Apriamo con l’intervento di Isabella Canetta una serie di post, che speriamo il più partecipata possibile, in merito al canone letterario in generale, al canone delle letture latine/in latino, entro e fuori dalla scuola italiana in particolare.
Durante gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso nelle università statunitensi c’è stato un dibattito acceso – noto come “the Canon Wars” – riguardante gli autori che erano allora presenti nelle cosiddette “reading lists”, cioè l’elenco di quei libri che gli studenti dovevano leggere perché ritenuti fondamentali nella formazione umanistica. La contestazione da parte degli studenti era rivolta contro un canone che privilegiava autori maschi e bianchi, e quindi ritenuto antifemminista e razzista; in seguito a ciò, molte università hanno deciso di cambiare le loro “reading lists” inserendo scrittrici ed esponenti delle minoranze etniche, e privilegiando gli autori contemporanei. In Italia ne abbiamo avuto un’eco con il saggio di Harold Bloom, The Western Canon (1995), in cui fondamentalmente il critico difende le opere classiche e canoniche, Dante e Shakespeare su tutti. Ma già tre secoli prima, la Querelle des anciens et des modernes che era scoppiata in Francia aveva messo in discussione la superiorità degli autori canonici antichi rispetto ai moderni, che non si sentivano affatto inferiori ai loro predecessori e che volevano, per così dire, aggiornare il canone tramandato da secoli con opere e autori appunto moderni.
Sebbene riflettano il multiculturalismo e il femminismo americani, le “Canon Wars” dimostrano da un lato che l’esistenza di un canone letterario è un bisogno fortemente sentito, almeno all’interno dell’istituzione scolastica; dall’altro, che questo stesso canone è considerato variabile a seconda delle epoche e delle società – come conferma la Querelle del XVII secolo. Inoltre, la presenza ancora ai nostri giorni di “reading lists” (io ne avevo di lunghissime quando frequentavo la facoltà di Lingue), che contengono autori e opere che meritano di essere letti, ci riporta assai indietro nel tempo, ai Greci – in particolar modo agli Alessandrini – e ai Romani. Sì, perché la pratica di redigere liste di autori esemplari, allora appartenenti a un determinato genere letterario e in numero fisso (3, 9, 10…), iniziò nella biblioteca di Alessandria e continuò a Roma. In questo solco possiamo mettere il Brutus di Cicerone, che delinea una storia dell’oratoria, e soprattutto il decimo libro dell’Institutio oratoria di Quintiliano, con il suo celebre excursus sugli autori da leggere e da imitare. Ed è in effetti, come si diceva, in ambito scolastico che si sente la necessità di un canone, di una “reading list”, di un elenco di autori imprescindibili per la formazione degli studenti. Ma il tipo di istruzione ha ricadute sulla cultura e sulla vita di chi l’ha ricevuta a scuola. Banalmente, poter parlare di Virgilio o Orazio, di Omero e Saffo con chi li ha studiati e li conosce ci fa sentir parte di un’élite culturale; citare paradigmi latini o greci oppure le poche frasi che a distanza di anni si ricordano è probabilmente ancora – forse, ancora per poco – simbolo di un’istruzione prestigiosa. Oggi, nelle nostre scuole, in un programma di letteratura latina si leggono gli autori che per noi sono canonici, Plauto e Catullo, Cesare e Sallustio, Cicerone, Lucrezio, Virgilio e Orazio, Ovidio, Livio, Seneca e Tacito; però vengono lasciati alla sola storia della letteratura numerosi altri autori latini, soprattutto quelli di età imperiale, come gli epici di età flavia, Giovenale e Marziale, i cosiddetti minori come Valerio Massimo o Gellio….. Per quale ragione non vengono letti e commentati? Perché sono, se non nominalmente, di fatto concretamente omessi dal canone scolastico (un nome o un titolo letti solo per un’interrogazione difficilmente verranno ricordati nella vita)? Non c’è tempo a sufficienza per studiarli tutti, ovviamente, ma è stata comunque fatta una scelta precisa di quegli autori che, secondo noi, hanno espresso al meglio, per stile, lingua e contenuto, la nostra idea di classico, quegli autori che descrivono al meglio il loro mondo e la loro civiltà, che ci sono stati tramandati nei secoli e che nello stesso tempo veicolano valori che riteniamo attuali. Il canone della letteratura latina che si conosce di prima mano (in originale o in traduzione) è fisso e fissato oramai, anche se qualche autore medievale o moderno che scrisse in latino forse potrebbe essere aggiunto.
