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  • Espedienti per sopravvivere?

    Espedienti per sopravvivere?

    Nella recente pratica imposta dalla didattica a distanza  mi sto avvalendo di un sistema cloud con  la possibilità di scrittura su files  in condivisione (nella mia scuola abbiamo un servizio interno di clouding riservato a studenti e docenti del Liceo; ma va benissimo la app Drive di Google), e del collegamento audio e video (nel nostro caso, Meet.Google; ma anche Zoom.us è validissimo).

    Certo, la comunicazione a mezzo video è stancante, manca quella spazialità fisica cui siamo così ben abituati: la passeggiata da un’aula all’altra, il tempo dilatato nel cercare il libro, il diario, l’appello, la battuta, il richiamo, la bidella che entra con la circolare, l’eco della voce del collega nell’aula vicina, la mano che si alza per chiedere… il permesso per andare in bagno, “Prof. le porto un caffè?”, “Il quaderno? L’ho dimenticato a casa. Il compito però l’ho fatto…”; e altro, altro che fa da cornice alla lezione tradizionale in aula. Ma da almeno tre settimane l’aula è il mio salotto, la cattedra è la mia scrivania, e non posso che dirmi fortunata per avere questo spazio tutto per me .

    Bene. Trovati gli strumenti di comunicazione a distanza, stabilita la connessione, si affaccia il panico: come posso fare lezione di lingua greca e latina?

    Nel mio piccolo, ho affinato il metodo già avviato all’epoca delle aule fisiche: il testo, in lingua, viene proiettato sulla LIM e agli studenti viene consegnato su foglio stampato – quindi niente pagina del libro di testo – senza note, così che la concentrazione sulla lingua possa essere massima; poi sotto la mia guida si svolge l’analisi, che alterna l’individuazione dei sintagmi (fatta a voce) all’identificazione della struttura sintattica (con evidenze grafiche), osservando anche gli artifici retorici dell’ordo verborum; in seguito, dopo una traduzione grossolana  e di servizio (con attenzione ai falsi amici), ci si addentra nel commento delle scelte lessicali.

    Ho adattato questo orientamento  di metodo alle possibilità offerte dalla comunicazione a mezzo web. Sullo schermo, grazie alla tecnologia  condiviso tra il docente  e il/i discente/i, campeggia solingo il testo, sul quale  l’analisi è stata già avviata in questo modo: il testo viene scomposto con degli  ’a capo’ in corrispondenza di ciascuna proposizione; si gioca sugli allineamenti: la principale sempre sul margine sinistro, le subordinate spostate in avanti in base al loro grado (+ o -). Poi si usano evidenziatori, ora cromatici ora grafici, per segnalare, rispettivamente, le voci verbali e i marcatori sintattici (congiunzioni, pronomi relativi); infine si sottolineano eventuali avverbi di tempo e luogo, cui pure compete la definizione della trama e del ritmo della frase. In questo modo il testo è stato percorso – ovvero letto e riletto – più volte. Ne offro un esempio, per rendere il discorso più chiaro. Ho scelto i parr. 9-11 del 20 capitolo del De coniuratione Catilinae di Sallustio, secondo una convenzione così stabilita:

    • la prop. principale, come le sue coordinate,  sarà sempre allineata a sinistra del file;
    • vengono spostate con la funzione ‘tabulazione’ solo le proposizioni subordinate;
    • non si spostano mai i sintagmi dalla loro ubicazione.

    All’interno di ciascuna proposizione vengono indicate:

    • in grassetto le forme verbali;
    • in grassetto e corsivo le forme verbali implicite di tipo nominale, come il participio e il gerundio/gerundivo;
    • in corsivo i marcatori sintattici, ovvero quegli elementi (congiunzioni, pronomi relativi o interrogativi, avverbi di luogo o tempo ecc.) che ‘aprono ‘, in posizione enfatica,  il periodo o la proposizione.

