, sull’onda del successo viennese del Fidelio da lui diretto a inizio anni Settanta e ripreso e inciso in quell’anno, con la regia di Otto Schenk, la dirigenza scaligera di allora (Paolo Grassi e Claudio Abbado) riuscì a organizzare una mini-tournée di tre serate alla Scala. Tornò per qualche concerto, spesso con orchestre “sue”, tedesche o americane, ma in un caso anche con la Filarmonica scaligera. Altri suoi spettacoli in giro per il mondo sono rimasti leggendari. Fra tutti, il concerto tenuto nel Natale del 1989 a Berlino, a Muro appena abbattuto, con dei complessi provenienti da entrambe le Germanie riunite e quattro solisti di nazionalità diversa, a rappresentare gli Stati che più avevano sofferto durante l’ultima guerra. Forse c’era un po’ di show-business nell’operazione; c’era certamente qualche elemento discutibile (nell’ode di Schiller che chiude la sinfonia, Bernstein faceva cantare a coro e solisti “Freiheit!”, “Libertà”, invece di “Freude!”, “Gioia”). Ma per chi aveva allora vent’anni o poco più, quello è rimasto nella memoria come uno dei momenti magici della propria generazione.

    Qui non voglio però rievocare l’interprete, quanto il compositore. Bernstein musicista, con Steven Sondheim paroliere e Jerome Robbins coreografo, rivoluzionò il musical, con West Side Story del 1957 (come ricordava argutamente lui: “Pensa, un musical in cui il sipario a fine atto cala sempre su un morto” [West Side Story è una rivisitazione della vicenda di Romeo e Giulietta, ambientata nella New York delle bande etniche: il primo atto si chiude sulla morte di Bernardo/Tybalt, il secondo su quella di Tony/Romeo; Giulietta sopravvive e lancia il “J’accuse” finale). West Side Story e il di poco precedente Candide (1956, libretto originale di Lillian Hellman da Voltaire; il musical però ha avuto continui rifacimenti vivente l’autore) sono stati oramai adottati anche nei circuiti “colti”: alla Scala si sono visti entrambi, West Side Story a inizio anno è andata in scena anche al Teatro Regio di Torino, Candide qualche anno fa all’Opera di Roma. Non ha scritto solo musical, però, Bernstein: un’opera o forse due (Trouble in Tahiti, atto unico del 1952, poi inglobata in A Quiet Place, 1983, come spettacolo dentro lo spettacolo); tre sinfonie; diversi concerti e suite; una raccolta di Salmi in musica (Chichester Psalms, 1965); varie Messe e cantate (una, divertentissima, derivata da un flop a Broadway del 1976, intitolata originariamente 1600 Pennsylvania Avenue e poi, dopo la morte di Bernstein, circolata anche come A White House Cantata: la Casa Bianca e i suoi primi occupanti ne sono i protagonisti, fino all’impeachment di Andrew Johnson, 1869, anticipo diversissimo di quello, all’epoca appena avvenuto, di Richard Nixon, 1974); musica da camera o per strumenti solistici; musica vocale (fra cui le quattro divertenti ricette di La Bonne Cuisine, 1948); musica da film (On the Waterfront, “Fronte del porto”, 1954, di Elia Kazan, nominato al Premio Oscar del 1955).

