Materiali di lavoro per un corso di commento alla Ricerche Filosofiche di Wittgenstein tenuto nell'anno 1975. I  testi numerati da I a VI si possono ritirare riuniti nell'unico file PDF intitolato "Commenti a Wittgenstein"
Data di immissione in questo archivio: dicembre 2002

Giovanni Piana,Commenti a Wittgenstein (pp. 131, Kb. 950)

 

 

 


 

III

Strani processi

(Ric. Fil., oss. 143-219)

 


 

II.1 - Comprendere la legge di una successione

Vi è in Wittgenstein una ripugnanza per i grandi problemi. Ogni Problema con la P maiuscola tende ad essere ridimensionato, ed io credo che lo stesso fatto di proporre ogni discussione come discussione «grammaticale» - secondo il suo particolare concetto di grammatica filosofica - abbia anche il senso di un ridimensionamento. Ma in Wittgenstein ciò non conduce affatto ad un indebolimento o ad un appiattimento della densità e della ricchezza interna della questione discussa (come accade invece assai spesso ai wittgensteiniani).

Nell’oss. 143 si propone un gioco linguistico che si svolge tra due attori, A e B. A intende insegnare a B «certe successioni di segni secondo una determinata legge di formazione (Bildungsgesetz)». A è il maestro; B l’alunno.

Ecco qualche esempio di ciò che si deve insegnare:

2, 4, 6, 8...

1, 3, 5, 7...

1, 2, 3, 4...

1, 5, 11, 19... (cfr. oss. 151).

Si tratta di serie, almeno così le giudichiamo subito a prima vista (a parte l’ultima sulla quale esitiamo perplessi) a cui presiede una certa legge di formazione. Occorre richiamare anche l’attenzione che in queste considerazioni teniamo presente il significato aritmetico dei segni, e così ad esempio in rapporto alla prima serie diciamo senz’altro che dato il numero iniziale 2, ogni elemento della serie risulta dal precedente mediante l’addizione di 2.

Il problema del calcolo, così presente nel Tractatus, è lontano dall’essere dimenticato nelle Ricerche Filosofiche, ed anzi serpeggia ovunque. In questo caso esso si ripresenta in una analisi della grammatica filosofica della parola «comprendere», con l’intento di effettuare una separazione: «Tutto ciò può apparire nella sua giusta luce solo quando si sia raggiunta una maggiore chiarezza riguardo i concetti del comprendere, dell’intendere e del pensare. Perché allora diventerà anche chiaro che cosa ci possa erroneamente indurre a pensare (come è successo a me) che chi pronuncia una proposizione e la intende o la comprende sta eseguendo un calcolo secondo regole ben definite» (oss. 81).

Veniamo ora a qualche dettaglio: da una successione esibita nei suoi primi passi, si deve arrivare a comprendere la legge di formazione. Così A scriverà prima i termini della serie e chiederà a B di copiarli; o addirittura terrà la mano di B nell’operazione di copiatura. Ma poi B deve continuare da solo. Il problema è appunto che B comprenda che si tratta dell’inizio di una serie che va continuata e che va continuata nello stesso modo. Di tutto ciò noi siamo osservatori «esterni». Dunque che B comprenda significa soltanto che egli si comporti esattamente come richiediamo, cioè che vi sia l’atto del proseguire la serie correttamente. Del comprendere come attività intellettuale potremmo anche non saperne nulla.

Si tratta di una finzione non certo nuova, che qui come altrove, nelle Ricerche filosofiche, serve ad agitare le acque in modo da suscitare domande e interrogativi apparentemente singolari. Quando, a partire dai comportamenti di B, posso dire che egli ha compreso o non ha compreso la legge di formazione della successione? Ad esempio, B prosegue la successione «a casaccio». Oppure commette qui e là degli «errori». Situazioni in realtà piuttosto diverse. Se le deviazioni sono poco frequenti, saremmo propensi appunto a parlare di «errori», ma in tal caso forse si è compresa l’esistenza di una regola, anche se la si applica malamente. La situazione è ancora più imbarazzante se l’errore, in luogo di intervenire irregolarmente, è un errore sistematico. I nostri commenti potrebbero in proposito essere svariati. Forse B ha compreso la regola, e in certo senso ci gioca dentro producendo una successione che può essere interpretata come una trasposizione secondo una nuova regola della successione organizzata secondo la vecchia regola. La comprensione della vecchia regola sembra essere un requisito per l’applicazione della nuova.

