L’autore ha riferito sull’argomento di questo saggio durante il convegno organizzato da Nuova Consonanza, Roma, 30 novembre 1994. nella giornata dedicata a "Dopo Adorno, verso una nuova teoria estetica della musica" - Questo saggio è stato pubblicato su De Musica, 1997. Data di immissione: aprile 2000

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TRADUZIONE INGLESE

G. Piana, A praise on musical imagination

 


 

 

GIOVANNI PIANA

 

 

Elogio dell’immaginazione musicale

 

1. Se questo elogio sia necessario
2. Extra temporalità dell’immaginazione musicale
3. L’esigenza di un punto di vista interstorico in una riflessione sulla musica
4. Adornismo e storicismo
5. La maschera metaforica
6. Citazioni ed esempi che mostrano le ragioni
della necessità di un elogio

 

1.
Se questo elogio sia necessario

In questo scritto vorrei cercare di realizzare qualcosa di simile ad un elogio dell’immaginazione musicale, vorrei tentare di abbozzare una una sorta di perorazione in favore di essa. E subito ci si chiederà: ma ve ne è forse il bisogno? Oppure: perché mai dovremmo sentirne il bisogno?

In realtà io credo che una simile esigenza si faccia sentire proprio nel momento in cui si avvia una riflessione sull’estetica musicale, un ripensamento dei suoi problemi. C’è qualcosa che oggi si muove nella direzione di questo ripensamento, per lo più con la consapevolezza non solo della musica che cambia, ma soprattutto del fatto che il cambiare della musica richiede un "cambiare musica" anche nei modi di "pensarla", di intenderne il senso e gli scopi.

Sia dal punto di vista dei progetti compositivi che da quelli della riflessione teorica, si ricomincia a considerare la musica come forma d’arte piuttosto che come qualsiasi altra cosa. Sembra strano il notarlo. E tuttavia proprio tutti i problemi legati all’"artisticità" della musica, e quindi alla specificità dei suoi scopi e della sua destinazione, sono stati troppo a lungo messi da parte da moduli di pensieri e da orientamenti intellettuali di derivazione adorniana.

Ci troviamo dopo Adorno – e si ha la sensazione che il dirlo e il poterlo dire sia accompagnato da un non so qual senso di sollievo.

Certamente vi è ancora chi ritiene che la posizione adorniana valga non solo per i cinquant’anni precedenti agli anni Cinquanta – ma che, leggendo accortamente tardi scritti di occasione e compulsando qui e là folgoranti illuminazioni, si possa fare di Adorno il profeta della fine del secondo millennio. Ed anche al di là di simili entusiasmi, che non è il caso di prendere in seria considerazione, vi sono forse ancora delle apparenti ovvietà, dei persistenti pregiudizi, delle remore che hanno ancora, talora inconsapevolmente, quella matrice e che è interessante portare alla luce, per contribuire in qualche misura a liberare le potenzialità del dibattito in corso e le forze creative che in esso si misurano.

In questo contesto si situa l’intento del nostro elogio. In esso si tratta soprattutto di raccogliere alcuni alcuni motivi che sembrano di particolare importanza proprio in rapporto al "cambiare musica" in una teoria della musica, e di conseguenza per giustificare anche la scelta del filo conduttore di queste mie considerazioni.

Alla domanda su quale necessità vi possa essere di un elogio dell’immaginazione musicale, cominceremo con il rispondere notando che la stessa espressione di immaginazione musicale da un lato può avere un impiego del tutto ovvio, dall’altro ha invece bisogno di essere di essere chiarita, e per certi versi di essere proprio il tema di una perorazione e di una difesa. Nessuno contesterà infatti che si possa dire che un brano musicale è opera dell’immaginazione nel senso che essa è il risultato di una "invenzione". Essa viene inventata così come si inventa la trama di un romanzo o il soggetto di un dipinto. Ma se ci scostiamo un poco da questo senso così generico, e naturalmente anche così privo di problemi, ci imbattiamo subito in qualche difficoltà.

C’è infatti qualcosa che sembra fare resistenza a porre l’accento sull’immaginazione nel campo musicale, e in particolare nel campo della riflessione sulla musica – qualcosa che in parte dipende dalla natura peculiare della musica, in parte dai nostri pregiudizi intorno ad essa ed alle funzioni immaginative in genere.

In realtà ci sembra subito di comprendere che cosa significhi immaginare la trama di un racconto, non solo nel senso generico dell’invenzione, ma in quello del prospettarsi una sequenza di eventi che si succedono e si intrecciano variamente gli uni agli altri; oppure che cosa significhi immaginare un personaggio, la sua fisionomia, la sua psicologia, il suo modo di comportarsi. L’immaginare si esplica qui in un senso assai prossimo a quello del "fantasticare" nel senso usuale del termine, cioè dell’immerg ersi in un mondo di eventi nel quale confluiscono frammenti del reale, e quindi della memoria, dell’esperienza vissuta, che vengono tuttavia organizzati secondo nuovi nessi e raccolti secondo nuove reti di significato.