    Per svolgere questo tipo di operazione, sarà necessario leggere e rileggere più volte il testo, interrogasi analiticamente su quali siano i sintagmi e come siano posizionati nella frase; sarà così forse possibile cogliere l’evidenza di alcuni artifici retorici (nel caso di iperbato, anastrofe o altre situazioni in cui l’ordo verborum renda difficile individuare immediatamente la concordanza), il cui riconoscimento  diventa parte essenziale per comprendere l’intenzione comunicativa implicita nel testo.

    Nel pdf qui allegato, consultabile secondo le solite regole, e anche scaricabile a piacere, usando la barra di comandi in capo alla raffigurazione, presento il testo rielaborato:

    Il lavoro viene avviato dall’insegnante, che illustra e riepiloga i criteri usati per comporre la grafica, ma viene poi proseguito dagli studenti, o al momento, su una pagina cloud che permetta la scrittura condivisa, o come compito domestico, di cui si farà la correzione la volta successiva, a campione e per paragrafi.

    Alla data odierna, ho potuto sperimentare l’efficacia dell’analisi guidata che ho cercato di illustrare; gli studenti dichiarano di riuscire a condurre una riflessione più consapevole dell’organizzazione sintattica della frase. Costretti a non spostare nessun sintagma, colgono l’insieme e possono azzardare un’ipotesi di traduzione in base ai significati di base noti, chiarire i passaggi che necessitano ricorso al dizionario, cogliere aspetti dell’organizzazione retorica del testo. Nelle prossime settimane si tratterà di verificare l’efficacia di una proposta di ri-traduzione quale si trova nell’esempio  che riporto. Adeguare l’esercizio di lingua alle necessità della didattica a distanza va bene, ma ora si tratta anche di poter effettuare verifiche che siano diverse dalla mera traduzione, facilmente reperibile in uno dei mille siti ben noti agli studenti.

    Di sicuro interesse  è il modello offerto dalle prove di certificazione delle competenze di lingua latina; mi sono in parte ispirata ad esse nell’ideare la prova che riporto, la cui finalità è volta a verificare la comprensione della struttura sintattica, e quindi la comprensione del fatto narrato. Prerequisiti ne sono le conoscenze di morfologia e sintassi che, in un terzo anno di liceo classico, dovrebbero essere sufficientemente note.  Si tratta dunque di approntare una verifica delle competenze di lingua, che dovrebbero essere tali da poter comprendere il significato di un testo, per potere poi valutare delle scelte lessicali adeguate al contesto.

    Il passo che qui propongo è molto ampio (De coniuratione, XXI-XXII); nella pratica effettuale si tratterà di scegliere porzioni adeguate al tempo messo a disposizione. Dopo aver svolto l’analisi del testo secondo la convenzione indicata sopra, con l’aiuto della versione allegata (è una lingua italiana antica e pomposa, 1840) si chiederà allo studente di fornire una propria traduzione, senza l’aiuto del dizionario latino, ma con quello di lingua italiana.

    1. TESTO
      ASSEGNATO:

    [21] 1 Postquam accepere ea homines, quibus mala abunde omnia erant, sed neque res neque spes bona ulla, tametsi illis quieta movere magna merces videbatur, tamen postulavere plerique, ut proponeret, quae condicio belli foret, quae praemia armis peterent, quid ubique opis aut spei haberent. Tum Catilina polliceri tabulas novas, proscriptionem locupletium, magistratus, sacerdotia, rapinas, alia omnia, quae bellum atque lubido victorum fert. Praeterea esse in Hispania citeriore Pisonem, in Mauretania cum exercitu P. Sittium Nucerinum, consili sui participes; petere consulatum C. Antonium, quem sibi collegam fore speraret, hominem et familiarem et omnibus necessitudinibus circumventum; cum eo se consulem initium agundi facturum. Ad hoc maledictis increpabat omnis bonos, suorum unumquemque nominans laudare; admonebat alium egestatis, alium cupiditatis suae, compluris periculi aut ignominiae, multos victoriae Sullanae, quibus ea praedae fuerat. 5 Postquam omnium animos alacris videt, cohortatus, ut petitionem suam curae haberent, conventum dimisit.