Supponiamo ora che lo scolaro scriva la successione in modo per noi soddisfacente. Ciò significa che ha «compreso» la legge di formazione? Questo passaggio non è ovvio per il fatto che ancora una volta ci limitiamo ad accertare un comportamento. Inoltre la successione è infinita - e quel che propriamente accertiamo è che fino ad un certo punto la successione viene scritta correttamente (oss. 145). Ma che cosa ci garantisce che al numero 1000 non avvenga una «svolta»? Vi è un punto in cui possiamo decidere senz’altro che B ha capito la legge di formazione?

Ma forse è tempo di obiettare: un conto è la comprensione di una legge, un altro è la sua applicazione (oss. 146). Una volta posta questa distinzione, Wittgenstein si adopra tuttavia per mostrare i modi equivoci in cui essa può essere intesa. La comprensione sembra prospettarsi - in opposizione all’applicazione di cui possiamo vedere dall’esterno il risultato - una disposizione ad applicare correttamente la regola. In ciò vi è qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato. Sembra giusto sottolineare che la parola «sapere» è strettamente imparentata alla grammatica delle parole «potere» ed «essere in grado», ma anche alla parola «comprendere». Nel gioco linguistico in cui diciamo che B ha compreso (o sa, conosce) qualcosa (il significato di una parola, la legge di formazione di una successione...) questo comprendere si deve risolvere nel fatto che mostra di saper fare qualcosa. Sorgono dubbi invece se si intende questa disposizione come uno stato psichico o come dipendente da uno stato psichico. Il «sapere l’alfabeto» è forse uno stato psichico particolare, eventualmente qualcosa che sarebbe sempre presente in modo inconsapevole dentro di noi per poter essere riattualizzato in ogni momento?

Con queste ed altre considerazioni ed esemplificazioni, appare chiarissima l’intenzione da parte di Wittgenstein di contestare un approccio psicologizzante al problema. Se chiamiamo stati psichici (seelische Zustände) il dolore o la tristezza, ci si rende subito conto che i modi con cui parliamo di essi non sono compatibili con i modi in cui parliamo della comprensione (oss. 151). Ad es. ha senso chiedere:« Quando è cessato il tuo dolore?», mentre la domanda «Quando hai cessato di comprendere la parola?» è insensata. Noi diciamo di comprendere la parola «tavolo», ma non sembra aver senso parlare di una comprensione ininterrotta del suo significato, mentre possiamo dire «Soffre da ieri, ininterrottamente» (ivi). In linea generale per gli «stati psichici» sono possibili connotazioni temporali che risultano invece inapplicabili a «sapere» e «comprendere».

La critica di un approccio introspettivo non si fa attendere. Si dànno anche casi di comprensione improvvisa: B guarda A che sviluppa una successione e improvvisamente dice: «Adesso lo so!» - ovvero: «Adesso so continuare la successione da me».

Potremmo allora chiedere che cosa è accaduto nella sua testa quando ha detto «adesso» - esattamente in quel momento, potremmo invitarlo a raccontarci che cosa avveniva prima e che cosa è avvenuto nel momento in cui una luce gli si è aperta nel cervello. Ora, qualunque risposta egli ci dia, essa ci offrirà certamente poca o nessuna informazione sulla natura del comprendere. Le risposte più indicative sono del resto quelle che hanno un contenuto informativo nullo: ho riconosciuto la regola di questa successione, in quel punto ho avuto la sensazione che l’enigma fosse risolto, ho avuto una impressione che potrei esprimere con le parole «Ma questo è facile»; mi sono accorto che avrei saputo continuare la successione. Oppure, in uno sforzo di analisi introspettiva: quando ho detto «adesso» ho avuto una sensazione simile a quella che si prova trattenendo un poco il fiato, come quando si prova un leggero spavento (oss. 151).

