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  • Come è difficile esser felici!

    Come è difficile esser felici!

    Completo il precedente post dedicato a Uomini e dèi nell’Eneide con una serie di considerazioni lessicali relative alle occorrenze di felix e infelix nell’opera di Virgilio. Il pensiero di base è quello già espresso nell’altro post. Felix e infelix in latino hanno una valenza di ambito sacrale; stante la testimonianza di Varrone, felix indica propriamente il campo, il raccolto, l’annata fertile di frutti, e dunque ben riuscita; ed è solo secondario e traslato il riferimento a uno stato emotivo dell’essere umano. Ma la fortuna e la ricchezza del campo non sono possibili senza la benevolenza degli dèi; ciò vale anche per la fertilità, il raggiungimento di uno scopo nella vita, o lo stato complessivo di serenità e benessere psicologico che noi (e gli antichi) comprendiamo sotto il termine felicitas. Nel I secolo a.C. Felix era il soprannome di Silla, ‘beniamino/protetto degli dèi’ (a questo il soprannome mirava e questo la propaganda sillana aveva enfatizzato, a cominciare dalla perduta, ma in parte ricostruibile, autobiografia); Cesare, al contrario, nella propaganda testimoniata dai Commentarii ha insistito di più sulla propria Fortuna, che implica in maggior grado un saper fare, secondo l’idea (sottilmente implicita) che il bravo comandante militare sarà anche un bravo capo di uomini.

    Ora, come ho già detto nell’altro post, nell’Eneide si assiste a una discrasia fra lo sguardo di Giove e quello dei diversi personaggi, siano essi umani o divini; lo sguardo di Giove è infatti lungo, e si riassume nella Storia con l’iniziale maiuscola, che tutto giustifica; non è uno sguardo rassicurante però, perché comporta il passare sopra la vita dei singoli, che in quel processo si devono inserire volenti o nolenti, e che da quel percorso a lungo termine sono, nel breve tempo della loro vita, spesso sorpassati e “bypassati”. Inoltre, gli uomini, anche quando siano chiamati a contemplarla (come a un certo punto accade ad Enea), non capiscono la Storia, perché il loro sguardo è miope, concentrato sulla brevità della propria esistenza, non è in grado di cogliere quella lunga durata che appartiene al dio. Infine, la Storia di per sé non è rassicurante: tant’è che l’ultimo avvenimento citato nel poema, la morte di Marcello nel 23 a.C., trascende le promesse divine del I e del XII libro (I 254-296: anticipazione di Giove a Venere e al lettore di quanto seguirà nei dodici libri del poema, nel seguito del poema e nei secoli a venire, fino all’avvento di un Iulius Caesar che sottometterà l’oikoumene, vi porterà la pace, diverrà dio; XII 801-842, anticipazione a Giunone di quello che sarà il destino dell’Italia, fino al pieno mescolarsi di Troiani, Latini e Italici in un’unità politica e sacrale che, storicamente, sappiamo essersi realizzata solo nella seconda metà del I secolo a.C.). La morte di Marcello, invece, è avvenimento che rischia di rimettere in gioco tutto quanto è stato “realizzato” da Cesare e da Augusto, e di riproporre alla generazione a venire quello che la generazione di Virgilio aveva vissuto sulla propria pelle, cioè la lotta al momento della successione di un Grande Capo (per Virgilio e i suoi coetanei Cesare, per la generazione a venire Augusto).

    Dato per scontato tutto questo, si tratta ora di capire che cosa significhi essere felices  o infelices in Virgilio, chi lo sia, e perché; quali siano le diverse possibilità di felicità; quali alternative si diano alla felicitas o alla infelicitas. Partiamo dai dati numerici. Felix in Virgilio è abbastanza raro: non c’è o quasi nelle Bucoliche (mai per persone); è più comune nelle Georgiche, ma in genere in riferimento a piante o campi, o comunque a prodotti connessi all’agricoltura (anche la vittima dei sacrifici agli dèi agricoli); sono solo tredici le occorrenze nell’Eneide. Infelix è molto più presente, in riferimento a piante e campi, ma anche ad animali e persone. Ovviamente, nessuna menzione si dà di felicitas, un astratto “impoetico”, ma neanche dell’avverbio feliciter, che pure compare sia negli Annales di Ennio (fr. 103 Sk.), sia in Ovidio (più volte).