L’immaginazione si appoggia qui a cose, a eventi, ad esperienze vissute. Si appoggia al passato. Si trova in rapporti più o meno occulti con il desiderio. L’oggetto immaginario è in realtà assai prossimo, nella struttura fenomenologico, all’oggetto del desiderio.

E’ già indicativo dell’esistenza di un problema il fatto che una espressione come "oggetto immaginario" possa apparire invece tendenzialmente enigmatica in rapporto alla musica."Immaginare" nel linguaggio corrente richiede un complemento oggetto. Immaginare è immaginare qualcosa. E si può con qualche ragione sostenere che nell’ascolto, l’ immaginare qualcosa sia contrario alle convenienze, se non addirittura una manifestazione di grossolanità e di mancanza di raffinatezza.

Si può essere certi che in rapporto alla musica si possa dire, e soprattutto lo si possa con la stessa ovvietà, che l’immaginazione si appoggia ad eventi e ad esperienze vissute? Dove cercare, nella musica, la memoria, dove il desiderio?

Di contro siamo subito messi di fronte alla composizione come costruzione secondo regole in qualche modo simili a "regole grammaticali". Questo è probabilmente un altro dei motivi che tendono a porre in secondo piano il momento dell’immaginario musicale. Il punto importante è che vi siano delle regole, e che l’opera sorga dalla loro applicazione. Tutto il resto apparterrebbe alla psicologia della creazione o della fruizione.

Vi è qui indubbiamente una tentazione particolarmente forte ad emarginare il problema dell’immaginario musicale, a ritenerlo irrilevante nella riflessione filosofica ed estetica. Questa tentazione può approfittare di modi erronei di concepire l’analisi musicale oppure di malintesi e fraintendimenti legati agli sviluppi dell’informatica musicale.

L’analisi della tecnica compositiva di un brano musicale dovrebbe forse essere concepita soprattutto come un momento interno di un percorso che comincia con la musica e termina nella musica, cioè come una dissoluzione analitica considerata strettamente in funzione di una nuova sintesi interpretativa, in funzione dunque di una possibile esecuzione. Essa viene invece talora intesa come un puro e semplice smontaggio che avrebbe il solo scopo conoscitivo di "sapere come il pezzo è fatto", proiettando sul br ano musicale l’immagine di un congegno di cui debbono essere messi allo scoperto molle, viti e ruote dentate.

D’altro canto la ricerca informatica dell’"algoritmo generatore" di uno stile fa pensare all’opera come un teorema all’interno di un sistema deduttivo. Si è allora tentati dall’analogia tra un brano musicale e ciò che i logici chiamano una formula ben formata – e non vi è bisogno di immaginazione per realizzare una simile formula. È vero che una formula ben formata è solo una condizione del significato, e quindi occorre che ad essa si aggiunga qualcosa affinché essa arrivi a livello significante. Tuttavia anche l’osservare che la semplice applicazione delle regole non basta, che deve esserci appunto la scintilla dell’immaginario per far passare il prodotto di scuola all’opera autentica, rappresenta una considerazione superficialmente giusta, ma troppo debole e per molti versi insoddisfacente. In essa viene mantenuta l’opposizione tra le regole e l’immaginazione, e quest’ultima viene nuovamente messa ai margini come quel certo non so che di fondamentale importanza, di cui comunque non vale la pena di parlare.

L’idea che vi sia una simile opposizione sembra del resto far parte della stessa essenza teorica del problema. La facoltà immaginativa non si esplica forse nella violazione della regola piuttosto che nella sua osservanza, non si parla forse della libertà della fantasia che sfugge in via di principio ad ogni controllo?

Rammentare questo punto sembra avere un particolare significato in rapporto alla musica novecentesca nel suo insieme. Si potrebbe sostenere che nella musica novecentesca, l’idea della grammaticalità della musica si sia fortemente allentata, e che questo allentamento comporti una liberazione dell’immaginario musicale. Ma questa espressione resta ancora, nella sua genericità, priva di un’autentica giustificazione teorica, il suo significato resta, ad un tempo, ovvio e poco chiaro.

 

 

2.
Extratemporalità dell’immaginazione musicale

 

Naturalmente l’immaginazione entra a pieno diritto nell’ambito delle questioni attinenti alla teoria ed alla filosofia della musica, non solo come riconoscimento generico della necessità di un’ineffabile scintilla creativa, ma come un problema che mette in questione la stessa capacità espressiva della musica.

Per rendere realmente chiaro questo punto, è necessario tuttavia poter contare su alcune determinazioni generali, prendendo le mosse dalla distinzione fondamentale tra l’immaginazione "fantastica" e l’immaginazione che si potrebbe invece chiamare "immaginosa": ovvero tra

    • a) l’immaginazione produttiva di "figure", nel senso propriamente oggettuale del termine, dove la figura è, ad esempio, il personaggio di un romanzo, l’unicorno che compare nel racconto mitico o il paesaggio raffigurato in un dipinto;
    • b) l’immaginazione metaforizzante in generale le cui formazioni sono il risultato di unificazioni, di "sintesi immaginative", dunque ancora produttiva di "figure", ma in un senso interamente diverso.