    [22] 1 Fuere ea tempestate, qui dicerent Catilinam oratione habita, cum ad ius iurandum popularis sceleris sui adigeret, humani corporis sanguinem vino permixtum in pateris circumtulisse: inde cum post exsecrationem omnes degustavissent, sicuti in sollemnibus sacris fieri consuevit, aperuisse consilium suum; atque eo +dictitare+ fecisse, quo inter se fidi magis forent alius alii tanti facinoris conscii. 3 Nonnulli ficta et haec et multa praeterea existumabant ab iis, qui Ciceronis invidiam, quae postea orta est, leniri credebant atrocitate sceleris eorum, qui poenas dederant. 4 Nobis ea res pro magnitudine parum comperta est.

    Ecco infine la traduzione di supporto, che ho derivata dal volume Opere di C. Crispo Sallustio volgarizzate da Giulio Trento e Francesco Negri, ed. Giuseppe Antonelli, 1840, liberamente consultabile online:

    XXI. Com’ebbe inteso ciò quella gente, che aveva assai d’ogni male, ma né facoltà, né fiore di speranza, quantunque pur col turbare la pace credesse rifarsi d’assai; nondimeno la maggior parte chiedeva ch’ei proponesse a qual partito avessero a far guerra e a qual pro, quali e dove i sussidi e le speranze. Udresti allora Catilina promettere nuove taglie, proscrizion di ricchi, magistrati sacerdozii rapine e quantunque seco porta la guerra e la licenza de’ vincitori. E aggiungeva esservi nella Spagna, di là dall’Ebro, Pisone, con un esercito nella Mauritania P. Sizio Nocerino, ambidue intinti nel suo disegno: chieder il consolato C. Antonio, e sperava d’averlo come collega, uomo tutto suo e per ogni rispetto bisognoso di novità; e con esso console darebbe mano all’opera: Oltre a ciò calunniava ogni uomo dabbene; lodava per nome ogni suo partigiano; a chi ricordava la povertà , a chi la voglia ardente, alla maggior parte il pericolo e l’infamia a molti la vittoria di Silla, per cui s’era predato cotanto. E poi che gli vide pronti, confortatigli a favorire la sua concorrenza, licenziò la brigata.

    XXII. Corse allora voce che Catilina, dopo questo discorso, per obbligare gl’indettati col giuramento, recasse intorno tazze di sangue umano; e assaggiatone ciascuno dopo gli esecrandi voti, come ne’ solenni sacrifizi si costuma, aprisse l’intenzione sua; e vantasse d’averlo fatto affinchè meglio fra loro  tenesser fede per esser di sì enorme scelleratezza consapevoli. Alcuni e queste e parecchie altre cose dicevano esser trovati di coloro, a’ quali era avviso, che l’atrocità del misfatto de’ condannati valesse a mitigare l’odio, che poi scoppiò contra Cicerone. Noi non siamo sì al chiaro di questa cosa quanto vorrebbe la sua gravezza.

    ©  Rossella Sannino, 2020

  • Sallustio e Catilina

    Sallustio e Catilina

    In questi giorni di sosta obbligata e didattica ‘in remoto’ proviamo ad offrire alcune riflessioni che consentano di affrontare in modo originale un testo molto conosciuto e frequentato nelle scuole come il De coniuratione Catilinae di Sallustio. Di fronte a un’opera di tale fama si può correre a volte il rischio di un approccio pago di una certa fissità; al contrario, il De Coniuratione rappresenta ancora oggi una questione aperta e tutta da discutere, intrigante e irrisolvibile. Proponiamo qui tre differenti spunti di lavoro.

    Il primo, come è stato già richiamato in un post precedente di questo stesso sito, riguarda la data di composizione dell’opera. Nei manuali e nelle antologie scolastiche Sallustio è considerato un autore della tarda repubblica, ed è tendenzialmente accostato a Cesare e a Cicerone, non senza ragione. L’età di Cesare e Cicerone fu infatti fondamentale per Sallustio: ad essa risalgono la sua maturità di uomo e di politico e il suo ingresso nella Storia che conta; in quegli anni esercitò il governo sulla provincia dell’Africa Nova, sia pure (pare) cedendo alla tentazione di saccheggi e rapine che gli costarono la definitiva e ingloriosa uscita dal Senato. Fu un periodo decisivo, perciò, per l’uomo Sallustio, che tuttavia non era ancora divenuto scrittore.