    Vediamo i casi più da vicino: nelle Bucoliche il gregge di Melibeo era felix, ma in un tempo passato e non più proponibile, della cui condizione di felicitas ci si rende conto solo ora che non c’è più, attraverso il filtro della memoria e della nostalgia (1, 74); la seconda occorrenza si riferisce all’invocazione al neo-dio Dafni, invitato a essere propizio nei confronti dei fedeli (5, 65: sis felix è qui una formula rituale e cristallizzata, che ribadisce il valore sacrale dell’aggettivo). Al più possiamo osservare, con tipico valore degli aggettivi latini, che felix, come infelix, vale sia ‘che è felice/infelice’, sia ‘che fa felice/infelice’. Fra le dieci occorrenze delle Georgiche, l’unica che non abbia valore agricolo è 2, 490: felix è chi può dedicare la sua vita alla scienza, libero da affanni e pressioni della vita quotidiana e contingente. Una situazione specifica e particolare, direi paradisiaca se si concede l’anacronismo, che pochi, pochissimi possono realizzare, forse nessuno, certo non il poeta/narratore – che si sta sì dedicando all’attività poetica e in relazione a un sapere pratico, ma lo fa sotto pressione altrui, con fini pragmatici, per un bisogno che non è quello, ascetico, della pura contemplazione: e che quindi al massimo si può dire fortunatus, non felix, con una interessante gerarchia dei due termini. Nell’Eneide mi pare significativo che alcuni felices lo siano solo per modo di dire: l’aggettivo appare infatti in formule di cortesia, del tipo che già conosciamo, sis felix, riferito a un dio, come nelle Bucoliche; oppure al momento di una partenza o di un arrivo: un po’ come i nostri “salve, addio, ciao”, parole che hanno perso il loro valore etimologico e sono divenute puri modi di dire: cfr. 1, 330, a Cartagine (per Venere), e 3, 493, a Butroto. Felix si trova anche in frasi negative: è celebre la definizione di Didone, 4, 657, felix, anzi nimium felix, se le navi dardanie mai avessero raggiunto le sue terre – ma le navi quella terra l’hanno raggiunta, e la felix Didone è così divenuta l’infelix per eccellenza. Allo stesso modo Serrano, 9, 337, è una vittima di Niso nell’accampamento rutulo addormentato; e poiché aveva passato la sera a giocare a dadi, sarebbe stato felice se avesse continuato a giocare anche durante la notte: si sarebbe infatti trovato sveglio all’arrivo di Niso e si sarebbe forse potuto salvare; invece si è addormentato al momento sbagliato, e ciò ha fatto di lui una vittima indifesa. Tra i felices virgiliani si contano poi la moglie di Evandro, morta prima di conoscere la scomparsa prematura del figlio (11, 159: la definisce così il marito), e Polissena, uccisa sulla tomba di Achille, e non costretta a subire la schiavitù (lo pensa Andromaca, che la schiavitù ha invece sperimentato, 3, 321); felices sono poi le anime dell’Ade (quelle che lo sono, cioè Museo e la sua cerchia, 6, 669, racchiusi nei campi elisi = isole fortunate o dei beati); e il guerriero Tolumnio, presentato come tale nelle parole di Turno che deve convincere i Latini a continuare la guerra nonostante le prime sconfitte (Diomede ha rifiutato di allearsi con loro: ma non c’è problema, Tolumnio gli equivale e gode del favore divino, felix appunto, 11, 429). In realtà Tolumnio entrerà in azione solo nel libro XII quando interpreta male un prodigio e spinge i Latini a interrompere la tregua e il duello fra Enea e Turno: decisione avventata e inconsulta, che paga figurando nell’elenco successivo di caduti. E tanto felix, in definitiva, non sembra proprio. Ma Turno, si sa, spesso sbaglia le sue valutazioni! Infine, possono essere felices degli oggetti, animati o inanimati, che assolvono la loro funzione, come i venti che soffiano propizi, 3, 120. In questo elenco, due casi sono significativi: nelle parole di commiato di Eleno, 3, 480, è felix Anchise, protetto dalla pietas del figlio e sottratto alla rovina di Troia con il gesto più famoso della saga eneadica, quello che consacra Enea come pius, ma anche quello che dà inizio all’intera vicenda – la storia di Roma inizia lì, dalla fuga da Troia; dall’avere Enea convinto a partire il recalcitrante Anchise; dall’averlo preso su di sé, e con lui, nelle mani di lui, i Penati che assicurano continuità e sopravvivenza. Poco prima, all’inizio della medesima allocuzione (v. 475) Anchise era stato definito da Eleno come coniugio Veneris dignatus superbo. Importante: non è l’amore della dea ciò che lo fa felix, bensì l’agire del figlio. Alla fine del libro, vv. 708-713, Enea lamenta che Eleno non gli abbia predetto la morte del padre; è vero, però qui ne ha steso l’epitaffio, ricordando le due azioni che ne consacrano la memoria, e mettendole in posizione gerarchica: l’amore della dea ha reso celebre Anchise, ma il figlio con il suo gesto lo ha fatto felix, per le ragioni che ho detto. E il Priamides Eleno (figlio di Priamo, cioè ancora volto alla Troia di Priamo, ricostruita a Butroto tal quale si trovava in Asia, ma ora riconosciuta da Enea e dai compagni come qualcosa di vuoto, di sterile, di infruttuoso: la vera, nuova Troia, quella fertile e ricca di frutti, protetta dagli dèi, è in avanti, non indietro), Eleno, dicevo, riconosce in quella partenza da Troia di Enea e famiglia la felicitas di una nuova fondazione, qualcosa che segna una svolta nella storia e nella Storia, un punto di non ritorno che segnala gli Anchisiadi – e non più i Priamidi! – come i veri eredi di Troia e i beniamini degli dèi (e fra gli Anchisiadi, naturalmente, vanno contati i loro lontani discendenti, i Romani). L’altro passo significativo è 6, 784. Roma appena fondata da Romolo è felix prole virum (e cioè virorum), con aggettivo che riassume tutti i valori del termine: fertilità di frutti (i Romani), felicità di animo (l’imperium che li attende), la benevolenza degli dèi (al v. 780 di Romolo e Roma è detto che et pater ipse suo superum iam signat honore). Questi sono i soli esseri felici del poema: Anchise all’inizio di una Storia, alla cui fine c’è Roma, la Roma di Romolo che si salda con un unico tratto alla Roma di Augusto (rievocato nel sesto libro subito dopo del fondatore). E Roma, che in questa Storia felix lo è a lungo termine, è di nuovo la Storia, che nella città amata dagli dèi in certo qual modo si incarna. Non c’è dunque umana felicità, anzi felicità dell’uomo è morire quanto prima, secondo il detto sapienziale greco e secondo quanto ribadiscono Andromaca parlando di Polissena, ed Evandro della moglie; non è felix Enea, che pure si muove seguendo ordini divini, protetto dalla madre e dalle altre divinità fedeli alle parole di Giove; felix è solo la Storia, cioè ancora una volta lo sguardo lungo di Giove, che tutto assolve e tutto giustifica…

