Materiali di lavoro per un corso di commento alla Ricerche Filosofiche di Wittgenstein tenuto nell'anno 1975. I  testi numerati da I a VI si possono ritirare riuniti nell'unicoi file PDF intitolato "Commenti a Wittgenstein"
Data di immissione in questo archivio: dicembre 2002

Giovanni Piana,Commenti a Wittgenstein (pp. 131, Kb. 950)

 

 


 

V.


Quando dico «io»

(Ric. Fil., oss. 398-465)


 

V.1 - Sull'anima

Una bella sintesi della tematica di Wittgenstein sui comportamenti potrebbe anche essere la seguente:

«Quando si vede il comportamento di un essere vivente si vede la sua anima» (oss. 357).

Nelle oss. 398-425 ancora dell’anima si tratta. O se volete della coscienza, dell’identità personale, della soggettività. E ritroviamo anche qui, come nelle osservazioni sul comportamento, quella caratteristica oscillazione che ci farebbe pensare, se leggessimo queste pagine senza preparazione alcuna, che si sostengano tesi contrapposte.

Per un verso ci può sembrare che la nozione di soggettività sia dissolta secondo uno stile empiristico; per un altro, l’obbiettivo contro cui rivolgere le proprie critiche sembra essere proprio questa dissoluzione.

Si può parlare di dissoluzione empiristica della nozione di soggettività quando, in un modo o nell’altro, si giunge ad una tesi che potrebbe essere formulata così: la nozione di io non rinvia ad una sorta di nucleo sostanziale, ma indica niente altro che un aggregato di fatti osservabili. Che si tratti di fatti chiamati psichici o di comportamenti può essere relativamente irrilevante. Rilevante è anzitutto l’eliminabilità di principio della nozione, la sua riduzione a complessi fattuali. Alla soggettività non spetta un qualche particolare privilegio rispetto ad altre aggregazioni empiriche.

A questa dissoluzione empiristica si potrà eventualmente contrapporre una concezione che punta sull’irriducibilità della nozione di soggettività. Se descriviamo la soggettività come un aggregato di fatti, ci rimettiamo probabilmente qualcosa di importante e decisivo per la nozione stessa. Vi sono molti modi di sostenere questa irriducibilità, ma per amor dell’argomento e delle schematizzazioni potremmo contrapporre alla dissoluzione empiristica della soggettività, la sua ipostatizzazione idealistica. E potremmo considerare quest’ultima come una concezione che invece accentua ed esaspera l’idea della soggettività come nucleo sostanziale, estremizzando la sua distanza dall’empiria.

Come stanno le cose in Wittgenstein?

Va da sé che verranno bandite considerazioni di ordine introspettivo. Un’analisi filosofica comincia quando troviamo problematico ciò che finora rappresentava qualcosa di interamente ovvio. Finora il dire «io» non era fonte di preoccupazioni. Invece, riflettendo sulla cosa, questa paroletta finisce con il presentarsi ricca di problemi. Ne diamo di solito per scontato per il senso. Ma alla fine possiamo chiederci che cosa sono «io stesso». A questa domanda tuttavia non tenteremo di rispondere sprofondando in un tentativo di autosservazione per scorgere che cosa accade dentro di noi quando diciamo «io».

Wittgenstein immagina, volgendola al grottesco, la situazione di chi si dispone in un simile atteggiamento. «Ho guardato fissamente davanti a me, ma non verso un punto o un oggetto determinati. I miei occhi erano ben spalancati... il mio sguardo era assente...» (oss. 412).

Quanto poi a ciò che si coglie in questo stralunato sguardo interiore, ciascuno potrà indicare le cose più singolari. Secondo W. James, ad esempio, l’io consiste «in peculiari movimenti nella testa o tra la testa e la gola» (oss. 413). Certo, Wittgenstein opera uno svisamento di ciò che intende dire James. In effetti James vuol dire che l’introspezione non ci conduce a quell’io spirituale, a quel nucleo egologico che abbiamo la sensazione di «possedere», ma solo a certi fatti corporei o semicorporei. Ma la citazione di Wittgenstein resta comunque appropriata se non altro per indicare quante cose strane si potrebbero proporre come descrizioni di ciò che si coglie introspettivamente.