    Gli stessi manuali che lo inseriscono tra gli autori di età cesariana e tardo repubblicana fanno risalire la data di composizione della sua prima opera, il De coniuratione appunto, a un intervallo tra il 43 e il 41 a.C. Questa datazione ‘avanzata’ nasce in Francia con Gaston Boissier (che nel 1905 propose di far risalire la scrittura al 42-41 a.C.), ed è stata accolta da molti e importanti studiosi (un altro, Gino Funaioli, nel 1921 aveva pensato di allargare l’intervallo temporale, posponendo la conclusione della composizione dell’opera al 40 a.C.). Sebbene sia impossibile accertare la verità, data l’assenza nel De coniuratione di espliciti riferimenti agli eventi politici contemporanei, alcuni elementi corroborano l’ipotesi di Boissier. Innanzitutto, è improbabile che Sallustio abbia intrapreso la scrittura di un’opera sulla congiura di Catilina mentre uno dei principali protagonisti di quegli avvenimenti era ancora in vita (alludo a Cicerone). L’inizio della composizione dell’opera dovrebbe perciò essere successivo al dicembre del 43, data di morte dell’oratore. Ronald Syme, di conseguenza, suggeriva che l’opera, se iniziata dopo il dicembre del 43, difficilmente poteva essere stata conclusa nel 42. Sempre Syme ha osservato che nella seconda monografia di Sallustio, il Bellum Iugurthinum, sembra trasparire un giudizio sul secondo triumvirato e le proscrizioni dei triumviri: l’ondata di vendette e ingiustizie che seguirono i provvedimenti di Antonio, Ottaviano e Lepido, dice Syme, aveva lasciato il segno e modificato la visione politica di Sallustio, il quale, ai tempi della composizione del De coniuratione, probabilmente era stato testimone ‘in presa diretta’ di quegli avvenimenti.

    Il De coniuratione dunque (se accettiamo una datazione grossomodo definibile come 42-41 a.C.) sarebbe sì l’opera di un uomo che figura tra gli ultimi senatori della Repubblica; ma il momento storico in cui Sallustio compose la sua monografia è successivo alla morte di tutti i personaggi che vi fanno da protagonisti, e con essi è morto anche l’ordinamento repubblicano. Sallustio, perciò, scrive già immerso in un day-after, e anche molto after, nel bel mezzo di un periodo macchiato di sangue nel quale si sapeva bene che cosa fosse terminato, ma non si poteva ancora intravedere ciò che sarebbe nato (come diceva Gramsci, con riferimento ad altro periodo storico, il vecchio mondo era già morto, ma il nuovo non era ancora nato: e Sallustio non ne vedrà la nascita, essendo morto a sua volta prima dello scontro finale tra Antonio e Ottaviano). Sallustio, dunque, come forma mentis era senz’altro un uomo della tarda repubblica, ed era stato un compagno dell’autore del De bello civili. Ma, come scrittore, appartiene a un momento successivo, un momento di profonda crisi e disorientamento, e di tale collocazione temporale occorre tenere conto nel considerare la sua opera. Si può registrare, ad esempio, che Sallustio compone il De coniuratione Catilinae negli stessi anni in cui Virgilio è al lavoro sulle Bucoliche. L’autore del De coniuratione costituisce dunque l’estrema esperienza di un ‘prima’ ma, allo stesso tempo, è anche la prima voce del ‘dopo’, ossia dell’età del secondo triumvirato.

    Il secondo spunto è direttamente collegato al primo. Perché Sallustio scelse di tornare sulla congiura di Catilina nel bel mezzo delle nuove proscrizioni dei triumviri? Perché farlo venti anni dopo gli avvenimenti narrati? Il passato non si riprende mai per pura curiosità. Che cosa dovette vedere Sallustio in quegli avvenimenti di così pertinente al presente suo e dei suoi contemporanei?