    Vediamo ora infelix. Nelle Bucoliche ci sono Pasifae (6, 47 e 52) e Procne (o Filomela: ma il nome poco importa, 6, 81), che, mutata in animale dopo aver ucciso per vendetta il proprio figlio, prima di abbandonare la casa resa cruenta dal suo gesto, infelix sua tecta super volitaverit alis. Se allarghiamo la ricerca al campo animale, c’è anche il gregge affidato da Egone (il proprietario) a Dameta (il pastore mercenarius) nelle parole di parte del rivale Menalca, buc. 3, 3, definito infelix  perché lasciato a un pastore disonesto che lo sfrutta fuori misura a proprio uso e consumo (munge le pecore due volte all’ora, dice Menalca con evidente iperbole). Come si vede, siamo sempre nel campo di un destino avverso, rovesciato su vittime incolpevoli: non sono Pasifae e Procne i mostri delle rispettive vicende, ma forze a loro esterne le costringono ad azioni mostruose; non è il gregge ad avere colpa, ma subisce le conseguenze di un’azione del padrone, che vuole essere libero da impegni per corteggiare Neera. Fa a sé il caso di 5, 37, infelix lolium, che ritorna, con verso quasi identico, a georg. 1, 154. Nelle Georgiche non c’è nessuna occorrenza riferita a esseri umani, tre a campi infecondi o piante invasive e sterili; poi però ci sono il cavallo malato nel Norico (3, 498) e Mantova intesa come somma dei cittadini che hanno subito le espropriazioni del dopo Filippi (2, 198). Un caso a sé costituisce l’Invidia infelix di 3, 37, tipica personificazione virgiliana, che indica il guardare di malocchio chi sa fare qualcosa e il cercare di impedirgli di farlo (per questo infelix riassume qui un po’ tutti i valori del termine: l’Invidia è sterile; cerca di rendere sterili; è malevola, è causa di male a sé e agli altri). L’aggettivo “esplode” letteralmente nell’Eneide. Quarantotto occorrenze tra forma lemmatica e casi flessi. Vediamo i riferimenti: nei casi flessi troviamo Didone, 5, 3; Amata, 7, 401; Ulisse, 3, 613 e 3, 691; Niso, che definisce così se stesso, 9, 430; Troia nel suo complesso (Mnesteo esorta i compagni a resistere all’assedio di Turno, e chiede loro se non infelicis patriae…pudet miseretque, 9, 786), cui si aggiunge il vitto non umano al quale è costretto Achemenide, 3, 649, bacas lapidosaque corna, cioè la regressione allo stato di raccoglitore, ossia di uomo preistorico e a-civilizzato. Più lunga la lista dei casi lemmatici: Troilo (la prima occorrenza in assoluto per il lettore continuo dell’Eneide, 1, 475); Didone (sette volte in tutto: 1, 712 e 749; 4, 68, 450, 529 e 596; 6, 456, il massimo concesso a qualsiasi personaggio); il cavallo di Troia, 2, 245, monstrum infelix che i Troiani sacrata sistunt arce, con accostamento ossimorico di due aggettivi significativi, il monstrum infelix va a dissacrare la sacrata arx; Corebo che non ascolta gli avvertimenti di Cassandra, 2, 345; Andromaca vedova inconsolabile, 2, 455; Creusa appena defunta e trasformatasi in umbra e simulacrum di sé stessa, 2, 772; Priamo che tenta di salvare Troia mandando Polidoro al sicuro (lo crede lui) in Tracia, 3, 50; l’Arpia Celeno quando lancia la sua predizione/maledizione che sembra allontanare per sempre i Troiani dalla meta agognata, 3, 246; Sergesto, che vuole vincere la regata con una mossa avventata, 5, 204; Niso che scivola inconsapevolmente e perde una corsa che aveva già vinto, 5, 329; Darete, che deve riconoscere la superiorità di Entello nello scontro di pugilato, 5, 465; il talamo dove giaceva sicuro Deifobo, o se vogliamo, per ipallage, Deifobo che si credeva sicuro nel proprio letto, al fianco della donna appena sposata, sopravvissuto a una guerra sanguinosa e decennale, che gli prospetta un avvenire di pace e felicità (6, 521); Teseo, che sedet aeternumque sedebit nell’Ade, per aver osato un’azione empia, rapire la regina degli Inferi (6, 618); Bruto, che manda a morte i suoi figli in nome del bene comune, eroe della res publica nella visione romana tradizionale, anche di autori più o meno contemporanei a Virgilio come Livio e Valerio Massimo, ma infelix utcumque ferent ea facta minores per la voce che commenta (6, 822); Giunone, che si autoproclama tale nel riconoscersi sconfitta, nonostante nulla abbia lasciato di intentato contro i Troiani (7309); di nuovo Amata, nel settimo come nel dodicesimo libro (7, 376 e 12, 598) una serie di caduti, colpiti da morte prematura o inattesa: Eurialo, 9, 390; sua madre, 9, 477; Cidone, che solo provvidenzialmente si salva (10, 325); Aleso, vittima di Pallante (10, 425); Lìgeri, vittima di Enea (10, 596); Acrone, vittima di Mezenzio (10, 730); Antore, che muore per un dardo scagliato non contro di lui (10, 781); Lauso (10, 829), Mezenzio (10, 850), Camilla (11, 563) e il meno noto Ufente (12, 641). Poi infelix è Evandro, alla notizia della morte del figlio, sia nelle parole di Enea (11, 53) sia nelle proprie (11, 175), così come infelix è Acete, tutore di Pallante e guida del corteo funebre che ne riporta a casa il cadavere (11, 85: diciamo anche qui che, per ipallage, infelix è fondamentalmente Pallante). Ancora: è infelix la comunità intera dei Troiani in fuga, nelle parole della falsa Beroe (in realtà è Iride che vuole spingere le donne troiane a dar fuoco alle navi, 5, 625); la Fama che divulga la notizia della morte di Amata fra i Latini e spinge Turno a riprendere il duello per lui fatale (12, 608); Giuturna, costretta ad abbandonare il fratello alla sua sorte (12, 870); infine, c’è il balteus infelix di Pallante, 12, 941, portato trionfalmente da Turno, che si presenta agli occhi di Enea, siamo proprio alla fine del poema, e lo spinge, quando è vacillante e dubbioso, a uccidere il nemico che lo supplica: perché è bene parcere subiectis, ma si deve debellare superbos, e nonostante le apparenze del momento, proprio quel balteo inserisce Turno fra gli incorreggibili superbi…

    L’elenco è stato lungo, e me ne scuso. Ma ora possiamo trarre qualche considerazione. Intanto, vediamo come più valori si sommino spesso fra loro, e difficile risulti la scelta. Questo significa anche che non ha molto senso tradurre le diverse occorrenze con “felice/infelice”, senza cercare di cogliere le diverse sfumature che i due termini assumono caso per caso. Tradurre, del resto, è solo una parte del nostro accostarci all’opera d’arte, e non può essere il fine ultimo del nostro agire. Esemplare mi sembra, al riguardo, il caso di Giunone a 7, 309. la dea, come l’Invidia delle Georgiche, è infelix lei stessa; rende infelices gli altri; è sterile di frutti e successi; vuole impedire gli altrui successi; è sofferente per quanto succede; fa soffrire gli altri; è vittima di sé stessa; ma si ritiene vittima di una congiura di forze superiori – Giove e il fatum. Poi, è evidente che che c’è un uso per così dire “attivo” di infelix (ossia: che rende infelici gli altri), come era già per l’Invidia di 3, 37: così avviene per Celeno; il cavallo che entra nell’arx sacrata di Troia; la Fama che divulga la morte di Amata e costringe Turno a dichiararsi sconfitto; il balteo di Pallante, che rende d’un colpo Pallante e Turno ugualmente vittime. Ma c’è un ben più ampio uso “passivo” del termine, entro il quale si riconoscono dei casi tipici e ricorrenti:

    – è infelix chi incontra una morte prematura (sua o di un familiare), e comunque inattesa: il discorso vale per Creusa; Andromaca, vedova di Ettore; Didone; Evandro, che ha perso Pallante; Mezenzio privo di Lauso; la madre di Eurialo; i molti morti in combattimento;

    –  è  infelix chi ha tentato un’azione che travalica i propri limiti, limiti imposti dalla Natura, dalla Storia, dal Fato o dal volere degli dèi, ed è ricondotto da una legge inesorabile alla realtà delle cose: Troilo, ad esempio, che va incontro a un impar congressus con il più forte Achille; Eurialo e Niso nel nono libro, che tentano un’impresa al di sopra delle loro forze, per dimostrarsi viri e non più semplici pueri; Priamo, che vorrebbe eludere la Storia salvando attraverso Polidoro qualcosa di Troia e delle sue ricchezze; Sergesto e Darete nelle gare del quinto libro; Corebo, che non presta ascolto a Cassandra; Teseo, che vuole infrangere le leggi dell’Aldilà; Bruto, il più infelix di tutti, perché ha dovuto mettere sulla bilancia due valori parimenti forti e ne ha fatto fatto prevale uno a scapito dell’altro;

    – è infelix chi, credendo di avere raggiunto qualcosa, si sente al sicuro, e invece poi cade per colpa non sua, per una forza superiore che lo trascina a sua insaputa e senza che lui possa fare granché: erano tali già Pasifae e Procne nelle Bucoliche, lo sono ora Didone; i Troiani tutti, nelle parole astute della falsa Beroe (che dice loro quello che essi pensano di sé); Niso che scivola quando crede di avere già vinto la gara; Deifobo che pensa di essere tranquillo nel proprio talamo; Amata, vittima degli dèi; i colpiti da un dardo non lanciato contro di loro, uno per tutti Antore;

    – non sono invece mai infelices né Enea né nessun altro componente della ‘casa reale’, fatta salva Creusa, una Priamide anch’essa, e dunque appartenente a un passato che nell’Eneide è capitale venga distinto e non confuso con la storia e con la Storia; non lo sono nemmeno i Troiani del seguito, salvo che nelle parole di Mnesteo – ma quella che lui rievoca è la Troia fisica, lasciata sulle dolci colline dell’Asia, qualcosa che appartiene ancora una volta al passato e non va confuso con i Troiani di Enea & co. Quegli stessi Troiani sono gens infelix in 5, 625, ma a parlare è in quel caso la falsa Beroe, alla quale quindi non si deve prestare ascolto, perché agisce e parla falsamente, con artificio, secondo retorica;

    – ma neanche Enea e gli altri componenti della ‘casa reale’ si possono dire felices, ad eccezione di Anchise, per le ragioni dette, e dei Troiani lasciati a Butroto, consegnati a un futuro che è già concluso, e già finito, ha il sapore della morte (e solo chi è morto per tempo può essere detto ‘felice’, a livello personale). La felicitas infatti è dono raro, divino, concesso di fatto alla sola Roma; e ad essa si contrappone una ben più ampia possibilità di infelicitas. Ma anche la felix Roma, cui pure gli dèi hanno assegnato un compito che trascende le umane sorti e la possibilità di realizzarlo, per arrivare ad essere felix ha dovuto passare attraverso disavventure varie, che sono state la sua Fortuna (6, 683), ossia  in fondo, le vicende biografiche dei suoi eroi, il loro destino individuale. Diciamo quindi, per semplificare un po’, che fortuna è per Virgilio qualcosa che sempre attiene di più, rispetto a felicitas, alla casualità, e a una casualità connessa, in gran parte, alla sfera umana, dipendente cioè dall’azione degli uomini più che (e oltre che) degli dèi; laddove la felicitas dipende certo anch’essa dall’azione degli uomini (che non devono infrangere leggi divine e ben stabilite: il che li condannerebbe inesorabilmente alla sconfitta e alla infelicitas), ma in larga misura dipende soprattutto dall’agire degli dèi, dal benvolere che essi possono o no dimostrare agli umani, e che si riconosce, di norma, solo a cose fatte, una volta che la fortuna è peracta, come dice Enea agli amici che lascia a Butroto (3, 493). È ben nota la massima di Appio Claudio sull’homo faber ipsius fortunae. Fortunae, appunto, non felicitatis: ché la felicitas l’uomo non se la può dare e anzi, anche quando si ritiene al sicuro (Deifobo, i Troiani, Niso quasi vincitore…) rischia sempre che qualcosa vada storto e lo faccia ricadere nell’ampia schiera degli infelices; alla propria fortuna, pur soggetta a mille rovesci e pericoli di rovescio e rivolgimento, si può invece cooperare, anche solo imparando a sopportarla o ad evitarla – come recita la massima che Enea lascia in eredità, nel sottofinale, 12, 435-436, al figlio e che prevede un Ascanio in grado di discere la virtus dall’esempio di Enea e di Ettore e la fortuna da modelli extra-familiari (ma Enea non si sogna di fargli discere la felicitas da nessuno). La felicitas, infatti, è dono raro, divino, concesso alla sola Roma; alla quale si contrappone una ben più ampia possibilità di infelicitas. In fondo, è ancora lo sguardo lungo della Storia che, lo sappiamo, travalica il destino dei singoli e di loro non si interessa...

     © Massimo Gioseffi, 2016

  • Uomini e dèi nell’Eneide

    Uomini e dèi nell’Eneide

    In previsione degli incontri di Kavala, ma anche più in generale come tema di riflessione sull’Eneide, propongo qui, in forma parzialmente rifatta e adattata alle circostanze, il testo di una lezione tenuta a Milano il 12 Novembre 2008, in occasione della presentazione dell’edizione italiana del volume di Mary Lefkowitz, Dèi greci, vite umane (Mary Lefkowitz, Dèi greci, vite umane. Quel che possiamo imparare dai miti, a cura di G. Arrigoni, Novara, Utet Università 2008, ISBN 978-88-6008-156-8). La presentazione era stata organizzata da Giampiera Arrigoni; gli interventi di Giuseppe Zanetto (su Euripide) e il mio (su Virgilio) sono stati pubblicati sui “Quaderni Urbinati di Cultura Classica”, 2011, pp. 171-184.

