The Last of England è il titolo di un quadro famoso, opera del pittore inglese Ford Madox Brown (1821-1893). Il dipinto, un olio su tela, risale al 1855, ma alla sua lavorazione Brown attese fin dal 1852. Secondo tradizione, a ispirarlo fu la partenza per l’Australia, come immigrato in cerca di fortuna, dell’amico scultore Thomas Woolner. Nel quadro, che si conserva oggi al museo di Birmingham (ma una seconda copia è al Fitzwilliam Museum di Cambridge e un acquerello più tardo è esposto alla Tate Gallery di Londra), si vede una coppia di emigranti che, su una nave, lascia l’Inghilterra. Pare, di fatto, che si tratti del pittore stesso e di sua moglie, che avrebbero posato come modelli.
Tre elementi colpiscono subito lo spettatore: la costa inglese è sintetizzata dalle mitiche “bianche scogliere di Dover” che si intravvedono sullo sfondo come un blocco massiccio e per nulla tranquillizzante, una barriera che si erge invalicabile fra due mondi. Secondo elemento, la coppia non ha nessuno sguardo nostalgico all’indietro; non guarda cioè alla patria abbandonata, ma è piuttosto spersa in avanti, con uno sguardo che non è propositivo o speranzoso, che non sembra attendersi nulla di buono dal futuro, ma è semmai fisso e perfino un po’ truce nello scrutare l’orizzonte del nulla. Infine, come si evince dai vestiti, la coppia non è rappresentativa dell’emigrante tipo, quello che, pochi anni prima, 1849-1850,, affollava un romanzo come David Copperfield di Charles Dickens (nelle cui pagine finiscono in Australia i Micawber sempre indebitati; i Peggotty in cerca di riscatto sociale; l’ex prostituta Martha Endell, desiderosa di una nuova vita e una nuova onorabilità; e perfino il Dr. Mell, l’unico insegnante umano del convitto di Salem, costretto all’emigrazione dalla povertà della famiglia). Sia l’uomo che la donna sono complessivamente ben vestiti, e rivelano la loro appartenenza a quella middle class che l’Inghilterra aveva saputo produrre, ma non aveva, evidentemente, saputo difendere. Il vento che muove il nastro del cappello di lei non lascia nessun dubbio: il suo soffio allontana per sempre dall’ingrata patria, spirando in direzione opposta alla scogliera.
Nel 1987 The Last of England diventa il titolo di un film, irritante e provocatorio, di Derek Jarman (1942-1994). Irritante perché cerca volutamente una poetica del brutto, a cominciare dall’affidarsi a una telecamera a mano, che rende ondeggianti (e, se devo essere sincero, dopo un po’ fastidiose) tutte le immagini che lo compongono. Provocatorio perché è un durissimo atto d’accusa all’Inghilterra di Margaret Thatcher, il cui “regno”, iniziatosi nel 1979, sarebbe proseguito fino al 1990. Jarman, omosessuale dichiarato, alfiere della difesa dei diritti LGBT, all’epoca già malato di AIDS, cantore in tutti i suoi film della gaytudine, raffigura la Gran Bretagna come uno stato totalitario, che priva i cittadini della libertà e li porta a uno sfacelo fisico e morale, che a suo dire andrebbe di pari passo con il degrado economico e sociale delle città. Fra le immagini di culto, il finale, in cui un giovane nudo si stende sulla bandiera inglese, la celebre “Union Jack”, coperto poi da un soldato armato, in posa ambivalente.
Oppure, ecco un’immagine derivata dalla lunga scena in cui Tilda Swinton, attrice feticcio del regista, in abito da sposa, mima inizialmente le pose della donna del quadro di Brown, ma poi si squarcia la veste su una spiaggia degradata, con sullo sfondo non più le scogliere di Dover, ma un panorama industriale in abbandono, simbolo del contributo dato dalla Gran Bretagna alla Rivoluzione industriale, ma anche della sua rovina negli anni del thatcherismo (il film fu parzialmente girato sul set di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, del medesimo 1987, dove la stessa spiaggia raffigurava un Vietnam lacerato dalla guerra).
The Last of England mi è tornato alla mente vedendo, sulla copertina dell’ultimo numero de The Economist, la Brexit, di cui oggi si celebra il primo giorno, immaginata come un transatlantico che salpa da Londra (se ne riconoscono sullo sfondo pur irrealistico, assimilato a un fiordo norvegese, alcuni elementi-simbolo: St. Paul’s, l’obelisco di Cleopatra e la ruota del London Eye, o Millennium Wheel, unico tratto di modernità: come a dire, che altro che un gran parco giochi in tempi recenti non si è saputo produrre…). La meta della nave è incerta; il vento le soffia però contro, come si evince dal fumo della ciminiera.
Ma l’Inghilterra e la navi hanno, per il latinista, ben altra associazione. Chiudo questo post con la rappresentazione del bellissimo frontespizio del Novum Organum di Francis Bacon, 1620.
Anche lì delle navi salpano verso l’ignoto; ma ben diversi sono i simboli che le accompagnano. Le navi di Bacon, che sta fondando con la sua opera un nuovo metodo scientifico, che esalta l’esperimento diretto contro l’uso acritico delle auctoritates, varcano le colonne d’Ercole del sapere, con un atto di dichiarata audacia, ma rotta sicura. Ad accompagnarle è una frase del libro di Daniele, nella Bibbia, cap. 12 vers. 4, riportata in latino, come in latino è ancora scritta l’opera di Bacon. La frase è leggermente riadattata (nella Vulgata suona infatti: pertransibunt plurimi et multiplex erit scientia). L’intento è evidente: mettere assieme il passato, quello sano, con il presente, in vista di un futuro che da quell’unione deve nascere, mescolando in egual misura cultura classica, cultura biblica, cultura scientifica.
Multi pertransibunt & augebitur scientia. Possa il monito valere di buon augurio anche oggi!