A questo punto è possibile dare una definizione, probabilmente molto soggettiva, di canone letterario. Esso si viene a formare quando una società è giunta a un certo grado di consapevolezza di sé, è cosciente di avere un passato culturale e letterario e quindi decide di “fissarlo” in una serie di autori e opere, di studiarlo e comprenderlo (e nello stesso tempo studiare e comprendere se stessa) e infine trasmetterlo ai giovani, solitamente attraverso le istituzioni scolastiche. La scelta delle opere da inserire nel canone avviene principalmente secondo due criteri, la validità estetico-letteraria e la validità dei contenuti, cioè i precetti etici e la visione del mondo che quelle opere possono divulgare. I due criteri sono indistricabili, benché perfettamente distinguibili: non entrano nel canone, o se vi entrano prima o poi ne vengono scacciate, opere che non sono artisticamente belle, ma che contengono alti valori morali, politici, religiosi, oppure il contrario, opere che pur essendo artisticamente valide, abbiano dei contenuti ritenuti immorali. Questo porta al rapporto con l’autorità, che sia essa politica, accademica o religiosa. In un’epoca in cui vige un determinato modo di pensare saranno preferite alcune opere ad altre. Di conseguenza, il canone si presenta allo stesso tempo come qualcosa di fisso e di mutevole; cambia parzialmente se cambiano il gusto o i valori politici e religiosi. Può essere accettato, perché si condividono i valori comuni, o può essere contestato da parte di gruppi e minoranze, perché antiquato se si tratta ad esempio di giovani; perché depositario di valori considerati sbagliati se si tratta di gruppi politici o religiosi; perché considerato lesivo di una parte della società, come è successo appunto durante le Canon Wars.
Tornando al mondo antico e in particolar modo ai latini, l’excursus di Quintiliano appare paradigmatico. Nel I secolo dopo Cristo l’impero è giunto al punto di riconoscere l’importanza dell’istruzione retorica e scolastica, e così Vespasiano paga profumatamente Quintiliano per il suo insegnamento. Da qui anche la necessità di una “reading list”, cioè di un elenco ragionato di quegli autori che devono, o non devono, essere letti. Il celebre maestro di retorica si assume l’incarico di redigere tale elenco e soprattutto di lasciare in eredità un canone letterario, che la sua auctoritas rendeva inattaccabile. Nel corso della storia della letteratura latina gli autori canonici non sono sempre rimasti gli stessi: scrittori più antichi vengono sostituiti da quelli più moderni. Ad esempio, la poesia arcaica viene contestata perché ritenuta antiquata e poco raffinata dai poetae novi. Catullo prendeva a male parole i poeti che scrivevano poemi lunghi e trascuravano il labor limae. Orazio si lamentava del suo maestro Orbilio che gli faceva leggere i versi di Livio Andronico (Ep. 2.68-71 Non equidem insector delendave carmina Livi / esse reor, memini quae plagosum mihi parvo / Orbilium dictare; sed emendata videri / pulchraque et exactis minimum distantia miror), che secondo lui non erano né puri né perfetti, e giudicava torbidi quelli di Lucilio (Sat. 1.11 cum flueret lutulentum). Nonostante il giudizio avverso di Cicerone che definiva questi poeti ribelli alla tradizione cantores Euphorionis (Tusc. Disp. 3.45) – e lo stesso aggettivo novus è stato attribuito loro con accezione negativa (Or. 161), un po’ come accadde ai pittori impressionisti – la loro querelle des anciens et des modernes sembra essere stata vittoriosa: il novus Virgilio diventa lettura scolastica e dei poeti più antichi ci rimangono solo frammenti e il giudizio degli immediati successori. Ben presto si formerà un nuovo canone, che comprende i poeti innovatori e li innalza a modelli imprescindibili. Gli stessi che appaiono ancora nei programmi scolastici. Anche la prosa latina entra in un canone ben definito. Se Cicerone diventa, almeno per Quintiliano e per altri dopo di lui, il modello da imitare nello scrivere, Seneca preferisce distaccarsi da quello stile che a lui forse sembrava un po’ démodé e intende istruire la gioventù con una scrittura più immediata e scorrevole, con trattati e soprattutto lettere ben mirate al suo pubblico. Col passare dei secoli, tuttavia, entrambi sono entrati a far parte del canone letterario latino…. e ovviamente c’è chi preferisce l’uno e chi l’altro (ma i più giovani mi sembrano ancora preferire Seneca!). Altre opere latine di età imperiale hanno accresciuto il novero degli autori canonici giunti sino ai nostri giorni, con nuove forme letterarie come Petronio e Apuleio, oppure riprendendo e rinnovando l’epica e la storiografia. Un canone in divenire insomma, che è cambiato coi tempi, i gusti e le mode, da imitare o da denigrare, ma specchio di una cultura che per secoli si è fissata come modello di stile, di immagini letterarie, di valori.