Simili descrizioni non hanno niente a che vedere con il comprendere. Potremmo dire che questi sono processi psichici che accompagnano il processo del comprendere (oss. 152). Ma dobbiamo evitare il pericolo che si cerchi il comprendere al di sotto o al di dietro di questi processi concomitanti. In generale il comprendere non deve essere inteso come un processo psichico, come una «esperienza vissuta» (Erlebnis, nel senso psicologizzante che questo termine ha in Wittgenstein) - altrimenti esso si potrà apparire per sempre come uno strano processo. («L’impiego non chiarito della parola viene interpretato come l’espressione di uno strano processo» - oss. 196)

Con ciò diciamo che cosa il comprendere non è. Ma ciò non ci impegna forse anche a dire che cosa esso sia? In realtà dovremmo rispondere: il comprendere è... il comprendere. Tutte le spiegazioni intendono qui al più evitare dei fraintendimenti, e mostrano esemplificativamente delle differenze. Un conto è essere triste ed un altro sapere giocare a scacchi. La determinazione positiva la si deve cercare attraverso queste determinazioni negative. E ciò non è affatto né sorprendente né deve deludere la nostra ansia filosofica di andare sempre oltre alla ricerca di spiegazioni. «Ora finalmente hai capito?» - dice il maestro allo scolaro. E questi dovrà rispondere si o no, e non ad esempio: «E come faccio a capire se ho capito?». Come se gli dovesse essere spiegato che cosa significhi capire e indicato un criterio affinché possa prendere una decisione.

 


 

III.2 -Additare oltre l'esempio

Nella situazione esemplificativa della successione e della legge di formazione ci sono anche altre suggestioni, di qui prendono sviluppo altri percorsi. L’accento può cambiare di posto, con uno di quei caratteristici trapassi silenziosi che rendono spesso controverso l’oggetto stesso di ciò che è in discussione. Nelle oss. 179-180 si ribadisce che si può affermare che B ha compreso la struttura della successione nella misura in cui la continua effettivamente in modo corretto. Tuttavia non ci impegniamo affatto su ipotesi che concernono le attività intellettuali, qualunque cosa si intenda con questa espressione. Le parole «Adesso ho compreso la regola» significano: «Adesso so andare avanti nella successione» e questa frase non è qualcosa di simile alla «descrizione di uno stato d’animo» (oss. 180). A queste parole segue un’azione - la successione viene effettivamente proseguita in un determinato modo, e ciò rappresenta un criterio di senso per quella frase.

Naturalmente, con un po’ di inventiva non è difficile complicare le cose rendendo problematico anche quel criterio.

B, ad esempio, dopo aver proseguito la serie per un buon tratto, ad un certo punto si interrompe bruscamente. Non sa più come fare. Ha dimenticato ciò che aveva compreso? Oppure non aveva mai veramente compreso alcunché?

Di fronte a ciò non sembra si possa far altro che assumere il criterio con una certa elasticità. Se accettiamo il poter fare come criterio, dobbiamo anche tener conto del fatto che il poter fare si presenta in una varietà di situazioni differenti.

«Puoi sollevare questo peso?» - qualcuno mi dice. Ed io rispondo affermativamente. Alla prova dei fatti tuttavia non ci riesco, oppure dopo averlo sollevato lo lascio cadere improvvisamente a terra. Prima ero certo di poterlo sollevare. In che senso ne ero certo? Qual era la natura di questa certezza?

Così può accadere che voglia ricordarmi di una melodia. E... «adesso la ricordo!», cosicché la canto tutta intera. Che cosa è accaduto quando ho detto: adesso la ricordo? La melodia era di fronte ai miei occhi della mente come se vedessi lo spartito stesso e la leggessi di lì? (oss. 184).

