Testo redatto nell'anno 1976. 
Data di immissione in questo archivio: 2000

Giovanni Piana, Wittgenstein lettore di Frazer(pp. 12 - KB 87)


 

Giovanni Piana

Wittgenstein lettore di Frazer

 

 

maschera africana

 

Nel 1967, la rivista «Synthese» (n.17, pp. 233-263) pubblicava, a cura di Rush Rhees, appunti ed osservazioni di Wittgenstein sul Ramo d’oro di Frazer: in tutto e per tutto una ventina di pagine che raccolgono in parte annotazioni risalenti al 1931 destinate ad essere utilizzate in un contesto più ampio, in parte commenti a citazioni stesi, probabilmente del 1948, su foglietti sparsi che Wittgenstein intendeva inserire nella copia del volume in suo possesso [1].

Nonostante il loro carattere frammentario e occasionale, a queste annotazioni si può riconoscere qualcosa di più che un valore puramente documentario: sulla loro base si può infatti districare uno sviluppo di discorso relativamente organico ed articolato, ricco di numerosi spunti interessanti.

Il loro motivo conduttore è rappresentato da una critica di principio nei confronti di Frazer, critica che peraltro si presenta oggi, se considerata in se stessa, abbastanza ovvia.

«Frazer sarebbe capace di credere che un selvaggio muoia per errore». «Frazer è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi... Le sue spiegazioni delle usanze primitive sono molto più rozze del senso di quelle usanze stesse». (p. 28) ; «...quale incapacità di comprendere una vita diversa da quella inglese del suo tempo!» (p. 23).

Tutto ciò è acqua passata. A maggior ragione è necessario orientare il lettore, piuttosto che sugli aspetti esterni della critica, sul suo movimento e sulle sue motivazioni interne. In essa deve essere colta quell’angolazione che rinvia ad un preciso atteggiamento filosofico. D’altra parte, non va perso di vista il fatto che la stessa curiosità di Wittgenstein nei confronti dell’opera e della sua tematica appare direttamente suggerita da quella sorta di «invenzione antropologica» che troviamo così spesso in azione nella sua riflessione filosofica come un vero e proprio modo di argomentare finalizzato agli scopi analitici più vari e che Wittgenstein stesso teorizzava esplicitamente come un utile artificio metodico: «Egli soleva dire che il cosiddetto ’metodo antropologico’ si era dimostrato particolarmente fruttuoso in filosofia: ossia il metodo che consiste nell’ immaginare ’una tribù nella quale ci si comporta in questo modo...’» (R. Rhees, in L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni, Adelphi, Milano 1967, p. 43). Tenendo conto di ciò, la stessa critica nei confronti di Frazer si presenta come l’indice di una tematica positiva, con consistenti implicazioni di ordine generale, di cui questi appunti contengono forse qualcosa di più di un semplice cenno.

Vogliamo passarne in rassegna la problematica. La tesi avanzata fin dall’inizio è che possiamo parlare di errore solo laddove vi siano opinioni, credenze, teorie. Ed inoltre: non ogni comportamento presuppone la posizione di un’opinione, né è lecito supporla in esso per renderne ragione. Le pratiche magiche descritte da Frazer sono anzitutto esempi di comportamenti ed il modo in cui esse vengono spiegate mostra con cruciale evidenza le conseguenze di questa equivoca intersezione di piani.

Dobbiamo considerare la magia come pseudoscienza, secondo quanto sostiene Frazer? Allora la magia cadrà comunque sotto il titolo della conoscenza ed essa sarà tanto vicina alla scienza (e tanto lontana da essa) proprio perché nella magia si esprime una conoscenza falsa della natura. L’intera vita «selvaggia» sarà una vita nell’errore. E la spiegazione dei comportamenti di cui essa consiste dovrà invariabilmente tentare di rendere esplicite le opinioni che si suppongono celate in essi. Quelle opinioni debbono rendere conto di quei comportamenti: questi non sono altro che la loro coerente applicazione. |7|

Il primo attacco di Wittgenstein concerne questo atteggiamento di principio: «Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose degli uomini è insoddisfacente perché le fa apparire come errori» (p. 17). L’interesse nei confronti delle pratiche magiche sta in primo luogo nel fatto che presentano un materiale esemplificativo estremo. Si può errare fino a questo punto? La cosa, giustamente, ci sorprende.