© Isabella Canetta, 2018
(illustrazione di Edward Sorel, © Vanity Fair, Aprile 2015)
Cara Isabella, grazie per questo invito alla riflessione, proprio nel giusto momento dell’anno, quando cioè la riapertura delle scuole è prossima. Come sottolinei tu, l’esigenza – anche psicologica, credo – di creare un ‘canone’, una lista di letture imprescindibili, è ineliminabile; e nel canone rientrano opere in cui si ritrovano due caratteristiche: eccellenza artistico-formale e validità in relazione ai valori espressi. Si potrebbe far notare, anche a scuola, specialmente nel corso dell’ultimo anno di liceo, quando gli studenti dovrebbero ormai avere una buona panoramica delle letterature greca e Latina e, insieme, di quella italiana, che il ‘canone’ è spesso organizzato per gruppi di tre autori, dei quali il migliore è il secondo: quello centrale. Pensiamo ai tragici greci (Eschilo, Sofocle, Euripide), fra i quali Aristotele sceglie nella ‘Poetica’ di eleggere quale modello perfetto di tragedia ‘L’Edipo Re’ di Sofocle, tra l’altro, una delle poche opere di questo drammaturgo che non riportò la vittoria nelle competizioni drammatiche. E ancora, nel mondo romano, ritorna questo principio, con effetti per noi talora spiazzanti: pensiamo per esempio al ‘Canone’ di Volcacio Sedigito che assegnava la palma di miglior poeta comico a Cecilio Stazio, appartenente probabilmente alla generazione intermedia fra Plauto e Terenzio e di cui ci restano solo frammenti (fra l’altro, a Roma vi era chi, confrontando il tanto decantato ‘Plocium’ con il modello menandreo, esprimeva un giudizio assolutamente negativo su Stazio e, in generale, sulla letteratura latina nei confronti dei modelli greci). Ma anche nell’insegnamento della letteratura italiana, per semplicità di prassi, e per tradizione, molte antologie e storie letterarie ragionano ancora per triadi: le ‘Tre Corone’ del Trecento toscano, Dante, Petrarca e Boccaccio; i tre autori di epica cavalleresca (Boiardo, Ariosto, Tasso); i tre autori maggiormente rappresentativi del Romanticismo (Foscolo, Manzoni, Leopardi: e sulla definizione tour court di Leopardi come ‘romantico” ne avremmo da dire…); i tre autori-guida del Decadentismo (Carducci, Pascoli, D’annunzio). Purtroppo questo meccanismo ha un’indubbia praticità, ma elimina tanti autori bollati come ‘minori’ (senza contare un certo pesante retaggio di matrice desanctisiana nella valutazione contenutistica degli autori, a seconda del loro ‘impegno’). Ma, mi chiedo, come sarebbe allora possibile ovviare a queste semplificazioni, se la manualistica, giocoforza conservatrice, molto spesso ha quello che potremmo chiamare un certo ritardo sulle acquisizioni e posizioni della ricerca critico-letteraria? Per esempio: dopo decenni di fitti studi che hanno portato in sede critica a una rivalutazione e a una valutazione più approfondita della letteratura ed estetica di età neroniana, troviamo ancora, su alcune storie della letteratura latina ad uso liceale, la nozione di ‘latinità argentea’, senza però un’adeguata contestualizzazione dell’espressione. Il che è un bel problema che si pone al professore di latino nel triennio…
Grazie, cara Silvia, per gli spunti di riflessione che offri a tutti noi. In effetti, l’idea di triade canonica in un determinato genere letterario o in un determinato momento storico sembra ancora prevalere, almeno per quanto riguarda la scuola italiana, che forse si basa ancora troppo sulle varie storie della letteratura e ancora troppo poco sulla lettura diretta e su un commento dei testi – storie delle letterature che, come giustamente sottolinei, sono spesso arretrate rispetto al progredire degli studi.