    La scelta della congiura come soggetto non era scontata. Catilina è una figura protagonistica forte e poteva garantire il pathos che Sallustio desiderava (un pathos ‘ellenistico’, si dice spesso). Ma non mancavano altri candidati autorevoli, ad esempio Silla o Pompeo. Si  ricordi che il peso storico della congiura di Catilina, evento epocale a detta di Cicerone e dello stesso Sallustio (facinus memorabile sceleris atque periculi novitate, capitolo IV, 4), è stato messo in discussione da diversi studiosi nel corso del Novecento. Anzi, c’è addirittura chi ha ipotizzato che la congiura sia in realtà una delle più grandi fake news di tutti i tempi, orchestrata da Cicerone con sapiente regia mediatica per eliminare un personaggio scomodo come Catilina e assicurare un successo politico a sé e a chi gli era vicino (Waters, 1970). Senza entrare nel merito, l’esistenza stessa di queste posizioni deve indurci a problematizzare la scelta di Sallustio, che avviene non cento anni dopo i fatti, ma venti, quando molti dei suoi testimoni diretti erano ancora in vita.

    Per affrontare la questione (perché Catilina?) occorre un’attenta lettura del testo. Una prima evidenza: all’infuori del protagonista, nell’operetta un ruolo importante è riconosciuto solo a Cesare, Catone e Cicerone. I primi due sono gli attori del dibattito in senato sulla condanna a morte dei Catilinari; il terzo è l’antagonista diretto di Catilina. Da qui si può cominciare a cercare una risposta: Sallustio con la congiura di Catilina ha scelto una vicenda che gli permettesse di citare tre fra i principali protagonisti degli ultimi venti anni della Repubblica, chiamando così a raccolta figure fondamentali anche per il passato più recente. Esse vengono fotografate un attimo prima che tutto precipitasse: Cesare e Catone nel 63, sebbene già autorevoli e influenti, erano ancora all’inizio delle loro rispettive carriere; con la repressione della congiura Cicerone si consacrava come grande leader ottimate; intanto, Pompeo preparava il ritorno trionfale dall’Asia. Mettere in scena Cesare, Catone e Cicerone, e con loro il senato romano, Crasso, e l’ombra di Pompeo sullo sfondo, ha allora il sapore di una resa dei conti con una pagina della Storia di Roma, che si prolunga ben oltre i fatti narrati e che ingombra di sé tutto il ventennio appena trascorso…

    Non mi soffermo sul trattamento riservato da Sallustio a Cicerone nell’opera, né sul dilemma dei discorsi di Cesare e Catone (problemi tuttora aperti). Offro alcune riflessioni sulla sola figura di Cesare all’interno del De coniuratione. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti sul nesso tra la congiura e la contemporaneità di Sallustio, per lungo tempo ci si è rifatti alla posizione di Eduard Schwartz (1897), per il quale il De coniuratione sarebbe nato come opera di propaganda militante, allo scopo di difendere Cesare e attaccare Cicerone, autore di una sorta di ‘libro nero’ (il misterioso De consiliis suis, mai arrivatoci) nel quale avrebbe accusato apertamente Cesare di aver preso parte alla congiura di Catilina. Questa opinione oggi è stata ricalibrata: nell’opera sallustiana non c’è livore verso Cicerone, il quale riceve un trattamento tutto sommato equilibrato. Resta vero, però, che Cesare, fin dal 63 a.C., venne più volte avvicinato a Catilina, ed è evidente che Sallustio ha operato alcune manipolazioni del materiale a sua disposizione per allontanare il più possibile il nome di Cesare da Catilina e dai suoi piani rivoluzionari (si veda ad esempio l’inizio delle macchinazioni di Catilina, retrodatato al 64 a.C. e associato fin da subito a Crasso, non a Cesare: retrodatare l’effettivo inizio della congiura aggrava le responsabilità di Catilina e indirettamente scagiona Cesare, che non compare in scena prima del capitolo XLIX, vittima delle calunnie di due senatori che, guarda caso, tentano di coinvolgerlo nella congiura a causa di rivalità personali).