Strane domande a cui si potrebbe essere tentati di rispondere descrivendo strani processi: quei processi che mi sembra di poter cogliere guardando dentro me stesso quando sono certo di sollevare un peso oppure quando affermo di ricordare la melodia. Ancora esempi di critica dell’introspezione, dunque.

Ma nel corso di questa critica il centro di gravità tende a mutare. Sempre più l’attenzione è presa proprio dal rapporto tra la successione e la legge di formazione. Vi è in questo rapporto una circostanza inappariscente, apparentemente ovvia: la legge è una formula finita, una sorta di schema che rinvia tuttavia ad una successione infinita di oggetti. In certo senso la legge contiene una volta per tutte ed in un colpo solo ciò che invece deve necessariamente dispiegarsi via via, in una reiterata applicazione della regola. La regola effettua per così dire una «previsione» su tutti i casi particolari che sono costruiti in conformità ad essa.

Tutto ciò non sembra a Wittgenstein affatto ovvio - e lo mostra con una sorta di manipolazione immaginativa il cui senso è necessario rendere il più possibile chiaro.

La sequenza sia 2, 4, 6, 8... il cui schema è (2,n, n+2). L’alunno prosegue così fino a 1000. Ed a questo numero fa seguire 1004, 1008...

«Gli diciamo:

- Guarda cosa fai!

Non ci comprende. Diciamo:

- Dovevi aggiungere sempre due; guarda come hai incominciato la successione!

Risponde:

- Si. Ma non è giusto? Pensavo di dover fare così,

Oppure supponi che dica, indicando la successione:

- Eppure ho continuato nella stessa maniera!

Non ci servirebbe nulla il replicare

- Ma non vedi dunque...?

e ripetergli le vecchie spiegazioni e i vecchi esempi». (oss. 185).

Questo è un vero e proprio un piccolo pezzo di teatro inventato per insegnare qualcosa. Ma che cosa? Qual è la sua morale?

A tutta prima questa morale non è affatto chiara. Sembra che, in parte, ci troviamo ancora sul terreno del problema del fraintendimento - cosicché potremmo riproporre le considerazioni compiute a suo tempo. Ma l’attenzione è puntata altrove. Intanto si vuol certamente puntare il dito sul modo in cui sono contenuti nello schema operativo i singoli passi. Quando proponiamo lo schema intendiamo un certo modo di procedere. Ma intendiamo anche che a 1000 deve seguire 1002? Forse il maestro a questo caso particolare non aveva pensato affatto.

Naturalmente A può ben irritarsi di fronte alle domande di B. Proponendo lo schema intendeva che anche a 1000 dovesse seguire 1002. Questo lo si sapeva già. Lo si sapeva sulla base dello schema. Lo si sapeva nel senso che se allora B «mi avesse chiesto che numero avrebbe dovuto scrivere dopo 1000 avrei certamente risposto 1002» (oss. 187).

Qui giungiamo al nodo della questione (oss. 188). Quando proponiamo lo schema, ci rappresentiamo la serie in certo modo come già compiuta, come già realizzata: «Per parlare propriamente i passaggi sono già compiuti».

Ma in che senso lo sono? Potremmo dire: idealmente. Quella successione c’è già nel momento in cui ho proposto la legge di formazione. Che poi essa venga di fatto realizzata o meno, ciò è assai poco importante. Il percorso è già interamente tracciato. Ma proprio in questo modo di concepire le cose sta, secondo Wittgenstein, l’errore. Egli sembra voglia intersecare ed anche far scontrare tra loro due piani che in realtà debbono essere tenuti chiaramente distinti. Un conto è il nostro comportamento di fronte alla legge (e qui può accadere di tutto), un conto è la legge in sé. Se l’intenzione di Wittgenstein fosse quella di togliere di mezzo questa distinzione, avremmo buone ragioni per dichiarare il nostro dissenso. È più probabile invece che ci si trovi in presenza di una forzatura metodica. Il dire: «Per parlare propriamente i passaggi sono già compiuti» evoca una concezione platonistica alla quale può ben essere contrapposto una sorta di rozzo empirismo. In una concezione platonistica ciò che importa sono le possibilità a priori. Contro di ciò diamo importanza a ciò che fattualmente accade, quindi alla nostra «natura psichica» ed ai comportamenti conseguenti. Sembrerebbe quasi che la possibilità a priori debba misurarsi con i dati di fatto della sua realizzazione. In questo spirito grezzamente empiristico si dice anche che può essere decisivo per determinare il modo in cui una formula viene intesa l’addestramento e l’educazione (oss. 189).