    Ecco dunque il testo promesso:

    Il libro di Mary Lefkowitz chiama in causa il latinista solo per una piccola parte. Il capitolo che più interessa il latinista non  si occupa degli dèi a Roma, ma de ‘Gli dèi nell’Eneide’ (‘The Gods in the  Aeneid’). Viene cioè messo subito in chiaro che a rientrare nel discorso è l’Eneide in quanto poema epico, quel poema epico che ben conosciamo, intriso di Omero e di alessandrinismo, opera di un autore intriso di Omero e di alessandrinismo. Altro sarebbe ragionare circa la religione o la religiosità romana; altro quello circa la religiosità di Virgilio e delle opere virgiliane in toto, un ipotetico ‘Gli dèi in Virgilio’. Lefkowitz parte dalla constatazione di come, a differenza che nella tradizione biblica, gli dèi greci non creino l’uomo e si sentano perciò meno responsabili della sua sorte. L’uomo, a sua volta, non è formato a immagine e somiglianza di nessuna divinità (è semmai vero il contrario). Questo comporta che fra le parti in gioco ci possa essere un divario e, ogni tanto, una vera e propria difficoltà di comprensione. Ma ciò non toglie che gli dèi, e Zeus in particolare, seguano e controllino sempre gli uomini e le loro azioni e le giudichino secondo giustizia. Problema fondamentale è che la giustizia di Zeus non è quella degli uomini – così come i tempi di Zeus non sono i tempi degli uomini. Da questa discrasia deriva il fatto che gli uomini sono incapaci, o comunque in difficoltà, nel riconoscere che cosa è bene e che cosa no, quando gli dèi li hanno beneficati e quando puniti, cosa è giusto e cosa meno. Esemplare il caso dei marinai cretesi nell’Inno ad Apollo attribuito ad Omero: il dio li nobilita rendendoli suoi sacerdoti, ma loro impiegano tempo a convincersi di quanto Apollo sia stato generoso, provano timore, si preoccupano del futuro, chiedono di tornare a casa in nome di un’identità che ritengono smarrita, non accresciuta, dall’intervento divino (Hom. Hymn. 3, 388-544). Gli uomini, insomma, faticano a cogliere l’ordine di giustizia voluto dagli dèi; e gli dèi non li facilitano nel compito, anzi, spesso si approfittano dei mortali per conseguire fini particolari e ignoti alla comune umanità – fini che nella versione migliore, quella del Giove virgiliano, sono rivolti all’unità e alla moralizzazione del mondo sotto l’egida di Roma; ma nella versione peggiore possono risultare egoistici ed individuali.

    Proprio la vicenda di Troia appare esemplare di questa disparità di valutazione, e ciò spiega perché così numerose siano state le sue declinazioni poetiche e perché tutte le generazioni vi si siano confrontate, cercandovi risposta ai propri dilemmi. Nell’Iliade la decisione di Zeus è stabilita fin dall’inizio del poema e non muta nel corso degli eventi. Il comportamento di Paride ha deciso il destino della città: Troia perderà la guerra. Il verdetto non è in discussione; in discussione possono essere la manipolazione di uomini e divinità inferiori e gli avvenimenti che porteranno a quel verdetto. È perciò possibile che Zeus ammetta, e talora addirittura favorisca, l’idea che altri dèi, offesi da singole azioni dei mortali, sentano il desiderio di vendicarsi e che essi vengano aiutati in questa esigenza – ossia, che Zeus riconosca loro il diritto di interferire, come avviene per Apollo, invocato da Crise, o per Teti, supplicata da Achille. La momentanea libertà d’azione di queste divinità non muta il corso complessivo delle cose, che rimane quello stabilito da Zeus. Nel passare a Roma cambia lo sguardo divino: da un lato gli dèi, a cominciare da Giove, tendono a ridursi sempre più a simboli, ad acquisire serietà e dignità a scapito della vivacità, a perdere individualità e libertà. Dall’altro, si allunga lo sguardo di Giove: nell’Iliade le decisioni di Zeus non  vanno oltre i confini del poema; nell’Eneide abbracciano tutto l’arco temporale della Storia, dall’età eroica alla contemporaneità di Virgilio. Riconoscere l’esistenza di questo controllo non è tuttavia una rassicurazione, o almeno non lo è per il singolo. Se infatti si può trovare qualche consolazione nell’idea di un disegno più ampio che sta alle spalle degli avvenimenti, di una Storia che è esplicazione non di una serie casuale di fatti, ma della volontà di un dio che anticipa in qualche misura la provvidenza dei moderni, il sentire dell’individuo si concreta nell’attimo unico ed irripetibile, rispetto al quale non è consolatoria, o è troppo poco consolatoria, la fede in una dimensione lunga della giustizia. Il che significa, in altri termini, che si amplia il divario fra uomo e dio, che aumenta la probabilità da parte dell’uomo di non comprendere i fini del dio. L’uomo giudica sul suo tempo e sul suo ritmo; il dio su un proprio tempo, che è tempo lento, nel quale vengono trascesi i confini della durata umana.