Alla base sia dell’operare fantastico e che dell’operare immaginoso vi è la funzione valorizzante dell’immaginazione, la capacità di operare la trasvalutazione di dati di fatto in valori immaginativi.La musica trae la propria capacità espressiva proprio dal fatto che essa risale alle radici di questo processo: nella musica non vi sono esplicitamente immagini né nel senso dell’oggetto fantastico né in quello della metafora esplicitamente formulata: e tuttavia già nel primo approccio al materiale sonoro con intenti diretti all’opera musicale, diventa subito attiva proprio questa funzione valorizzante che ha come primo risultato quello di rendere ambiguo lo statuto ontologico del materiale, che diventa fondamento instabile di un processo immaginativo germinale.

Questa funzione agisce naturalmente anche, ed anzitutto, al di fuori di un contesto propriamente musicale.

Il verso del gufo cessa di essere un puro fatto della notte, il verso di un animale appollaiato da qualche parte nel giardino, e comincia ad appartenere al campo dei valori della notte, tingendosi di coloriture emotive e di oscure inquietudini.

Il bello "naturale" – per usare questa vecchia terminologia – trapassa nel "bello artistico" attraverso una differenza che ci può apparire talora quasi insensibile, talaltra particolarmente profonda. Quasi insensibile, perché l’esperienza percettiva in se stessa, considerata in modo del tutto indipendente da una progettualità artistica, non è affatto priva di componenti immaginative; ma anche particolarmente profonda perché il valore immaginativo come pura componente di un’esperienza vissuta e il valore immaginativo integrato in un progetto espressivo sono cose interamente diverse.

Queste considerazioni tuttavia non debbono far pensare ad un’attenzione unilaterale puntata in direzione semantica, ed in particolare in direzione del simbolismo. E nemmeno debbono essere interpretate come se intendessero confermare l’opposizione tra il campo d’azione dell’immaginario e quello delle regole, opposizione che tende a imporsi, come abbiamo mostrato, secondo vie e angolazioni diverse. Al contrario deve essere svolta una critica vivace verso una simile opposizione che a ben vedere ripropone vecc hi schemi filosofici: in particolare, lo schema oppositivo intuizione/ intelletto, dove la parola intuizione assume il carattere di un vago richiamo ad una genialità inafferrabile nel suo operare e l’intelletto riceve una connotazione tendenzialmente negativa, richiamando l’idea di un categorizzare astratto estraneo all’arte, lontano dal vissuto.

In realtà, una simile opposizione non è in grado di insegnarci nulla, persino la terminologia è fuorviante.

La musica sta presso il materiale percettivo, questo è certamente il "concreto" su cui poggia l’esperienza musicale. Ma una simile affermazione sarebbe furoviante se non notassimo che altrettanto giustamente potremmo dire che questa esperienza ha le sue radici nella soggettività creativa, che vive nella pienezza dei suoi vissuti, che sono emotivi e intellettuali insieme.La soggettività creativa è una soggettività pensante. Ciò significa che essa ha molti "pensieri" , che ha delle "opinioni" e con queste opinioni si misura continuamente con la realtà. L’immaginazione non si metterebbe nemmeno in moto senza questo sfondo di pensieri, solo su questo sfondo può prendere forma un progetto espressivo. Questo progetto peraltro non assume affatto fin dall’inizio il carattere di un’elaborazione del materiale che abbia di mira la traduzione e la manifestazione di questi pe nsieri, o che sia addirittura esplicitamente guidata dall’intento di rappresentarli.

Al contrario il progetto espressivo comincia a realizzarsi come una riflessione sulle regole, sulle tecniche, come una sperimentazione di modi possibili di organizzazione del materiale: con una riflessione sulle strutture.

Di fatto il problema delle regole è assai poco una questione "meramente intellettuale". Una discussione intorno ad esse riguarda infatti necessariamente le forme strutturali del materiale sonoro, le tecniche della sua messa in forma e delle sue trasformazioni possibili.

Naturalmente le regole possono essere ereditate da una tradizione ed essere riunite nell’unità di un linguaggio; oppure questa unità linguistica può essere diventata un problema: si tratta di due situazioni molto diverse, ma la sostanza della questione non muta. Infatti non sembra affatto corretto riportare riportare l’idea della regola unicamente all’esistenza di una unità linguistica riconosciuta vincolando la regola alla convenzione in una forma che può essere fuorviante.

Certamente il parlare di regole fa pensare anzitutto alla convenzione, al fatto che esse esistono in quanto vengono osservate e dunque in quanto vi è il rimando ad una unità intesa come lingua comune. Inoltre la regola, proprio in quanto semplicemente "convenuta", può apparire come qualcosa che viene imposto dal di fuori, e che contiene perciò i rischi di un’applicazione astratta, dello schema già predisposto che va semplicemente memorizzato e applicato nei luoghi previsti.Tuttavia non bisogna dimenticare che il problema delle regole si pone non appena abbiamo a che fare con una Gestalt percettiva e fa tutt’uno con la creazione dell’opera intesa come Gestaltung – cioè come una plasmazione concreta del materiale, come suo ordinamento e organizzazione interna.Per questo motivo vi è un certo margine di equivoco quando si afferma che l’immaginazione musicale si esplica più nell’infrazione della regola che nella sua osservanza. Questa affermazione riceve un significato ovvio solo se si ha di mira lo stereotipo "linguistico", il paradigma scolasticamente iterato, appunto, "senza immaginazione".

Dal punto di vista teorico è importante invece notare come le latenze immaginative che si manifestano nel brano musicale e che fanno parte della sua pregnanza di significato affiorino attraverso l’azione del rapporti relazionali interni, quindi attraverso tensioni create attraverso il gioco sintattico-combinatorio: il quale non è per nulla "astratto" proprio per il fatto che è in grado di generare queste tensioni. L’inerenza reciproca di connessioni strutturali e valenze simbolico-immaginative rappres enta la forza e il mistero dell’espressione musicale. Il brano musicale può così presentarsi come un sentiero ben delineato – perché ben definito è certamente il percorso sonoro, e chiaramente identificabili gli eventi sonori che accadono in esso, le differenze timbriche e dinamiche, i rapporti di affinità e di contrasto, tutto ciò che costituisce la dimensione percettiva del brano stesso; e tuttavia questo sentiero, che noi nell’ascolto andiamo percorrendo, attraversa un paesaggio che trae il suo fascino dall’indeterminatezza e dalla mobilità, dall’incertezza dei suoi confini, da bagliori inattesi e da improvvise oscurità, dal mostrarsi e dal celarsi di possibili direzioni di senso.

Questo paesaggio appartiene all’immaginario musicale, esso è un risultato, una proiezione dell’immaginazione musicale.

Occorre dunque prendere atto di una situazione particolarmente complessa.

Le operazioni immaginative hanno una doppia origine nella percezione e nel "pensiero" – e il reale stesso è dunque il loro presupposto. Con reale intendo il mondo umano, il mondo storico-sociale, il mondo circostante culturale nel quale l’artista è immerso, dal quale egli attinge forme e modi di espressione che si presentano intanto come dati, come premesse da cui prendere le mosse: quel mondo che è intriso nei suoi vissuti, che condiziona i suoi pensieri e le sue opinioni, ma che rappresenta anc he il tema di giudizi e di valutazioni, di scelte e prese di posizioni. E al reale appartiene naturalmente anche l’universo degli oggetti sonori, essi sono pezzi del mondo, come gli alberi, gli animali, i fiumi e le montagne.

Tuttavia l’immaginazione agisce come uno strappo rispetto alla realtà, come un balzo al di fuori del cerchio del reale, che si manifesta tanto nella fantasticheria in senso comune che nell’esercizio dell’immaginazione in direzione della produzione artistica. Questa azione caratterizza l’arte in genere, anzi essa si realizza ovunque l’immaginazione sia in opera, nel gioco, nella festa, nel mito, nella religione, nel rito; ed anche nel campo musicale essa si fa sentire in tutta la sua energia. Le espe rienze vissute dell’autore o dello spettatore debbono passare sullo sfondo, e così i suoni debbono essere estratti dai contesti causali obbiettivi per essere integrati in un’altro scenario: il silenzio stesso che precede l’esecuzione fa ad esso da sipario che lo dischiude. La considerazione così spesso ripetuto secondo la quale la musica ha una "temporalità" propria trae uno dei propri sensi importanti proprio dal fatto che quel silenzio è come il "c’era una volta" delle fiabe che, prospettando il raccont o in un passato immemorabile, spezza la catena del tempo e dispone il racconto in un tempo chiuso, fuori della temporalità obbiettiva. Nella musica la catena del tempo è spezzata anzitutto per il fatto che il brano si sviluppa in un presente puramente decorrente che è a sua volta, chiuso, e che è dunque privo di un passato vero e proprio e di un futuro autentico – dunque in una sorta di presente assoluto incuneato nel presente reale con il quale è essenzialmente privo di rapporti. Questa peculiarità del "tempo musicale" che talvolta è stata sopravvalutata in senso metafisico pretendendo che in essa si effettui il passaggio dalla dimensione superficiale e meramente psicologica alla dimensione metafisico-ontologica della temporalità, deve essere restituita ad una corretta interpretazione fenomenologica riscoprendo anzitutto il legame che attraverso di essa si istituisce con l’immaginario.

Tutto ciò si riflette naturalmente sulla modalità dell’ascolto. Come ascoltatori dobbiamo infatti poter tagliare i fili della storicità, dobbiamo inoltrarci sui sentieri della musica con la coscienza implicita di questa peculiare extra-temporalità , di questo tempo-fuori-dal-tempo che le appartiene in quanto produzione espressiva. Solo a questa condizione potranno liberamente agire le tensioni immaginative, i paesaggi immaginari che il brano musicale espone.

Ma naturalmente il mondo è sempre là; il reale che è stato posto a distanza e superato in una dimensione interamente diversa può talvolta diventare improvvisamente vicino, può irrompere sulla scena dell’immaginario – e non in modo ovvio, come un rumore estraneo, che reca disturbo, ma in modo tale da intervenire in quelle tensioni, da attribuire ad essi ulteriori indici di senso, cosicché in luogo di provocare una caduta al di fuori della scena immaginativa, questa irruzione può rappresentare una vera e pro pria impennata della sua forza espressiva. Quando il contesto del problema è correttamente delimitato non dobbiamo per nulla temere la complessità delle diverse situazioni che si possono presentare in rapporto alle componenti che fanno del percorso dell’opera qualcosa che ci attrae, e che dunque ha per noi un "significato" – non dobbiamo nemmeno temere che si allenti la nostra "neutralità" di ascoltatori e che frammenti dei nostri vissuti si insinuino nelle pieghe dell’ascolto.


3.
L’esigenza di un punto di vista interstorico
in una riflessione sulla musica.

 

A questo punto possiamo certamente riproporre la domanda iniziale: perchè un elogio dell’immaginazione nel contesto di una rinnovata riflessione sui problema dell’estetica e della teoria musicale?

Intanto vorrei notare che mi sembra oggi debba essere avanzata l’esigenza di una riflessione filosofica sulla musica che proceda in stretta prossimità con i problemi di una una teoria della musica, conferendo nello stesso tempo a questa espressione quell’alto grado di generalità a cui forse essa ha da tempo rinunciato.

Questa esigenza si impone anche a partire dall’esperienza della musica novecentesca, proprio per il fatto che essa è eminentemente caratterizzata dalla messa in questione delle nozioni costitutive della musicalità, sia in rapporto alla materia sonora che alle modalità della sua organizzazione.

Naturalmente, si parla di continuo di una molteplicità linguistica come di una fondamentale acquisizione sia sotto il profilo teorico che sotto quello della prassi compositiva; ma sarebbe un errore ritenere che all’acquisita consapevolezza di una pluralità di linguaggi debba corrispondere, sul fronte teorico, un indebolimento delle istanze di una considerazione unitaria. Porsi su questa via avrebbe il senso di risolvere e dunque di dissolvere la teoria della musica in una pluralità di ermeneutiche nelle quali dovrebbero farsi valere punti di vista strettamente relativizzati all’esperienza musicale presa di volta in volta in considerazione.

Con ciò ci si rimetterebbe tutta la ricchezza dei problemi che scaturisce dalla possibilità di scorgere connessioni fra problemi nella diversità delle soluzioni, e quindi di rendere realmente conto e di trarre profitto, intanto sul piano teorico, e forse anche su quello creativo, proprio da questa diversità. Occorre sottolineare con particolare decisione che il puro e semplice riconoscimento della molteplicità non comporta per nulla l’interesse verso il molteplice: al contrario, quanto più si sottolineano differenze da cui non possiamo essere toccati perché manca il terreno comune necessario per un incontro, tanto più appare questo un modo di sancire il disinteresse verso di esso, creando un terreno propizio per la riproposta di schemi pregiudiziali di valutazione.

Da questo punto di vista rappresenta un motivo su cui riflettere il fatto che l’esperienza musicale novecentesca, sia stata spesso considerata all’interno di schematismi fortemente riduttivi al punto che rappresenta un compito ancora attuale il ripensarla al di fuori di essi per rimettere in luce potenzialità emarginate da visioni unilaterali. Peraltro, proprio negli interessi di una elaborazione teorico-filosofica di grande respiro, non basta né il riferimento al presente, né in generale il riferimento a lla tradizione musicale europea, ma occorre far valere un punto di vista interstorico, cioè un punto di vista che sappia passare attraverso le diverse tradizioni storiche per attingere ovunque stimoli per una rinnovata riflessione di principio.

Detto in breve e con un esempio: dovremmo poter entrare in contatto con trattati sanscriti scritti dieci o venti secoli fa, dovremmo poterci sentire contemporanei a quei trattati, cercare di capire che cosa era per essi la musica, perché questo è ciò che la musica anche ed ancora è .

 

 

 

4.
 

 

Adornismo e storicismo

 

Se a partire da queste considerazioni volgiamo lo sguardo ad Adorno, che abbiamo rammentato di sfuggita all’inizio come un punto di vista a lungo dominante, è appena il caso di dire quanto poco riusciamo a trovare esigenze come queste non dico soddisfatte, ma semplicemente poste. Forse esse sono anzi, per ragioni di principio, implicitamente negate.

La filosofia della musica di Adorno ha sempre voluto essere una filosofia della musica moderna (nuova), e se tentassimo di considerare la sua produzione sotto il profilo di una filosofia della musica sic et simpliciter resteremo forse sorpresi di fronte alla scarsità del materiale che potremmo trarre da essa. La verità, solo apparentemente paradossale, è che in Adorno c’è una filosofia della musica moderna senza che ci sia una filosofia della musica.

Si tratta di un paradosso solo apparente per il fatto che Adorno non ha di mira una riflessione filosofica sulla musica sviluppata in stretta prossimità con la sua teoria. Il progetto complessivo di Adorno, in rapporto alla problematica musicale, resta legato all’assillo di fornire una chiave filosofica per una vicenda culturale di particolare importanza nella storia della musica novecentesca.

Questa chiave, come si sa, è una chiave tutta giocata nei termini di una sociologia filosofica.Vorrei che a tutte queste parole fosse dato il loro giusto peso. È importante infatti che si parli di una chiave, così come il fatto che si sottolinei il riferimento ad una sociologia filosofica. Parlare di sociologia filosofica in riferimento ad Adorno significa essenzialmente parlare di una sociologia dedotta da una filosofia della storia.

Di conseguenza la sua indagine è indubbiamente un’indagine rivolta al "significato", ma questo significato si trova tutto già scritto in quella filosofia della storia, con la sua necessaria unilateralità, con i suoi vincoli, le sue limitazioni e restrizioni. Del resto, almeno in larga parte, proprio a questa circostanza è dovuta la fortuna che Adorno ha avuto in Italia: l’impianto hegeliano di Adorno conferiva infatti ai suoi discorsi un che di familiare ad una cultura immersa da sempre in tematiche storicistiche. Io penso che Adorno possa essere considerato, per quanto riguarda l’ambito della cultura italiana, un episodio interno agli sviluppi dello storicismo.

 

 

 

5.
La maschera metaforica.

 

 

Su questo sfondo assume un diverso risalto il nostro elogio dell’immaginazione musicale.Nelle considerazioni precedenti ci è sembrato importante avanzare un problema di senso dell’espressione musicale mettendo l’accento sugli elementi tecnico-costruttivi dell’opera: l’immaginazione gioisce delle tecniche, l’immaginare nella musica è un immaginare attraverso le possibilità compositive dei suoni, e dunque un immaginare attraverso le tecniche, attraverso la struttura.

Abbiamo tuttavia anche attirato l’attenzione sul fatto che, senza incorrere in alcuna incoerenza, il compositore può essere prospettato anche come un "sognatore di suoni" – la composizione stessa come una "revêrie", per usare un termine caro a Bachelard, e la dimensione dell’ascolto come un’adesione a questa "revêrie", una dimensione a cui si accede aprendosi a dinamismi immaginativi latenti, ad un "mondo" che non ha forma di mondo, in cui non vi sono né cose né fatti, ma direzioni di senso e di valore.

Abbiamo dunque operato una connessione tra problema del senso e problema delle funzioni immaginative, e così facendo abbiamo difeso la necessità di un approccio al problema del senso che tenesse la presa sulla superficie fenomenologica e sui nessi effettivamente proposti dalla costruzione musicale. L’afferramento di quelli che potremmo chiamare vettori immaginativi interni dell’opera rappresenta il primo passo – un passo che può essere effettuato ovviamente solo se la loro esistenza viene anzitutto riconosciuta.

Ma solo il primo passo. Vi sono infatti i contesti in cui si localizza il progetto compositivo nel suo insieme, contesti che non sono semplicemente leggibili in quella superficie fenomenologica. E la comprensione di questi contesti è di fondamentale importanza per penetrare nella complessità degli strati di senso di cui l’opera è costituita.

Potremmo dire che una fenomenologia dell’espressione non può fare a meno di una dialettica dell’espressione – ma il termine di "dialettica" deve essere allora liberato da ogni richiamo al piano di una filosofia della storia e indicare invece essenzialmente la dinamica dei rapporti tra immaginazione e realtà. Questi rapporti non sono definiti una volta per tutte nelle loro modalità; e nemmeno è definito una volta per tutte il grado di prossimità o di distanza dal mondo che sta all’orizzonte.

Una via assai diversa è quella di misconoscere la presenza di componenti espressive interne fondate sulle valorizzazioni immaginative e di concepire la funzione immaginativa come una pura capacità di produrre maschere metaforiche: alla funzione primaria della valorizzazione, come operazione che sta alla radice delle immagini, delle "figure" nel duplice senso in cui ne abbiamo parlato in precedenza, si sostituisce una funzione di mera trasposizione e rappresentazione sul piano musicale di significati gi acenti interamente altrove.

In Adorno ci si imbatte di continuo in valutazioni che partono da questo presupposto implicito, e questo tanto più per il fatto che si tenta di evitare l’obiezione di "riduzionismo" e si teorizza una sorta di significato sociale interno che investe anche ed in primo luogo gli aspetti formali dell’opera.

Vorrei sottolineare che dal nostro punto di vista si tenderà a dare un peso all’analisi strutturale del brano proprio perché si richiede che l’attenzione venga portata anzitutto alla Gestalt percettiva, e dunque alle regole di cui essa è il risultato. Nello stesso tempo si sostiene che questa analisi deve estendersi necessariamente al di là del piano fenomenologico strettamente inteso proprio per il fatto che mentre l’opera musicale come tale segue un tracciato ben delimitato, non è invece delimit ato il campo dei significati possibili che quel tracciato attraversa. Questo campo reca naturalmente in sé i segni della storicità, in varie forme che di volta in volta debbono essere accertate e riconosciute.

In Adorno invece il riferimento alla storicità, e quindi l’ambito del significato, è esclusivamente determinato da una teleologia filosofico-storica, e tende necessariamente ad una fissazione ed a una determinazione univoca. Di conseguenza gli elementi strutturali, le regole di articolazione e di organizzazione interna debbono essere considerate come una faccenda meramente tecnica, finché non arriva l’illuminazione filosofica che propone la maschera metaforica e nello stesso tempo la toglie riportandola al suo preteso significato reale come significato sociale. Questa illuminazione ha il carattere di una chiave, ignota anzitutto all’autore (le cui idee, i cui progetti, le cui opinioni debbono, come si sa, essere del tutto messe da parte come irrilevanti), ignota all’ascoltatore, per lo più considerato come irretito nelle maglie della "società amministrata"; ed è nota soltanto al "critico della cultura" che la rivela ed al quale si deve supporre sia stata rivelata dallo spirito del te mpo, e dunque dallo spirito assoluto che compie il suo cammino. Non si può non notare, tenendo conto degli stessi termini che sto ora utilizzando, che non solo la posizione di Adorno appartiene ad un’altra epoca, ma che si avverte come antiquata persino la polemica nei suoi confronti.

Come esempio di ciò che intendo dire parlando di "chiave" mi limiterò a citare l’interpretazione adorniana della ripresa nella forma-sonata in Beethoven che sarebbe null’altro che una trasposizione musicale, e quindi una maschera metaforica, del gesto di rinuncia al compimento della rivoluzione borghese, un vero e proprio riflesso di una volontà di conservazione di ordine ideologico sociale [1] .In ogni caso l’idea che il paesaggio immaginario sia esattamente ciò che va tolto dalla superficie della musica per coglierne il senso effettivo corrisponde ad una tentazione ben presente nello storicismo in genere – essa non riguarda dunque solo Adorno. Ed in realtà essa penetra anche ampiamente all’interno dell’area della semiologia e dell’ermeneutica.

 

6.
Citazioni ed esempi che mostrano
le ragioni della necessità di un elogio

 

Mi sia consentito un ultimo riferimento in proposito.

Vi è un punto, nel saggio di Nietzsche Il caso Wagner (1888) [2] in cui egli attacca il contenuto mitico del dramma musicale wagneriano come una pura "scorza" [3] , dentro la quale non troviamo altro che "la sfera reale, moderna" – anzi la "sfera borghese", ed assimila i personaggi femminili wagneriani a Madame Bovary. Ora, per il critico storicista questo passo rappresenta una formidabile intuizione interpretativa, benché essa debba essere mutata di segno. Questa circostanza ha infatti per Nietzsche un senso negativo e rappresenta per lui il crollo di una grande illusione, – e dunque una simile osservazione è guidata da un’intenzione denigratoria e di pesante derisione: per il critico storicista - e non parlo di uno qualunque, tutte le citazioni che seguono sono tratte da Massimo Mila [4] - essa corrisponde invece alla pura verità, ed anzi la grandezza di Wagner sta proprio nel fatto che il mito è in Wagner "metafora e rivestimento della realtà" [5] , una pura e semplice scorza dentro la quale si può scorgere un "robusto realismo" [6] . Motivo di apprezzamento è allora il fatto che, ad esempio, Fricka – cito letteralmente, lo confesso, con un certo disagio, con un imbarazzo crescente – non è altro che "un comunissimo esemplare di moglie gelosa", Brunilde "una ragazza generosa che sui banchi dell’università avrebbe certamente fatto il ’68", Sigfrido "un giovane eroe pieno di entusiasmo che parte con tante illusioni alla conquista del mondo(...) e ci si rompe le ossa", Wotan "un cinquantenne deluso, un marito stufo, uno che ha sognato di combattere le belle battaglie e poi invece si è acconciato a tutti i compromessi per far carriera" [7].

Che cosa importa a me, esclama ad un certo punto Mila, dei Nibelunghi e dei Ghibicunghi? Egli risponde con una sola parola: "Niente" [8] . Risposta che ha da un lato un vago sapore lapalissiano – perché sarebbe certamente la risposta dell’uomo della strada se lo interrogassimo così: "Ti importa forse qualcosa dei Nibelunghi e dei Ghibicunghi?"; dall’altro, a me sembra quasi sinistra formulata da un cultore di cose dell’arte.

Lo stesso critico cita con favore la regia dell’ Anello realizzata da Chéreau a Bayreuth, con la direzione di Boulez, nel 1976 [9]. Ad essa il semiologo Jean-Jacques Nattiez ha dedicato un intero libro[10] , nel quale, sia detto ai margini, è presente anche l’intenzione di un incontro tra semiologia ed ermeneutica [11] . Naturalmente non è qui il caso di entrare nel merito della questione – anche perché questi riferimenti wagneriani sono da parte mia del tutto occasionali, ed hanno una pura funzione illustrativa rispetto ai problemi di ordine generale che abbiamo toccato in precedenza.La regia di Chéreau va certamente considerata, almeno in parte, uno dei tanti episodi di sociologizzazione nell’ambito del teatro musicale che sono stati sono stati la norma più che l’eccezione in questi ultima trentina d’anni – episodi che possono essere considerati come una possibile concretizzazione di una tendenza teorica in rapporto alla quale è certamente d’obbligo richiamare il nome di Adorno.

In questo caso Chéreau lesse Adorno su sollecitazione di Boulez, ed alcuni tratti vistosamente adorniani sono ri masti nella sua regia [12] .

Il punto che ci interessa notare è tuttavia che l’operazione interpretativa condotta parte dall’assunto tacito (e forse nemmeno troppo) che il senso possa essere dato soltanto in due modi: o attraverso la riduzione al presente storico del compositore o attraverso la riduzione al presente storico dell’ascoltatore; eventualmente attraverso l’una e l’altra insieme, come fa del resto Chéreau con ambientazioni che richiamano sia il Novecento che il primo Ottocento [13]. L’ essenziale è togliere di mezzo l’extratemporalità immaginativa – reinchiodando saldamente le operazioni immaginative al terreno della determinatezza storica.

Dobbiamo essere grati a Chéreau di aver formulato con molta chiarezza questo punto. Egli dice una volta: "Io ho sempre detto di non comprendere la parola " Zeitlosigkeit" (atemporalità). Ogni mitologia è una mitologia di una epoca precisa" [14].

Era proprio il caso, io credo, di tentare una difesa dei diritti dell’immaginazione: per una riapertura di una riflessione a tutto campo sull’estetica e la teoria della musica.

 

Note:

1. Su questo punto si vedano le osservazioni di Antonio Serravezza, Musica, filosofia e società in Adorno, Dedalo, Bari 1976, pp. 34-36. Si fa qui riferimento all’ultimo capitolo dell’ Introduzione alla sociologia della musica di Adorno, trad. it., Einaudi, Torino 1971, pp. 250-252. -

2. F. Nietzsche, Il caso Wagner, Mondadori, 1975.-

3. ivi, p. 24. -

4. M. Mila, Tra Wagner e Nietzsche , Quaderni di M/R, 4. Si tratta di un intervento ad un Convegno su Wagner e Nietzsche, tenuto a Torino nel 1983.-

5. ivi, p. 31. -

6. ivi, p. 27. -

7. ivi, p. 25. -

8. ivi, p. 25. A dir tutta la verità egli dice non “a me”, ma “a noi”. -

9. “Quando ci si accorge del realismo profondo che sotto il velame del mito fa dell’Anello del Nibelungo, una storia ideale ed eterna dell’uomo, allora non è più possibile privarsi di questo specchio della nostra vita, e perfino la pazza messa in scena di Chéreau a Bayreuth, in ambienti moderni, con Fricka in abito da sera e il commendator Wotan simile a un autorevole cinquantenne in caccia d’avventure, non ci sembra poi tanto dissennata” (pp. 25-26). Cosicché sarebbe proprio il piattume che qui Mila chiama realismo profondo che renderebbe giustizia dell’aspetto "universalmente umano" del dramma wagneriano, aspetto che il mito notoriamente cela! -

10. Tétralogies. Wagner, Boulez, Chéreau. Essai sur l’infidelité. Paris, Christian Bourgois Editeur, 1983. -

11. “Non sorprenderà dunque che siano in questione, dall’inizio alla fine dell’opera, la semiologia e nella conclusione i rapporti tra semiologia ed ermeneutica” ivi, p. 12. -

12. cfr. ivi, pp. 76-78. -

13. L’ambientazione riguarda il primo ottocento e il sorgere della società industriale; e vi sono allusioni al novecento, a New York ecc. Commenta Nattiez che “Chéreau reintroduce sulla scena il mondo industriale del 1848 per far comprendere che il mito del Nibelungo raccontato in questa data concerne anche quell’epoca” ma così facendo dice anche allo spettatore del 1976: ‘Vedete che io non mi lascio gabbare da ciò che Wagner raccontava nel 1848’ (cfr. ivi, p. 79). -

14. La dichiarazione, citata da Nattiez a p. 79, è contenuta in un’intervista a Boulez ed a Chéreau realizzata da Carlo Schmid sotto il titolo “Mithologie et Ideologie”, pubblicata nel programma “ Rheingold 1977” del festival di Bayreuth. -