    Fra le varie composizioni di Bernstein figura Serenade, eseguita per la prima volta alla Fenice di Venezia, diretta dall’autore, violino solista Isaac Stern (1954). Come indica il titolo è una composizione abbastanza fluida, anche se di fatto è un concerto per violino che non mantiene la canonica divisione in tre movimenti. Infatti, è pensato come una messa in musica del Simposio di Platone. Ogni movimento rappresenta perciò uno dei momenti chiave del dialogo, i cui discorsi, com’è noto, celebrano tutti l’amore. Lo stile è assolutamente tonale e si avvertono echi di altre composizioni dell’autore, incluso qualche anticipo di West Side Story. Bernstein era un uomo colto, brillante conversatore, autore di libri e trattati (nell’autunno del 1973 fu anche protagonista delle “Norton Lectures” a Harvard, quelle che da Calvino in poi siamo abituati a chiamare “Lezioni Americane”), ma le sue matrici culturali erano l’America e l’Ebraismo, non il Greco o il Latino. I movimenti sono in tutto cinque: il primo, lento e poi allegro, è dedicato agli interventi di Fedro e Pausania; il secondo, allegretto, segue lo scoppiettante, ma in fondo anche malinconico, discorso di Aristofane; il terzo, di brevissima durata, un presto, riproduce le parole di Erissimaco, il medico; il quarto e più struggente, un adagio, è dedicato ad Agatone; l’ultimo, molto tenuto e allegro molto vivace, introduce prima Socrate e poi Alcibiade, che interviene a interrompere il banchetto con una banda di amici ubriachi, che si esprimono con qualche tocco jazz. Il tono è essenzialmente lirico, come si conviene al soggetto (l’Amore) e alla situazione descritta (i banchettanti di Platone sono amici, e per una volta tanto nel dialogo non si danno gli scontri spesso presenti in altre opere socratiche). Ogni movimento riprende, sviluppa e poi modifica una parte della musica del movimento precedente, esattamente come in Platone ogni personaggio che parla si ricollega alle parole di chi l’ha preceduto. In questo modo, la composizione avanza verso il suo finale, proprio come il testo di Platone avanza verso la verità rivelata da Socrate. Gli interpreti sono Gidon Kremer e Bernstein. La registrazione risale al 1986.

    I – Fedro e Pausania

     

    II – Aristofane

     

    III – Erissimaco

     

    IV – Agatone

     

    V – Socrate e Alcibiade

     

    Un’ulteriore descrizione della composizione (che include anche le parole con le quali Bernstein ha illustrato ogni movimento) si può trovare, fino al 25 agosto del 2019, nel sito che il “Leonard Bernstein Office” ha dedicato al centenario del compositore e alle sue musiche. Questo l’indirizzo della pagina che ci riguarda:

    https://leonardbernstein.com/works/view/23/serenade-after-platos-symposium

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Illusioni perdute

    Illusioni perdute

    Un’amica mi ha regalato il libro di John Picchione, La scrittura, il cervello e l’era digitale, Macerata 2016. Picchione, docente di Letteratura e cultura italiana moderna e contemporanea presso la York University di Toronto, è ben noto come studioso del Modernismo e dei movimenti di avanguardia del primo Novecento, di Sanguineti e di Antonio Porta. Tra le sue opere più recenti c’è il volume Dal modernismo al postmodernismo. Riflessioni teoriche e pratiche della scrittura, anch’esso edito in Italia (Macerata 2012). Per meglio presentare lo studioso, offro qui un suo articolo, pubblicato dall’Università di Milano, e disponibile on-line alla libera consultazione.

    Picchione – il modernismo e il tempo, acme, 2015, pp. 15-37

    Nel libro che vorrei discutere in questo post, Picchione si interroga su quali siano gli effetti della tecnologia elettronica sulla scrittura, la letteratura, le sue pratiche pedagogiche. Il tema mi pare di grande attualità e interesse. La risposta, non lo nascondo, è in parte deludente. Picchione parte dalle teorie, ormai metabolizzate da tempo, di Marshall McLuhan (La Galassia Gutenberg, 1962) e Walter J. Ong (Oralità e scrittura, 1982),  secondo le quali la rivoluzione tecnologica non è un fatto neutro e privo di conseguenze, un semplice aggiungersi e perfezionarsi degli strumenti a disposizione dell’uomo. La tecnologia ha profonde ripercussioni sul nostro modo di percepire il mondo e dargli senso, modifica i nostri rapporti con le persone e le cose. Per McLuhan (e Ong) il passaggio dalla parola orale, che si veicola attraverso l’udito, in una relazione avvolgente, emozionale e immediata, alla parola scritta, che si veicola attraverso la vista, fredda, distanziata e razionale, ha segnato una cesura storica senza paralleli, ha costituito un punto di svolta e di non ritorno nella storia dell’umanità. L’alfabetizzazione (cioè, appunto, questo passaggio da oralità a scrittura) è avvenuta su un lungo arco temporale e in più fasi, ultima delle quali è stata l’invenzione della stampa a caratteri mobili, che ha influito sull’uomo, sulle sue forme aggregative, sulle sue capacità e i suoi sensi, favorendone alcuni a scapito di altri. Il meccanismo della lettura testuale è divenuto così un abito di cui l’umanità non ha potuto più liberarsi, e che ha finito per condizionarla anche entro esperienze che non erano direttamente “testuali” (come ad esempio il cinema, gli altri mezzi di comunicazione di massa, le aggregazioni politiche e sociali della vita d’ogni giorno). Riprendendo questa impostazione, Picchione sostiene che oggi siamo di fronte a un’identica svolta epocale, il che giudico vero, anche se non ancora pienamente colto da tutti, e non sfruttato adeguatamente, in particolare, nel mondo della cultura. Nel suo libro, di rapida e immediata lettura, Picchione insiste su questo e cerca anche di smascherare il facile trionfalismo, nella direzione delle “sorti magnifiche e progressive” che a breve ci attendono o ci attenderebbero, da molti connesse all’invadenza del computer nella vita quotidiana. E anche questo mi sembra un argomento di grande interesse e attualità, e molto ben sviluppato.