    Tema molto insistito negli studi novecenteschi sull’Eneide è la scoperta, da parte del suo protagonista, dell’incapacità di dominare gli eventi, la rivelazione di un contrasto fra sé e il mondo entro il quale si vede costretto ad agire; mondo che l’uomo, quand’anche di statura eroica, si accorge di non comprendere e di non dominare, finendo per sentirsi fallimentare e solo. All’origine di ciò sta la sfiducia nel proprio destino specifico, che pure non è sfiducia nel tempo lungo della Storia. Conseguenza di una simile idea è, invece, che il discorso sul divino in Virgilio si configura come un tema che non può essere inteso quale puro gioco letterario, nella maniera in cui, a volte, si è cercato di fare. Non tento un catalogo delle numerose affermazioni formulate in proposito. Ricordo soltanto che c’è chi nel poema ha sentito un’eco della giovinezza epicurea del poeta, negando così serietà e credibilità alle figure divine; chi ha sottolineato lo stoicismo progressivamente acquisito da Virgilio,  fino a trasformare l’Eneide in una specie di manuale per il proficiens stoico; chi ha visto in Virgilio un rigido monoteista e chi ne ha evidenziato con forza il carattere di fervente e convinto politeista. Prima del volume della Lefkowitz, il saggio migliore sull’argomento era il bel volume di Denys Feeney, The Gods in Epic, del 1991, riedito in seconda edizione aggiornata nel 1993. Nel suo libro, Feeney difende la verità di comportamento degli dèi virgiliani, la loro irripetibilità di esseri dotati di un preciso carattere, una psicologia, una capacità di agire e reagire diversa da singolo a singolo. Attraverso l’analisi dell’atteggiamento di Giunone nel primo libro del poema, lo studioso sottolinea come sia proprio la serie di pensieri e di azioni della dea a dare grandezza alla sua persona. Feeney segnala anche che sarebbe stato impossibile tentare un’epica di tipo omerico senza assegnare un ruolo importante agli dèi – che potranno dunque essere simboli, ma nello stesso tempo sono, e devono essere, figure umane ben tipizzate, con una loro vita autonoma. Un po’ quello che Proust diceva di certe immagini di Giotto quali l’Invidia degli Scrovegni, simbolo e figura allegorica, ma altresì immagine di straordinario realismo, un concentrato di ciò che sono l’ira e una persona adirata. E ancora: sempre Feeney aveva già ricordato che senza dèi dotati di individualità propria non potrebbe realizzarsi quell’unione di mito e di Storia che è il vero scopo dell’Eneide. Ma per Feeney gli dèi virgiliani sono pur sempre caratteri creati dal poeta su un fondo preesistente, da lui completamente rifatto e reso elemento della letterarietà del poema, personaggi fra i personaggi e come tutti i personaggi indirizzati a uno scopo sostanzialmente narrativo. È invece possibile andare in un’altra direzione e scommettere sulla consistenza degli dèi virgiliani quali esseri dotati di un modo di pensare ‘esterno’, estraneo e indipendente da quello del poeta, soltanto entro certi limiti da lui costruito. Ciò non significa negare né il peso delle convenzioni letterarie, né che alle spalle del poeta ci sia una religione di stampo romano; Virgilio, poi, fa opera di poeta, non di filosofo o di teologo. Ma in ogni caso, per Virgilio e i suoi lettori dietro al testo poetico c’era un tema più ampio e generale – la fragilità e l’ansia di remunerazione dell’uomo – di cui gli dèi della tradizione si fanno interpreti e portatori. E questo tema è la manifestazione di un’inquietudine che non nasce in uno spazio vuoto, ma si fonda su una linea continua, sviluppatasi a partire dall’età arcaica greca; linea nel cui svolgimento Virgilio segna solo una tappa. Lungo questa strada, il poema virgiliano si segnala proprio per quello ‘sguardo lungo di Giove’, che ho già ricordato. Con Virgilio cambia il rapporto fra l’uomo e la divinità, cambio che si traduce in un diverso peso della divinità sulla storia (fabula), e di conseguenza anche sulla Storia. Non è un gioco di parole. Il Giove virgiliano è, in certa misura, bifocale. Vede bene ed estende il suo volere alla Storia lontana, all’evolversi dei secoli, ad avvenimenti che cadono fuori dal racconto e dai suoi limiti; ma sembra poco interessato all’immediato narrativo. Manda Mercurio a rendere malleabili i Cartaginesi allorché i Troiani sbarcano sulle coste libiche (1, 297-304), ma non si preoccupa di redarguire Giunone, responsabile di quel naufragio, né di quanto avverrà dopo. Sicché, quando Iarba lo costringe a rivolgere di nuovo lo sguardo alle coste africane (4, 203-218), lo vediamo ‘distratto’, intento ad altro, disperso nella concentrazione (4, 220 oculos … ad moenia torsit: dove li teneva prima?). Stesso discorso per gli avvenimenti successivi. Giove non si occupa di Didone, come non se ne preoccupano Giunone e Venere, sebbene la prima, almeno formalmente, sia la protettrice di Cartagine e della sua regina; né Giove fa alcunché per impedire o mitigare i combattimenti nel Lazio. L’effetto è sconvolgente. I lettori virgiliani – ma il discorso vale anche per i personaggi di Virgilio – vengono progressivamente a scoprire una verità che domina il caos: e cioè che gli dèi potrebbero facilmente comporre le liti che li dividono e che viceversa rovesciano e amplificano sui mortali; ma di fatto, quando prendono la decisione di riconciliarsi fra loro, lo fanno con la stessa facilità con la quale, prima, avevano litigato. Mentre pari facilità non c’è per i mortali: sicché essi ereditano colpe e litigi non propri; se ne impossessano; li ingigantiscono; li trasformano in ragione esistenziale; poi faticano a liberarsene, e in loro nome vivono, combattono, muoiono, vittime di un gioco di cui gli dèi si sono sbarazzati, ed al quale gli uomini, al contrario, non sanno sottrarsi.