    Sallustio tuttavia opera una strategia ben più singolare per liberare Cesare da ogni sospetto, e lo fa attraverso la costruzione del personaggio di Catilina. Catilina, infatti, presenta su di sé tutte le caratteristiche che la propaganda avversa aveva addebitato a Cesare: Catilina ha tra i suoi precedenti una condotta sessuale scandalosa; è un corruttore di giovani e, attorno a lui, si addensa la folla di tutti coloro che a Roma hanno bisogno di favori illeciti o si trovano sul lastrico (si confronti, per esempio, quanto si legge nel capitolo XIV con quello che Svetonio dice di Cesare nella di lui biografia, capitolo XXVII); e, ça va san dire, Catilina aspira alla tirannide. Ma non è tutto: Catilina giustifica la sua rivolta con la difesa della propria dignitas ed esorta i suoi a vindicare se in libertatem (cap. XX). Ci ricorda qualcuno? Si guardi al De bello civili,I, 4, 4 e 22, 4. Sallustio sceglie dunque di difendere Cesare addossando su Catilina tutte le accuse che erano state rivolte al dittatore, il quale appare completamente estraneo ai fatti della congiura ed è invece accostato a Catone per virtù e integrità morale. Concludo però questa parte con uno spunto ‘di crisi’: si provi a guardare, in quest’ottica, anche al finale dell’opera. Qui Catilina, non senza scandalo di alcuni lettori, esce di scena in maniera a dir poco straordinaria: il combattimento e la morte eroica a Pistoia sembrano minare l’immagine del crudele e perverso nemico dello Stato fin lì alimentata; egli, come ogni ineccepibile generale, appare un Cesare a tutti gli effetti, e nella morte assomiglia perfino a Decio Mure. Che cosa può significare questa contraddizione, definita da La Penna con la celebre formula della ‘paradossalità’? Catilina è un anti-Cesare, ma è molto di più di questo. È in questo suo essere un concentrato di bene e di male che il Catilina di Sallustio si offre come figura emblematica degli ultimi anni della repubblica. Non è da escludersi che quest’ultima considerazione possa avere delle ripercussioni anche sull’interpretazione del Cesare sallustiano, ma lascio aperta la riflessione.

    Terzo e ultimo spunto. A un lettore attento non sfugge la presenza insistita dei giovani all’interno del De coniuratione: Catilina sceglie i filii delle migliori famiglie di Roma, li corrompe, li addestra e se ne serve per le sue trame criminali. Egli, in particolare, attira a sé giovani che desiderano uccidere i propri genitori, per ottenerne il patrimonio al quale non avrebbero potuto avere accesso fino alla morte dei loro padri, come prescriveva l’istituto giuridico della patria potestas (ci si riferisce al temuto crimine di parricidium, vera e propria ossessione sociale di Roma, sul quale si veda il recente libro di Eva Cantarella, Come uccidere il padre, Milano, Feltrinelli, 2017). Tuttavia, se Catilina contribuisce ad alimentare tra i padri-senatori il timore del parricidio, all’interno del De coniuratione, in realtà,assistiamo sempre al fenomeno inverso. Sono sempre i figli a morire per mano dei padri. Muore il figlio di Catilina ucciso da Catilina stesso (cap. XV), muore un giovane di nome Fulvio, ucciso dal padre che non lo vuole unito ai Catilinari (cap. XXXIX), è rievocato il mitico omicidio del console Torquato, che aveva assassinato il figlio vittorioso, ma disubbidiente ai suoi ordini (cap. LII). Che cosa si cela dietro a questa catena di giovani morti nel De coniuratione? Siamo di fronte a un livello profondo del pensiero sallustiano. Nella Roma corrotta del presente si continuano ad assassinare i figli per il bene dello Stato, come avevano fatto Torquato o Bruto nella Roma dei maiores. Sallustio lega così il passato al presente, tramite la ripetizione degli stessi gesti, dentro a un ineludibile contrasto. I gesti, terribili e virtuosi, sono gli stessi degli antenati: ma nella Roma degenerata di Catilina il loro valore non è più lo stesso: perché è il filo della Storia che sembra essersi ormai definitivamente perso.

