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  • Mitomania e mitomani III

    Mitomania e mitomani III

     

    I casi esaminati in precedenza possono essere ritenuti esemplari di una mitografia (Catullo crea il mito “Catullo”, ossia il mito del giovane poeta vittima di amici ed amanti, costruito da Catullo il poeta; Virgilio crea il mito del mondo bucolico tormentato da Amore, di cui Coridone è solo il primo esponente), ma non di una mitologia. Vorrei allora dedicare quest’ultimo post a personaggi mitologici, la cui possibile mitomania è svelata o dalla contraddizione fra quanto essi affermano e quanto ci ha detto in precedenza il narratore (come nel caso di Coridone  e “Virgilio”, il narratore della seconda egloga), o dalla contraddizione fra quanto essi affermano e quanto ci ha detto una tradizione mitografica precedentemente attestata con sufficiente forza per divenire agli occhi del lettore Verità.

    Parto ancora una volta da Catullo, più esattamente dal carme 64. Ne do qui per scontata la struttura: in occasione delle nozze fra Peleo e Teti, descritte realisticamente come tipiche nozze romane, al momento della presentazione dei doni per gli sposi il Narratore esterno si sofferma a descrivere una coperta fittamente ricamata. La coperta a poco a poco prende vita, o meglio prende vita la situazione narrativa delineata dai ricami, con una voce esterna, il narratore, e una interna che a un certo punto prende a sua volta la parola. Si tratta di Arianna, abbandonata da Teseo sulle coste di Nasso, che si lamenta del proprio crudele destino. Cosa ci dice di Teseo Arianna? Ovviamente, che è perfidus, ìmmemor e crudelis, cioè usa sostanzialmente gli stessi aggettivi che abbiamo visto utilizzati nel carme 30 per Alfeno. Come questi, anche Teseo, a detta di Arianna, non è stato ai patti: ha preso quello che gli serviva, ma si è liberato della zavorra non appena possibile. Ha fatto dei promissa, ha lasciato sperare qualcosa (iubere), e ha permesso poi che i venti portassero via le sue promesse (tutte espressioni ricorrenti anche nel carme 30). Lei è invece la vittima, vittima di un foedus non rispettato, un foedus che si immaginava stabile, ma che la controparte ha brutalmente tradito, venendo meno a un investimento sentimentale ed emotivo di Arianna, e facendo crollare speranze e certezze (vv. 132-142):

    “Sicine me patriis avectam, perfide, ab aris
    perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?
    Sicine discedens neglecto numine divum,
    immemor a! devota domum periuria portas?
    Nullane res potuit crudelis flectere mentis
    consilium? tibi nulla fuit clementia praesto,
    immite ut nostri vellet miserescere pectus?
    At non haec quondam blanda promissa dedisti
    voce mihi, non haec miserae sperare iubebas,
    sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos,
    quae cuncta aereii discerpunt irrita venti…”.

    Nel seguito Arianna non fa che ripetere il lamento, solo dando carattere via via sempre più generale alle sue considerazioni (così non si comporta solo Teseo, ma tutti gli uomini maschi), arricchendo sempre di più anche l’elenco delle proprie passate benemerenze (vv. 143-153):

    Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,
    nulla viri speret sermones esse fideles;
    quis dum aliquid cupiens animus praegestit apisci,
    nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt:
    sed simul ac cupidae mentis satiata libido est,
    dicta nihil metuere, nihil periuria curant.
    Certe ego te in medio versantem turbine leti
    eripui, et potius germanum amittere crevi,
    quam tibi fallaci supremo in tempore dessem.
    Pro quo dilaceranda feris dabor alitibusque
    praeda, neque iniacta tumulabor mortua terra.

    Che cosa ci aveva però detto il Narratore di Teseo, e dei patti intercorsi fra i due amanti? Di Teseo, nella presentazione, si dice solo bene (vv. 81-85):

    Ipse suum Theseus pro caris corpus Athenis
    proicere optavit potius quam talia Cretam
    funera Cecropiae nec funera portarentur.
    Atque ita nave levi nitens ac lenibus auris
    magnanimum ad Minoa venit sedesque superbas.

    Di fronte alla difficoltà della patria (gli Ateniesi devono pagare un tributo di sangue a Minosse, re di Creta e padre di Arianna), Teseo si impegna in prima persona, come vuole l’etica romana; espone se stesso (suum corpus proicere optavit); pensa solo a vincere o a morire, se mai dovesse fallire. Di giochi d’amore non si fa parola, se non per dirci che è Arianna che, giovane e inesperta, non appena vede Teseo se ne innamora, perde la testa, non sa più chi sia e dove sia, exarsit e incenditur, sospirando, languendo, impallidendo, balbettando – tutti i signa amoris che ben conosciamo e ben conoscono i lettori di Catullo (vv. 86-102).

    Hunc simul ac cupido conspexit lumine virgo
    regia, quam suavis exspirans castus odores
    lectulus in molli complexu matris alebat,
    quales Eurotae praecingunt flumina myrtus
    aurave distinctos educit verna colores,
    non prius ex illo flagrantia declinavit
    lumina, quam cuncto concepit corpore flammam
    funditus atque imis exarsit tota medullis.
    Heu misere exagitans immiti corde furores
    sancte puer, curis hominum qui gaudia misces,
    quaeque regis Golgos quaeque Idalium frondosum,
    qualibus incensam iactastis mente puellam
    fluctibus, in flavo saepe hospite suspirantem!
    Quantos illa tulit languenti corde timores!
    Quanto saepe magis fulgore expalluit auri,
    cum saevum cupiens contra contendere monstrum
    aut mortem appeteret Theseus aut praemia laudis!

    Anche dei patti non si fa parola. Il Narratore si limita a mettere in evidenza l’investimento forsennato, eccessivo ed unilaterale della principessa cretese, che con il suo labellum (il diminutivo assicura che sia il suo) offre doni agli dèi e fa voti per la vittoria di Teseo, fino a mettergli in mano il ben noto filo (vv. 103-104):

    Non ingrata tamen frustra munuscula divis
    promittens tacito succepit vota labello.

    Così armato, Teseo vince la lotta contro il Minotauro e vince la lotta contro il Labirinto, forse anche più difficile della prima (vv. 110-115):

    Sic domito saevum prostravit corpore Theseus
    nequiquam vanis iactantem cornua ventis.
    Inde pedem sospes multa cum laude reflexit
    errabunda regens tenui vestigia filo,
    ne labyrintheis e flexibus egredientem
    tecti frustraretur inobservabilis error.

    Naturalmente, il filo è stato dato ed accettato, quindi un qualche accordo ci deve essere stato. Ma quali siano i termini dell’accordo il Narratore non lo dice. Le ragioni di ciò possono essere molteplici, anche solo di tecnica narrativa (ellenistica). Resta però che i foedera pattuiti ai quali Arianna si appella nel suo lamento, nella narrazione non ci sono. C’è lei che si sbilancia; c’è un filo che viene dato ed accettato, ma non ci sono le condizioni di questa accettazione. Anche la narrazione della partenza è piuttosto sbrigativa, e anch’essa si svolge tutta dalla sola parte di Arianna (vv. 116-123):

    Sed quid ego a primo digressus carmine plura
    commemorem, ut linquens genitoris filia vultum,
    ut consanguineae complexum, ut denique matris,
    quae misera in gnata deperdita laeta
    omnibus his Thesei dulcem praeoptarit amorem:
    aut ut vecta rati spumosa ad litora Diae
    aut ut eam devinctam lumina somno
    liquerit immemori discedens pectore coniunx?

    L’accoglienza  del punto di vista di Arianna, abbastanza indiscussa in tutta la critica (perché con gli occhi di Arianna la storia è stata raccontata da Catullo, naturalmente) ha determinato un passare sopra al controllo della veridicità delle parole di Arianna. Ma il poeta, in precedenza, ci ha detto che è lei a essere fuori di testa per amore. E allora, fino a che punto dobbiamo pensare che quanto ci dice sia vero, fino a che punto dovremo invece immaginare che, vittima di uno shock amoroso, di una delusione e una sovraesposizione sentimentale, non sia Arianna ad essere, più o meno coscientemente, preda della propria mitomania? Il dibattito è aperto…

    Il problema si ripresenta, anche più gravemente, con Virgilio. Nell’Eneide non mancano i narratori menzogneri: mentono di sicuro Giunone e la regina Amata, con quella che, seguendo Dupré, potremmo chiamare “mitomania maligna”; mente di sicuro Enea, che alla corte di Didone narra (o omette di narrare, a seconda dei casi) tutto ciò che gli conviene dire (o omettere), in accordo a quella che Dupré avrebbe chiamato “mitomania perversa”. Ma l’erede più diretta di Arianna è certamente Didone. Qui il narratore dice chiaramente che cosa pensa del comportamento della regina cartaginese. Nell’episodio fatale dell’incontro nella caverna, che dà inizio alla fase “attiva” dell’amore fra Didone ed Enea, egli chiama la resa di Didone una culpa (v. 172) e definisce “un pretesto” (per l’esattezza, usa il verbo praetexit) ogni riferimento successivo al coniugium. Ingannata dalle circostanze, e dal proprio stesso desiderio, Didone si crea nella propria mente una tipologia di legame che nella realtà non esiste, che è impossibile, e che Enea ha da subito indicato come tale. Questo è un passaggio che non andrebbe mai dimenticato (vv. 169-172):

    Ille dies primus leti primusque malorum
    causa fuit; neque enim specie famave movetur  
    nec iam furtivum Dido meditatur amorem:
    coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam.

    Il dettaglio invece viene spesso trascurato, per l’adesione sentimentale ed emotiva al punto di vista di Didone, che Virgilio ha voluto ci fosse, e nella quale normalmente cadiamo irretiti noi tutti. Ora, il problema è lungo e complesso, e non intendo sviscerarlo qui. Però c’è un dato significativo: il narratore ha espresso un esplicito giudizio; l’ha espresso quando l’irreparabile è appena avvenuto, e ancora non se ne conoscono appieno le conseguenze. La scelta di raccontare la vicenda successiva dal punto di vista della donna ci dice che Virgilio non assolve Enea; ma il verso in questione ci invita anche a dubitare di tutte le asserzioni successive di Didone. La regina cartaginese è senz’altro in torto, le sue pretese e argomentazioni sono nulle, rispetto alla verità della Storia (= Enea deve arrivare nel Lazio). Tutto quello che dice è fonte di suggestione ed auto-convincimento, reazione a uno shock emotivo non completamente gestito. Dunque, mitomania? Enea potrà ribattere, a ragione, vv. 358-359, nec coniugis umquam / praetendi taedas aut haec in foedera veni.  Su questo dettaglio il narratore non lo smentisce, e non lo smentisce nemmeno Didone nella sua replica, che pure lo rintuzza circa le altre parti del discorso. Certo, Virgilio è sempre un poeta sfuggente a troppo facili schematizzazioni: e la narrazione accosta questa verità, confermata dal giudizio di prima del Narratore, a quella che invece è una palese bugia di Enea, che nella stessa battuta dice (vv. 357-358): Pro re pauca loquar. Neque ego hanc abscondere furto / speravi (ne finge) fugam. E questo mentre invece noi lettori sappiamo che la fuga Enea aveva tentato sì di nasconderla, eccome!, vv. 288-295. Enea non è però un mitomane, è un (semi)bugiardo, con una verità certa e tante piccole bugie al servizio di quella; ma questo non cambia la situazione di Didone.