    Tutto ciò comporta un rapporto con la divinità fondato in gran parte sulla distanza, che è un lascito della tragedia greca, ma un lascito che in Virgilio si ingigantisce. Parlando dello Ione (una tragedia sottovalutata di Euripide: per i suoi rapporti con l’Eneide si veda però già M. Fernandelli, ‘Banchetto a teatro e teatro a banchetto: presenze dello “Ione” di Euripide nel libro I dell’Eneide’, Orpheus n.s. 23, 2002, pp. 1-28), Lefkowitz scrive: “Il coro chiude il dramma con una riflessione sull’importanza per gli uomini di regolare le proprie attese sul tempo degli dèi … È pur vero che ai mortali spetta di avere pazienza,perché gli dèi hanno i loro tempi … Ma il dramma chiarisce pure che l’essere di per sé ‘buoni’ non potrà mai bastare ai mortali come garanzia di ottenere ciò che si è meritato”. Sostituiamo a ‘buoni’ il termine latino pii, e siamo già dalle parti dell’Eneide. Nel poema virgiliano gli uomini imparano che un comportamento irreprensibile non è una difesa. Laocoonte, sacerdote di Apollo (in Virgilio, di Nettuno), diviene vittima dell’ira divina nel momento in cui esercita le sue funzioni sacerdotali (2, 199-231). Panto, altro sacerdote di Apollo, protetto dall’infula sacrale, è il solo, oltre ad Anchise e ad Enea, che sia degno di toccare i Penati (2, 318-335 e 429-430); Rifeo è il più giusto dei Troiani, 2, 426-428 – tanto da rendere possibile la sua assunzione nel cielo di Dante, Pd. 20, 67-72. Ma né Panto né Rifeo si salvano: la pietas non basta contro il decreto che condanna tutti i Troiani, ad eccezione di pochi, diversamente selezionati. I personaggi dell’Eneide scoprono che degli dèi non ci si può fidare, nemmeno quando appaiono benevoli: essi omettono dettagli importanti (Enea, ad esempio, non viene avvertito della necessità di perdere la moglie, 2, 735-740 e 777-779, né della morte che attende il padre, 3, 710-715); si servono di chi, in teoria, dovrebbero guardare con benevolenza, come Didone e Giuturna; ingannano in vario modo. C’è una scena nella quale vediamo un dio arrivare, con le sue illazioni, perfino alla soglia della calunnia. È quanto fa Mercurio – signore della menzogna a priori, e di questo si dovrà tener conto. La scena è la seconda apparizione ad Enea, nel quarto libro, vv. 560-570. Mercurio invita Enea a fuggire precipitosamente da Cartagine, a non fidarsi della regina tradita e delusa: varium et mutabile semper / femina. E aggiunge: decisa a morire, Didone agita pensieri di morte anche per te; se indugi, all’alba vedrai il mare rilucere di fiamme e riempirsi di navi – la flotta lanciata all’inseguimento di quella troiana (4, 566-568 Iam mare turbari trabibus saevasque videbis / conlucere faces, iam fervere litora ammis, / si te his attigerit terris Aurora morantem). Ma i lettori seguono passo per passo i pensieri di Didone, il loro farsi e disfarsi. E sanno che la regina non si è proposta, fino a quel momento, una simile possibilità. Anzi, nell’ultimo soliloquio che immediatamente precede l’abbiamo vista ipotizzare ancora di potersi accompagnare ad Enea, da sola o con i più fedeli dei suoi concittadini (vv. 537-546). Sarà più tardi, dopo e non prima delle parole di Mercurio (vv. 591-594) che il pensiero di reagire farà capolino nella sua mente: Ite – dirà allora ai suoi uomini, peraltro assenti dalla scena – / ferte citi flammas, date tela, impellite remos! (per inseguire la flotta e darle fuoco). Ma subito si domanda, v. 595: Quid loquor? Aut ubi sum? Quae mentem insania mutat? e il pensiero le esce di testa – se mai si può dire che vi sia entrato.

    Possiamo continuare un poco. Gli dèi virgiliani talora si schierano senza giustificazioni: è quanto avviene con Marte, che appare, Aen. 9, 717 – lui, che pure sarà padre del fondatore di Roma! – fra le divinità alleate dei Latini. Ma gli dèi sono lontani, non conoscibili e inaffidabili anche per chi proteggono. Venere ed Enea, madre e figlio come Teti ed Achille nell’Iliade, si incontrano uno di fronte all’altra, nel poema, solamente tre volte: a Troia Venere invita Enea alla fuga e gli mostra l’ostilità in atto di tutte le altre divinità, così da convincerlo a partire (2, 589-623); però, come abbiamo visto, si dimentica di indicare al figlio il prezzo doloroso che l’attende, né gli dà indicazioni circa la destinazione e le peripezie che dovrà affrontare – cose che Enea è costretto ad apprendere da solo. Il secondo incontro avviene a Cartagine: Venere sta operando per il figlio, ma Enea non ne ha coscienza e arriva a dubitarne. Quando i due si parlano, Venere è in incognito; la maschera cade solo al momento in cui si allontana (1, 314-410). Ben diversamente, Teti nell’Iliade giungeva da Achille a consolarlo sulla riva del mare e gli appariva di persona, senza camuffamenti; mentre nel tredicesimo libro dell’Odissea Atena poteva conversare con il suo beniamino mettendo da parte il consueto apparato di inganni e di trappole al quale entrambi avevano inizialmente fatto ricorso, quasi come una seconda loro natura. Ma tra Venere e il figlio non c’è colloquio, non c’è confidenza, non c’è intimità, mai. Nel terzo incontro, anzi, la madre si limita a un frettoloso abbraccio e a poche parole per consegnare le armi promesse, e non attende nemmeno la risposta di Enea: Enea per il quale, peraltro, prima si era data non poco da fare, convincendo un esitante Vulcano a costruire le nuove armi, necessarie alla guerra (8, 608-616). Certo, questo non è che un risultato di quel mondo stilizzato tipico dell’Eneide, che poi è il mondo romano nel suo complesso, poco propenso a smancerie e gesti di affettività. Anche fra Enea e Ascanio non c’è colloquio fino alla fine del poema (12, 435-440). È però significativo che, al contrario, fra Enea e il padre troviamo ampie manifestazioni d’affetto, oltre che di rispetto, manifestazioni che l’eroe troiano invano rivendica dalla madre. Anzi, mi pare particolarmente significativo che nel poema virgiliano sia sempre Venere a imporsi al figlio; il quale, se vuole conforto e consolazione (o aiuto pratico), deve rivolgersi non alla madre, ma ai sacerdoti di Apollo, ministri umani di un culto diverso da quello familiare. Non è che Venere non si dia cura del figlio, tutt’altro: e basti ricordare l’invio delle colombe così da consentire a Enea di trovare il ramo d’oro, necessario alla discesa negli Inferi (6, 183-200), o l’intervento con il dittamo a curare l’eroe ferito poco prima del finale del poema (12, 411-429). Ma lo fa come una dea, distante e impegnata nel proprio compito; non come una madre che interviene ad aiutare e consolare il figlio, e nemmeno come una divinità che risponda dappresso all’invocazione del primo dei suoi fedeli.