Scartato questo modo di procedere, si considera se la nozione di soggettività non si risolva in un complesso di processi cerebrali. Si può considerare questa tesi come una variante della dissoluzione empiristica. E Wittgenstein sembra prendere rispetto ad essa una posizione nettamente critica. Ciò che è in questione, beninteso, non è il fatto che ci siano o non ci siano processi cerebrali. Si tratta piuttosto di evitare una confusioni di piani. Un conto è affermare che vi sono processi cerebrali ed un altro è l’idea di una sorta di indistinzione tra processi cerebrali e atti di coscienza. Wittgenstein osserva come suoni strano avere un certo ricordo e dire a se stessi: «questo deve essere un processo cerebrale». Evidentemente questo effetto di stranezza sorge nella confusione tra un piano in cui è certamente lecito parlare di processi cerebrali ed un piano soggettivo-interno. Io credo che quando egli parla del «senso di incolmabilità dell’abisso tra coscienza e processo cerebrale» (oss. 412) non intende sostenere che vi è un abisso incolmabile tra coscienza e processo cerebrale e nemmeno che un simile abisso non c’è. Semplicemente, il problema è mal posto.

Queste osservazioni suggeriscono dunque un atteggiamento critico nei confronti di una possibile dissoluzione empiristica. Ma le cose non sono così semplici.

Le complicazioni vengono proposte a partire da una riflessione della nozione di «campo visivo», intendendo con ciò che io vedo qui ed ora - quindi ad esempio la mia stanza, secondo l’angolatura imposta dal punto di vista da cui la guardo. Potremmo allora osservare che la nozione di campo visivo presuppone quella dell’io che lo afferra - e che esso in certo modo appartiene a quell’io nel senso più stretto possibile del termine. Questo potrebbe essere un modo di introdurre la nozione di soggettività come una nozione costitutiva dell’esperienza stessa.

Non è improbabile che Wittgenstein pensi qui ad una posizione del tipo di quella di Husserl o proprio a quella.

Secondo Husserl la nozione di soggettività viene acquisita attraverso ciò che egli chiama riduzione fenomenologica. Data per scontata la critica anti-introspezionistica che in Husserl si presenta come critica dello psicologismo in genere, è necessario effettuare una distinzione di principio tra stanza in sé, la stanza intesa come parte oggettiva di un edificio, e stanza visiva, il fenomeno della stanza. In questa riconduzione della stanza al fenomeno dovremo ammettere o postulare un soggetto al quale la stanza appare. La soggettività non si presenta qui né come un’ovvietà quotidiana, né come un possibile reperto dell’introspezione. Compare piuttosto come un postulato dell’esperienza fenomenologicamente ridotta.

Wittgenstein critica questo modo di approccio al problema. Non è qui il caso di valutare se questa critica risulti convincente ed in primo luogo se sia possibile esercitare una critica su una teoria straordinariamente ricca come quella husserliana considerandola in una sua contrazione ai minimi termini - come viene fatto qui. Occorre soltanto segnalare che la discussione di Wittgenstein è tutta giocata su una metafora che egli stesso usa per indicare il riferimento soggettivo. La stanza visiva mi appartiene, anzi appartiene solo a me, io sono il suo proprietario. Per quel tanto o poco che ormai conosciamo dello stile di Wittgenstein, si comprenderà subito che la parola «proprietario» utilizzata così - in rapporto al campo visivo - è destinata a rappresentare il punto di scatenamento di varianti destinate ad agitare il problema.

Anzitutto la questione della proprietà potrebbe non sorgere nemmeno, oppure quando sorge? Quando ha senso per me dire che la casa in cui vivo non mi appartiene, ma della casa che vedo in quanto la vedo sono sicuramente il proprietario, ed addirittura l’unico? La casa «visiva» è poi forse qualcosa di simile ad una casa raffigurata in un dipinto. Ma ha senso chiedersi chi sia il proprietario di una casa rappresentata in un dipinto e proprio in quanto tale?

«Immagina un quadro raffigurante un paesaggio immaginario, e in esso una casa - e immagina che qualcuno chieda: ’A chi appartiene quella casa?’ La risposta potrebbe essere d’altronde: ’Al contadino che è seduto sulla panca lì davanti’. Ma allora egli non può, ad esempio, entrare nella sua casa» (oss. 398)

Strane domande e strane risposta - come sempre. Al margine di sofismi: domande che barano giocando con giochi linguistici differenti: esse vanno intese a mio avviso per mostrare i diversi versanti di un problema e quindi una sua possibile duttilità. Per un verso puoi dire che la stanza visiva ha un proprietario - ma altrettanto legittimamente potresti dire che non lo ha oppure che il problema è privo di senso.