    Chi però meglio di tutti ha sviluppato il tema della mitomania “mitologica”, chiamiamola così, è certamente Ovidio. L’opera da prendere in considerazione sono, ovviamente, le Heroides. Come sappiamo, si tratta di lettere di eroine, quindici in tutto (le lettere doppie appartengono a una diversa tipologia, e qui non mi interessano). Tutte le eroine che scrivono appartengono al mondo del mito – tale è per me anche Saffo, la Saffo di Ovidio, quanto meno. Ognuna di loro si relaziona a fonti precedenti (Omero, Callimaco, Apollonio Rodio, Euripide e i tragici tutti, ma anche gli stessi Catullo e Virgilio, cui le lettere di Arianna e Didone chiaramente si rivolgono) e a miti ben attestati e sicuri – resi tali comunque dalla fonte precedente cui Ovidio guarda – e ognuna di loro cerca di convincere il suo uomo lontano, e spesso fedifrago (ma non sempre: Laodamia e Ipermestra, ad esempio, fanno eccezione, in parte anche Penelope) a tornare da lei. Vengo però alla mitomania, intesa come invenzione continuata e continua di bugie mitologiche. Le lettere sono lettere, non hanno quindi una cornice o un narratore che ci dica come dobbiamo leggerle. Ma i miti sono preesistenti. E preesistenti in una forma letteraria precisa, alla quale Ovidio guarda e con i cui interstizi si diverte a giocare. Veniamo a un  caso specifico. Ho scelto la lettera di Issipile a Giasone, la numero VI della raccolta. Siamo nel mito delle Argonautiche: Giasone a Lemno si è unito a Issipile, ha concepito con lei due gemelli (ma non lo sa), è partito spronato dai compagni per riprendere l’impresa del Vello d’oro. L’impresa è riuscita grazie all’aiuto di Medea, con la quale Giasone fugge verso la propria casa in Tessaglia. Il ritorno è lungo, lento, travagliato, e certamente non ripassa da Lemno. Dalla Tessaglia giunge sull’isola un hospes, che racconta a Issipile del ritorno dell’eroe in patria; lui sta ben attento a quello che dice, ma prima della fine si tradisce: Giasone è tornato con Medea, tenendosi ben lontano dall’isola. Ciò significa che Issipile per Giasone rappresenta ora, al massimo, un lontano ricordo. La donna decide perciò di prendere lo stilo in mano, e scrive la sua lettera.

    Le eroine di Ovidio sono tutte grafomani, raccontano molte cose… Issipile racconta la vicenda del suo incontro con Giasone. Le donne di Lemno avevano ucciso tutti gli uomini dell’isola. Quando vedono avvicinarsi gli Argonauti non sanno bene come accoglierli. C’è un’assemblea, in cui prevale il parere di lasciarli sbarcare e fare finta di nulla, mentendo circa l’assenza di abitanti maschi. Non è però questa la posizione di Issipile, che sarebbe a favore del rifiutare lo sbarco ai marinai (vv. 51-54):

    Certa fui primo—sed me mala fata trahebant—
         hospita feminea pellere castra manu
    Lemniadesque viros—nimium quoque!—vincere norunt:
         milite tam forti vita tuenda fuit! 

    Questo dettaglio non è unico e sicuro in tutte le attestazioni della leggenda: Igino, ad esempio, non vi fa cenno, in Valerio Flacco, invece, le donne combattono contro gli Argonauti che si avvicinano all’isola. La notizia cui allude l’Issipile di Ovidio si ritrova solo in Apollonio Rodio, per quanto ne sappiamo: ed è perciò questo il segnale che, come l’epistola VII va letta sulla falsariga dell’Eneide, o la X su quella di Catullo (e la I su Omero ecc.), così questa dipende da Apollonio. Issipile, peraltro, è una signora facile alla costruzione mitografica anche nel resto dell’epistola. L’impresa di Giasone, della quale naturalmente lei ha solo notizie lontane e di riporto, la racconta nel testo per ben tre volte, in termini sempre diversi: la prima, di cui assegna la conoscenza a una generica fama, è tutta favorevole a Giasone (vv. 9-14): i buoi sputa-fuoco di Marte si sono lasciati aggiogare dall’eroe, i giganti si sono uccisi fra loro, il serpente/dragone, pur sempre vigile, è stato vinto dalla destra del giovane. La seconda, assegnata all’hospes tessalo è una ricostruzione un po’ meno gloriosa (vv. 31-40): ritroviamo le stesse azioni di prima, solo amplificate nella misura, con i boves Martis che arano il terreno docili, i terrigenae che si uccidono civili Marte, il serpente che si lascia incantare… Solo che, chiaramente, l’ultima e più gloriosa azione non è più merito di Giasone, mentre fa capolino, sia pure con un ruolo non ancora ben definito, la venefica paelex che lo accompagna, cioè Medea. La terza ricostruzione è, per Giasone, la meno onorifica di tutte. Qui l’eroe non solo è scomparso da qualsiasi azione gloriosa; ma ogni azione è assegnata all’intervento di Medea (vv. 97-98): è lei che coegit tauros iuga ferre, è lei che feros angues mulsit, in maniera oramai aperta e definitiva.

    Torno però, per concludere, a quanto avevo lasciato in sospeso, cioè la descrizione del soggiorno di Giasone a Lemno. Dopo il dettaglio che avevo segnalato (l’assemblea delle donne che decidono se e come accogliere gli Argonauti), dettaglio che – lo ripeto – serve sostanzialmente a mettere in evidenza la fedeltà di Ovidio ad Apollonio, Issipile rievoca la partenza degli Argonauti da Lemno, e in particolare l’atteggiamento tenuto da Giasone. In Apollonio la scena è questa: c’è un breve discorso di commiato, in cui l’eroe non promette nulla, ma ringrazia e saluta Issipile e le fa promettere che, in caso di nascita di un figlio, lo manderà appena possibile in Tessaglia, dai genitori dell’eroe, a Iolco. Poi Giasone sale sulla nave, primo di tutti gli Argonauti, dando il buon esempio agli altri. Quindi, la nave salpa, senza che nessuno dei suoi marinai si volti mai indietro. Ecco invece la descrizione che del soggiorno di Giasone a Lemno e della partenza del giovane fa ora Issipile (vv. 55-72):

    Urbe virum vidi tectoque animoque recepi.
         Hic tibi bisque aestas bisque cucurrit hiems. 
    Tertia messis erat, cum tu dare vela coactus 
         inplesti lacrimis talia verba tuis: 
    “Abstrahor, Hypsipyle. sed dent modo fata recursus;
         vir tuus hinc abeo, vir tibi semper ero. 
    Quod tamen e nobis gravida celatur in alvo, 
         vivat et eiusdem simus uterque parens!”
    Hactenus. et lacrimis in falsa cadentibus ora 
         cetera te memini non potuisse loqui. 
    Ultimus e sociis sacram conscendis in Argon; 
         illa volat, ventus concava vela tenet.
    Caerula propulsae subducitur unda carinae:
         terra tibi, nobis adspiciuntur aquae. 
    In latus omne patens turris circumspicit undas; 
         huc feror et lacrimis osque sinusque madent. 
    Per lacrimas specto cupidaeque faventia menti 
         longius adsueto lumina nostra vident. 

    Giasone è costretto a partire, non volendolo (in effetti, anche in Apollonio è Eracle, unico a non avere legami sentimentali sull’isola, che spinge alla partenza; ma Giasone accoglie prontamente l’invito), e viene molto rimarcata la mancanza di entusiasmo dell’eroe (coactus, abstrahor, implesti lacrimis sinum ecc.). Nel suo discorso, Giasone dà per certa l’esistenza di un figlio, pur non ancora partorito. Il figlio, naturalmente, rinforza il legame familiare fra i due, facendone dei veri coniuges. Giasone si allontana proclamandosi per sempre vir di Issipile (in Apollonio si guarda bene dal fare alcuna promessa). Egli, nel complesso, mostra quindi una grande emozione, mentre è piuttosto freddo e burocratico in Apollonio. Giasone sale inoltre sulla nave per ultimo, anziché non per primo, e dopo la partenza continua a tenere lo sguardo fisso verso terra e verso Issipile. Fra i due si instaura così un lungo legame di sguardi, che ricorda le coppie di più teneri amanti (nelle Metamorfosi Ovidio recupera questo dettaglio per la coppia di sposi ideali, Alcione e Ceice; nella poesia decadente ricordo solo il caso parallelo de LAmore dei tre re di Sem Benelli).

    Sono queste delle semplici varianti mitografiche? È una risposta possibile. Siamo di fronte a quel processo di trasformazione del materiale epico in materiale elegiaco che è tipico di Ovidio? Certamente anche questo, ma senza dimenticare che la trasformazione qui non la compie il narratore/Ovidio, ma un personaggio che parla. E Issipile vive, soffre, scrive la sua lettera, e nella lettera scrive cose di fuoco in nome della scena che abbiamo appena letto. Del suo essersi impressa nel (sub?)cosciente della donna. Del di lei crederla vera. Della convinzione di Issipile di essere, grazie ad essa, la legittima uxor di Giasone, e come tale di potersi presentare. In altre parole: di una verità “altra” che la donna si è costruita, cosciente o incosciente, senza che il confine fra le due cose possa essere delineato con troppa sicurezza – una verità “altra” che nel momento in cui lei scrive si è rivelata chiaramente fasulla (e infatti Issipile scrive la sua lettera), ma che diventa il falso (o la bugia?) nella quale Issipile fin lì si è rifugiata, costruendo attorno ad essa tutto un mondo, in cui cercare la sopravvivenza. Effetto, ancora una volta, di uno shock, e di quella che per la poesia di primo secolo a.C. mi sembra la sola, possibile ragione di shock: l’amore, che è furor, morbus, ignis, e che proprio per questo tutto spiega e tutto giustifica. In questa ottica andrà inserito dunque il discorso sulla mitomania dei personaggi catulliani, virgiliani, ovidiani. 

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Suchoň

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Suchoň

    Nella Postfazione a I nostri antenati (1960) Italo Calvino delinea una storia dell’umanità che vede l’essere umano passare dallo stato primitivo, in cui è ancora organico con l’universo che lo circonda, all’uomo artificiale (che sarebbe poi l’uomo contemporaneo), alienato, dimidiato, inesistente, costretto a vivere fuori dal proprio ambiente, ridotto a puro funzionamento, perché incapace di fare attrito con quanto lo circonda, Natura e Storia (maiuscole mie; p. 1216 nel primo volume de “I meridiani”). A fondamento dell’affermazione si riconoscono molti luoghi comuni circa la diversità di cui la contemporaneità si è sempre gloriata. Non voglio però discutere l’affermazione. Piuttosto, in procinto di completare con questa puntata la carrellata attraverso le metamorfosi ovidiane e la musica del Novecento, a me sembra che a Calvino si possa tranquillamente ‘rubare’ l’immagine dell’attrito dell’uomo con la Natura e la Storia. Questo attrito è proprio ciò che il poema ovidiano colloca in primo piano e fa oggetto di narrazione. Elemento probabilmente sconosciuto ai diversi precedenti messi a frutto dal poeta latino (tranne, forse, che alla sesta egloga virgiliana), questa lotta dell’uomo contro due forze ostili a lui, ma nello stesso tempo anche fra di loro, è, in fondo, ciò che Ovidio ha davvero trasmesso ai secoli a venire, incluso il nostro. Ed è ciò che, assieme all’idea della metamorfosi come momento di massima esibizione di questa tensione, la musica del Novecento ha interiorizzato e fatto suo.

    Nelle puntate precedenti abbiamo visto come la metamorfosi possa ridursi a semplice concetto filosofico o avere tragica evidenza; come se ne possa studiare il momento dello svolgimento, oppure le conseguenze che lascia dietro di sé; come possa essere determinata dalle forze oscure della Storia, che tutto distruggono lasciando solo cumuli di macerie alle proprie spalle, oppure dalla crudeltà della Natura, che non ha tempo per voltarsi a guardare le creature che distrugge. Abbiamo anche visto come l’uomo possa subire la metamorfosi, oppure cercala, come mezzo per sottrarsi al reale che lo circonda, oppure come annullamento di sé in un eterno ritorno all’ordine che, per essere tale, non può comprendere quell’elemento di perenne disordine che è, appunto, l’umanità. Oggi voglio proporre un’ulteriore immagine della metamorfosi, e delle Metamorfosi: le quali, al di là di tutti i giochi di distanziamento che vi si possono e vi sono stati ritrovati, sono pur sempre un poema epico, dunque celebrativo, di una casta e di un’epoca. E che si chiudono, com’è noto, con una doppia significativa trasformazione: quella che vede Augusto (ancora vivo) trasformarsi in stella, e quella che vede il poeta assurgere all’empireo in virtù della propria arte.

    Al di là delle possibilità di leggere doppi, tripli sensi nelle parole di Ovidio, formalmente le Metamorfosi si presentano quindi come un poema che celebra la grandezza dell’imperatore in carica, il suo ruolo e la sua funzione. Il percorso storico delineato dal poeta, che si era aperto con la formazione del mondo – nato da materia sempiterna ma non ancora formata – si chiude con la celebrazione della propria contemporaneità e di chi quella contemporaneità aveva fortemente impregnato di sé. La Storia parte dalla Natura e realizza ciò che la Natura conteneva in potenza, ma non in atto.