    Dove il volume incomincia a lasciarmi più dubbioso è quando, sulla scia di una moda diffusa nell’ultimo decennio, Picchione si ricollega alle parole di neuroscienziati come Norman Doidge e Gary Small per evidenziare, in toni catastrofistici, i danni apportati dalle nuove tecnologie sul cervello dell’uomo e l’effetto di dipendenza che esse stanno innescando nell’umanità. Non che i ragionamenti siano inesatti e gli effetti del fenomeno non appaiano sotto gli occhi di tutti, anche solo nella pratica quotidiana. Non credo però che, nella breve esistenza di internet (vent’anni ca.), gli effetti di queste variazioni cerebrali si possano già quantificare con assoluta certezza in termini di mutamenti psicosomatici prodottisi nell’umanità e di danni apportati al complesso plastico del cervello, anziché di singoli neuroni disattivati, o diversamente attivati, dalla rinuncia alla lettura “tradizionale”. Ciò che Picchione e i suoi referenti scientifici mettono bene in evidenza è che, nell’atto cognitivo realizzato attraverso il computer, anziché attraverso il libro, il cervello sfrutta attività, zone di materia grigia e neuroni tendenzialmente diversi (e nel caso dei neuroni, in numero minore) da quelli in uso nella pratica tradizionale della lettura – pratica che è, lo sappiamo tutti, un’attività tendenzialmente lenta, ad alta concentrazione personale, riflessiva. A ciò vanno aggiunte le diverse relazioni sociali che la “macchina internet” favorisce, o, più facilmente, di norma inibisce. Perché l’impiego di sempre maggior tempo al computer è una pratica solipsistica ancor più del leggere un libro, e non spinge solo a isolarsi per tutto il tempo della pratica stessa (il che, a ben vedere, vale forse in misura perfino maggiore per chi legge), ma anche ad accentrare ogni cosa su di sé e su quanto ci interessa nell’hic et nunc del singolo momento, mentre viene ignorata la realtà che non rientra in questa sfera d’attenzione. Il che è di nuovo verissimo. Solo che, mentre simili osservazioni hanno, secondo me, una ragione d’essere presso gli scienziati, che descrivono, com’è loro dovere, una realtà effettuale della quale colgono i dati (delineando così un homo futurus presumibilmente diverso dall’attuale, ma ancora tutto da scoprire, tanto nei suoi limiti quanto nelle sue potenzialità), insistere su questi fenomeni e fare di essi il motivo di un allarmato pamphlet ha meno ragione d’essere in chi, come Picchione, si presenta come uno storico della cultura. Perché quello che ci viene detto, e ribadisco la mia piena convinzione di questo, è che siamo davanti a una rivoluzione non solo tecnica, ma anche sociologica, e addirittura antropologica. Bene, finché si tratta di prendere atto del fenomeno e di non assumere con indifferenza, come mero avanzamento tecnico, la strada intrapresa negli ultimi decenni. Ma piangere su questo mutamento vuol dire invece assolutizzare il passato cui si era abituati, e che non potrà più riproporsi tale e quale. Solo che allo storico compete prendere atto dei fenomeni in corso, non demonizzarli; mentre l’educatore deve conviverci quanto più gli è possibile, sapendo che i grandi rivolgimenti, una volta avviati, non possono essere arrestati: al massimo, possono essere guidati e indirizzati su una via parzialmente diversa da quella fin lì intrapresa, si può cioè cercare una mediazione che consenta di non perdere tutto ciò che ci portiamo dietro dal passato e che vorremmo, in qualche misura, conservare anche nel nuovo che ci aspetta, adattandolo però a quel nuovo che ci aspetta e che sicuramente finirà per trionfare.