Dunque, il selvaggio crede veramente che per uccidere il nemico basti trafiggerne l’immagine? Che il re della pioggia abbia la pioggia in suo potere? Oppure che il sole sorga perché gli si fanno sacrifici?

Se l’azione di trafiggere l’immagine del nemico viene considerata come l’applicazione coerente di una credenza implicita che il nemico venga in questo modo realmente ucciso, se dunque si ritiene che condizione di questo comportamento sia una teoria che conferisce all’immagine lo stesso statuto ontologico, la stessa forza d’essere di ciò che essa raffigura, come mai lo stesso selvaggio che talora si comporta così, talaltra intaglia a regola d’arte le sue frecce e costruisce una vera capanna? (p. 22) Perché si reca dal re della pioggia all’approssimarsi della stagione delle piogge? (p. 33) Perché compie all’alba le cerimonie per il sorgere del sole e di notte, molto semplicemente, accende un lume? (p. 34)

Evidentemente, certe importanti distinzioni che sappiamo fare noi, le sa fare, anzi, le deve saper fare anche lui. Di fronte all’immagine di una vita immersa in un universo di credenze erronee, Wittgenstein sottolinea in primo luogo che vi è un impatto primitivo con la natura e che in questo impatto essa non può mostrarsi al selvaggio in altro modo se non come essa si mostra a tutti gli uomini, in tutta la sua durezza. La stessa possibilità della sopravvivenza è connessa al soddisfacimento di condizioni conoscitive minime, e queste chiamano in causa l’esperienza quotidiana della natura e le conoscenze abituali in essa ben fondate.

Perciò potremmo arrivare a dire che «... se mettessero per iscritto la loro conoscenza della natura, essa non si distinguerebbe in modo fondamentale dalla nostra». Wittgenstein aggiunge: «Solo la loro magia è diversa» (p. 37).

Ma evidentemente non si tratta di asserire che, in un modo o nell’altro, anche noi abbiamo la nostra magia. Le pratiche magiche vengono in questione essenzialmente per la loro evidenza esemplificativa. Sullo sfondo vi è il problema dei modi di agire, dei comportamenti in genere ed in particolare di quei comportamenti che ripropongono gli stessi interrogativi, gli stessi problemi, o problemi strettamente affini.

Quando si è adirati, può accadere che si percuota un albero con un bastone (p. 34). Oppure: l’innamorato bacia talvolta il ritratto dell’amata o il suo nome (p. 21). «Se un uomo nella nostra (o nella mia) società ride troppo, io stringo quasi inconsapevolmente le labbra, come se con ciò credessi di poter tenere unite le sue» (p. 37).

In casi come questi, l’andare alla ricerca di opinioni soggiacenti al gesto ci apparirebbe certamente assurdo. Ma allora ci deve apparire assurdo questo stesso atteggiamento nei confronti delle pratiche magiche e religiose in genere. Non vi è dubbio che in esse false opinioni e false credenze possano svolgere un ruolo; non vi è dubbio, dunque, che vi siano veramente la superstizione e l’ipocrisia. Ma ciò non toglie il problema di identificare in quelle pratiche la componente cerimoniale. Occorre anzitutto fissare il concetto di azione rituale (p. 26), bisogna chiarire la sua irriducibilità alla credenza superstiziosa, per determinare poi in che modo essa possa essere adeguatamente caratterizzata.

Si apre così la via verso un’elaborazione positiva del problema: considerazioni di ordine linguistico forniscono ad essa una sorta di mediazione.

Le poche ed efficaci annotazioni volte in questa direzione diventano tanto più ricche di significato se pensiamo, piuttosto che alla concezione «liberalizzata» del secondo Wittgenstein, alla rigida concezione del linguaggio teorizzata nel Tractatus.

In breve potremmo dire: ora siamo disposti a prendere in seria considerazione l’uso simbolico-espressivo del linguaggio0 Ad esempio: le parole «la maestà della morte» rendono manifesto un peculiare modo di sentire un fatto. Il fatto si arricchisce qui di un «senso» che non è insito in esso, di una portata che lo trascende. Ma proprio questo arricchimento non potevano essere tollerati nel quadro dell’atteggiamento intellettuale del Tractatus. Alla Sachlichkeit ovunque dominante corrisponde la sublimazione di ogni senso trascendente: i fatti sono quello che sono e tutto ciò che emerge rispetto ad essi confluisce e rifluisce nella zona buia e inarticolata del silenzio mistico.