    ©  Bernardo Cedone, 2020

  • Giugurta

    Giugurta

    Nel momento in cui scrivo, la voce di Wikipedia dedicata a Giugurta ricorda, al capitolo “Nella cultura di massa”, la ben nota monografia di Sallustio e “un poemetto in latino, di 131 esametri, di Giovanni Pascoli (Iugurtha, 1896)”. Vorrei dedicare questo post a un altro poemetto latino, intitolato anch’esso Iugurtha, risalente al 1869. Ne è autore Arthur Rimbaud, all’epoca poco più che quindicenne (1854-1891). Prima di iniziare a poetare in francese, infatti, Rimbaud poetò in latino, ovviamente spinto a ciò dalla scuola e dall’esercizio di composizione in versi che, nella prassi ottocentesca, era la dimostrazione somma e suprema della propria competenza linguistica. Di Rimbaud poeta latino abbiamo cinque composizioni, tutte nate fra i banchi di scuola, a Charleville, e tutte risalenti al periodo 1868-1870. Nel biennio 1869-1870 Rimbaud, già dedito alle prime fughe parigine, compose in latino e contemporaneamente anche in francese. Dal 1870 e fino al 1874 le composizioni di Rimbaud saranno solo in francese. Dopo quella data, si dedicherà ad altro, abbandonando definitivamente la poesia.

    Ora, al liceo di Charleville le composizioni migliori venivano premiate ed erano poi pubblicate su un giornale edito nella vicina Douai, Le Moniteur de l’Enseignement. E’ successo così che, andati perduti gli archivi personali di Rimbaud e quelli del liceo (la zona di Charleville è stata teatro di combattimenti sia durante la I che la II guerra mondiale), si sono salvate solo le cinque composizioni premiate e ritrovate negli archivi del Moniteur. Sappiamo però, dalla corrispondenza del poeta, che in origine i testi erano più numerosi. La loro raccolta si deve a uno studioso francese, Jules Monquet, che li ha pubblicati nel 1932, con il titolo di Vers de Collège – edizione inevitabilmente scorretta, che è stata poi perfezionata una volta che i testi sono stati accolti nell’edizione Gallimard della “Bibliothèque de la Pléiade” nel 1946 (ad opera dello stesso Monquet) e, in Italia, nel volume dedicato a Rimbaud per i “Meridiani” di Mondadori (a cura di Diana Grange Fiori). In entrambe queste occasioni, all’edizione “secca” del testo si accompagnava una traduzione, peraltro non priva – almeno quella italiana – di fraintendimenti. Il lettore nostrano può però contare sull’ottimo volume dedicato da Giampietro Marconi alle Poesie latine di A. Rimbaud (così recita il titolo), Pisa-Roma 1998. Ad esso mi rifaccio ampiamente, pur con qualche occasionale dissenso, che si evince dalla traduzione che propongo e che mi riservo di motivare in altra sede, con un apposito commento.

    Prima di passare al testo in questione, ricordo che il latino di Rimbaud è generalmente corretto (con qualche licenza nella sintassi, cosa del resto comune nella lingua poetica, e una serie di costrutti “tardi”, del tipo participio + fui/fueram anziché sum/eram); corretta è anche la metrica (tutti i 286 vv. a noi noti sono esametri). Proprio la composizione che prenderò in esame, la terza del gruppo, è però la più scorretta. In una sorta di ritornello, compare infatti più volte l’aggettivo Arabius con la prima vocale lunga, come in Properzio I 14,19 (in Virgilio, Eneide VII 605 è breve). Al v. 80 His et immensa magnus tellure, sacerdos, la congiunzione et è scandita come lunga, senza nessuna ragione plausibile. Gli editori sono intervenuti emendando, pensando a una svista tipografica (l’edizione del Moniteur  è spesso discutibile), ma io ho preferito conservare il testo così come è. Infine, al v. 61 imperatoris in clausola è improponibile (imperator è un noto esempio di parola “impoetica” proprio per ragioni metriche). Rimbaud considera infatti breve la –a– centrale, che invece è lunga. Sono però piccole pecche, rispetto a un testo che a me pare notevolissimo. E’ evidente che in classe si era letto Sallustio, più volte riecheggiato. Non mancano nemmeno i rimandi virgiliani, a volte veri e propri calchi o trasposizioni di iuncturae. Però, di fronte a titolo (e tema) che invitavano a parlare di Giugurta, la scelta del quindicenne poeta è fuori dall’ordinario.