    Quando invece Picchione dovrebbe spiegare come si possa ancora fare letteratura e storia della letteratura con giovani studenti che, mediamente, vivono in presenza di una globalizzazione della cultura dello spettacolo e del consumo, favorita dal dominio dell’esperienza visiva che produce i suoi effetti sulla percezione del sé e sulle modalità gnoseologiche (Picchione definisce questi effetti come deleteri e immorali, ma io rifiuto di giudicare i fenomeni storici) – generazioni che hanno visto modificarsi le loro categorie spazio-temporali, trasformandosì così da homines sapientes in homines videntes, la cui comunicazione è immersa nell’istantaneità e nell’ubiquità, e che in conseguenza di questo hanno perso gran parte delle capacità ermeutiche di un messaggio scritto – ebbene, quando Picchione dovrebbe spiegarci tutto questo…in realtà siamo arrivati a pagina 80 su un totale di 89! E la ricetta svolta in quelle nove pagine è relativamente semplice: si tratta di rivalutare la letteratura scritta, proibendo le altre forme invasive almeno entro i circuiti scolastici, da arroccare in una difesa ad oltranza della parola letteraria, della sua espressione e della sua ricezione, nella convinzione che la letteratura, diciamo così, “tradizionale” sia riflessione, ambiguità, sofferenza, ethos, e come tale possa trovare la propria funzione sociale in un mondo in cui, cito, “la tecnologizzazione del sistema scolastico riduce la percezione dello studio a raccolta di informazioni facilmente accessibili”. Il che, a me, non sembra significare nulla, e anzi pare una deriva pericolosa, ben sintetizzata dall’espressione, in quarta di copertina, per cui scopo del volume sarebbe promuovere “una letteratura impegnata a suscitare nei giovani un orientamento di resistenza” (nei confronti delle tecnologie).

    Resistere alle novità non serve a nulla, specie quando queste novità abbiano già assunto il carattere di fenomeno di massa; più che resistere, si deve convivere, cercando di apportare gli adeguati correttivi e di suscitare, questo sì, senso critico e capacità di distinguere valorialmente le diverse possibilità offerte dalla tecnologia, senza fare di ogni erba un fascio, senza rimpiangere un inutile passato. Picchione, invece, si scandalizza con toni accesi dell’assenza, anche in casa di laureati, delle enciclopedie cui tanto tenevano i nostri padri, senza domandarsi se l’enciclopedia tradizionale, strumento costoso in termini economici e di spazio, e subito obsoleto, non abbia necessariamente ceduto il passo a forme alternative di controllo dei dati immediati del sapere. Forme che possono essere molto buone, oppure no; che andranno definite nelle loro possibili tipologie e categorie; per le quali andranno fissati criteri oggettivi di verifica e di aggiornamento: ma che non vanno di per sé demonizzate, e alle quali è inutile contrapporre un nostalgico strumento del passato, ormai divenuto improponibile. Così, sempre parlando dell’eccesso di dati cui internet offre spazio (cosa in sé verissima), Picchione osserva che “un’overdose di informazione […] causa la perdita di significati e diventa dis-informazione, rumore”. Il che è di nuovo verissimo, ma comporta la necessità di porre anche qui graduatorie e criteri chiari che consentano di distinguire informazione da informazione, sito da sito, notizia da notizia. Per Picchione invece “l’istantaneità dell’informazione in Rete scoraggia la ricerca in blblioteca e trasforma le esercitazioni scritte in plagi” – una catena associativa i cui elementi non sono legati da nessun rapporto di causa/effetto, ma solo dalla cattiva educazione alle spalle di chi agisce così. Anche Picchione (e certo io) userà la Rete per le sue ricerche, senza che queste si configurino automaticamente come plagi; né il tempo passato in una biblioteca digitale è di per sé diverso dal tempo passato in una biblioteca “tradizionale”: sono l’uso che si fa delle informazioni e la capacità critica che su di esse e sul loro reperimento si è sviluppata che fanno l’eventuale differenza. Ma il discorso vale tanto per un utente digitale, quanto per un utente tradizionale. E chi ha guidato l’uno come l’altro, lo ha istruito e lo segue nella ricerca, dovrà essere in grado di addestrare il proprio allievo in entrambi i campi e i casi, acquisendo cioè a sua volta un’adeguata competenza selettiva, da esercitare sui libri cartacei, come anche sugli strumenti digitali.