Così possiamo dire: «Io ho questa rappresentazione» (oss. 402) - ma è importante stabilire che cosa voglia dire questo «io ho». In fondo, osserva Wittgenstein, si tratta di un segno per gli altri, come se io li volessi mettere sull’avviso di qualcosa. Questa espressione «avere rappresentazioni» che sembra per così dire ripiegata in interiore homine viene da Wittgenstein rivoltata verso l’esterno. Si afferma anche qui la tendenza che abbiamo visto in opera anche altrove: l’orientamento verso l’espressione linguistica induce a riportare il problema - foss’anche quello del flusso di coscienza di James e Husserl - ad un contesto intersoggettivo.

Consideriamo ora finalmente l’impiego della parola «io». È difficile contestare l’ovvietà che essa serve per denominare quella particolare persona che sono appunto io stesso. Eppure Wittgenstein sembra contestarlo, e non solo in un senso a sua volta ovvio. «Io» infatti non è un nome e perciò non denomina alcunché. «’Io’ non denomina nessuna persona, ’qui’, nessun luogo, ’questo’ non è un nome. Ma stanno in relazione con i nomi. I nomi vengono spiegati per mezzo loro» (oss. 410).

Ma Wittgenstein va oltre questa accettabilissima annotazione. Nell’oss. 404 egli tenta di giustificare la tesi che quando dico «io provo dolore» non so affatto chi prova dolore. Il paradosso è costruito sulla parola «sapere» e sui contesti di impiego di quella frase. Se sapere significa essere o venire informati allora è certo che se dico «io provo dolore», non intendo dare un’informazione a me stesso. Ma si può dubitare anche che si voglia dare un’informazione ad altri, quasi che la frase in questione lo stesso senso che «Qui c’è qualcuno che prova dolore e questi sono proprio io». La frase stessa può del resto essere soppressa e sostituita da un gemito ed allora «non denomino nessuno» -«anche se dai gemiti, l’altro vede chi prova dolore».

Ecco alcune belle variazioni sul tema:

«Si potrebbe immaginare che un tale, gemendo dicesse: ’Qualcuno soffre - non so chi!’ - al che la gente corresse ad aiutare lui, quello che geme» (oss. 407).

«Ma quando dici ’io provo dolore’ è chiaro che vuoi attirare l’attenzione degli altri su una persona particolare’. - La risposta potrebbe essere: No, voglio attirarla soltanto su di me.» (oss. 405)?

E tuttavia dicendo io, si vuol certo distinguere tra me ed un altro! Ciò può anche accadere («il colpevole sono io» (non lui)). Ma accade sempre così? (oss. 406).

Anche la parola «io» come ogni altra ha un molteplicità di impieghi e i problemi che si propongono debbono essere considerati relativamente ad essi. Impostando le cose in questi termini sembra che abbia ben poco senso tentare una sorta di caratterizzazione generale dell’uso del termine facendo riferimento al rapporto designativo. Ciò non significa, comunque, che la parola io sia un «flatus vocis». O comunque non lo sarebbe più di qualunque altra - ed avrebbe una funzione. Le parole sono emissioni sonore e sono come tali strumenti che svolgono funzioni ben determinate dentro i giochi linguistici. Il problema della contrapposizione tra dissoluzione empiristica e ipostatizzazione idealistica perde così di interesse.

È sicuro comunque che la versione moderna - logico-empiristica - della nozione di soggettività viene criticata esplicitamente. Questa versione potrebbe essere formulata così: le proposizioni che contengono espressioni soggettive e in particolare la parola «io» possono essere riformulate in modo tale che questa parola non vi compaia. Una simile riformulazione mettere a nudo la «forma logica» della proposizione in modo tale da mostrare che la parola «io» appartiene alla grammatica superficiale della lingua e non alla sua dimensione profonda. Ecco dunque che «Da qualche parte c’è mal di denti» direbbe tanto - e molto meglio - di quanto dice «io ho mal di denti». Quella strana frase potrebbe poi ricevere le determinazioni oggettive del caso, potrebbe essere precisata con parametri capaci di individuare con esattezza il luogo spazio-temporale in cui accade quell’evento. Questa è schietta parodia. Ed io credo che là dove si immagina un tale che gemendo dice «Qualcuno soffre - non so chi» (oss. 407), ci si muova proprio all’interno di questa parodia. D’altra parte anche quando ci si rifiuta di accettare l’equivalenza tra una persona particolare e «io stesso» si difende una funzione autonoma e specifica della parola, e di conseguenza la nozione di soggettività che sembra volatilizzarsi fuori del linguaggio, resta invece duramente appresa ad esso.

