Making sense of pollsters’ errors.

An analysis of the 2014 second-order European election predictions

Pollsters have been recently accused of delivering poor electoral predictions. Maybe this allegation is not entirely correct, as Will Jennings and Cristopher Wlezien argue in a quantitative analysis published in Nature Human Behavior. Yet some substantial and politically important blunders are undeniable, and, for commentators and the public at large, it is irrelevant if those errors are outliers or indicative of a deteriorating quality of pollsters’ work. Can we learn something from those errors, and make sense of them using well-established theories of electoral behaviour? This is the question that we have addressed in a recent article that will be published in the Journal of Elections, Public Opinion & Parties. Our answer is largely affirmative.

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Predicting electoral results is not a straightforward process that simply requires computing frequencies from standard questions. A series of corrections, adjustments and use of post-stratification weights, developed and fine-tuned through several rounds of elections, are needed in order to produce plausible guesses in regard to actual voting behaviours. These improvements have been guided not only by sound statistical know-how but also by the conscious application of deep understanding of the electoral process. In a word, by ‘theory’. We argue that, due to the swift transformations of political systems, and the recent periods of social unrest, we have failed to update this deep knowledge of our changing environment, thus producing less efficient corrections and, ultimately, less precise predictions.

We test this idea of the need for a theory-driven tuning of pollsters’ analyses by checking all the predictions made for the 2014 European election in the 28 EU member states. In that event, the theory of second-order election argues that incumbent parties should lose ground, especially if in the middle of the electoral cycle, while small, new and Eurosceptic parties should succeed in the ballot. If pollsters had failed to include this election-specific knowledge, then they would have had overestimated the former parties and underestimated the latter. Using several measures of the accuracy of those party predictions, our analysis confirms this expectation. Making (theoretical) sense of those errors is reassuring for political science, since it reflects the need for a disciplined and systematic investigation of social dynamics. Yet it is also a challenge, especially if the unparalleled turbulent times in which we live continuously shake the consolidated knowledge of those same dynamics.

Dataset and codebook

PD – Italia 2018. L’economia non basta. O forse sì.

Ancora un voto economico?

L’economia va bene, eppure il principale partito di governo – il Partito Democratico di Letta, Renzi e Gentiloni – perde sonoramente alle urne. L’elezione italiana del 2018 sembra essere un caso lampante di falsificazione di una ipotesi assai diffusa in scienza politica, quella sostenuta dalla cosiddetta teoria del voto economico. Questa afferma infatti che gli elettori valutino retrospettivamente l’operato dell’esecutivo sulla base dell’andamento dell’economia e, a seconda del loro giudizio, premino o puniscano il partito alla sua guida. I risultati del 4 marzo, in cui il PD ha perso oltre il 10% dei consensi dell’elettorato nonostante il confortante andamento dei principali indicatori macroeconomici, contraddicono palesemente queste aspettative. Diversi commentatori argomentavano già prima delle elezioni che “la ripresa economica non sarebbe stata decisiva per il voto”.

Vi sono diverse ragioni per cui le cose non sarebbero andate come previsto dalla teoria. Le percezioni pubbliche possono essere disallineate, o semplicemente in ritardo, rispetto al reale andamento degli indicatori macroeconomici. La competizione elettorale è stata giocata su temi diversi da quelli economici, in primis il tema della sicurezza e dell’immigrazione. Il governo non è stato capace di evidenziare quanto realizzato, risultando stretto da una parte dalla frammentazione dell’elettorato del centro-sinistra, e dall’altra dalla sfiducia diffusa nell’establishment politico di cui hanno beneficiato soprattutto i suoi avversari politici o l’astensionismo. Non è dunque importato che l’economia fosse faticosamente in ripresa, perché la sfida elettorale non ha lasciato alcuno spazio per queste tematiche.

È realmente così? Davvero l’andamento dell’economia non ha avuto alcuna influenza sull’esito di questo appuntamento elettorale? Proviamo a mettere alla prova questa ipotesi confrontando su base regionale la sconfitta del Partito Democratico rapportata al tasso di disoccupazione registrato dall’Istat nel terzo trimestre del 2017. Se l’economia non avesse giocato alcun ruolo, le due grandezze non dovrebbero mostrare alcuna relazione. Viceversa, se nell’elezione italiana del 2018, nonostante tutte le avvertenze del caso, valesse ancora la teoria del voto economico, dovremmo rilevare che là dove la disoccupazione è maggiore dovrebbe registrarsi anche la più cocente sconfitta del principale partito di governo. I grafici riportati (clicca per vederli meglio) sembrano confermare questa seconda congettura.