    E qui veniamo al punto debole del volume: il quale si chiude al momento in cui doveva entrare nel vivo del suo tema, spiegandoci cosa si debba fare sul piano pratico e come si possano comunicare i valori in cui abbiamo sempre creduto a future generazioni che sempre di meno saranno portate, e non per colpa loro, ma per effetto della trasformazione del mondo, a riconoscersi, e forse anche a comprendere quegli stessi valori. Picchione si limita invece a una celebrazione generica e superficiale di quei valori e a ribadire la necessità di una loro proposizione (controllata e protetta), a fianco e in opposizione all’utilizzo altrove predominante degli strumenti informatici. In questo, egli non fa altro che adeguarsi a una serie ormai cospicua di volumi che ci hanno ricordato, se mai ne avessimo dubitato, la sublimità del greco o l’importanza culturale del latino, per fare due esempi. Ma che non ci hanno insegnato come questa importanza e sublimità si possano calare negli scenari presenti e futuri che in questo volume si configurano, non ci hanno cioè spiegato come iniettare questa importanza e questa sublimità dentro gli strumenti oggi prevalenti tra i giovani, e non contro, in opposizione e in aggiunta (contrastiva) ad essi. Mentre è solo la prima operazione che consentirà di “costruire” un homo futurus capace di attivare i neuroni che gli sono propri, e anche quelli destinati altrimenti a finire perduti; la seconda creerà invece dei disadattati. Questa mancanza secondo me rende debole la proposta del libro, e di molti ad esso similari, che finiscono per apparire come un antistorico voler controllare e fermare un processo ormai in atto. Perché, in fondo, esistono delle “sorti magnifiche e progressive” anche per gli scenari passati, non solo per quelli futuri! E il sospetto dell’esercizio retorico resta, in simili casi, fortissimo. Alterità, opposizione, recupero e conservazione di capacità e pratiche perdute, o comunque a rischio di perdita, sono le parole d’ordine di volumetti come quello di Picchione: ma alterità, opposizione, recupero rimangono termini senza senso se non sanno calarsi in una mediazione che deve partire dai modi e dal credo che si vogliono combattere, ma si riconoscono predominanti; e se in quei modi e in quel credo non riescono a instillare quanto di buono vi si può ancora davvero instillare. In caso contrario, si entra nella schiera di coloro che, di fronte a una rivoluzione, non ne sanno prendere atto, se non per lamentarsene e sperare che, alla fine, la si possa in qualche modo fermare. Nessuna rivoluzione è mai stata fermata. Al massimo, è stata cavalcata e guidata verso esiti in origine inaspettati…

    Non so quale sia la cultura classica di Picchione. Ma la lettura del suo libretto mi ha fatto venire in mente una pagina irresistibile di Platone, che tutti conosciamo. Siamo nel Fedro, ed è il mito dell’invenzione della scrittura da parte del dio Theuth, ovvero Ammone. Genialità specifica di Platone è l’avere affidato, lui, allievo di un maestro che all’oralità aveva consegnato tutto il suo insegnamento, il proprio dissenso dalla scrittura a un’opera scritta, e scritta con le straordinarie capacità narrative e rappresentative che ci propongono i dialoghi platonici. Un tocco di raffinata ironia, credo, che rende grande chi ne è stato capace! Quello che forse non tutti sanno è che i testi greci, ben prima dell’invenzione della stampa, ma in forma accelerata dopo di essa, nelle occasioni importanti venivano per lo più editi con a fianco una traduzione latina. Perché il greco è sempre stato lingua d’élite, il latino lingua di comunicazione. Ecco allora quella pagina famosa, ma in latino, come compete a questo sito. Ricavo la traduzione dalla bellissima edizione platonica di Immanuel Bekker, 1816: un volume per molti anni cercato e consultato nelle biblioteche di mezza Europa, e oggi facilmente accessibile anche a casa mia, come in quella di chiunque, proprio grazie ad internet…