    Anche questo non è però un tema che vorrei dibattere qui. Ora mi interessa di più osservare che questa lettura ‘positiva’ delle Metamorfosi, per cui l’elemento metamorfico trova celebrazione nel divenire storico – si identifica anzi con il divenire storico; e questo divenire punta, immancabilmente, verso la nostra contemporaneità – si trova fortemente evidenziata in un pressoché sconosciuto testo musicale, che infatti si intitola, significativamente, come il poema ovidiano (pur non richiamandosi sprecificamente ad esso). Si tratta della composizione sinfonica per orchestra Metamorfózy (1953), opera di Eugen Suchoň (1908-1993), compositore slovacco pressoché sconosciuto, credo, dalle nostre parti. Nato in una cittadina poco lontana da Bratislava, da famiglia di musicisti, Suchoň ha vissuto la maggior parte della sua esistenza entro i confini della patria, fra Praga e Bratislava. Alla nascita, e per tutti gli anni della fanciullezza, fu suddito dell’impero austroungarico; poi divenne cittadino cecoslovacco, nello stato libero ma ibrido formatosi al termine della prima guerra mondiale. Dopo la seconda guerra e l’occupazione nazista, visse nella Cecoslovacchia del Patto di Varsavia; conobbe la primavera di Praga del 1968, gli anni della repressione, il disgelo dei tardi anni ’80, la caduta del muro di Berlino e l’allontanamento delle truppe sovietiche (1989); infine, intravide la scissione delle due anime dello stato in repubbliche autonome e federali, scissione che infine portò alla proclamazione della Repubblica Slovacca indipendente, nata dalla dissociazione dalla componente ceca dell’antica repubblica unitaria (1993). In mezzo a tutti questi rivolgimenti, Suchoň è passato pressoché indenne, studiando, insegnando, componendo. Piuttosto vasto il catalogo delle sue composizioni, che include due opere liriche (che pochi conoscono fuori dai confini patrii), molta musica vocale e corale, composizioni da camera e sinfoniche a pieno titolo. Nel 1953, dopo una gestazione pluriennale, Suchoň licenziò la composizione sinfonica Metamorfózy, in cinque parti e varia successione di tempi.

    La misura è insolita, specie per una composizione di una trentina circa di minuti, e ricorda (anche nello sbilanciamento interno fra le singole parti, di durata progressivamente maggiore, così da passare dai poco meno di tre minuti del primo movimento ai quasi dodici dell’ultimo) le composizioni del grande musicista boemo – allora austriaco, ma oggi sarebbe ceco – Gustav Mahler (1860-1911). La similitudine però finisce lì. La musica di Suchoň è tradizionale quanto a fattura e tipologia, e ricorda piuttosto i lunghi e articolati poemi sinfonici di tardo Ottocento, sul tipo di Mà Vlast (La mia patria, 1879), l’opera più famosa del compositore – ceco pure lui – Bedřich Smetana (1824-1884).

    Quello che però interessa al mio discorso è che qui la musica celebra la Storia della repubblica cecoslovacca. Definito nelle note di copertina delle (rare) incisioni come un “riflettere sulla Storia durante gli anni di guerra”, alla maniera di Strauss, la composizione passa dal tono idilliaco e moderato dell’inizio a tempi più rapidi e vorticosi, per poi ristabilre nei movimenti finali prima l’idea di un regno della pace, poi il trionfo della rinata nazione (in un movimento che si intitola “Allegro feroce”). In anni di realismo socialista, Suchoň celebra così il divenire degli avvenimenti, che hanno portato la Nazione a trionfare, sia pure a prezzo di lotte e difficoltà, contro chi voleva destabilizzarne la tranquillità. Il tono, alla fine, è celebrativo: attraverso la trasformazione e il divenire, la Storia ha (ri)trovato la forma ideale.

    Simile idea si ritrova anche nelle composizioni operistiche di Suchoň. Non tanto la prima e più famosa, Krútňava (qualcosa come “Il mulinello”), che narra di un omicidio compiuto per gelosia e dell’eterna lotta fra bene e male nell’animo umano – l’opera, rappresentata per la prima volta nel 1949, ebbe infatti i suoi guai con la censura socialista. Ma la seconda, Kral’ Svätopluk, del 1960, racconta una vicenda legata alla disgregazione del regno di Moravia nel IX secolo d.C. (Svätopluk è il nome del protagonista; Kral’ è un titolo nobiliare, qualcosa come “principe”), e rivela un’identica idea del divenire storico che non solo non può essere interrotto, ma che trova in ogni caso la sua via, quali che possano essere i tentativi umani di impedirlo e di impedire la metamorfosi che esso sempre porta con sé.

    Movimenti I-III (Andante con moto; istesso tempo; Allegro moderato)

     

    Movimento IV (Larghetto)

     

    Movimento V (Allegro feroce)

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Musgrave

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Musgrave

    Il nome di Thea Musgrave (1928-) probabilmente non dirà molto ai lettori di questi post, se lettori ci sono. Eppure è un nome che dovrebbe suscitare qualche interesse, per molte ragioni. Intanto, come si vede dall’indicazione fornita all’inizio, al momento in cui scrivo è ancora in vita, sia pure in età avanzata. Poi, è una donna. Donne compositrici non sono mancate già nell’Ottocento (più rare prima), ma sempre in circostanze particolari: erano parenti di musicisti affermati, come Fanny Hensel née Mendelsshon (sorella di Felix); oppure figure già affermate nel campo musicale, come Pauline Viardot (cantante di primissimo piano); infine, donne comunque inserite in un milieu particolare, come Louise Bertin, amica di Hector Berlioz e di Victor Hugo (che le scrisse il libretto per La Esmeralda [1836], libero rifacimento di Notre-Dame de Paris). Erano quindi tutti casi eccezionali. Il Novecento, a partire dagli anni Trenta ha visto invece un sempre più deciso affermarsi di donne compositrici, anche se restano una minoranza. La Musgrave, scozzese di nascita, fu allieva di una famosa insegnante di Conservatorio, che la introdusse al “modernismo” delle avanguardie del tempo (si tratta di Nadia Boulanger, alle cui lezioni tutti i più importanti compositori e direttori d’orchestra hanno prima o poi assistito). Nel 1958, dopo alcuni successi in patria – in particolare con il ciclo di poemi Tryptich, di quello stesso anno – Musgrave si è trasferita in America, dove ha lavorato con un altro illustre compositore, Aaron Copland e ha insegnato prima all’Università della California, poi a CUNY (la City University of New York), in quei ruoli – da noi sconosciuti – di compositori e musicisti in servizio entro il mondo accademico. Ricchissimo il suo catalogo, che comprende pezzi per strumenti solistici, concerti, composizioni orchestrali e una decina di opere, due delle quali (Mary Queen of Scozia, del 1977; e A Christmas Carol, del 1979) hanno avuto l’onore di una registrazione ufficiale.

    Per dare un saggio della sua abilità compositiva, prima di passare ai testi propriamente metamorfici, voglio presentare una composizione orchestrale del 1990, Song of the Enchanter, ispirata a un episodio del Kalevala (il poema epico finlandese per eccellenza), ma di fatto commissionata per celebrare il 125mo anniversario della nascita del compositore finlandese Jean Sibelius, 1865-1957 – a sua volta autore di poemi sinfonici e una sinfonia corale (Kullervo, 1891) ricavati da quel poema. Chi conosce la musica di Sibelius sarà in grado di apprezzare il gioco di allusioni e rifacimenti che la Musgrave introduce a partire dalle composizioni del celebrando; altrimenti, valga il piacere di pochi minuti di musica ben fatta.

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    Il medesimo procedimento si avverte anche più chiaramente in un’altra composizione, Echoes of Time Past, del 1999, tutto un inno alla memoria e alla tradizione della musica occidentale, a cominciare da Verdi e Wagner (come ha indicato la stessa autrice); ma – essendo la Musgrave al momento della composizione in America – il brano vuole omaggiare anche i classici che hanno fondato l’immagine musicale dell’America nella mente europea, a cominciare da quella Sinfonia nr. 9 in mi minore di Antonin Dvořák, detta appunto Del nuovo mondo (1893). Chi ha avuto occasione di sentire quel testo, riconoscerà nell’assolo iniziale del corno inglese e poi, verso la fine, anche in quello della tromba, lunghe citazioni dei temi principali utilizzati da  Dvořák, temi che la tradizione vuole derivino da spirituals e musica nativa americana.

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    Veniamo però ai brani che più ci interessano. La Musgrave non ha scritto (a differenza di Britten o di Strauss) nulla che rechi in sé il titolo di Metamorfosi o un richiamo esplicito ad Ovidio, almeno che io sappia. E’ tuttavia autrice di una serie di brani – nati indipendentemente l’uno dall’altro – che hanno come argomento l’illustrazione di un mito antico: e si tratta sempre, naturalmente, di un mito compreso nel poema ovidiano, che pertanto offre sia la traccia del racconto che quella della sua interpretazione. In questi brani, di norma, uno strumento solista dialoga con un nastro pre-registrato, secondo una tecnica di moda negli anni Settanta/primi Ottanta (ora il nastro è comunemente sostituito dal computer). Quello che riesce alla Musgrave è di rendere questa tecnica espressiva ai fini del mito trattato, e non una pura esibizione di virtuosismo compositivo. Ne offro tre esempi. Nel primo il mito rievocato è quello di Niobe (1987). Come nell’analoga composizione di Britten ricordata in un post precedente, la voce della donna è qui affidata all’oboe solista, strumento che ben si presta a dare corpo al lamento disperato; sul nastro preregistrato una campana scandisce, implacabile e feroce, l’uccisione dei quattordici figli, uno di seguito all’altro.

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    In Narcissus (1987) il nastro fa invece da eco al flauto; è cioè l’immagine allo specchio di quanto il flauto solista affaccia nella sua melodia, il doppio della voce di Narciso, identico e speculare ad esso. In Helios (1994) torna di scena l’oboe, ma questa volta per affermare tutta la solare bellezza del dio cui dà vita; in Orfeo I, 1975, commissionato dal celebre James Galway (1939-), l’esecutore sulla scena dovrebbe dare voce al mitico cantore che scende nell’Ade, mentre sul nastro Galway gli fa eco, suggerendo un ripercuotersi cupo e misterioso delle note verso oscure profondità che si perdono lontano, nelle viscere della terra. Alla fine, quando la catabasi si sta compiendo, i suoni del nastro sembrano quasi inghiottire e voler togliere voce al flauto solista, una sorta di Zauberflöte che fatica a passare la sua prova dell’acqua e del fuoco.

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    Chiudo infine questa rassegna con Lamenting with Ariadne, del 1999. Lo strumento solista qui è una viola, che si confronta con un’orchestra di formato ridotto, cameristico, fatta di soli sette strumenti: violino, violoncello, arpa, percussioni, flauto, clarinetto e tromba. All’inizio predomina la viola, che alterna i suoi stati d’animo fra l’ira e la disperazione, seguendo i moti psicologici di Arianna. Poi, una tromba fuori scena annuncia l’arrivo di Bacco; le percussioni lasciano il posto alla marimba; il ritmo cambia e si fa festoso, orgiastico, esotico.

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    L’immagine di copertina viene da un sito della BBC, che ne detiene i diritti; le esecuzioni caricate sono, al momento in cui scrivo, di pubblico dominio. Chi ne dovesse rivendicare il copyright può rivolgersi agli amministratori del sito. Sulla Musgrave molto ho imparato (oltre che dagli scritti della compositrice) da Ph. Rupprecht, British Musical Modernism. The Manchester Group and their Contemporaries, Cambridge 2015.

  • Ovidio tra gli Sciti

    Ovidio tra gli Sciti

    Un dipinto di Eugène Delacroix può fornire un utile spunto didattico per introdurre il tema dell’esilio, e in particolare la poesia ovidiana dell’esilio. Si tratta di un olio di dimensioni medie (90 x 130), esposto a Parigi nel 1859 e ora al British Museum di Londra; una seconda versione, oggi a Washington, di dimensioni più ridotte (30 x 50) e con alcune variazioni nelle figure e nel cromatismo, fu realizzata per un committente privato nel 1862. Il soggetto è Ovidio fra gli Sciti (Ovide chez les Scythes): un tema politicamente scottante, tenendo conto che dal 1856 Victor Hugo si trovava in esilio sull’isoletta di Guernsey, nel canale della Manica, per ordine di Napoleone III.

