Vorrei provare a riflettere su ciò che, a mio parere, i grammatici antichi possono ancora insegnarci nel campo della didattica del Latino. Dico subito, cosa del resto ben nota, che il sistema scolastico romano, a partire dal I secolo a.C. (ne scorgiamo gli effetti in Cicerone e Cesare; lo riconosciamo dietro alle composizione di Virgilio e di Orazio) prevedeva, dopo un’istruzione elementare impartita in casa o presso qualche ludi magister, il passaggio alla scuola del grammaticus. La bibliografia sul tema è imponente e si aggiorna di continuo, a dimostrazione dell’interesse che l’argomento suscita. Ricordo che grammaticus per noi significa, in realtà, due cose parzialmente diverse: è un grammatico Servio, che usa l’Eneide per insegnare ai suoi allievi come leggere un testo poetico; ma sono grammatici i molti autori raccolti nella silloge curata da Heinrich Keil, otto volumi di grandi proporzioni, pubblicati nella seconda metà dell’Ottocento (1855-1880), oggi disponibili on-line. Otto volumi indicano, a priori, una massa piuttosto ampia di testi. In effetti, nella raccolta c’è un po’ di tutto: veri e propri manuali di grammatica, come li intenderemmo anche noi; compendi più brevi; testi di interesse specifico, ad esempio metrico e prosodico; testi di interesse ortografico; differentiae verborum ecc. Anche il range temporale è piuttosto ampio, da II-III secolo a VI-VII. Il livello delle singole opere, ovviamente, è altrettanto vario.
Non vorrei però concentrarmi troppo su questo materiale, ma cercare di capire cosa questi testi possono insegnarci circa la didattica da applicare in classe. Ho allora provato a prenderne in mano uno. La scelta è caduta, senza una particolare ragione, su Carisio, autore di una grammatica per studenti che vivevano nella parte orientale dell’impero: una grammatica che, a vederla esternamente, non differisce troppo dalle nostre. In effetti, l’autore entra subito nel vivo della morfologia. All’inizio dell’opera, ad esempio, ricorda l’esistenza di sei casi che corrispondono, per nome, a quelli che tutti conosciamo (non è cosa scontata: altri grammatici parlano di un settimo e un ottavo caso, che sarebbero il locativo e lo strumentale); poi passa al genere dei sostantivi e sottolinea che sono cinque, perché oltre ai tre più comunemente noti aggiunge anche un genus commune, quello di parole indeclinabili fra maschile e femminile, come canis; e un genus promiscuum, proprio di parole che sono o maschili o femminili, ma che all’occasione si possono utilizzare anche nell’altro genere, come ad esempio cinis. I numeri sono due (per altri grammatici tre, con l’aggiunta del duale, come in ambo). Dopo di che, Carisio attacca il sistema delle declinazioni, uguale a quello cui siamo abituati. Anche questo non è così scontato come potremmo pensare. Ci sono grammatici che iniziano le loro considerazioni partendo dai nomi in –a, con osservazioni del tipo: se sono singolari, il genitivo è –ae; se plurali, è –orum, ossia accostando tra loro sostantivi maschili/femminili della prima e neutri della seconda declinazione. Tornando a Carisio, per la prima declinazione porta questi esempi: Aeneas, poeta e Achates, tre esempi che sembrano un po’ singolari e che forse rubricheremmo meglio fra le particolarità della declinazione, se non proprio fra le sue eccezioni. Poi passa al genitivo, segnalando che può essere in –ae, in –as e in es, dei quali quello in –as è indicato come arcaico, alla pari del dativo in –ai, cui è dato più risalto che al ‘normale’ dativo in –ae. Non la faccio lunga. Carisio sta costruendo una grammatica normativa, non è uno storico della lingua. Eppure, la sua idea di declinazioni non è priva di ‘stranezze’. Ed esempi simili a quelli fatti finora si potrebbero facilmente moltiplicare. Quello però che è importante sottolineare in questa sede è, naturalmente, che nessuna di queste osservazioni è di per sé sbagliata; a noi però suonano improprie. Ecco allora quello che penso si possa ricavare da tutto ciò: Carisio in fondo ci dice che la grammatica è un bene mobile. Non è, e non deve essere, un feticcio; non è una verità assoluta. È stata nella Storia, e con la Storia si è evoluta. Ad enunciarla così, si tratta di una banalità, che tutti siamo disposti a riconoscere per vera, me ne rendo conto. Eppure è una banalità che nella prassi quotidiana tendiamo a dimenticare. Seconda osservazione. Un’idea come quella di accostare fra loro i nominativi in –a quale che ne sia la declinazione, evidentemente, nasce da un’ottica diversa dalla nostra, un’ottica nella quale prima si incontravano questi nomi (e quindi era importante riconoscerli per singolari o plurali, col genitivo in –ae o in –orum), poi si costruivano gli schemi delle declinazioni. In altre parole, si tratta di una sorta di “rivoluzione copernicana” all’incontrario, che metteva prima la lingua, poi la teoria. Certo, gli allievi di questi grammatici erano ancora parlanti latini (non tutti: Carisio, come ho detto, in fondo considera già il latino una ‘lingua seconda’), e quindi è probabile che entro la frase riconoscessero il nominativo, e dal nominativo fossero in grado di ricostruire il genitivo con maggiore facilità dei nostri studenti. Però il meccanismo che ho evidenziato ci dice di un sistema che parte dai testi e li scompone per arrivare alla grammatica, non viceversa, come siamo abituati a fare noi. Altra osservazione: ho detto che i nomi usati da Carisio suonano ‘strani’. In realtà si spiegano: risentono, evidentemente, della lettura di Virgilio, prevedono cioè un allievo che stia leggendo l’Eneide (sappiamo che di norma si leggeva prima di Bucoliche e Georgiche), e la stia leggendo a partire, com’è ovvio, dal primo libro, dove Aeneas e Achates sono figure ricorrenti (Acate poi di fatto scompare o quasi), e poeta sarà stata parola usatissima dal maestro – nel commento di Servio al primo libro se ne trovano un centinaio complessivo d’occorrenze. Per questo l’esempio di declinazione prescelto non può essere rosa, parola presente una sola volta in tutta l’Eneide (XII 69) e due nelle Georgiche (IV 134 e 268), né puella (che si trova una volta nelle Bucoliche, tre nelle Georgiche, due nell’Eneide) – termini cioè di interesse minimo per la lettura del poeta mantovano. Con identico principio, quando finalmente passa a fare esempi di parole femminili, Carisio ricorda Diana, Minerva e dea, tutte parole presenti nel primo libro del poema virgiliano, mentre quelle che di solito usiamo noi vi sono assenti del tutto. Il che ribadisce il valore di un’osservazione già fatta. Mi sembra infatti significativo, al di là del risultato finale, che per questi grammatici – perfino per quelli che si presentano come grammatici ‘puri’, come persone cioè che riflettono sulla lingua cercando in essa regole astratte – il punto di partenza è sempre la concretezza di un testo vivo. Anche se Carisio sta costruendo una grammatica, e non un commento a Virgilio, il suo agire parte da Virgilio e la sua grammatica è finalizzata (subordinata, almeno fino a un certo punto) alla lettura di Virgilio. La grammatica per lui non viene prima del testo e non è disgiunta dal testo; soprattutto, il testo non è subordinato all’esemplificazione della grammatica, mentre è semmai la grammatica che è subordinata alla spiegazione del testo. Noi invece di norma formuliamo la regola, e poi siamo contenti se gli studenti la riconoscono nel testo. I grammatici antichi ci insegnano che prima viene il testo, e dal testo si deve estrarre la regola, che al più, in seguito, dovrà essere sistematizzata: come fa appunto Carisio, venendo dopo Servio, o chi per lui, secondo quanto dimostra il caso di poeta. Attenzione: non vale quindi l’obiezione, che spesso si sente, che il paragone fra noi e gli antichi sia privo di valore, perché questi grammatici si rivolgono a studenti per i quali il latino era lingua parlata. La cosa, infatti, non è vera nel caso specifico di Carisio (come non lo sarebbe per Prisciano, per l’Appendix Probi e molti altri); ma soprattutto, non lo è perché questi grammatici non si rivolgono davvero a una lingua parlata, ma a una lingua letteraria, a un ‘parlato letterario’, se si può dire. E la loro situazione non è quindi molto diversa dalla nostra, e da quella dei nostri alunni, per i quali il latino è una lingua puramente letteraria, viva solo all’interno di testi letterari.
Farei anche un’altra osservazione, partendo questa volta dalla serie dei grammatici ‘minori’ raccolti da Keil. Con ‘minore’ non intendo esprimere un giudizio di valore. Voglio solo sottolineare che hanno un interesse molto specifico, concentrato su un unico tema. La pluralità dei testi ci dice, naturalmente, di una pluralità di problemi. Come ho già accennato, c’è chi si occupa di prosodia, chi di ortografia, chi delle differentiae o delle etimologie. Questo ribadisce, ancora una volta, che non esiste, e non è mai esistito, un metodo unico, assoluto, vero, adatto per ogni esigenza – nemmeno quando il latino era lingua viva. Detto ciò, si riconoscono alcune costanti. Intanto, tutti mettono in evidenza, ciascuno a suo modo, il valore basilare del lessico. Ogni testo, poi, è arrivato a noi (a parte il ruolo, sempre possibile, della casualità) perché rispondeva in modo diretto al bisogno del pubblico al quale era indirizzato. Il che ci dice come il docente debba avere il coraggio – altra banalità: però altra banalità che nella pratica quotidiana non sempre è rispettata – di adattarsi alle esigenze e alle competenze del pubblico, come vi si adattavano gli autori di questi testi. Chi vuole insegnare latino deve cioè essere disposto ad occuparsi di cose minute e minime, prendendo atto che quanto pochi anni fa si poteva dare per scontato, oggi scontato non è più. I sociologici parlerebbero del venir meno, sempre più diffuso, di quello che chiamano ‘sapere comune condiviso’. Non si tratta di fare l’elenco dello stupidario studentesco, cosa a mio parere abominevole. Si tratta di rendersi conto che c’è un cambiamento di utenza e del sapere di quell’utenza, e quindi deve esserci un cambiamento del nostro modo di porgere il sapere (e del sapere stesso che dobbiamo porgere, una volta verificato che le basi su cui si fondava fino a pochi anni fa la nostra costruzione della grammatica ora non ci sono più).
Vorrei spendere qualche parola anche per Servio, il grammatico sul quale ho più lavorato negli ultimi anni. Servio offre un buon esempio del lavoro che ci aspetta. Perché anche nel suo caso, più e meglio che in quello degli altri grammatici, si riconosce come l’insegnamento parta dal testo, e non usi il testo in subordine; e come l’insegnamento grammaticale sia quindi, per lui, operazione a tutto campo, che include la spiegazione minuta, dotta e preziosa, ma non esclude nemmeno le banali annotazioni di grammatica, di cultura, di mitologia, di storia ecc. Che poi il livello di queste annotazioni possa essere vario e disomogeneo, e che in Servio si riconoscano non pochi condizionamenti e limiti derivanti dall’epoca sua, è fatto che non ha particolare valore. È il modello che è importante. Dai versi virgiliani Servio non trae una grammatica completa o teorica, ma una grammatica ‘pragmatica’ e applicata, la grammatica che serviva al suo pubblico, evidentemente, fatto di giovani facilitati rispetto ai nostri studenti, perché ancora parlanti latino, ma probabilmente inesperti come i nostri studenti di molte cose che solo pochi decenni prima si sarebbero date per scontate, e che adesso necessitavano una spiegazione. Questo allora deve essere il modello al quale adeguarsi, adeguando naturalmente del pari anche la tipologia delle informazioni che anno dopo anno si rendono necessarie.
Negli ultimi tempi è di moda l’espressione ‘metodo induttivo’, che viene spesso usata come sinonimo di metodo Ørberg. Di questo metodo non intendo parlare. A Milano l’ho visto utilizzare con buoni frutti, ma non ho dati scientificamente sicuri che mi permettano di segnalare una sua maggiore efficacia rispetto ai metodi più tradizionali. Quello che posso dire è che, a mia esperienza, se è applicato con criterio, funziona; che nel criterio va incluso (ma i migliori insegnanti lo fanno già per conto loro) una sistemazione teorica delle notizie apprese – sistemazione che è però successiva alla lettura dei testi e alla loro discussione, e non preliminare come nel metodo ‘tradizionale’; va poi riconosciuto che al posto delle frasi sciocche o delle frasi decontestualizzate ha il pregio di presentare (già per il primo anno) un testo redazionale costruito sui dizionari fraseologici, e quindi solo in parte ‘inventato’; che, a modo suo, attira l’attenzione su una narrazione continua e sul lessico, piuttosto che sulle strutture morfosintattiche. Anche se poi non so quanto quella narrazione funzioni, e quanto renda facile il successivo passaggio alla lettura degli autori. Ma il problema per me non è un problema di Ørberg sì, Ørberg no. È che per me induttivo significa ‘partire dal testo’, un po’ sul modello tentato, anni fa, da Tiziana Momigliano, che prima leggeva i testi, poi dai testi ricavava le regole grammaticali (anche se perfino il suo manuale, naturalmente, necessita di qualche adattamento, perché sono cambiati i tempi e l’utenza). Quello che mi pare certo, è che non esiste un metodo perfetto, esistono solo metodi sbagliati o superati. Di sicuro, non si possono spiegare regole e declinazioni per poi esemplificarle, come per troppo tempo si è fatto, attraverso frasi costruite a tavolino – dunque discutibili a priori, perché hanno come scopo l’esemplificazione di una regola, non il raggiungimento di un significato – o con frasi d’autore estrapolate dal contesto originario, e private di tutto un sistema di riferimento e di convogliamento del senso che il contesto primitivo permetteva di attribuire loro. Un simile modo di procedere, difeso in genere in nome di una necessità didattica, ha come risultato di instillare l’impressione che il latino sia una lingua fatta di frasi senza significato preciso, o con un significato stupido o da indovinare, non da capire. Impressione che si trascina nei cinque anni dell’apprendimento liceale, anche quando dalle frasette isolate si passa al cimento con le più ardue versioni: il senso non sembra la prima necessità, ma l’ultima, qualsiasi brano venga proposto per la lettura e la traduzione.
Quando, molti anni fa, potevo ancora aiutare occasionalmente singoli studenti liceali, uno dei miei ultimi studenti mi fece, un giorno, un bellissimo complimento, dicendo che le versioni assegnate in classe o come lavoro a casa quando era con me ‘diventavano storie’, mentre a scuola erano solo ‘versioni’. Il ragazzo, divenuto bravissimo in latino, fu bocciato lo stesso, ma per guai in altre materie. Io credo che avesse capito il problema che da anni, troppi anni, ci assilla. I testi non possono essere letti sminuzzati, non possono essere letti per ragioni diverse dalla volontà di sapere cosa dice quel testo. I rimedi adottati dagli eserciziari di mia conoscenza (e può darsi che faccia torto a qualcuno) non mi sembrano sufficienti. Fornire un pre-testo e un post-testo, o un riassunto della situazione o informazioni sull’autore, come è stato proposto dal Liceo Minghetti di Bologna e poi dal Comitato per le Olimpiadi della Classicità quale modello per la seconda prova della maturità, è utile, ma non basta: perché non trasforma il testo in una storia, in qualcosa che coinvolga il lettore. È solo un accumulo ulteriore di informazioni, sicuramente importanti per chi dovrà tradurre quei testi. Ma si tratta pur sempre di un ammasso in più di cose da leggere e da imparare, senza sentirsene coinvolti: l’esperienza fatta in questi anni alle Olimpiadi me lo conferma. Nel marzo 2015, davanti a un testo di Virgilio di grande fascino (georg. III 219-244), i testi forniti dal Ministero sovrabbondavano di simili informazioni, ma le prove di traduzione dei ragazzi – in teoria i migliori ragazzi, selezionati dalle loro scuole, con una media dell’otto in pagella negli ultimi due anni – erano disastrose. Un poco migliori sembrano i risultati conseguiti dalla Certificazione Linguistica come è applicata in Lombardia e in Liguria (le regioni, assieme alla provincia di Ferrara, dove la certificazione è stata gestita da un organo ‘esterno’ alle scuole, la Consulta Universitaria di Studi Latini – del caso di Palermo non ho notizie dirette, e non mi posso quindi pronunciare). Ma anche su questa strada c’è molto da fare…
La sfida per il futuro dovrà essere però questa: rinunciare a tradurre subito, aspettando fino a quando non si siano poste basi abbastanza solide per tentare l’operazione; avvicinarsi alla traduzione per gradi, richiedendo per molto tempo più la comprensione del senso complessivo dei brani proposti e l’individuazione in essi di singoli elementi importanti, piuttosto che l’esatta resa di ogni dettaglio; accostarsi fin dai primi momenti a testi che siano di autore e abbiano una consequenzialità interna, ricavando da lì le norme e gli schemi della grammatica, che non possono essere presentati in forma astratta e in seguito verificati nella pratica viva delle letture, ma devono essere estratti dalla pratica viva delle letture e poi sistematizzati in uno schema teorico; rinunciare, se occorre, a spiegare tutto subito, accettando di accompagnare con la propria parola e il proprio aiuto l’impresa della lettura ogniqualvolta i ragazzi si trovino davanti a forme sconosciute, o non ancora chiare. E ancora: mettere i testi prescelti in una continuità di senso, che li illumini e li vivacizzi e venga incontro ai possibili interessi degli adolescenti, trasformandoli da ‘versioni’ in ‘storie’; infine, ricavare dai brani quanto più possibile circa la cultura del mondo antico, ritenendo questo il loro scopo primario, rispetto al semplice servire di conforto alle regole grammaticali.
L’umiltà dei grammatici antichi può essere, a mio giudizio, un buon modello per il nostro futuro.
© Massimo Gioseffi, 2015 (massimo.gioseffi@unimi.it)
[in corso di stampa in: Atti del XXX Convegno “Latina Didaxis”, Genova 17-18 aprile 2015, a cura di S. Rocca, pubblicazioni del DARFICLET]