    Rimbaud infatti non dedica la composizione direttamente a Giugurta, ma a un suo lontano discendente ed imitatore, Abd-el-Kàder (1808-1883), emiro algerino che si era ribellato al tentativo di annessione dell’Algeria da parte della Francia nel 1830; aveva obbligato le truppe di Luigi Filippo a una pace non decisiva nel 1837; era stato infine sconfitto e fatto prigioniero (internato a Tolone, Pau e infine Amboise), nel 1847. Con la caduta di Luigi Filippo nel 1848, la Seconda Repubblica e il colpo di Stato del 1852, Abd-el-Kàder venne rimesso in libertà da Napoleone III e si ritirò quindi a Damasco, dedicandosi alla religione e alla filosofia. Ebbe un ritorno di fiamma nel 1860, quando intervenne a difesa degli Europei assaliti dai guerrieri Drusi in Siria, meritandosi così la Legione d’Onore. Rimbaud sottolinea soprattutto il parallelismo fra questo “discendente” e il Giugurta storico: come il suo “avo”, anche Abd-el-Kàder combatté, piccolo Davide, contro un gigantesco Golia; si ribellò al protettorato di una nazione più forte; rivendicò libertà e autonomia; sfruttò ampiamente la tattica della guerriglia sugli altopiani algerini; si fidò a proprio danno di un alleato marocchino; venne sconfitto dopo la nomina a governatore dell’Algeria di un generale di ferro, Thomas Robert Bugeaud (1784-1849). La sceneggiatura impressa al racconto da Rimbaud prevede che sulla culla del piccolo Abd-el-Kàder si pieghi l’ombra del Giugurta storico, che vaticina il futuro del bimbo e rievoca per allusioni la propria vicenda terrena. Nella seconda sezione, assai più breve, viene ricordata la prigionia sul suolo francese ed è invocato Napoleone come un liberatore. Nel carcere, Giugurta appare una seconda volta al suo lontano discendente, e questa volta lo esorta ad accettare la supremazia francese e ad accordarsi con quella. La terza sezione è fatta di un unico verso, a mo’ di suggello sibillino: contraddicendo, credo, quanto appena detto, Giugurta invita Abd-el-Kàder a considerarlo pur sempre il Genio della sua nazione, con un implicito consiglio a non lasciare perdere la lotta. Marconi nel suo commento insiste su due punti: la serie di giochi fonici, allitterazioni, presenze vocaliche ecc. che anticipano nel Rimbaud latino il Rimbaud francese. La lettura, per me non troppo convincente, in chiave di anticolonialismo inglese, da contrapporre a un “colonialismo dal volto buono”, che sarebbe quello francese. Ma l’Algeria era colonia francese, non inglese. E se Luigi Filippo (mai nominato, peraltro) si può contrapporre, nel testo, a Napoleone III, resta che la composizione ha senso nel possibile parallelo fra la Roma di Sallustio e la nuova Roma, alias Parigi, che della prima ricalca orme e difetti. E questa, da parte di uno studente quindicenne, non era impresa da poco.

    Lascio il testo come allegato pdf, dividendolo per sezioni, grazie alla presenza costante di un ritornello. A ogni sezione faccio seguire la sua traduzione. Buona lettura a tutti!

    © Massimo Gioseffi, 2017

     

    rimbaud, iugurtha, 1869