    Audivi equidem, circa Naucratim Aegypti, priscorum quendam fuisse deorum, cui dicata sit avis quam Ibim vocant; daemoni autem ipsi nomen Theuth. Hunc primum numerum et computationem invenisse numerorum geometriamque et astronomiam, talorum rursum alearumque ludos et litteras. Erat tunc totius Aegypti rex Thamus, et in eminentissima amplissimaque civitate quas Graeci Aegyptias Thebas appellant; deumque ipsum Ammonem vocant. Ad hunc Theuth profectus, artes demonstravit suas dixitque eas distribui deinceps Aegyptiis ceteris oportere. Verum ille, quae cuiusque utilitas foret interrogavit. Et, ipso referente, quod bene dictum videbatur, probabat quidem; quod contra, vituperabat. Ubi multa de qualibet arte in utramque partem Thamus fertur Theuthi ostendisse (quorum singula si narrare pergamus, prolixior erit oratio), cum vero ad litteras descendissent: “Disciplina haec – inquit Theuth – o rex, sapientiores magisque memoriosos Aegyptios faciet. Memoriae namque et sapientiae remedium id est inventum”. At ille: “O artificiosissime Theuth – inquit – alius quidem ad artis opera fabricanda idoneus est, alius ad iudicandum promptior quid emolumenti vel damni sint utentibus allatura. Atqui et tu, litterarum pater, propter benevolentiam contrarium quam efficere valeant affirmasti. Nam illarum usus propter recordationis neglegentiam, oblivionem in animo discentium pariet. Quippe qui, externis litterarum confisi monumentis, res ipsas intus animo non revolvent. Quam ob rem non memoriae, sed commemorationis, remedium invenisti. Sapientiae quoque opinionem, potius quam veritatem, discipulis tradis. Nam cum multa absque praeceptoris doctrina perlegerint, multarum rerum periti vulgo, cum ignari sint, videbuntur. Consuetudine quoque molestiores erunt, utpote qui non sapientia ipsa sint praediti, sed opinione sapientiae subornati.

    Come giustamente osserva Fedro nel dialogo, Socrate qui parla di Egizi dei tempi passati, ma potrebbe parlare degli Ateniesi del loro tempo; o forse, perché no?, anche di noi stessi.

    © Massimo Gioseffi, 2017

  • Socrate in musica

    Socrate in musica

    Non so se i post dedicati alla musica che riprende temi classici suscitino o no interesse nei lettori di questo sito, se lettori ci sono. Credo però che, al di là della passione personale per la musica, che mi ha accompagnato e guidato per tutta la vita, insistere sull’argomento sia un modo importante per far conoscere la vitalità del mondo antico anche ai nostri allievi, destinatari ultimi, ancorché spesso mediati, del materiale che qui si cerca di organizzare. il fatto che oggi il mondo antico sia oggetto di ripensamento continuo soprattutto da parte dei musicisti, più che dei pittori e degli scrittori, prevalenti o comunque altrettanto presenti nel mondo di ieri, è un dato incontrovertibile. Su questo vorrei tornare in un altro post, chiedendomi (e chiedendo ai lettori) perché proprio i musicisti continuino a trarre ispirazioni da miti e personaggi dell’antichità. Per il momento mi accontento di dedicare qualche parola a Socrate, protagonista di un oratorio laico del 2013. Sottolineo la data: il personaggio Socrate aveva già conosciuto gli onori del palcoscenico musicale nel Settecento, con Telemann (Der geduldige Socrates, 1721, in realtà traduzione/rifacimento di un precedente libretto italiano di ugual titolo, La pazienza di Socrate, opera di Nicolò Minato, intonata fra gli altri da Antonio Caldara) e con Paisiello (Il Socrate immaginario, 1775: come indica il titolo, non si tratta del vero Socrate, ma di un suo moderno imitatore); a inizio Novecento, aveva scritto un dramma musicale su Socrate anche Erik Satie (1918-1920: ci torneremo sopra). Per ora ho preferito un testo più recente, per sottolineare la vitalità del tema anche nel contemporaneo, il vero contemporaneo (troppo spesso confuso, nelle scuole e nell’accademia, con un Novecento storico).