    Vero protagonista del dipinto è il paesaggio, improntato a un gusto tipicamente tardoromantico, con la natura che giganteggia affascinante e distante: brullo l’insieme, rada la vegetazione (un cespuglio, due piccoli alberi), rari gli interventi dell’uomo (nessun segno di coltivazione del terreno, povere capanne dal tetto di paglia sulla sinistra e sullo sfondo a destra). Lo scenario è animato da figure umane e animali: gli uomini sono vestiti succintamente, in prevalenza in toni del marrone e ocra, che riprendono quelli del paesaggio (in qualche caso potrebbe trattarsi di pellami piuttosto che di tessuti), la maggior parte scalzi e barbuti, alcuni armati di frecce e scudo; in primo piano una donna, ritratta di schiena, munge una cavalla (un dettaglio che doveva risultare davvero esotico al raffinato pubblico parigino e che non incontrò il favore della critica). Quasi al centro, un poco sulla sinistra rispetto all’osservatore, spicca la figura del poeta, completamente estranea al contesto: l’effetto di forte scarto si crea prima di tutto tramite le scelte cromatiche del bianco immacolato e del blu intenso del vestiario (i colori della Madonna nella più tradizionale delle iconografie), che non trovano corrispondenza precisa in nessun altro dettaglio del dipinto; i calzari bianchi con minute decorazioni dorate esprimono un’eleganza urbana (e ricordano i phaecasia, gli stivaletti bianchi alla moda indossati da Encolpio in Satyricon 82, 3); appoggiato sul terreno, al fianco del poeta, si trova del materiale scrittorio, sembrerebbe un ampio rotolo aperto. Molte delle figure sono rivolte verso Ovidio, in un atteggiamento non ostile ma di curiosità (il bambino con il grande cane lupo) e in un caso almeno di rispetto e offerta (l’uomo inginocchiato con il cestino, sostituito da una ragazza nella versione del 1862), così che la disposizione delle figure può ricordare un’adorazione dei pastori.

    L’opera di Delacroix rivela una certa consonanza con la Stimmung delle elegie ovidiane dell’esilio, pur prendendosi la libertà di sostituire la cittadina di confine, Tomi, con un paesaggio naturale e aperto. Le caratteristiche della natura sono del resto abbastanza rispondenti alla descrizione ovidiana di una regione aspra e selvaggia, sferzata dai venti e coperta di neve e di ghiaccio per buona parte dell’anno, costituita da terreni incolti, praterie brulle e sterili, con acqua di cattiva qualità (insomma, una specie di Siberia sul mar Nero) – si potrà confrontare specialmente la coppia di elegie di tristia III, 10 e 12, dedicate rispettivamente all’inverno e alla primavera a Tomi. Se in queste descrizioni ovidiane non pare esservi molto di oggettivo (la cittadina era in realtà una colonia greco-romana ormai pacificata e di popolazione prevalentemente greca; quanto al clima, vi si coltivava e vi si coltiva tuttora la vite), esse tuttavia racchiudono un nucleo di verità, in quanto esprimono per immagini l’esperienza sconvolgente dell’improvviso e violento sradicamento dal proprio mondo vissuta dal più grande poeta della sua epoca, poco più che cinquantenne e all’apice della fama. E particolarmente efficace, e a suo modo fedele allo spirito del testo ovidiano, risulta il dipinto nel rendere l’isolamento intellettuale del protagonista. Ovidio diviene qui la trasposizione pittorica di potenti immagini poetiche come quelle dei ‘grandi esiliati’ di Baudelaire: Andromaca a Butroto o il cigno, con i suoi gesti folli “comme les exilés”, o l’albatro, simile al poeta “exilé sur le sol” (protagonisti di poemi pubblicati in quegli anni e poi riediti nel 1861, nella seconda edizione de I fiori del male, dove Le Cygne è dedicato proprio a Victor Hugo, il grande esule francese, che a Guernsey stava componendo Les Miserables [apparsi poi a Bruxelles, nel 1862]).

    Eug??ne Delacroix, 1798 - 1863 Ovid among the Scythians 1859 Oil on canvas, 87.6 x 130.2 cm Bought, 1956 NG6262 http://www.nationalgallery.org.uk/paintings/NG6262

    Delacroix (1798-1863), già in fine di carriera al momento della composizione del dipinto, in giovinezza era stato, lo ricordiamo, fra i grandi alfieri della pittura romantica. Amico personale tanto di Hugo, la cui casa in Notre-Dame-des-Champs aveva frequentato, quanto di Baudelaire, che teneva in camera da letto le litografie di Amleto firmate dal pittore, Delacroix con i suoi dipinti si era più volte proposto di illustrare i grandi capolavori accetti al Romanticismo francese (Dante, Shakespeare, Scott e Byron), come anche di intervenire sui principali fatti politici vissuti dalla sua generazione (la rivolta della Grecia contro i Turchi; la rivoluzione del 1830, che portò sul trono di Francia Luigi Filippo, suo antico committente). Nel trattare temi classici, Delacroix si era sempre compiaciuto di rivolgere il proprio occhio alla modernità e alla commistione delle iconografie. Significativo antecedente del lavoro compiuto su Ovidio è infatti il ritratto di Medea mentre uccide i figli (Médée furieuse), del 1838, ma poi ripreso anche nel 1862, oggi conservato a Lille, nel quale l’eroina greca è immersa in uno schema piramidale che ricorda la leonardesca Vergine delle rocce e mostra il proprio seno – in ossimorico contrasto con il gesto che sta per compiere – come nell’illustrazione della Carità di Andrea del Sarto. Una mamma pagana, che porta con sé, come Ovidio nel dipinto da cui siamo partiti, alcuni simboli della Cristianità, ma che infonde loro nuova vita in virtù del diverso tema che sono chiamati ad illustrare.

    delacroix medea

    © Elena Merli, 2017

    I dipinti sono concessi in libero usufrutto, per ragioni di studio, sui siti dei rispettivi musei che ne detengono la proprietà

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Ligeti

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Ligeti

    Gli esempi considerati finora ci permettono di tracciare un primo quadro di questa breve storia delle Metamorfosi nella musica del Novecento. Due elementi balzano agli occhi: ci sono composizioni che illustrano direttamente il poema di Ovidio, come avviene per le sei variazioni di Britten o l’opera Daphne di Strauss. Com’è ovvio, “direttamente” è parola da rideclinare poi caso per caso: Britten mette in musica sei momenti del poema ovidiano, ma nella sostanza usa il testo latino come banco di prova delle possibilità espressive di un singolo strumento musicale; e del concetto di metamorfosi, ricavato da Ovidio, mette in luce soprattutto la creazione di un nuovo linguaggio, che passa attraverso il mutamento e l’esperienza cosciente del mutamento. Strauss nella sua opera riscrive una vicenda ovidiana (il processo inizia prestissimo, e attraversa tutta la storia del melodramma). Quello che interessa è che, della trama di Ovidio, Strauss coglie soprattutto l’elemento di sopraffazione disturbante introdotto dall’azione del dio in una comunità pacifica e regolata da sue leggi – con evidente riferimento alla Germania del tempo. Della metamorfosi come fenomeno in sé quanto gli interessa è dunque la violenza che essa apporta, in  uno stesso tempo, alla civiltà e alla natura: solo quest’ultima, nel finale, riprende la sua forma, ma in assenza di uomini e di dèi.

    La seconda tipologia di ‘ripresa’ è quella esemplificata da Metamorphosen. Qui Ovidio, di fatto, offre solo un titolo e un concetto filosofico. La metamorfosi è una trasformazione che avviene con la violenza, per causa esterna, e che lascia alle sue spalle un cumulo di macerie – le macerie reali di Monaco bombardata, le macerie metaforiche degli eroi e delle eroine ovidiane. L’azione violenta, che per il poeta latino è opera di un dio capriccioso e vendicativo, anche quando agisca secondo giustizia (ma che il più delle volte agisce oltretutto indipendentemente dalla giustizia…), per Strauss è invece prodotta dall’uomo, o quanto meno dalla Storia, intesa come somma delle azioni umane. Ciò comporta un’enfasi tanto maggiore sull’elemento del pathos, in quanto tutto si realizza sul piano umano. E’ l’uomo che determina la metamorfosi, è l’uomo che la subisce.

    Nel Novecento il concetto filosofico prevale sulla citazione del classico, come del resto ci aspettavamo: le Metamorfosi musicali per lo più non hanno in comune con Ovidio nient’altro che il titolo. Philip Glass (1937-vivente) nel 1988 scrive cinque pezzi per pianoforte dal titolo Metamorphosis, ma le Metamorfosi che vuole illustrare sono quelle di Kafka, non quelle ovidiane. Dei cinque brani che compongono la suite, almeno il secondo è famosissimo, perché divenuto elemento portante della colonna sonora del film di Stephen Daldry, The Hours (2002), dedicato alla vita di Virginia Woolf e interpretato da Nicole Kidman, Meryl Streep e Julianne Moore. Nel 1966 Gian Francesco Malipiero aveva composto un’opera, Le metamorfosi di Bonaventura, derivandone il canovaccio da un testo tedesco di inizio ‘800, Die Nachtwachen des Bonaventura (I giri di guardia notturna di Bonaventura”). E’ un’opera che non sono mai riuscito ad ascoltare, ma a leggerne il sommario sembra un pasticcio incomprensibile; anche Montale, che fu presente alla prima a Venezia, ne parlava come di un testo dall’interesse drammatico pressoché nullo. Non so. Quello che è certo è che le metamorfosi cui si fa riferimento lì sono quelle che intercorrono fra autore e personaggio, i confini fra i quali, a un certo punto della realizzazione dell’opera d’arte, diventano labili e incerti.

    Nel campo delle metamorfosi ‘filosofiche’ possiamo inserire anche il quartetto nr. 1 di Gyorgy Sandor Lìgeti (1923-2006), intitolato “Metamorfosi Notturne”. La composizione risale agli anni 1953-1954, a Budapest; la prima esecuzione (con qualche variazione rispetto al testo originale) avvenne poi a Vienna, nel 1958. Di mezzo, i fatti di Ungheria del 1956 e la fuga di Ligeti da Budapest all’Austria, nel dicembre di quell’anno. Il quartetto è una composizione in un unico movimento (qui diviso in due, per ragioni di spazio) e 17 parti. Vari sono stati i tentativi di definire l’opera e di suddividere le sequenze di cui si compone. La cosa più curiosa la scrisse forse Ligeti stesso, nelle note di copertina di un CD realizzato per la casa discografica Sony, nel 1996. Ligeti definì il suo quartetto come una serie di variazioni senza un reale tema, ma solo una cellula melodica di base. In realtà, l’opera, pur concedendosi numerose dissonanze, è ancora sostanzialmente tonale.  Ligeti diverrà un adepto della musica dodecafonica ed elettronica solo dopo il passaggio in Occidente, e lo spostamento da Vienna prima a Colonia e poi ad Amburgo – le città dove ha insegnato e lavorato più a lungo.

    Sul senso della composizione e il suo titolo ci illumina di nuovo l’autore: nell’Ungheria sottoposta al controllo sovietico prevaleva un’estetica legata al socialismo reale e al recupero delle musiche folkloriche. Ligeti, che non si riconosceva in questa estetica (era, del resto, un rumeno di nascita, divenuto ungherese dopo l’annessione, nel 1940, della Transilvania all’Ungheria. Di religione ebraica, aveva ben altre radici da quelle care al regime), è costretto ad aderirvi nelle sue composizioni ufficiali e, diciamo così, ‘diurne’. Di notte, ecco invece la possibilità di sbizzarrirsi più liberamente in composizioni che non verranno mai né pubblicate né eseguite, realizzate solo per se stesso. Da qui il titolo di Metamorfosi (inteso come ‘cambiamento di pelle’) e l’aggettivo Notturne (in riferimento al tempo della trasformazione, ossia della composizione). In realtà, il quartetto, che rielabora testi di Bela Bartók, è in fondo una metamofosi anche nel senso più tradizionale nel campo musicale.

    Quello che interessa a noi è però che la metamorfosi, vista come mutamento del proprio aspetto esteriore, per recuperare una intima, più vera natura, qui diviene una conquista di libertà, un libero sfogo contro tutte le costrizioni di un potere assillante. Anche questo senso di rivolta non è assente dal poema ovidiano, così come non lo è il sospetto che la metamorfosi, per quanto crudele e imposta dagli dèi, altro non faccia che rivelare la più vera natura del singolo. Licaone, in fondo, era già lupo prima di diventarlo…

     

     

    L’esecuzione, dal vivo, a Basilea nel 2011, è quella del Quartetto Mirus, dal cui canale l’ho ricavata, dove è offerta alla libera consultazione. Al canale rimando per tutti i diritti e le informazioni circa i bravissimi interpreti, pronto a cambiare edizione se dovessero decidere diversamente circa la possibilità di condividere le loro esecuzioni.