Se ora siamo disposti a prendere in considerazione gli usi simbolico-espressivi delle parole, ciò non significa che ci muoviamo sulla linea di sviluppo dell’iniziale misticismo teorico, ma al contrario che sono venute meno le istanze sublimanti che conducevano ad esso. In fin dei conti, recuperiamo le dimensioni dei modi di sentire, nella loro molteplicità, nelle loro particolarità, nelle loro articolazioni. |19|

L’esempio fornito dalle parole «la maestà della morte» viene richiamato da Wittgenstein discutendo il destino tragico del sacerdote di Nemi. La stessa descrizione dell’usanza ci colpisce: «... qui avviene qualcosa di strano e di terribile» (p. 19). E «se al racconto del re-sacerdote di Nemi si affianca l’espressione ’la maestà della morte’ si vede che sono una cosa sola. La vita del re-sacerdote presenta ciò che quella espressione intende» (p. 20).

Dunque, ciò che è peculiare all’azione rituale è ciò che essa ha in comune con il linguaggio nel suo uso simbolico-espressivo: cosicché si apre un nuovo spazio di indagine che investe il piano del linguaggio e nello stesso tempo quello del comportamento. Ammettiamo che i fatti possano essere sotto la nostra presa nei modi più vari, che essi possano essere arricchiti da queste strutture di riferimento. E quel che più importa: tutto ciò non rinvia più ad un imperscrutabile «senso della vita», ma si presenta esplicitamente come una tematica che esige di essere sottoposta ad una chiarificazione sistematica.

Sarebbe, io credo, materialmente erroneo ritenere che Wittgenstein si avvii a sostenere una sorta di autonomia del sacro o, in modo equivalente, si accinga alla difesa della specificità del linguaggio religioso. Se mai la linea di tendenza è quella di operarne la riconduzione all’interno della problematica generale della vita emotiva, con l’intento di vederci chiaro in essa. Ad una invocazione religiosa possiamo anche sottrarre lo sfondo di credenze che pesano su di essa: ciò che resta è ancora una invocazione (cfr. p. 17 e pp. 27-28). D’altra parte, lo stesso termine di «azione rituale» dovrà essere inteso in un’accezione abbastanza ampia da comprendere ogni gesto simbolico-espressivo, si tratti dell’atto di levarsi il cappello come saluto o di battere un pugno sul tavolo quando si è adirati. Vogliamo evitare un uso tanto ampio del termine? Bene. Ribadiremo in ogni caso che «tutti i riti sono di questa specie» (p. 34).

Occorrerà perciò non fraintendere formulazioni che, prese in se stesse, possono prestarsi ad equivoci, come quando Wittgenstein osserva che l’affermazione «in parte sbagliata, in parte assurda» secondo cui «l’uomo è un animale cerimoniale» «contiene anche qualcosa di giusto» (p. 26). Ed anche i riferimenti alla vita emotiva, che sembrano in alcuni casi tendere ad un’unilaterale riduzione emozionalistica, non debbono essere intesi come se l’intera questione si risolvesse nella solita rivendicazione delle buone ragioni del sentimento.

Il problema è in effetti un altro: si tratta di avviare concretamente un’indagine sui comportamenti in genere che non si imbatta da un lato o dall’altro, o da entrambi, in questa o quella colonna d’Ercole. Di ogni comportamento che abbia interesse per la sua tipicità dobbiamo essere in grado di rendere ragione. La riflessione filosofica deve poter estendersi correttamente in ogni direzione: l’intero linguaggio deve essere passato all’aratro (cfr. p. 27).