Lo stesso nel caso della coscienza o dell’anima.

La parola «coscienza» forse potrebbe essere usata solo nelle enfasi della filosofia. Oppure può avere usi pratici del tutto aproblematici come quando si dice, dopo essere svenuti, di aver ripreso coscienza (oss. 416). Ma coscienza ed anima possono anche immagini del linguaggio, un suo «sogno» - con il quale in ogni caso si vuol cogliere qualcosa.

Così si fa notare come cambino le cose qualora si rinunci a «proiettare questa immagine - ad es. qualora vedendo dei bambini giocare dicessi a me stesso: ’essi in realtà non hanno un’anima’». Può essere che queste parole restino del tutto insignificanti, cioè non facciano presa. Ma può essere anche che l’intera scena muti la sua atmosfera. Si risveglierà in te «una specie di sentimento sinistro, o qualcosa del genere» (oss. 420).

Dunque è importante credere che nell’uomo ci sia un’anima? È evidentemente importante. Il crederlo e il non crederlo - ad esempio, nel caso dei bambini che giocano - non lascia le cose come stanno. Il vero problema è stabilire a che cosa si crede quando si crede che nell’uomo ci sia un’anima. Perché l’anima è in ogni caso un’immagine (oss. 422).

 


 

V.2 - La vitalità dei segni

I nostri giochi linguistici sono anzitutto attraversati da una rete di rapporti significanti. I comportamenti sono complessi «gestuali» (non semplici movimenti). Saremmo tentati di dire - benché questa formulazione non si trovi in Wittgenstein - che l’espressività è la situazione primitiva. Da questa poi possiamo eventualmente prescindere. Il problema che avevamo intravisto fin dall’inizio - quel baluginare dell’automa dietro l’uomo e dell’uomo dietro l’automa (si rammenti il gioco del fruttivendolo e quello del muratore) viene via via determinandosi sempre meglio. Le nostre riflessioni non possono pretendere di decentrarsi, cioè non possono pretendere fin dall’inizio di desituarsi rispetto al nostro mondo che è un mondo di uomini viventi. L’espressione di «uomo vivente» ricompare più volte in queste osservazioni con la funzione di richiamare l’attenzione su un centro di riferimento primario. L’uomo vivente - e non eventualmente un’astratta soggettività filosofica: l’uomo come socialità concreta, che si esprime con gli altri gestualmente e linguisticamente. Lo stesso richiamo al linguaggio ordinario ha naturalmente a che vedere con questa centralità. Anzitutto parliamo proprio questo linguaggio e il problema del linguaggio va proposto a partire di qui.

La critica al punto di vista introspezionistico, e più in generale la critica al «coscienzialismo» libera il terreno da una facile retorica e ci consente, d’altra parte, di parlare della vita interiore senza presupposti filosofici troppo forti.

Ma la frase «quando si vede il comportamento di un essere vivente si vede la sua anima» (oss. 357) ci consente di affermare che l’espressività va considerata come una situazione primitiva. Quindi il gesto (come movimento-espressione) precede il puro movimento. Non vi è movimento che diventa gesto, ma eventualmente gesto che si impoverisce sino al movimento. Se così non fosse ogni situazione di apprendimento rappresenterebbe per noi un enigma insolubile. I movimenti che noi effettuiamo nell’insegnamento ostensivo debbono essere anzitutto appresi come gesti. E come gesti rinviano oltre se stessi, istituiscono rapporti e connessioni significative.

Un ordine può essere trasmesso mediante gesti (oss. 433), ed io comincio a comprenderlo cogliendo la portata gestuale del movimento di alzare un braccio. Sarebbe una cattiva descrizione fenomenologica (si sarebbe tentati di dire) della situazione affermare che prima viene colto il movimento come neutro rispetto ad un significato possibile e poi all’improvviso il movimento si anima «gestualmente».