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Strauss

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Strauss

    Dove le Metamorfosi di Ovidio hanno sempre trovato terreno fertile è, ovviamente, nel campo dell’opera lirica, per la quale esse hanno costituito, con il loro inesauribile repertorio di miti, un serbatoio di vicende da rendere teatrali. Il fenomeno si realizza già nell’età barocca e prosegue per tutto il Settecento; ha qualche sporadica attestazione nell’Ottocento; riprende quota nel Novecento. Naturalmente, non si tratta mai di una ripresa letterale del testo ovidiano: non solo per le necessità della teatralizzazione (che peraltro si direbbero spesso rispettate già dall’originale latino), o per l’obbligo di adeguare le vicende narrate da Ovidio a un organico, soprattutto vocale, che secolo dopo secolo rispetta usi ed esigenze diverse a seconda delle tradizioni e delle mode. In realtà, è implicita proprio nella definizione del mito la sua fertilità e la possibilità di adattamento a strutture continuamente diverse, e l’opera lirica ha sfruttato ampiamente questa caratteristica. Da qui, una serie di riscritture che, anche quando si ispirino esplicitamente alle Metamorfosi ovidiane, di fatto ne tradiscono la lettera, e spesso anche lo spirito.

    Fra i testi che si potevano presentare ho scelto la Daphne di Richard Strauss [1864-1949], andata in scena per la prima volta a Dresda nel 1938, alla vigilia del secondo conflitto mondiale (scoppiato meno di un anno più tardi). Nel frontespizio del libretto l’opera si dichiara come un Dramma bucolico derivato da Ovidio. Si tratta di una composizione in un atto solo, originariamente pensata come complemento a un altro testo di Strauss, Friedenstag (Giorno di pace), una misconosciuta storia ambientata al tempo della Guerra dei Trent’Anni, ma di carattere dichiaratamente pacifista. Librettista di entrambe le composizioni avrebbe dovuto essere Stefan Zweig [1881-1942], che dopo la morte di Hugo von Hoffmanstahl [1874-1929] aveva preso il posto di quello come collaboratore privilegiato di Strauss. Zweig fu però impedito dalle autorità naziste di firmare i libretti straussiani (alla prima de La donna silenziosa, nel 1935, Strauss si era rifiutato di cancellare il nome di Zweig dalle locandine, e di conseguenza dopo sole tre recite venne proibita ogni ulteriore messa in scena dell’opera); Zweig, che era di origine ebraica, collaborò ugualmente al testo, ma da non accreditato, e nel corso del 1938 dovette fuggire prima a Londra, poi negli States e in Brasile. Il libretto di entrambe le opere fu perciò firmato da Joseph Gregor [1888-1960], un letterato di minore fama, che rimarrà un collaboratore fisso del musicista (che non l’amava molto). Le due opere ebbero rappresentazione separata, una in luglio, l’altra in ottobre. Daphne è dedicata al direttore d’orchestra Karl Böhm [1894-1981], che fu uno dei principali collaboratori musicali di Strauss.

    Daphne descrive (in modo simbolico ed allegorico, specie considerando l’epoca di composizione e le complicate vicende legate alla sua messa in scena, alle quali ho già fatto cenno) un mondo arcadico di bellezza e tranquillità. Il testo si apre con un inno alla Natura intonato dalla protagonista, e con la rappresentazione di una comunità pastorale felice e tranquilla, guidata dai genitori della giovane, Gea e Peneo; comunità nella quale Dafne si inserisce perfettamente, amata dal giovane Leucippo (i nomi sono tutti classicheggianti, ma i dettagli sono sconosciuti ad Ovidio). Su questo mondo di pace piomba un giorno, dall’esterno, il dio Apollo, che vede Dafne, se ne innamora, la vuole per sé e, benché respinto, la considera cosa sua, fino ad uccidere il rivale Leucippo. Nel finale Dafne compiange il giovane ucciso, e il dio, che ha finalmente compreso di non avere speranze, si allontana, chiedendo a Giove di trasformare la ragazza nella pianta di alloro. La scena che chiude l’opera, con il nome di Daphnes Verwandlung (Metamorfosi di Dafne) vede il progressivo disgregarsi della protagonista come essere umano, e la sua trasformazione in pura voce che gorgheggia, come un’eco sempre più lontana. La violenza del dio si è compiuta, e ha portato alla distruzione delle vittime innocenti, che hanno perso la vita, come Leucippo, o la propria identità, come Dafne. Alla fine le parole della giovane, cui è affidata la conclusione dell’opera, si fanno sempre più frante, singoli sintagmi nemmeno sempre ben coesi fra loro. Eccone una traduzione italiana: “Vengo, vengo,  verdi fratelli! Dolce fluisce a me, la linfa terrena! A te mi protendo, in rami e foglie, purissima luce! Apollo! Fratello! Già… le mie fronde… Vento… vento, gioca con me! Sacri uccelli… abiteranno in me… Uomini… amici… prendetemi a testimone… amore senza fine”. Segue il bellissimo finale vero e proprio, con il titolo di Mondlichtmusik (Musica al chiaro di luna): la metamorfosi si sta compiendo, Dafne si irrigidisce sempre più, la Natura torna a dominare e inglobare in sé la ragazza, ridotta progressivamente a pura voce, anzi a eco di una voce. La metamorfosi è trasformazione in altro, ma la trasformazione, quando non è voluta, significa perdita del proprio sé.

    Mondlichtmusik

    Strauss scrisse anche un’altra composizione intitolata Metamorphosen, priva di altri riferimenti all’opera di Ovidio che non siano il titolo. Si tratta dello Studio per 23 archi solisti – dieci violini, 5 viole, 5 violoncelli, 3 contrabbassi (un organico insolito) – scritto nel marzo/aprile del 1945 ed eseguito per la prima volta a Zurigo nel 1946. La guerra in Germania terminò solo nel maggio del ’45; ma il 30 aprile di quell’anno il suicidio di Hitler aveva fatto precipitare gli eventi. Metamorphosen è un’accorata riflessione sui danni prodotti dalla guerra. Una guerra segna sempre la fine di un mondo: la segna per i vincitori, la segna a maggior ragione per i vinti. Metamorphosen è un lento ragionare, in quattro tempi (adagio ma non troppo; agitato; adagio ma non troppo; molto lento – la climax discendente è di per sé molto eloquente), sulla fine della Germania, della sua civiltà, della sua arte. A Gregor nel febbraio del 1945 Strauss aveva scritto: “Sono disperato. La mia amata Dresda – Weimar – Monaco… tutto distrutto!”. Metamorphosen è la messa in musica di questa disperazione. La metamorfosi che si descrive è quella del passato, che non potrà più essere. Tre cellule ritmiche si rincorrono, si ripetono, si tramutano e si completano. Nel tessuto della composizione sono state riconosciute anche numerose citazioni, fra le quali due eloquentissime: la Marcia funebre della Terza sinfonia di Beethoven (il musicista dallo stile classico, assurto a nume tutelare del Romanticismo tedesco); e il lamento di re Marke, tradito dall’amico Tristan, nel Tristan und Isolde di Wagner (l’opera divenuta simbolo di certo Decadentismo tedesco). Chi vuole intendere, intenda!

    Ecco il brano, per forza di cose diviso in due parti – un piccolo, inevitabile delitto. La prima si interrompe al minuto 25; la seconda prosegue a partire dall’interruzione.

    Ulteriori informazioni sui rapporti di Strauss con la cultura classica si possono trovare nel bel volume di Franco Serpa, Miti e note. Musica con antichi racconti, Trieste 2009.

     

  • Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Britten

    Le Metamorfosi e la musica del Novecento: Britten

    I due anni che ci attendono (2017 e 2018) saranno, come si sa, anni ovidiani. La ricorrenza del bimillenario della morte del poeta, l’incertezza circa la data esatta, l’occasione ghiotta per iniziative di vario genere (a scapito dell’altro grande festeggiando del 2017, Tito Livio) fanno sì che si siano moltiplicate occasioni di studio, incontri, convegni sulla figura e l’opera del poeta delle Metamorfosi. Diamo qui un piccolo contributo – non sarà il solo… – presentando un percorso che connette le Metamorfosi ovidiane ad alcune composizioni musicali del Novecento da poco (?) passato. Si tratta di una scelta personale, in parte legata ai limiti di capacità imposti dal sito. Idea di fondo è mostrare l’attualità, anche nel secolo appena concluso, del poeta e della sua opera; fermo restando che la musica che proporremo è spesso sconosciuta ai giovani italiani (non così fuori dai confini del nostro Paese), dai quali è spesso vista con sussiegoso disdegno; ma esperienza insegna che, una volta sperimentata in modi e tempi appropriati, si possono produrre risultati inattesi.

    Incominciamo a dire che il concetto di metamorfosi è strettamente connesso alla musica. Il tema con variazioni; le variazioni su un pezzo dato; il remake di un brano del passato; la canzone cover (nella terminologia della musica pop e rock è la riproosta di un  brano  originariamente interpretato da altri, ora fatto proprio da qualcuno che non ne è l’esecutore originale, con un rifacimento che, pur senza modificarne la struttura di fondo, è comunque tale da sorpassare i limiti della semplice reinterpretazione) sono tutti fenomeni alla base della storia della musica e della sua evoluzione. Qui ci occuperemo però di alcuni testi più direttamente connessi all’idea di metamorfosi e/o ad Ovidio. Il primo è la suite di sei pezzi per oboe solo (Six Metamorphoses after Ovid, op. 49), scritta dal compositore inglese Benjamin Britten [1913-1976] nel 1951, come omaggio all’oboista Joy Boughton [1913-1963], sua coetanea e figlia di un amico, il compositore Rutland Boughton [1878-1960]. Come recita il titolo, ognuni dei sei pezzi vorrebbe descrivere una scena delle Metamorfosi e cioè, nell’ordine, Pan che suona il flauto, fatto con le canne in cui si è mutata l’amata Siringa (met. I 689-712); Fetonte che guida il carro del sole (II 1-400); Niobe impietrita dal dolore per la morte dei figli (VI 146-312); il corteo festivo di Bacco (IV 1-32); la morte per consunzione di Narciso, innamorato di se stesso (III 339-510); Aretusa in fuga davanti ad Alfeo (V 572-641). Non c’è un ordine preciso, né una scelta che delinei un chiaro percorso all’interno del poema. Ogni scena si presta a un carattere musicale: il canto di Pan è spezzato e irrequieto, come ci si attende dal tratto faunesco del dio (lo aveva insegnato Debussy, con il suo Prélude à l’aprèsmidi d’un faune [1894]), dio che qui oltretutto sta dialogando con la sua amata di un tempo e sperimentando le possibilità del nuovo strumento. La corsa di Fetonte è concitata e senza pause, il ripetersi prima trionfalistico poi via via sempre più dubbioso di una cellula musicale, fino alla catastrofe finale. Niobe ha la musica più lenta e fissa di tutti e sei i pezzi, un lungo lamento ripreso più volte, sempre diverso e sempre uguale a se stesso. Il  quarto brano è festoso e chiassoso, perché a detta di Britten dovrebbe esprimere il chiacchiericcio pettegolo delle donne e le grida dei ragazzi che accompagnano la divinità. Il quinto è lento e riflessivo; il sesto è amabile – la storia di Aretusa e Alfeo è l’unica, fra quelle rievocate, a prevedere un lieto fine.

    Volta per volta, lo strumento solista si sostituisce alla narrazione attraverso la descrizione di uno stato d’animo oppure, quando non ci sia narrazione ma semplice rappresentazione dello stato d’animo (come nel caso della prima e della quarta metamorfosi), si fa creatore di una nuova lingua, diversa e complementare alla favella umana, perché direttamente capace di convogliare le emozioni e i sentimenti, senza ricorrere alle parole e al discorso razionalmente costruito. Ecco, una per una, le sei composizioni:

    Pan

     

    Fetonte

     

    Niobe

     

    Bacco

     

    Narciso

     

    Aretusa

     

    Per un’analisi dei temi musicali si può vedere l’articolo reperibile in open access alla pagina

    http://www.idrs.org/publications/controlled/DR/JNL20/JNL20.Mulder.html

    Di Britten e della cultura classica si occupa, proprio a partire dalla composizione che ci interessa, il volume di Lucy Walker, Benjamin Britten. New Perspectives on his Life and WorkAldeburgh 2009, che dedica all’argomento l’intero quarto capitolo.