Come hai dimostrato tu stessa in altri post (e nei tuoi studi), relegare Petronio e altri suoi contemporanei a una non ben definita “età argentea” della letteratura latina ha poco senso, come se fossero in qualche modo inferiori agli autori di una altrettanto mal definita “età aurea”. Nelle varie letture che hanno ispirato il post, mi sono imbattuta in un’idea interessante, forse da porre accanto all’idea di canone, e cioè quella di “costellazione”, elaborata da Walter Benjamin…..ma questa è un’altra storia e anche un altro post!
Una annotazione che mi è venuta in mente andandomi a rileggere parti dell’excursus sui generi letterari di Quintiliano e che mi pare interessante è questa: Quintiliano ci dà nel libro X un canone molto preciso, e, insieme, ci fornisce anche quel che potremmo definire il primo esempio di “letteratura comparata”, con la sua synkrisis fra autori greci e latini che hanno praticato uno stesso genere. Tuttavia, mi piacerebbe sottolineare un aspetto su cui, spesso, anche a scuola, si glissa un po’: in fondo, Quintiliano sta elaborando un canone letterario modellato su quello che è lo scopo da lui attribuito alla letteratura, che è molto concreto e molto pragmatico, ovvero, fornire all’oratore le competenze tecniche che gli saranno utili nel corso della sua carriera. Ora, che la letteratura “debba servire a qualcosa” non è un concetto che, almeno teoricamente, abbia molta fortuna ai nostri giorni. Noi siamo cresciuti con l’idea, mutuata dall’Estetismo e dal Decadentismo, che la letteratura, e, in generale, l’Arte, per essere sublime, alta, bella, vera, debba essere distaccata da ogni finalità rigidamente programmata, da ogni aggancio con la banale, pedestre quotidianità; perché, come diceva provocatoriamente Wilde, “Tutta l’arte è completamente inutile”. Invece, la scuola di oggi, centrata sulle “competenze” e l’apprendimento di un “saper fare” (piuttosto che un “sapere”) che sia orientato a maturare abilità spendibili nel mitico “mondo del lavoro”, in fondo, non è, in fondo e inaspettatamente, figlia dell’idea di Quintiliano?
Un saluto e a presto,
Silvia
Probabilmente sì, Quintiliano maestro di retorica scrive ad uso dei suoi studenti e di quei lettori che retori vorrebbero diventare. La scuola in fondo qualcosa di spendibile lo deve pure insegnare. Ma che cosa? E fino a che punto? In qualche modo la nostra scuola e la nostra società prediligono l’idea di “saper fare” oppure “imparare qualcosa di utile per il (mitico) mondo del lavoro”. Se si tratta di scienza o di lingue (moderne ovviamente), anche di più. Allora, a che serve studiare letteratura? Io ho espresso le mie idee in due precedenti post, ma altri la pensano diversamente… l’importante è discutere. Anche sulla questione se l’excursus di Quintiliano sia canone come diciamo tu ed io o repertorio come sostiene Massimo Gioseffi (i post rimbalzano tra loro). Per ora ci devo riflettere…. nella speranza che uno studioso di canoni o di retorica antica o proprio di Quintiliano esprima anch’egli un’opinione.