In questo senso vi sono manifestazioni di vita spirituale. E quando abbiamo cominciato a vederle, le vediamo dappertutto. Ad esempio, avvertiamo la presenza di un’attività spirituale nell’attività di misurare un tavolo con un metro. Come può questa cosa, il metro, effettuare la misurazione? Esso è una cosa morta. Come fa questo pezzo di legno a diventare un metro? In sé e per sé esso non può diventarlo. Il metro «non riesce a far nulla di ciò che fa il pensiero» (oss. 430).

Il linguaggio stesso fornisce un esempio eccellente: «Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? Nell’uso, esso vive. Ha in sé l’alito vitale? O l’uso è il suo respiro? " (oss. 432).

Qualcosa "vive» solo nel contesto dei giochi linguistici, ed in essi le cose non valgono mai per se stesse, ma rinviano ad altro entrando a far parte di complessi di senso.

Prendiamo l’esempio della freccia «® » :« Non sembra che, oltre se stessa, porti in sé qualcosa? - No, non il morto segno; solo lo psichico, il significato può farlo» (oss. 454).

La freccia in se stessa può indicare tanto poco quanto il metro può misurare. Se indica, allora in essa gli è stata per così dire «soffiata la vita». Ma che cosa significa ciò? Forse l’uomo ha la possibilità di compiere stregonerie? In realtà l’uso dell’immagine non ci obbliga a creare miti. Ciò che si vuol mettere in rilievo è che «la freccia indica soltanto nell’applicazione che l’essere vivente ne fa» (oss. 454).

Il passaggio dalla freccia come cosa morta alla freccia come segno di rinvio è dovuto ad una modificazione dell’intendere. In questa modificazione la cosa è cambiata. Se si chiedesse come ciò divenga possibile, dovremmo interrogarci sulla struttura degli «atti di coscienza» - dovremo entrare nel regno vero e proprio di una fenomenologia dell’esperienza. Né «atto di coscienza» né «fenomenologia dell’esperienza» sono espressioni che si trovano in Wittgenstein. Nella sua indagine tuttavia il problema è chiaramente posto e di esso vi è anche qualche sviluppo significativo, anche se non interamente dispiegato. Ed è in ogni caso molto interessante richiamare l’attenzione su questi cenni, proprio per la particolarità del filo conduttore e del modo di approccio.

 


 

V.3 - Il vuoto e il pieno

Nelle oss. 437-465 il problema che viene colto e posto al centro della riflessione è la caratteristica di insaturazione degli atti di coscienza. Questa caratteristica richiama l’immagine del vuoto e del pieno, ad esempio di un cilindro vuoto e di un cilindro pieno che è in grado di riempirlo: quindi di qualcosa di non adempiuto e che è destinato ad adempiersi, di qualcosa di soddisfatto e che deve soddisfarsi.

Prendiamo il caso del desiderio. La cosa desiderata è fuori dal desiderio nella misura in cui il desiderio non è ancora realizzato; ed è all’interno di esso in quanto si tratta dell’oggetto del desiderio in quanto tale.

Wittgenstein ribadisce in vari modi che questa dinamica vuoto-pieno fa parte della struttura degli atti e non è una sorta di connotazione psicologica che ci avverte, quasi come una sensazione o un sentimento di insoddisfazione, che l’atto è inconcluso. Un conto è dire che se mangio una mela soddisfo la fame e un altro è dire che mangiando la mela si calma il senso di insoddisfazione che eventualmente accompagna la fame (oss. 440).

Considerazioni analoghe si possono svolgere per l’attesa. L’attesa è insoddisfatta non perché io abbia un sentimento di insoddisfazione durante l’attesa, ma perché ciò che è atteso non si è ancora realizzato. L’oggetto dell’attesa è dunque fuori e dentro di essa. (oss. 438).

Il rapporto con la realizzazione può generare qualche difficoltà interpretativa.

Non è difficile immaginare una situazione in cui ci si aspetta una detonazione ed al suo realizzarsi commentiamo: «La detonazione non è stata così forte come me la ero aspettata» (oss. 442). Si potrebbe allora pensare che nell’attesa ci sia una vera e propria prefigurazione della detonazione: come se la detonazione fosse pensata come già avvenuta, come una «ombra» che prende corpo nella detonazione reale (sono ancora i modi di pensare di origine empiristica che qui vengono presi di mira). Se le cose stessero così avrebbe senso osservare: «Dunque nella tua aspettazione la detonazione è stata più forte» - mentre una simile osservazione non avrebbe senso. Nell’attesa di una detonazione non c’è nessuna detonazione, nemmeno una prefigurazine di essa, una sua debole «idea». Attendere la venuta di un amico è qualcosa di diverso dal prefigurarsi questa venuta, e potremmo attendere un amico senza per questo immaginarci alcunché su che cosa potrebbe accadere nell’incontro.