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Nel primo grafico la sconfitta del PD è misurata come differenza tra le percentuali di voti ricevuti alla Camera nel 2018 e nel 2013. Risulta evidente che il PD ha perso di più nelle zone del Paese in cui la disoccupazione è più elevata e l’economia stenta maggiormente (interessante è anche notare il – e riflettere sul – posizionamento di outliers come Piemonte ed Emilia-Romagna, che tuttavia si riavvicinano alla retta di regressione nel secondo grafico). Ad ogni 5% in più di persone alla ricerca di un lavoro corrisponde una riduzione dei consensi pari a quasi un punto percentuale.

Nel secondo, giusto per valutare la robustezza del risultato, la sconfitta è misurata come riduzione relativa, e cioè come rapporto tra i consensi nelle due elezioni. Per ogni 5% di disoccupazione in più, nel 2018 il PD ha perso più di un ventesimo dei consensi che aveva nel 2013. La varianza spiegata è del 12% per la prima semplice regressione bivariata, e del 44% per la seconda. Per entrambi gli indicatori è evidente che il PD ha perso di più nelle zone del Paese in cui la disoccupazione è più elevata e l’economia stenta maggiormente.

Non è importante il fatto che i fattori economici non siano stati al centro del dibattito politico, o che le percezioni attorno al suo andamento fossero sfuocate. Il cattivo stato dell’economia non solo spinge e plasma direttamente i comportamenti di voto, ma è anche in grado di aprire lo spazio necessario affinché altri temi – l’insicurezza, la paura per l’immigrazione, la contestazione anti-establishment – facciano presa sull’elettorato. Esso costituisce il terreno su cui la disaffezione politica può attecchire, fungendo così da catalizzatore e moltiplicatore per svariate altre tensioni.

Rimane da spiegare perché il PD non abbia avuto successo nemmeno nelle zone del Paese con più bassa disoccupazione, benché siano quelle in cui ha mediamente perso di meno. Ebbene, se è vero che l’economia è in fase di ripresa, non va tuttavia dimenticato che la nostra disoccupazione è pur sempre la terza più elevata nell’Unione Europea, superata solo da Spagna e Grecia, e che la nostra crescita è tuttora inferiore al valore medio UE. Sono questi i nostri riferimenti, il metro di misura della salute della nostra economia. Guardando a questi termini di paragone, e comparando le prestazioni regionali interne, è impossibile ritenere che l’economia non abbia influenzato i comportamenti di voto degli italiani, punendo in misura proporzionale il Partito Democratico, e altrettanto proporzionalmente favorendo i suoi più evidenti oppositori.

(Una versione del post è apparsa su “Corriere della Sera Economia 12 Marzo 2018“)

It’s the economy, stupid

It’s the economy, stupid. Votare in tempo di crisi

La crisi economica ha messo a dura prova la sopravvivenza dei governi nella maggior parte delle democrazie avanzate. Essa ha inoltre contribuito all’allontanamento dei cittadini dai processi di rappresentanza, alimentando la delegittimazione dei partiti tradizionali e favorendo la radicalizzazione della competizione politica così come il successo di nuove formazioni prive di un vero progetto politico. Le teorie del voto economico hanno da tempo documentato come i comportamenti elettorali siano influenzati dall’andamento dell’economia. Tuttavia, diversamente dagli effetti prodotti dai normali alti e bassi dei mercati, la Grande Recessione rischia di lasciare una pesante eredità ai regimi democratici, erodendo il funzionamento e la fiducia nel principale meccanismo della rappresentanza politica in modi che l’attuale ripresa fatica a mitigare.

Introduzione
1. La teoria del voto economico
2. La Grande Recessione
3. Gli effetti della crisi: disoccupazione e scelte di voto
4. Decomporre il voto economico
5. Voto economico e oltre: tre analisi within-case
6. Italia 2013: un voto retrospettivo sul governo tecnico
7. Spagna 2015: economia e corruzione nel voto retrospettivo
8. Germania 2013: il voto retrospettivo quando l’economia funziona
9. Conclusioni. Votare in tempo di crisi