    Autore della musica è il compositore australiano (1961-) Brett Dean, in questi giorni agli onori della cronaca perché al Festival di Glyndebourne è in scena la sua ultima opera, Hamlet. Nel 2010 Dean, già autore di una serie piuttosto cospicua di composizioni, per il teatro, le compagini sinfoniche, gruppi da camera o singoli strumenti (Dean è, nella vita, anche direttore d’orchestra e solista di viola), aveva pensato di scrivere una nuova opera; poi, l’opera si è ridotta a un poema sinfonico con coro, della durata di circa mezz’ora. Alla fine è uscito The Last Days of Socrates, composizione per orchestra, coro e basso-baritono, come recita la partitura (in realtà c’è un ruolo secondario anche per un tenore solista). La composizione, della durata di un’ora circa, è un vero proprio oratorio laico in tre parti, intitolate rispettivamente La dea Atena (Goddess Athena); Il processo (The Trial); La cicuta (The Hemlock Cup). L’ispirazione viene ovviamente da Platone, ma il testo è di un poeta australiano, Graeme William Ellis (1944-), autore di un paio di raccolte poetiche (Words fall like rain, 2009; Ned Kelly Verse, 2011), che a dire il vero, stante il sito della World Catalogue Library, non sembrano avere avuto molta diffusione fuori dal continente oceanico. Purtroppo, per questioni di diritti editoriali, non lo posso riprodurre in questo sito; la casa editrice consente di prendere visione solo delle prime pagine della partitura di Dean, per chi fosse interessato alla sua scrittura. L’oratorio è stato eseguito nel 2013 a Berlino, sotto la direzione di Simon Rattle, e poi a Melbourne e Los Angeles (direttori Simone Young e Gustavo Dudamel). Nella parte di Socrate si sono esibiti John Tomlinson, che a detta del compositore ha anche aiutato nella realizzazione della scrittura vocale del ruolo, e Peter Coleman-Wright. Qui l’orchestra è diretta da John Storgårds; solisti, il grande John Tomlinson (voce sonora e pronuncia impeccabile, anche se affetto da un fastidioso vibrato che ne compromette più volte l’intonazione) e Robert Johnston. L’ho divisa nelle sue tre parti, la seconda e la terza dividendole a loro volta in due. Dean è autore tardo novecentesco, che ama mescolare la musica elettronica alle sue composizioni; capace di sprazzi lirici, per il suo oratorio prevede un organico fatto di fiati, archi, ottoni, percussioni, arpa, celesta, ma anche di piano, chitarra elettrica e fisarmonica, oltre a pezzi di terracotta e metallo sbattuti gli uni contro gli altri, a imitare il suono degli ostraka che votano la condanna di Socrate. Il basso baritono protagonista dà voce al filosofo; il coro interpreta gli Ateniesi, le voci maschili dando corpo agli accusatori di Socrate, le femminili alla parte compassionevole del popolo. Il tenore assolve, di volta in volta, il ruolo di un giudice (II parte) e del carnefice che prepara la cicuta (III parte). La prima parte ha carattere introduttivo; la seconda trae il suo testo dall’Apologia di Platone; la terza dal Fedone. Dean in molte interviste ha paragonato Socrate a importanti figure controcorrente del nostro tempo, alle quali in certo modo la composizione sarebbe dedicata: l’artista cinese Ai Weiwei, noto dissidente politico; oppure Edward Snowden e Julian Assange.

     

    Parte I – La dea Atena

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    La musica inizia dolcemente (la qualità sonora non è impeccabile), quasi impercettibile, attraverso strumenti  fuori scena. Il coro invoca a gran voce, e più volte, “So-kra-tes”: prevalgono le voci maschili, ostili, dure, mentre l’orchestra si trasforma in un uragano sonoro. Dal minuto 2’40” la furia si placa: nel coro ora si sentono le voci femminili, fuori scena (al Barbican erano su una piattaforma elevata). In questo quadro idilliaco inizia, ca. al minuto 4’25”, l’invocazione alla dea Atena (“Goddess Athena”), che prima assume il carattere di litania, poi pian piano prende forza (7’23” ca.), e dopo un paio abbondante di minuti torna a farsi più dolce, finché la celesta pone fine all’invocazione.