Ma è certamente inaccettabile pretendere di giocare in modo così rozzo l’ «abitudine» contro la «struttura». Ed io credo che queste formulazioni vengano proposte da Witttgenstein per mettere in evidenza un diverso problema. Ciò che è erroneo è il congelamento delle possibilità a priori come possibilità realizzate. Si tratta invece di concepire in modo diverso quella predeterminazione ideale. Nella legge di formazione non si circoscrive, nemmeno idealmente, il risultato di un processo, ma un processo proseguibile all’infinito. Idealità e predeterminazione debbono essere sempre concepiti in termini di possibilità aperte, di processi possibili.

La chiave di questo problema si trova un poco oltre, quando si osserva che espressioni come «e così via» oppure «ecc.» così come gli eventuali puntini di sospensione possono essere usate in due modi (oss. 208). Dobbiamo distinguere quando si tratta di abbreviazioni e quando non lo sono. Questa differenza risulta chiara se pensiamo ad un gruppo di persone in una stanza. Diciamo ad es. che nella stanza c’erano Pietro, Paolo, Giuseppe ecc. In luogo di «ecc.» potrei dare l’elenco completo, cosicché «ecc.» è qui soltanto un’abbreviazione. Si noti poi in margine che in assenza di un elenco completo, non è possibile aggiungere nuovi nomi. In una successione aritmetica del tipo «2, 4, 6 ecc..», l’eccetera non abbrevia proprio nulla perché non è possibile fornire un elenco in luogo di esso. Nella concezione che abbiamo chiamato platonistica è sottintesa una concezione erronea dell’infinito. L’infinità non è vista come apertura infinita di un processo, ma come chiusura di un processo infinito nel suoi risultati. L’infinità interna alla legge di formazione è un’infinità puramente intesa e non un’infinità data, e ciò anche se ci muoviamo su un terreno ideale. Ciò che caratterizza l’insegnamento ostensivo di una serie mediante l’esibizione dei suoi termini iniziali (perché di questo si tratta), è il fatto che si «addita oltre» gli esempi. «Un insegnamento che intenda arrestarsi all’esibizione di esempi si differenzia da un insegnamento che ’additi oltre’ l’esempio (hinausweisen)» (oss. 208).

In questa direzione è orientato anche il modo in cui Wittgenstein discute l’analogia tra la legge di formazione e l’idea della macchina. In effetti la legge di formazione è qualcosa di simile ad una macchina, o almeno può essere considerata come immagine o simbolo di una macchina. Non appena la macchina viene posta in movimento, vengono prodotti gli elementi successivi della serie. Nella legge viene «simboleggiato» un movimento, un modo di funzionare (oss. 193). Possiamo così ripetere in una nuova chiave le nostre considerazioni precedenti: «Conoscendo la macchina, sembra che tutto il resto, cioè i movimenti che essa farà, siano già completamente predeterminati» (oss. 193). Possiamo anche pensare, piuttosto che ad una macchina reale, al suo disegno - al disegno di un meccanismo dal quale è già possibile afferrare le sue possibilità di movimento. Abbiamo tra le mani il disegno ed i suoi movimenti ci possono apparire già presenti: «Tendiamo a paragonare i movimenti futuri della macchina, nella loro determinatezza, a oggetti che stanno in un cassetto e che ora tiriamo fuori» (oss. 193) - esattamente come in precedenza avremmo potuto paragonare i numeri della serie come già tutti acquisiti e riposti in un cassetto.