Ad una prima lettura del testo, può forse sorgere il dubbio che proprio questo compito di chiarificazione analitica non soltanto non sia esplicitamente formulato, ma addirittura esplicitamente respinto. L’accento cade con tanta insistenza sulla necessità di disporsi in un atteggiamento meramente descrittivo da sembrare quasi che di fronte alle «azioni rituali» non dovremmo far altro che liberarci dai pregiudizi, dare di esse una fedele registrazione, ed allora il loro senso ci balzerà senz’altro agli occhi. Dopo di ciò, null’altro ci sarà da aggiungere: «Qui si può solo descrivere e dire: così è la vita umana» (p. 19). Oppure: «Si vorrebbe dire: ha avuto luogo questo e quest’altro: ridi se puoi» (p. 21). Riconosciamo dunque che quei comportamenti, quelle usanze hanno un senso così come lo hanno le parole nel loro uso simbolico-espressivo. Ma come potrà infine quel senso essere compreso se non attraverso il mostrarsi stesso dell’evento ed il suo afferramento simpatetico?

Questo non è, io credo, ciò che sostiene Wittgenstein anche nei punti in cui egli più vivacemente sottolinea l’esigenza di lasciar parlare l’evento descritto. Le azioni rituali non sono semplicemente a disposizione. Il loro senso non è totalmente trasparente, purché lo sguardo non sia prevenuto. E nemmeno si tratta di ricondurle alla cieca a «forme di vita» considerate a loro volta come dati irriducibili.

Al contrario esse possono e debbono essere oggetto di un’indagine effettiva. Questa indagine deve rivolgersi anzitutto alle fantasie intessute nell’evento rituale, che fanno corpo con esso e che realizzano in esso possibilità associative interne agli stessi materiali immaginativi.

Come in Frazer, si è dunque anche qui interessati all’antica tematica dell’associazione delle idee (cfr. p. 39). Ma mentre in Frazer le regole dell’associazione vengono richiamate per spiegare la grossolana erroneità delle opinioni che si presumono implicite nei comportamenti, qui l’idea di regole associative interne ai materiali immaginativi deve fornire il filo conduttore per ricostruire i nessi che giustificano la simbolizzazione e ne dispiegano il senso.

Molto semplicemente: vi è veramente una somiglianza tra il fuoco e il sole. Da questa somiglianza noi non dobbiamo necessariamente essere colpiti (p. 26). Ma essa può colpirci - tra il fuoco e il sole si può istituire un nesso immaginativo che orienta verso questa o quella possibilità di espressione simbolica. Così, entro il contesto di un’azione rituale, l’acqua può ben essere connessa con l’idea della purificazione; e dunque anche, ad esempio, con la malattia (p, 49). Certo, può essere che una pratica rituale comprenda la teoria infantile della malattia come sporcizia che può essere lavata via. Wittgenstein non nega che un’opinione possa appartenere al rito (p. 27). Nega che il rito possa essere spiegato con l’opinione: «Come vi sono ’teorie sessuali infantili’ così vi sono in generale teorie infantili. Questo però non vuol dire che tutto ciò che fa un bambino abbia come ragione e origine una teoria infantile» (p. 49).

Ciò che vi è di peculiare e di specifico nell’azione rituale è anzitutto la funzione simbolizzante: questa a sua volta poggia su possibilità associative materialmente fondate.

In nessun caso tutto ciò implica che la funzione simbolizzante ed i nessi attraverso cui essa si realizza siano senz’altro palesi. Può essere anzi che l’evento si presenti alla superficie come disperso ed incoerente - può essere che le associazioni si effettuino attraverso anelli intermedi che restano oscuri, che dunque non sia affatto chiaro quali poli della complessa costellazione di comportamenti, di gesti, di parole, di cui l’azione rituale è costituita, debbano essere coordinati ed in che modo. Nessuna immedesimazione simpatetica ci può giovare alla comprensione. Ma soltanto, appunto, la descrizione: ed allora è ovvio che questa andrà intesa come una vera e propria ricostruzione che ha lo scopo di portare l’evento ad una presentazione perspicua. La descrizione deve rendere visibili le connessioni (p. 29), deve esibire, attraverso il riordinamento dei materiali, lo schema dei rapporti su cui la simbolizzazione è innestata: «’E così il coro accenna ad una legge segreta’: ecco come viene voglia di commentare la raccolta dei dati in Frazer. Di qui l’importanza di trovare anelli intermedi» (p. 29).

Le considerazioni che fanno parte del secondo gruppo di appunti accentuano questa prospettiva mettendo in questione la rilevanza dell’«origine storica» dell’azione rituale ai fini della determinazione del suo senso. È opportuno tuttavia fissare i termini effettivi del problema proposto da Wittgenstein al fine di evitare una discussione anche troppo ovvia.