  • Tibullo poeta d’amore? III. Nemesi

    Tibullo poeta d’amore? III. Nemesi

    Il terzo ciclo all’interno del liber tibulliano dovrebbe essere, a rigor di logica, quello dedicato a Nemesi. La donna compare per la prima volta nella terza elegia del secondo libro e in forme più o meno fuggevoli occupa di sé tutti i componimenti da lì alla fine del libro, incluso il numero cinque, di fatto dedicato alla assunzione del figlio di Messalla nel collegio dei quindecimviri (ma in un fuggevole accenno finale, Tibullo sostiene di dover interrompere la composizione e non poter cantare oltre il giovane Messalla, perché troppo preso dal pensiero di lei). Eppure, quello che sosterrò ora un po’ provocatoriamente è che non esiste un vero ciclo di Nemesi, perché la donna, fedele al suo nome e alla funzione vendicativa che il suo nome suggerisce, in realtà non conosce nessuna delle evoluzione e dei passaggi previsti nelle puntate precedenti di questa rassegna tibulliana. Nemesi da subito, fin dalla sua prima apparizione, è un personaggio avido e desideroso di dona e di praeda. Questa immagine non conosce evoluzione, non conosce variazione. Delia, come abbiamo visto, dopo una menzione quasi casuale nella prima elegia del primo libro, diviene una figura dai tratti ben definiti, una sua storia, una continua interrelazione con il poeta, un’evoluzione in sé e nei suoi rapporti con Tibullo, che reagisce al di lei evolversi ma è anche motivo del di lei evolversi. Stessa cosa si può dire per Marato, pur nella specificità di quella situazione, e nella maggiore compressione dei tempi del suo sviluppo. Nemesi è invece sempre uguale a sé stessa. Nulla si può dire di lei, della sua vita, della sua persona, tranne che per due dettagli fugaci e non ben sviluppati che appaiono, guarda caso, nell’elegia conclusiva del ciclo e del libro: uno è la sua natura fors’anche onesta, ma viziata dalla presenza della solita ruffiana (un’idea che Tibullo aveva già sviluppato nel caso di Delia, e sulla quale quindi ora non insiste troppo, ma che, stando nel finale del libro, ci consegna il solito Tibullo incerto e titubante, che anche dopo aver preso risoluzioni drastiche è sempre disposto a tornare sulle scelte fatte); l’altro è il riferimento a una sorella morta in circostanze drammatiche. Un dettaglio, questo, che è di quelli che non si inventano e non appartengono a un topos narrativo: cosicché è l’unico dato reale, o almeno realistico, della biografia di questa donna, l’unico elemento che ci assicura trattarsi di una persona fors’anche davvero esistita, e non solo di un simbolo. Ma non è come persona reale che la tratta normalmente Tibullo: Nemesi per lui è una funzione narrativa, e le funzioni narrative, si sa, non hanno storia, non hanno evoluzione.

    Chi è allora il vero protagonista del libro? Ecco la mia idea: sono i rura, intesi come immagine della campagna che il poeta si è autoproiettato all’interno delle sue elegie, e che ama proiettare al lettore. Rispetto a questo tema, Nemesi è solo subordinata: è l’elemento necessario a creare l’evoluzione del racconto e a dare alla storia una parvenza esteriore di vicenda amorosa, come si compete all’elegia. Se sette sono, come indicato nelle puntate precedenti, i passaggi obbligati di una buona storia d’amore, Nemesi non conosce che gli ultimi due, o meglio conosce solo la sesta tappa (quella della diffidenza reciproca), perché anche la settima non è così sicura (il discidium forse ci sarà, forse no; e comunque, se ci sarà, non potrà richiamarsi nostalgicamente a un tempo felice che non è mai esistito). Non cosi per i rura. Nel primo libro essi sono un ideale di vita, entro il quale naturalmente deve starci anche un amore a-problematico con una puella che eserciti le funzioni della perfetta domina rustica e si faccia compagna di vita; poi, essi diventano il contenitore ideale per la specifica storia d’amore con Delia (I 2 e I 5), vista prima come possibile – finché Delia è una sposa possibile – poi come impossibile e perduta, quando Delia si rivela inaffidabile, dedita solo alla ricerca di un guadagno immediato. Ma essenziale è quanto ho appena detto della elegia proemiale: nella quale i campi sono un contenitore di per sé stessi, un luogo dove sarebbe bello vivere, meglio ancora se con una domina da tenere al fianco, specie nelle lunghi notte invernali; elemento tuttavia non indispensabile, dal quale non dipende la bellezza della vita in campagna, anche se la corona e completa. La bellezza dei campi sembra qui piuttosto corrispondere all’ideale antico di una vita semplice ma autosufficiente, in una proprietà di dimensioni sufficienti per avere pascua, messes, una silva e, soprattutto, una pubes agrestis (I 1) che poi si specificherà come turba vernarum (gli schiavi nati in casa, I 5 e II 1: quindi, anche i loro genitori dovevano essere schiavi domestici e la familia si rivela abbastanza ampia per esentare il dominus dal lavoro in prima persona, salvo che come vagheggiamente e possibilità non concreta, da fare interdum e senza troppa convinzione).

    L’elegia I 1 non racconta una realtà, ma un sogno, vuoi perché Tibullo vive in città (come si apprende dall’elegia successiva: e lì sta anche Delia, tutt’altro che la rustica domina vagheggiata in precedenza), vuoi perché il poeta è al seguito di Messalla, come gli capita più volte nel corso del liber. L’elegia delinea un traguardo, non un dato biografico: qualcosa di inattuato (non però di inattuabile: le forme al congiuntivo sono sempre al presente), verso il quale aspirare, ma che è lontano da sé. Le elegie per Delia specificano meglio questa idea, subordinando la conquista della campagna alla conquista di Delia, cosicché il fallimento della storia amorosa provoca l’allontanamento dalla vita nei campi. Questi tornano a farsi presenti nell’elegia I 10, l’ultima del primo libro, che chiude così circolarmente il percorso iniziato nell’elegia proemiale. Qui Tibullo si dice richiamato in guerra (v. 13 nunc ad bella trahor), e ciò lo pone di fronte al dilemma se abbandonare o meno ogni sogno di vita in campagna. Di fronte alle due possibilità, opta per mettere da parte la vita militare. Sceglie la campagna e la pace che (Vergilius docet) alla campagna normalmente si associa. Diciamo che questo potrebbe essere, stando allo schema indicato nelle puntate precedenti, il momento della scelta per i campi, non solo quello del loro vagheggiamento amoroso (I passo, coincidente qui con l’elegia I 1), ma anche del loro “corteggiamento” (II passo) e del desiderio di conquista.

    Nell’elegia proemiale del secondo libro (II 1) il tono cambia totalmente. Ora Tibullo è un vero proprietario terriero, che vive fra i suoi poderi, ne controlla la coltivazione, vi compie le dovute cerimonie religiose, estende perfino il suo ruolo ai vicini, che invita alla festa con il fare di un patronus che si rivolge ai suoi clientes. Se anche il campo è povero (l’ideale dei pauca iugera, del relictum solum, che era proprio già di Virgilio) basta a soddisfare i suoi bisogni e a conferirgli dignità. E’ il momento della pienezza della passione. Non ci sono ombre in questo ritratto; e non ci sono nemmeno donne. C’è una villica senza nome, che com’è giusto accompagna il dominus nelle cerimonie e le completa per la parte di sua competenza. Ma che non è né Delia né Nemesi: è la giusta e santa madre dei legittimi figli, quella che Delia avrebbe potuto divenire, ma Nemesi non potrà mai essere. Perfino Amore, il dio, in questo contesto diventa inoffensivo. Egli, dice Tibullo, è nato in campagna (una variazione mitografica, per quanto ne sappiamo), e quindi risparmia il mondo dei campi. Non che non vi si faccia sentire, ovviamente. Ma agisce senza drammi, senza ferite. Tutto è pacificato, perfino lui.

    Su questo grande idillio piomba poi Nemesi. Ci piomba dall’esterno, come il dives amator di Delia, come Foloe nella vita di Marato. Con Nemesi, piomba anche una scoperta inattesa: anche i campi sono soggetti a quella “legge economica” che si era vista per Delia e per Marato. Nella prima elegia che la nomina (II 3), Nemesi è infatti in campagna. Ma non la campagna dell’Io poetico, bensì quella di un altro, un rivale, un dives (anzi ditior) amator, che in questo caso è un ditior possessor. Se i campi possono essere considerati un soggetto economico, motivo per attirare puellae, possibile fonte di praedae e di dona, ne consegue che chi più ne possiede, più ha speranze in amore. La campagna, cioè, non è più un rifugio e una garanzia di pace: lo è solo se è ricca. La campagna è una (fonte di) praeda per le puellae insaziabili, non l’innocuo recipiente di amori spassionati. E’ fonte di dona, che non possono però più essere i semplici frutti di una terra più o meno povera: devono essere i soldi necessari a comprare vesti, oro, gioielli, prodotti cosmetici. E dunque, devono produrre denaro, o convertirsi in denaro. Fine dei pauca iugera, fine dei sogni (virgiliani) di autarcheia e di inemptae dapes. Fine anche della dignità sociale conferita – secondo il sentire romano – solamente dal possesso dei campi!

    Per ottenere denaro liquido, i campi vanno venduti: è quello che, paradossalmente, Tibullo propone nell’elegia I 4. E poco importa se così se ne vanno anche la libertà e la dignità ereditate dagli avi; convertiti in denaro liquido, i campi possono essere re-investiti in vesti, oro, gioielli ecc. Tutte le cose che Nemesi (e tutte le Nemesi del mondo) possono davvero desiderare. Nell’ultima elegia (II 6) i campi non tornano praticamente più, se non come immagine figurata. Il discidium da loro si è ormai consumato. Tibullo torna a porsi il problema se la sofferenza amorosa possa essere vinta con la vita militare: lo stesso dilemma che chiudeva il primo libro, ma che ora riceve una risposta opposta alla precedente. Sì, la milizia è una buona cura; non per sé, che non la saprà mettere in atto, ma per altri sì. Del potere dei campi, della pace, della vita tranquilla e sicura qui non si parla. Tibullo sceglierà di restare vicino a Nemesi, perché sa di essere debole e perché come tutti gli amanti è dominato dalla Speranza – una divinità che illude sempre, ma alla quale non sfugge nessuno: non lo schiavo che canta alla catena; non il pesce che si lascia prendere all’amo; non il contadino che affida i semi ai solchi. committere semina sulcis è frase tibulliana, ed era frase virgiliana. E’ l’atto stesso della coltivazione, atto di speranza e di fiducia. Che nella prima elegia del primo libro, all’inizio del percorso, era vista come una realtà sicura e garantita: si semina, e ne proviene una messe; si semina, e si attende la vendemmia. Qui, invece, viene negata la legge stessa; peggio, la si irride; peggio: la si trasforma in exemplum di un comportamento folle e irrazionale, e poco importa che sia la scelta del poeta, la sua debolezza estrema. Corrotti dall’oro e dall’umana cupidigia, i campi sono divenuti qualcosa di estraneo da sé, qualcosa da cui allontanarsi. La distanza dalla prima elegia, e dall’ideale romano, non potrebbe essere maggiore.

    © Massimo Gioseffi, 2016

  • Tibullo poeta d’amore? II. Marato

    Tibullo poeta d’amore? II. Marato

    Del ciclo di Marato parlerò più brevemente. Non per pruderie, amori omosessuali nella lirica latina non ci stupiscono (le prime elegie a carattere sicuramente amoroso attestate a Roma – quelle di Lutazio Catulo e dei suoi colleghi – sono decisamente bisessuali, quando non apertamente omosessuali), ma perché, sia pure narrata a ranghi ancora più serrati (in tutto sono solo tre elegie), la storia che esse raccontano è la stessa che abbiamo visto con Delia. Segnalerei però tre cose, preliminarmente:

    1. amori del genere sono, in alcune città della Grecia (non tutte) e in alcune epoche (non sempre), accettati o addirittura incoraggiati;

    2. di conseguenza, essi compaiono relativamente spesso anche in letteratura;

    3. ci sono tuttavia alcune norme da rispettare. Semplifico, ma nella sostanza direi che sono queste: nelle coppie di questo genere sono sempre ben distinti un amante e un amato, con ruoli nettamente separati e definiti; c’è un’età diversa a seconda dei ruoli; la liaison è a tempo, con una fine imposta dal crescere dell’amato (che di norma deve essere di età inferiore ai sedici anni); un simile amore non è quindi mai una scelta definitiva per nessuna delle due parti in causa: l’amante avrà altri amori, di entrambi i sessi, mentre l’amato diverrà a sua volta amante, di entrambi i sessi, e l’amante sarà perfino disposto ad aiutarlo in questa trasformazione, se si dà il caso. A questo, quando l’uso passa a Roma (o almeno, in certi ambienti della Roma “bene”) si aggiunge un’ulteriore condizione. L’amato è di origine servile, schiavo o liberto che sia, ma non è comunemente un libero cittadino. Questo comporta, anche in letteratura, alcune conseguenze: c’è sempre una disparità nella coppia (anagrafica, di ruolo, sociale); c’è sempre una corsa contro il tempo, perché l’amato cresce velocemente e arriva presto il momento in cui cambierà di ruolo; il legame perciò è precario e non può avere che fine infelice; ma questa fine la si può vivere più o meno signorilmente.

    Tutto ciò viene rispettato anche nel ciclo tibulliano su Marato: la prima elegia che lo nomina (I 4) è il momento della sua descrizione, dell’elencazione delle ragioni d’amore (“oggettive” e generali, per così dire, ma anche “soggettive” e personali, legate a quel preciso puer, e non a un qualsiasi puer che per caso si chiami Marato), della difficile e, a priori e per definizione, insicura conquista del suo affetto – siamo in un amore per forza di cose più incerto e costretto, come dicevo, a bruciare le tappe. Tutto ciò in Tibullo assume però una struttura insolita, perché l’elegia prende la forma di una lunga parenesi, quasi un’ars amatoria prima del tempo, che il dio Priapo rivolge all’Io parlante (diciamo, per comodità, Tibullo), perché questi se ne faccia portavoce con un amico e con chiunque altro vuole ascoltarlo; ma che il poeta, che la riferisce fedelmente, sa essere inutile, sia per l’amico – cui la moglie non lascia tempo e possibilità per amori con i pueri – sia per se stesso, tutto preso com’è dalla passione per Marato, che non gli consente di mantenere una lucidità sufficiente a mettere in pratica i precetti di cui si fa portavoce. Ciò fa sì che la parte generale prevalga qui nettamente su quella particolare: l’elegia è più una celebrazione dei fanciulli e del loro fascino e un’ampia rassegna delle attività da affrontare per stare loro vicino e conquistarne l’affetto, che non la descrizione della singola vicenda vissuta da Tibullo al fianco di Marato. Sebbene il finale, molto rapido e conciso, non lasci dubbio sul fatto che tutto quello che il dio ha detto con valore generale sia stato valido anche e soprattutto per Tibullo, e che quindi tutti gli stadi e le azioni descritti in precedenza (e che costituiscono i diversi momenti di innamoramento, corteggiamento, conquista dell’amato) siano stati vissuti, per l’appunto, anche da chi parla in prima persona.

    Dopo di che c’è una lunga pausa, nella quale Tibullo regola la questione con Delia e celebra il patrono Messala (elegie I 5-6 e I 7); poi Marato torna in due composizioni consecutive, le elegie I 8 e I 9. Nella prima di esse è descritto il “tradimento”, ancora perdonabile, dell’amore per Foloe (una fanciulla): segno, semplicemente, che il giovanetto sta crescendo e cambiando di ruolo, da amato divenendo amante; ma  di per sé ragione di non troppa ira – è una legge di natura e di tradizione letteraria – e, anzi, è una situazione nella quale l’Io parlante può perfino farsi terzo e assumere il ruolo del buon maestro, che guida il suo (ex)amante verso la conquista di un nuovo amore e un nuovo status sociale, e usa la propria arte per aiutarlo. Dopo un inizio dedicato al ragazzo (perché non si vergogni della sua passione e non cerchi di nasconderla all’amico), l’elegia è infatti pressoché tutta dedicata a Foloe, che Tibullo cerca di convincere ad essere generosa verso Marato. Cosa che fa usando prima le armi dell’argomentazione logica, poi supplicandola con l’aiuto delle Muse, infine minacciandola se continuerà a mostrarsi dura e spietata.

    Solo che non tutto va come Tibullo vorrebbe. Marato, per soddisfare le crescenti esigenze di una puella che presumibilmente è sempre Foloe, la di lei rapacità, il desiderio di regali (munera o dona) e di praeda (tre termini ricorrenti nel lessico di Tibullo), finisce per accettare le profferte di un dives amator – ma anche qui sarebbe più giusto dire: un ditior amator – che lo corrompe offrendogli quello che il poeta non può dargli, o almeno che non può dargli nella misura dell’altro. E questo è un tradimento inaccettabile, ben diverso da quello con Foloe: perché con Foloe era legge di natura; con il dives amator è scelta volontaria, dominata dal bisogno di denaro, non giustificabile né in base alla natura (il ruolo dell’Io parlante e del dives amator è lo stesso) né in base alla passione. Da qui gli insulti e le maledizioni, a Marato e al suo nuovo amante in primo luogo, ma anche alla puella e a se stesso, che tanto si era dato da fare per aiutare l’amico nei suoi amori per la fanciulla, fornendogli canti e fornendogli aiuti concreti e materiali; ma da qui, soprattutto, l’inevitabile discidium. Come si vede, la trama è la stessa che abbiamo visto nel ciclo di Delia, rispetto al quale va solo fatto notare che il finale è meno irrisoluto: se con Delia, infatti, Tibullo perfino nell’ultima elegia si mostrava, almeno a parole, ancora aperto a una possibilità di perdono (sebbene gli elementi elencati nel precedente post smentissero poi questa possibilità, e Delia da lì in avanti sparisce infatti di scena), con Marato la separazione è molto più netta e definitiva, e gli insulti vanno sul pesante, specie quelli rivolti al rivale.

    Va anche osservato che, come ho già detto, queste tre elegie e la storia che esse raccontano non fanno che ripercorrere, in definitiva, la storia d’amore che Catullo aveva delineato con Lesbia e con Giovenzio, storia che Tibullo fa propria, almeno nelle linee generali e nei passaggi obbligati, sia con Delia che con Marato. Nel complesso della vicenda, però, a mio parere si segnalano anche altre cose di una certa importanza:

    – un’elegia è, innanzi tutto, per sua natura più lunga di un carmen, ma nello stesso tempo la storia complessiva che un ciclo di elegie racconta è, per forza di cose, più rapida e veloce di quella che si può raccontare in un libro composito come quello catulliano: perché in Catullo la storia si scandisce attraverso molti momenti, ciascuno dei quali è fatto oggetto di uno o più specifici carmina, nettamente separati fra loro; mentre in un’elegia la vicenda tende a comprimersi, e più momenti che in Catullo sarebbero stati separati qui si sommano entro una medesima composizione, che risulta perciò, inevitabilmente, più lunga e più complessa (questo perché i diversi momenti sono, per così dire, “consumati” uno dopo l’altro, risultando bruciati più velocemente di quanto avveniva nel Liber catulliano);

    – rispetto alla vicenda narrata da Catullo, naturalmente (o almeno, rispetto alla storia con Lesbia; diverso forse il caso di Giovenzio e delle altre donne occasionalmente presenti nel Liber), in Tibullo i personaggi in gioco hanno più basso rango sociale: Lesbia è una gran signora del mondo romano, sia essa o no Clodia; la cosa non si può dire né di Delia né di Marato (e, come vedremo, nemmeno di Nemesi);

    – la vicenda di Delia e quella di Marato non hanno solo una struttura complessiva identica (pur con le differenze imposte, come dicevo all’inizio, dai diversi contesti, etero- e omosessuale), ma sono unite da un altro elemento comune, forse perfino più importante di quello notato finora. A mettere fine all’una come all’altra vicenda è infatti la comparsa, a un certo punto di ciascuna storia, dell’oro che tutto corrompe. E questo, rispetto al precedente di Catullo evocato prima, è un elemento nuovo, che sembra specifico di Tibullo, un suo spunto di riflessione, un’aggiunta del tutto personale (fermo restando che non sappiamo se e quanto questo elemento avesse peso negli Amores di Cornelio Gallo, per noi un “buco nero” nella storia dell’elegia latina). Significativo è che Delia e Marato non sarebbero di per sé avidi, per lungo tratto anzi non lo sono affatto; lo diventano con il tempo, ma la loro avidità, il loro vendersi, sono determinati da circostanze esterne e, diremmo noi, ‘sociali’, non personali o caratteriali. E questo non era così scontato, alla data di Tibullo in particolar modo, e mi pare anzi qualcosa fuori dall’ordinario e tutt’altro che pacifico per chi viveva nella prima età augustea;

    – nella storia con Delia c’è un tono più drammatico, in quella con Marato sono ammessi anche toni comici, o almeno autoironici; ma questo ci sta, perché è un elemento connesso al (sotto)genere complessivo: gli amori per i pueri, lo dicevo prima, non sono e non si propongono mai come amori per tutta una vita, sono una corsa contro il tempo, hanno fin dall’inizio una fine prevista e prevedibile – fine che si può raggiungere nel migliore dei modi possibili, oppure no, come avviene appunto con Marato, in virtù della corruzione portata dal bisogno di denaro del giovane;

    – infine: mentre con Delia era possibile immaginare una vita in campagna, dove Tibullo potesse essere il colonus padrone dei suoi beni, dedito alla cura degli dèi e all’amministrazione dei campi, e lei svolgesse la parte della perfetta villica, alla quale demandare i rapporti con gli schiavi, quelli con le divinità minori, l’amministrazione della casa e del bestiame minuto, l’accoglienza agli ospiti di prestigio (questo, almeno, finché le sue scelte di vita non l’hanno rivelata indegna di un simile compito), con Marato tutto ciò è, ovviamente, impossibile. Marato è di sicuro un cittadino, e amori come questi sono possibili, secondo Tibullo, solo in un ambiente medio-colto cittadino. Marato, del resto, per le ragioni dette prima non può essere il compagno di una vita, non può assumere compiti sacrali o istituzionali. In questo Tibullo, che per altri aspetti abbiamo visto essere abbastanza anticonformista, si rivela più conformista (ma non poteva essere altrimenti, direi) rispetto a Virgilio, che solo pochi anni prima delle elegie tibulliane al suo Coridone, protagonista della seconda egloga, faceva immaginare una lunga vita al fianco di Alessi. Inutile però segnalare che Coridone e Alessi sono, nelle Bucoliche, creature di fantasia; di rango servile e pastorale, e non equestre, come si suppone essere l’Io parlante tibulliano; e che comunque la vita che Coridone si propone resta, in ogni caso, un sogno, non una realtà: ma che i sogni di Coridone non abbiano corrispondenza nel vero è cosa sulla quale il narratore Virgilio ha messo da subito in guardia i suoi lettori e che quindi vale anche per questo dettaglio specifico (sul che mi sia però concesso rimandare al mio “Passeggiate in un bosco bucolico [a partire dalla Einführung di Michael von Albrecht]“, reperibile on line all’indirizzo https://unimi.academia.edu/massimogioseffi).

     

     © Massimo Gioseffi, 2016                        (ma**************@***mi.it)

    Illustrazione di Otto Schoff, 1884-1938, per il volume Albius Tibullus, Das Buch Marathus. Elegien der Knabenliebe, deutsche Nachdichtung von Alfred Richard Meyer, Berlin, Gurlitt, 1928
  • Tibullo poeta d’amore? I. Delia

    Tibullo poeta d’amore? I. Delia

     

    Lo ammetto. Avevo letto Tibullo per gli esami universitari (a metà degli anni Ottanta, la terza annualità di Latino, indispensabile per laurearsi in quella materia o in Filologia classica, prevedeva la lettura integrale di questo autore, assieme ad Amores e Heroides di Ovidio); l’ho riletto quando ho scritto il commento alle Bucoliche di Virgilio – Tibullo è uno dei primi autori a reagire all’opera virgiliana, ripetendola, rifiutandola, saccheggiandola a livello di idee e di iuncturae. Ma in entrambi i casi, non posso dire che mi avesse fatto grande impressione…

    Devo all’A.I.C.C. di Pordenone (una delle associazioni più vive nella cultura italiana) l’aver riletto questo autore, per una conferenza da tenere in quella città. Sarà l’età, ma rileggendolo Tibullo mi è parso un poeta di grande interesse. Non però nell’immagine che di solito ci viene trasmessa dalle storie letterarie in uso – e che mi pare fondata, in sostanza su quanto di lui hanno detto Orazio e Ovidio, l’uno e l’altro appiattendolo però, su un’idea che a loro faceva comodo, ma che poco risponde all’opera tibulliana.