    Quanto ho detto per Venere vale anche per tutti gli altri dèi virgiliani (che sono sostanzialmente quattro: oltre a Venere, Giove, Giunone e Apollo, quest’ultimo solo marginalmente presente nell’azione, e più attraverso oracoli e sacerdoti che in prima persona – dove anzi lo vediamo operare in un episodio marginale del racconto, 9, 638-663). Giove non fa nulla per rendere la vita più facile ad Enea, e questo sebbene Enea non lo abbia mai offeso personalmente. Così avviene anche per Giunone, che ad Enea fa scontare solo la colpa di essere troiano. Quanto ad Enea, lui può trovare conforto in quel futuro glorioso della sua gente che più volte gli viene pronosticato: ma di quel futuro radioso, per parte sua, non vedrà nemmeno l’inizio, né avrà tempo di gioire della vittoria: poco dopo avere sconfitto e ucciso Turno, la morte attende pure lui, come più volte viene ripetuto nel poema. Ne consegue che Enea non tragga grande piacere dalla propria esistenza e non sia sempre nemmeno consapevole di ciò che gli dèi hanno in serbo per lui. Attraverso questa contraddizione, Virgilio fa capire che cosa significhi farsi carico di una grande missione  dovendosi confrontare con l’ostilità divina e potendo contare solo occasionalmente sul sostegno di divinità favorevoli. Certo, l’eroe troiano è cosciente che senza l’aiuto degli dèi non sarebbe arrivato mai sul suolo italico, e di quell’aiuto non può  fare a meno neppure quando si tratta di stabilire il nuovo insediamento in Italia; ma quel trasferimento va contro i suoi espliciti desideri (4, 340-344), è la rassegnata obbedienza a un ordine che non lo riguarda da vicino e che non capisce nemmeno fino in fondo (4, 345-347). Così come incomprensibili restano, per lui, le lotte nel Lazio. Mai Virgilio ci fa dimenticare (o fa dimenticare al suo eroe) che la guerra è stata causata da una dea e che un accordo fra gli dèi avrebbe potuto fermarla … Anche nell’Iliade l’ira è causa di morte e dolore, ma nell’Eneide si tratta dell’ira di una divinità, perciò più potente e irragionevole perfino dell’ira del massimo fra i guerrieri Come scrive giustamente la Lefkowitz, “In quest’epoca più recente [alias, l’età di Virgilio] le forme esteriori della religione tradizionale non sono mutate, ma i poeti hanno cominciato a farcene comprendere con maggiore precisione i limiti di adeguatezza”. Compito delle generazioni successive sarà sottolineare ulteriormente i limiti di questa ‘adeguatezza’ e cercare formule sostitutive. Ma, a quel punto, la storia degli dèi greci sarà giunta alla fine.

    Due piccoli corollari vorrei ancora aggiungere a questo post: il primo consiste nel sottolineare come il quadro delineato faccia sì che Enea, come Turno, Didone e tutte le altre vittime del poema (tale si può considerare perfino Enea) siano figure in certa misura fortemente individuate, ma nel contempo siano pure figure/simbolo dell’intera umanità. Ci troviamo cioè un passo avanti in quel processo di ‘trasformazione in romanzo’ dell’epica che culminerà nelle Metamorfosi apuleiane, nelle quali non troviamo più un eroe simbolo dell’umanità in generale, come Enea, ma un uomo qualunque, Lucio, figlio di nessuna dea, eppure ugualmente protetto dalla benevolenza di Iside e innalzato agli stessi dilemmi di Achille e di Enea. Il secondo corollario è questo: ferma restando l’immagine dei rapporti fra dèi e umani in Virgilio delineata finora, è giusto aggiungere che due elementi arricchiscono, completano, ma anche complicano il quadro. Uno è il richiamo, da parte di Niso, alla dira cupido (quella che gli uomini eleggono a loro specifica divinità) a 9, 184-185, all’inizio di un episodio famoso. Di fronte al progetto di una grande impresa, Niso, parlando all’amico Eurialo, si chiede infatti: … Dine hunc ardorem mentibus addunt,/ Euryale, an sua cuique deus fit dira cupido? E di dira cupido avevano già parlato la Sibilla rivolta a Palinuro, 6, 373 (per un’azione che vorrebbe violare tutte le leggi dell’Oltretomba), e soprattutto, in termini filosofico/religiosi, Enea nel colloquio dei Campi Elisi con il padre: … Quae lucis miseris tam dira cupido? (6, 721, in riferimento alle anime purgate e desiderose di tornare a nuova vita sulla terra). L’altro elemento è costituito da una categoria intermedia di divinità, quella degli dèi minori, che furono uomini e ora sono dèi. Il divario uomo/dio è infatti rotto in almeno tre modi all’interno dell’Eneide: attraverso le similitudini, che abbassano gli dèi al rango di umani, come nel caso di Vulcano paragonato alla donnetta che si sveglia nel cuore della notte per tessere e sostentare così la propria vita, 8, 407-415, o dell’oratore che placa la folla e Nettuno che seda la tempesta, 1, 148-15. Poi ci sono le divinità indigetes, il destino che attende anche Enea dopo la sua morte, senza dimenticare figure già riconosciute ufficialmente come Fauno, Pico, Carmenta, Giuturna e soprattutto Ercole (ridotto al silenzio e al pianto nell’episodio che lo vede in azione, la morte di Pallante, 10, 464-465; ma importante controfigura di Enea e di Augusto nel libro ottavo). Proprio quest’ultimo libro dà corpo al terzo legame significativo fra mondo umano e mondo divino. Penso alla grande scena che inizia con i riti in onore del dio alla corte di Evandro, prosegue con la passeggiata di Evandro ed Enea sul sito dove sorgerà Roma, finisce con un invito esplicito ad Enea (vv. 364-365) … te quoque dignum / finge deo. Per quello che sappiamo di questa scena e delle sue valenze etiche e politiche – soprattutto politiche, per cui Enea lì è, grazie a una coincidenza di azioni e di date, sicura prefigurazione di Ottaviano di ritorno dall’Oriente – e per quello che ancora sappiamo dell’Eneide e della sua epoca di composizione, connessa a un’immagine della Storia che termina con la morte di Marcello, discendente naturale del principe, e quindi Storia che con quella morte vede rimesso in discussione il proprio sistema di valori e il proprio sguardo sul futuro, viene il sospetto che lì si nasconda il vero significato del poema. Opera legata alla tradizione, certo; però anche opera legatissima a un’attualità contemporanea, che è poi l’attualità della Roma augustea; nella quale le divinità e la mitologia servono soprattutto da modello di comportamenti e scelte che riguardano da vicino la quotidianità di chi scrive e dei suoi lettori.

    © Massimo Gioseffi, 2016