Naturalmente posso anche dire, dopo la detonazione, che essa non è stata così forte come mi sarei aspettato, ma ciò può essere spiegato senza ricorrere alla rappresentazione mentale di una detonazione di una determinata intensità incorporata nell’attesa. Nell’attesa sono attivi sensi di contesto, che eventualmente rimandano ad esperienze precedenti oppure alla configurazione attuale della situazione, e sono questi sensi che sono in grado di rendere conto di quel tipo di reazione.

È interessante notare che problemi paralleli possono sorgere in rapporto alle proposizioni. Se dico «Sulla terrazza vi è un ibisco fiorito» possiamo considerare questa proposizione come una sorta di rispecchiamento linguistico di uno stato di cose. Ma possiamo anche considerare quella proposizione anzitutto come una «unità di significato» che può essere riempita dalla percezione corrispondente dell’ibisco fiorito sulla terrazza. L’atto percettivo è qui il cilindro pieno che riempie il cilindro vuoto rappresentato dalla proposizione considerata nel suo senso. Questo è anche il problema da cui prende le mosse Husserl a partire dalle Ricerche logiche. La proposizione è «intenzione significante» - la percezione corrispondente il suo riempimento.

Tutta una serie di interrogativi sorgono poi in rapporto ai «riempimenti mancati» - un problema che si presenta in varie forme per i desideri e per le attese così come per gli ordini che possono essere eseguiti o non eseguiti ed ancora per le proposizioni che possono essere vere e false (oss. 448).

Su questi riempimenti mancati, o su conferme di assenze, ecc. Wittgenstein riprende la costruzione dei suoi magistrali paradossi.

«Se dico ’non ho alcun dolore al braccio’ questo vuol dire che ho un’ombra della sensazione di dolore che accenna per così dire al posto in cui il dolore dovrebbe sopraggiungere?» (oss. 448).

L’ordine «comanda ciò che verrà eseguito più tardi»? Oppure dobbiamo dire che «l’ordine anticipa ciò che verrà eseguito o anche non eseguito più tardi»? (oss. 461).

E se cerco qualcosa, all’interno dell’atto della ricerca essa c’è; e se non la trovo? «Deve pur esserci, se la cerco...» (oss. 462).

Non è ora il caso di seguire Wittgenstein in queste circonvoluzioni - lo è invece comprenderne il senso generale: «Ciò che mi propongo di insegnare è: passare da un nonsenso occulto ad un nonsenso palese» (oss. 464) - ovvero: mostrare il nonsenso là dove c’è. Così l’intendere l’anticipazione come un quasi-riempimento significa misconoscere il carattere dinamico dell’atto, e di qui possono avere origine nonsensi occulti che i nostri paradossi rendono palesi. Se l’oggetto del desiderio viene concepito come una quasi-cosa che sta dentro il desiderio, la tensione che caratterizza l’atto del desiderare viene del tutto meno. Desideri, ordini, direzioni, attese, proposizioni, ecc. debbono essere concepiti come direzioni - l’oggetto a cui si riferiscono sussiste in essi solo come poli di una direzione.

«E qui voglio proprio dire: l’aspettazione è insoddisfatta perché è l’aspettazione di qualche cosa; la credenza, l’opinione è insoddisfatta perché è l’opinione che qualche cosa accada, qualcosa di reale, qualcosa che è al di fuori del processo dell’opinare» (oss. 438)

«Sì, l’intendere (meinen) è come se ci si dirigesse verso qualcuno» (oss. 457).

Molti e molti anni prima delle Ricerche Filosofiche, ma anche molti e molti anni prima del Tractatus, Husserl con la sua idea di oggetto intenzionale e di intenzionalità aveva sostenuto, esattamente la stessa idea, portandola ad un’imponente elaborazione. Ciò che in ogni caso piace in questo nuovo approccio è la sua immediatezza, la sua capacità di proporsi con un’esemplificazione incisiva ed efficace, la sua apparente mancanza di riferimenti alla tradizione filosofica - cosa che talvolta non è solo un difetto, ma anche un pregio.