Da questa nuova analogia si chiariscono anche meglio i nostri dubbi anteriori. Si tratta di distinguere tra movimento e possibilità di movimento. Noi diremmo più precisamente tra possibilità a priori e possibilità empirica (Wittgenstein peraltro non usa questa terminologia).

Guardando lo schema della macchina potremmo valutare che un certo movimento è possibile. Questa possibilità è tutta interna allo schema, al modello. Ma nel modello non compaiono sbarre di ferro, ruote dentate reali, perni e boccole, ma solo una loro simbolizzazione incorporea. In questo senso la possibilità è una possibilità simbolica (ideale). E dunque non possiamo essere veramente certi che se realizzassimo la macchina del progetto allora potrà realizzarsi anche quel movimento. La concretizzazione dell’immagine non lascia le cose come stanno. Le linee assumono uno spessore, le sbarre, le ruote dentate e tutto il resto hanno un peso, sono fatte di materiali con determinate proprietà fisiche. Tutto ciò aggiunge delle condizioni fisiche alla possibilità del movimento, condizioni che potremo conoscere solo empiricamente, cioè attraverso l’esperienza. Tra boccola e perno deve esserci un certo gioco altrimenti il movimento si inceppa, vi è poi l’attrito...

Quando parliamo di possibilità di movimento possiamo intendere l’una o l’altra cosa, ovvero le condizioni che rendono possibile il movimento nel modello, oppure le condizioni che lo rendono possibile nella realtà. Il parlare di movimenti già effettuati, di movimenti già presenti nel modello sembra a Wittgenstein un modo tendenzialmente erroneo di presentare questa distinzione. Eppure c’è ancora qualcosa che non ci convince pienamente. In fin dei conti il disegno di una macchina viene normalmente realizzato con lo scopo di arrivare alla sua realizzazione fisica. Mentre così non stanno le cose per lo schema che presenta la legge di formazione di una serie. Il rapporto con la realizzazione ha una inclinazione diversa. Inoltre nell’analogia con la macchina, come viene concepita qui, manca il tratto forse più caratteristico della «legge di formazione» - e cioè la produzione di una infinità possibile di oggetti. Ciononostante l’intento critico di Wittgenstein risulta alla fine piuttosto chiaro: l’errore sta nell’intendere i passi idealmente possibili di un processo in entità ideali, che formano nel loro insieme una totalità compiuta.

Attraverso successivi spostamenti ci imbattiamo così in un altro degli obbiettivi critico-polemici di Wittgenstein.

Se tracciamo una linea sulla lavagna, riferendoci ad essa parlando di una retta, ci rappresentiamo le cose come se si trattasse di una sorta di «tratto visibile di un binario che si prolunga invisibilmente all’infinito» (oss. 218), esattamente come nel caso dell’inizio delle serie aritmetiche seguito da puntini di sospensione.Anche la retta dovrebbe perciò essere intesa come l’applicazione iterata di una regola. Se nell’insegnamento ostensivo comincio a tracciare una linea additando oltre l’esempio nella forma dell’«e così via» ho esibito, così facendo una regola: la linea dovrà essere continuata nello stesso modo. Analogamente una figura come la seguente:

può essere intesa come una figura attraverso cui «additiamo oltre» - e dunque come immagine della regola che sta alla base della suacostruzione. Figura e regola si possono scambiare le parti: «in luogo della regola potremmo rappresentarci binari. Ed all’applicazione illimitata della regola corrispondono binari infinitamente lunghi» (oss. 218). Questo scambio è reso possibile da un’oggettivazione «platonistica». «I passi sono già tutti compiuti» (oss. 219). Contro questa oggettivazione sono dirette le considerazioni di Wittgenstein - ma non nel senso in cui si debba vietare questa possibilità. Un simile divieto sarebbe estraneo, io credo, allo spirito della filosofia di Wittgenstein. Ciò che viene rivendicato è invece che deve essere mantenuta la consapevolezza di ciò che sta alle spalle dell’oggettivazione - l’oggetto non deve essere separato dall’origine che lo ha posto in essere.