    Provo a spiegarmi. Da Catullo in avanti abbiamo imparato che una perfetta storia d’amore si articola, in poesia, in sette fasi, pienamente rispettate dalle poesie di Catullo per Lesbia e da quelle per Giovenzio (difficile dirlo nel caso di altri amori; difficile nel caso di poesie per gli amici, che presentano carmina perfettamente adeguati alle singole fasi, ma mai in un numero complessivo sufficiente per parlare di una storia complessa, fatta cioè di interazione e sviluppo). Sette fasi che sono rispettate anche da ogni storia elegiaca che si rispetti. Queste fasi sono:

    • quella del primo incontro, dell’innamoramento, del tentativo di conquista dell’amato, della sofferenza per un bene che non si possiede, e non si spera di possedere (perché altri lo detengono; oppure perché l’amato non ci degna di importanza), ma che si vorrebbe possedere, e che per il momento si può possedere solo nel desiderio e nel sogno, in una proiezione fantastica verso un futuro auspicato ma non in atto;
    • una seconda fase, che è quella della scelta esplicita per questo bene, e del suo tentativo di conquista (diciamo del corteggiamento, in senso lato);
    • la fase della avvenuta conquista, e della piena e felice fruizione del bene conquistato;
    • la fase dei primi dubbi, della prima rottura, di una separazione che si vorrebbe definitiva, ma definitiva non è mai, e che lascia invece aperta la porta per una possibile riconciliazione, purché a certi patti, a certe condizioni;
    • la fase della riconciliazione, nella quale il poeta assume vesti nobili e si fa disposto al perdono e a una ripresa della storia d’amore, che però non può più essere quella di un tempo, perché l’esperienza c’è stata e fa sentire il suo peso, e perché la riconciliazione è possibile solo a certe condizioni, che gravano sulla fiducia reciproca dei due amanti;
    • la progressiva scoperta dell’impossibilità di rivivere il tempo felice dell’amore, del suo non-ritorno, dell’inevitabile distacco fra i due innamorati;
    • il momento della separazione netta e definitiva, del discidium, dei non bona dicta con i quali sancire questo discidium.

    Per Catullo questo schema funziona perfettamente, con il carme 51 e il carme 11 a costituire gli estremi;  il carme 67 (che rievoca i tempi felici, ma è stato scritto a Verona, in occasione di una separazione che sembrava definitiva, perché quisquis de meliore nota ora è accolto nel letto di Lesbia, al posto di Catullo, e gode di quei furtiva dona e di quella mira nox che un tempo erano riservati al poeta…) a rappresentare il momento della prima separazione; il carme 8, miser Catulle, desinas ineptire, con le sue incertezze e contraddizioni, fa invece da ponte verso la riconciliazione. In mezzo, prima o dopo della scoperta dell’infedeltà di Lesbia, si possono situare tutti gli altri testi, variamente distribuiti e distribuibili (a ogni studioso corrisponde, in genere, una ricostruzione diversa; e di mezzo ci si sono messi anche gli artisti, uno per tutti, il musicista Carl Orff)…

    Il quadro funziona anche per Tibullo, almeno per quanto si riferisce a Delia e a Marato. Delia compare già nella prima elegia del primo libro, ma in una posizione tangenziale, dopo che per tutto il resto dell’elegia si è parlato della bellezza di una vita semplice, in campagna, senza timori e senza problemi, secondo termini prettamente idilliaci. Elemento imprescindibile di una simile vita è, naturalmente, che non la si compia da soli: è bello avere al fianco una domina, da tenere stretta di notte, al caldo delle coperte, mentre fuori infuria la tempesta invernale. Il concetto è espresso in forma generica: la necessità essenziale è avere accanto a sé una puella – qualunque puella, direi – e solo in seguito questa puella si qualifica come Delia; quasi un nome come un altro, che non rimanda a un personaggio troppo definito, come era per Lesbia e come sarà per Delia stessa, nelle elegie successive. Qui tutto è visto in funzione del poeta e del suo vivere nei campi.

    La storia d’amore incomincia veramente solo con l’elegia I 2, che rappresenta il momento dell’incontro, dell’innamoramento, della conquista: Delia non è ancora la puella del poeta, che infatti la deve convincere ad aprirgli la porta della casa dove è custodita, ingannando i custodi, senza far rumore, perché lui possa giungere da lei. Azioni che non sono scontate, e non solo per la serie di difficoltà oggettive da superare (la porta, i custodi, i pericoli dello stare fuori di notte, in una città pochissimo rassicurante, perfino il marito di lei, sia questi davvero un marito oppure soltanto il precedente amante felice). L’ostacolo maggiore è Delia stessa, che non è così sicuro che voglia aprire quella porta, affrontare  rischi e pericoli, garantire un amore che sia mutuus. Il poeta confida nella vittoria, ma sa di doverla conquistare, sa di dovere ancora persuadere la puella.

    Nell’elegia I 3 la storia amorosa è andata oltre. Tibullo stava seguendo Messalla in Asia, ma si è fermato a Corfù, ammalato. Qui si immagina di poter perfino morire, addolorato non solo dal pensiero della morte, ma anche dell’assenza delle donne della sua vita: la madre, la sorella (di cui non sappiamo e non sapremo altro); Delia – si realizza così in pieno la negazione del sogno di felicità descritto nella prima elegia: vita in campagna (e invece Tibullo è per mare, sulla strada di una guerra); tenendo al fianco l’amata (che è rimasta a Roma); una morte che venga solo dopo lungo tempo (se morisse ora, Tibullo sarebbe ancora giovane); una morte tenendo per mano la donna amata, che lo piangerà il giorno del funerale (e invece qui non solo è assente, ma sono assenti anche gli altri affetti femminili). In questo quadro di cupa disperazione, o almeno di negazione di tutto ciò che nella vita appariva desiderabile, un solo pensiero conforta il poeta. È il ricordo dei molti modi attraverso i quali Delia ha manifestato il suo desiderio che lui non partisse; anzi, ha cercato (come lui stesso, d’altronde) di ritardare quanto più possibile la partenza, ripetendo con voluttà il commiato; sono le molte cerimonie, i riti, gli indovini consultati per assicurare al poeta il ritorno. Tutte prove d’amore, non c’è che dire. Ed è questo, sia pure rivissuto a distanza, e nel ricordo, il tempo felice dell’amore. Dopo qualche divagazione sul tema della morte (e di quanto ne seguirà), Tibullo si proietta di nuovo al futuro: se scampa alla malattia, tornerà a Roma, dove giungerà inatteso (non è più parte del seguito di Messalla). Allora si presenterà da Delia, ed è sicuro di trovarla intenta a tessere, come ogni buona lanifica, ascoltando favolette e storielle poco compromettenti, pia, religiosa (la scena raffigurata da Dante Gabriel Rossetti nel dipinto in copertina). E quando lui apparirà sulla porta, Delia gli correrà incontro, lo abbraccerà, lo collocherà al suo fianco, senza cura di sé, del proprio aspetto, della decenza. Un sogno, ancora una volta, ma un sogno che si fonda su una fides sperimentata, dunque indiscussa, indiscutibile. Un sogno tutto al futuro indicativo, che non ammette forme di dubbio, al congiuntivo. Tibullo deve solo sopravvivere e tornare; ma se torna, così sarà, e l’amore dimostrato da Delia prima della partenza consente di mettere da parte qualsiasi dubbio.

    I dubbi sorgono nell’elegia successiva, che non è l’elegia immediatamente successiva (I 4), ma quella ancora dopo. Delia ora è stata scoperta infedele, pronta a negarsi al poeta, pronta ad offrirsi a un dives amator – ma forse sarebbe meglio dire un ditior amator – in grado di regalarle ciò che lei vuole, e che Tibullo non è abbastanza ricco da poterle dare. Invano Tibullo sviluppa il topos dei beni che anche un amante pauper può portare (pauper, non egens: e pauper in latino è chi lavora  per vivere, non chi non possiede niente). All’inizio dell’elegia il discidium è già avvenuto, e cosa abbia messo in guardia l’Io poetico non lo sapremo mai. Fatto sta che ci sono stati un litigio e un allontanamento. Allontanamento di breve durata, però, perché nonostante tutte le sue affermazioni di saper vivere senza di lei, Tibullo non nasconde il desiderio di tornare quanto prima con Delia, e per fare questo si umilia, ricorda i benefici del passato, ricorre alla magia (di lì a qualche anno saranno gli stessi passi ai quali Virgilio costringe la sua Didone); non riuscendovi, pensa perfino di ricorrere ai remedia amoris, anticipando quanto più tardi scriverà Ovidio: dal vino alle altre puellae. Però, nonostante questo, Tibullo è ancora disposto ad assumere i panni del poeta nobile. Non solo proponendosi come un accompagnatore pur sempre possibile; ma perfino scaricando il tradimento di Delia su una lena che le avrebbe mostrato i vantaggi dello scegliere amanti ricchi, seguendo chi meglio paga, obbligandola a cedere alle proposte del ditior amator… Nulla ora sembra poter scalzare questo ditior amator. Al più, Tibullo lo può minacciare: se la ricchezza è la ragione della preferenza accordatagli, sappia che a breve verrà un altro dopo di lui, anzi già si profila forse il possibile candidato, un giovane di belle sembianze e, soprattutto, belle possibilità, che da tempo ruota intorno alla casa di Delia. Ma questa non è una consolazione. Consolazione non ci può essere: a rendere impossibile il ripristino del quadro felice descritto in I 3 è la fides venuta meno. Si spezza così non tanto il legame fra i due amanti, che anzi Tibullo vorrebbe ripristinare e, si intuisce, ripristinerà appena possibile; ma il sogno “rustico”, chiamiamolo così, di una vita in campagna, l’uno a  fianco dell’altra, intenti alla direzione dei lavori agricoli, lui potendo contare su di lei come su un altro se stesso (il poeta dice, significativamente, che vorrebbe lasciare a lei ogni direzione della casa ed essere nihil in domo mea). Ideale economico e sociale, prima ancora che amoroso, che ora non è più possibile. Delia potrà essere l’amante, non la sposa. Non è con lei che si potranno condividere le gioie del piccolo proprietario; non è lei che potrà accogliere Messalla in visita di cortesia; non è con lei che il piccolo verna, lo schiavo nato in casa – altrove simbolo di relativa ricchezza; qui simbolo di una sacralità della domus e dei suoi “prodotti interni” – potrà scherzare e imparare ad affezionarsi ai padroni…

    Se però qui Delia può ancora essere perdonata e, sia pure in una funzione “subordinata” e “secondaria”, recuperata – fase sei dello schema di prima (e questa si intuisce che sarà la scelta di Tibullo) – ciò non è più possibile nell’elegia I 6, l’ultima a lei dedicata, nella quale troppo pesano i tradimenti della donna. Se il singolo caso poteva essere perdonato, e forse dimenticato, il ripetersi della situazione rende la riconciliazione impossibile. L’elegia I 6 è quella del definitivo addio: non è più un dives amator quello che Delia ha preferito a Tibullo, ma un qualunque nescio quis; non c’è una callida lena sulla quale riversare la colpa: Delia aveva al fianco la madre, sancta anus, donna di specchiati costumi, e a lui sinceramente affezionata, che bene l’aveva educata; ma è Delia che è corrotta, e ogni legame destinato a durare si è perciò reso impossibile. Naturalmente, di fronte alle accuse di Tibullo la donna nega, ma il poeta non le crede – è troppo esperto degli inganni d’amore! È venuto meno un elemento essenziale: non c’è più nessuna fiducia reciproca. Manca solo un passo al più completo abbrutimento: se Delia gli venisse affidata, il poeta potrebbe perfino alzare le mani su di lei. Dunque, la separazione è pressoché completa. Più concentrato e rapido di Catullo, Tibullo rispetta però perfettamente lo sviluppo narrativo stabilito da quello. Mancano forse i non bona dicta che Catullo inviava, per interposta persona, alla sua puella (carme 11), parole sprezzanti e offensive, tali da rendere impossibile ogni relazione futura. Ma l’addio a Delia non è meno definitivo. L’estrema abiezione del possibile ricorso alla violenza (un tema che ricorre in molte elegie, ma che è sempre esecrato come forma ultima di degradazione morale), la mancanza di fede nelle parole dell’altro, il tradimento degli insegnamenti materni (la patrilinearità – qui declinata al femminile – come trasmissione di valori e di un sapere che le nuove generazioni ricevono dalle precedenti e che devono saper fare loro proprio e riesprimere: un principio fondante della comunità romana) non lasciano spazio ad altro finale. Il ciclo di Delia si chiude così.

    © Massimo Gioseffi, 2015       (ma**************@***mi.it)

    The Return of Tibullus to Delia (ca. 1853), dipinto di Dante Gabriel Rossetti per illustrare l’elegia I 3, 82-92 di Tibullo