     

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    Parte II – Il processo

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    Una lunga introduzione nella quale svetta il corno solista prelude a una climax sonora, sulla quale irrompe il coro, senza pronunciare parola fino al minuto 3’33”. Tenori e bassi danno poi sostanza alle accuse contro Socrate, che inizia a sua volta una breve rhesis concitata (4’33”), alla quale il coro risponde ribadendo le accuse, su una melodia sempre più saltellante (5’30”). Al minuto 7’50” il coro, dato sfogo a tutta la rabbia di gruppo che vede messe in pericolo le proprie certezze, erompe più volte nel suo “Enough! Enough! Sokratès”, che Dean riconosce in molte interviste come il momento cruciale della situazione (l’opinione comune non accoglie chi la obbliga a dubitare di sé). Socrate inizia un lungo discorso, 8’40”, lento e pacato, ribadendo alle accuse con le parole dell’Apologia. “What difence is this?” si chiede il coro (12’45”). Socrate ribadisce il suo credo (“I believe”, 13’57”) e introduce l’immagine del cigno, che canta profetico al momento della morte.

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    “Therefore, I don’t regard my end as a misfortune” conclude sereno Socrate, ma tanta sicurezza irrita ulteriormente il popolo ateniese contro di lui: sotto la spinta martellante del pianoforte (2’09”) si forma la parola “Danger!” a riconoscere la pericolosità di chi vive coerente con se stesso. Socrate ribadisce la sua calma (4’20”): “All that I know is that I know nothing… It is your fear that which speaks”, mentre la sicumera del coro è “imitation of wisdom, not real wisdom”.  Nell’imbarazzato silenzio che segue, il corifeo invita alla votazione, riconoscendo che le parole di Socrate hanno valore finale (5’14”): su un ritmo quasi jazzistico, ognuno getta il suo voto nel vaso che contiene gli ostraka (si sentono uno di seguito all’altro i colpi di metallo che corrispondono ai voti fatti cadere nel recipiente), mentre il coro si divide fra tenori e bassi, che ripetono minacciosi la loro ostilità al protagonista, e le voci femminili, alla fine prevalenti, nel loro lamento per l’imminente condanna, anticipata dai colpi delle percussioni (6’20”). Alla fine restano solo le donne a piangere (7’25”).

     

    Parte III – La cicuta

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    Il brano si apre con una lunga introduzione per violoncello solo, omaggio di Dean a Jan Diesselhorst, celebre violoncellista dei Berliner Philharmoniker (compagine orchestrale nella quale anche Dean ha suonato per una dozzina d’anni), già ricordato in un’altra composizione dell’autore, Epitaphs, 2010, un quintetto cameristico di cui un movimento rievoca l’amico e collega. Al minuto 2’04”  inizia il lamento del coro femminile, fuori scena. Siamo così immessi a poco a poco nella stanza dove Socrate attende la morte, in un’atmosfera cupa, tenebrosa, amplificata da un suono funereo di tromba e dalle percussioni. Un inserviente presenta a Socrate la coppa della cicuta, riconoscendo nello stesso tempo in lui il più grande degli uomini (5’08”). Socrate prende la parola rievocando ancora il cigno (“The swan!… The swan!…”, 6’40”), accompagnato dalla celesta che – un po’ come in Death in Venice di Britten, dove dava visibilità a Tadzo e al suo ruolo di involontario psicopompo – sembra progressivamente rafforzare il pensiero della morte imminente.

     

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    Quando il lamento si fa troppo forte, Socrate interviene a rassicurare gli amici (0’59” “Calm yourself, and be brave!”). Le donne appaiono più rassegnate, mentre torna a farsi sentire il violoncello (2’59”). Socrate può così riappropriarsi della metafora del cigno: è lui, naturalmente, l’animale che muore, ma muore cantando e – come aveva detto al processo – nessuno canta se sta soffrendo, nemmeno l’usignolo. Come il cigno, Socrate vede ora dunque la propria morte, ma vede anche chiaramente che è solo il nostro terrore dell’ignoto che ci spinge a temerla. Dopo un attimo di meditazione, il coro riprende e fa sua l’idea (“The swan, the swan sings”, 5’39”) e accompagna Socrate nell’ultima celebrazione di sé e della propria coerenza interiore. Le parole si fanno sempre più lente, cadenzate: “The swan sings” ripete infine ancora una volta anche Socrate, con il ritmo di chi è ormai preda della paralisi e della morte. Alle donne il compito di dare l’ultima risonanza al lutto.