Accade dunque, per procedere senz’altro ad un’illustrazione esemplificativa, che nel corso di una festa venga simbolizzato l’atto di bruciare un uomo. Si potrebbe allora avanzare l’ipotesi che una volta (in tempi remoti) un uomo venisse bruciato davvero - cosicché riusciremmo a spiegare perché la festa, anche nella sua forma attuale, colpisca lo spettatore: gli appaia, in certo modo , «sinistra».

Evidentemente, ciò che qui può suscitare qualche dubbio non è tanto questa o quella ipotesi sull’origine, quanto la teoria della funzione simbolica implicita nell’istituzione di questa connessione lineare tra origine storica e struttura del senso. Infatti, se si assume che l’ipotesi sull’origine abbia una simile portata esplicativa, il simbolo dovrà essere inteso come una sorta di immagine dell’evento originario: questo si proietta in quello, come in una sua pallida copia. È come se la festa contenesse il ricordo di un passato lontano. Ed essa ci appare come ci appare in forza di esso (cfr. p. 44).

Ma questo ricordo la festa lo contiene davvero? O, in altri termini: la posizione di quella ipotesi come ipotesi storica effettiva, suscettibile, con maggiore o minore difficoltà, di essere documentata, è essenziale perché la festa appaia provvista di quel senso con cui ci appare? Questo è appunto ciò che Wittgenstein nega, commentando in particolare la narrazione della festa di Beltane. Ed è chiaro che questa negazione ha di mira, più che l’apertura (o la chiusura) della tematica dell’incidenza del fattore storico, l’erroneità di quella teoria della simbolizzazione che pone, per così dire, il suo senso al dì fuori di essa. Al contrario, rappresenta un corollario dell’intero corso di pensieri che siamo andati sviluppando fino a questo punto la tesi che il senso inerisce alla simbolizzazione stessa, che esso non viene acquisito di riflesso o comunque dall’esterno dell’azione, ma si istituisce nel suo interno, cosicché esso deve in linea di principio diventare leggibile attraverso una descrizione-ricostruzione che porti alla trasparenza i nessi associativi in gioco.

In rapporto all’esempio del sacrificio umano potremmo forse osservare: «Qui sembra che sia l’ipotesi (in senso genetico-storico) a dar profondità alla cosa» (p. 40). Eppure, se qualcuno resta colpito dalla cerimonia, che cosa propriamente lo impressiona: «1’ipotesi esposta (da lui o da altri) o già il materiale che conduce ad essa ?"."Infatti non è soltanto il pensiero della possibile origine della festa di Beltane che porta con sé l’impressione, bensì quel che si chiama l’immensa probabilità di questo pensiero. In quanto viene ricavato dal materiale» (p. 47).

Giungiamo così ad un’inversione del problema: non già la simbolizzazione come proiezione di un’origine, ma l’origine come proiezione della simbolizzazione. Questa inversione non è poi altro che un modo di proporre una precisa distinzione concettuale: l’origine come proiezione della simbolizzazione dovrà essere intesa come origine ideale, e nettamente distinta dall’origine in senso storico effettivo (cfr. p. 30). L’«ipotesi» sull’origine in senso ideale non è, in realtà, altro che la presentazione degli stessi nessi strutturali dell’evento nella forma di un processo. Ed è perciò in generale pensabile che una divaricazione possa prodursi tra origine storica effettiva e struttura attuale della simbolizzazione. Potremmo ipotizzare una origine futile per la «sinistra» festa di Beltane; ma se alla sua forma attuale inerisce una dimensione di «profondità», questa non viene tolta dalla verità dell’ipotesi sulla futilità della sua origine (cfr. p. 43).

Questo è l’impianto di idee su cui si sviluppano le considerazioni di Wittgenstein. Ed è importante, sia al fine di un commento che scenda nel dettaglio sia per l’avvio di una riflessione critica, mettere chiaramente in luce la sua coerenza interna e l’atteggiamento di principio che sta alla sua base.

 


[1] Questi materiali sono stati pubblicati in traduzione italiana nel 1975 in un libretto autonomo: L. Wittgenstein, Note sul «Ramo d’oro» di Frazer, trad. it., di S. de Waal, Adelphi, Milano 1975, con un saggio di Jacques Bouveresse intitolato Wittgenstein antropologo in appendice. Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione