1 – Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido: “Ogni innamorato è un soldato, e Cupido ha il suo accampamento”. Così Ovidio, Amores I 9, intorno al 20 a.C. (nell’edizione in cinque libri, poi ridotti a tre) mostra le analogie tra la dura vita del soldato e l’altrettanto dura vita dell’innamorato, anch’egli sottoposto a innumerevoli prove. Per prima cosa, dice Ovidio, quae bello est habilis, Veneri quoque convenit aetas (v. 3); “l’età che è abile alla guerra, si addice anche a Venere”. L’amore, in altre parole, proprio come l’attività bellica, è cosa riservata ai giovani vigorosi, anche perché è turpe, cioè è “cosa vergognosa”, brutta a vedersi e palese violazione del principio etico-estetico del prepon, un senex miles, un vecchio in apparato da soldato; così, parimenti è turpe un senilis amor, come ha mostrato la maschera del senex innamorato, oggetto in innumerevoli occasioni di pesanti derisioni e di beffe nella palliata (pensiamo solo alla conclusione della Casina). Ma le analogie non finiscono qui: gli anni che i duces, gli ufficiali superiori, richiedono ai soldati (v. 5) sono i medesimi che una bella puella, una “graziosa ragazza” (v. 6) richiede in socio viro, “nell’uomo suo compagno” (trad. di Adriana Della Casa). E poi entrambi, soldato e innamorato, vegliano la notte; entrambi dormono scomodi sulla nuda terra, custodendo, l’uno, la porta del suo dux, l’altro la porta della bella; soldati e amanti hanno in comune lunghe marce forzate per terre inospitali: non ci sono soltanto gli spostamenti dell’esercito cui tenere dietro; anche l’innamorato strenuus, “risoluto” (un attributo dalla connotazione bellica e militare), seguirà la donna amata, se necessario, superando montagne e fiumi ingrossati dalle piogge (vv. 11-12 ibit in adversos montes duplicataque nimbo / flumina), marcerà impavido nella neve e “dopo aver deciso di solcare le onde, non addurrà come pretesto i venti impetuosi, né aspetterà le costellazioni favorevoli a far solcare il mare” (vv. 12-14). Solo un innamorato o un soldato possono sopportare il freddo della notte, quando cade copiosa la neve mista a pioggia (vv. 15-16). Il soldato viene mandato come esploratore verso i nemici crudeli (v. 17 infestos…in hostes): nemico naturale dell’innamorato, da cui non spostare mai lo sguardo, è invece il rivale, esplicitamente equiparato al nemico sul campo di battaglia (v. 18 in rivale oculos …. ut hoste tenet). Se il soldato assedia le città di difficile conquista (v. 19 graves urbes), l’innamorato assedia la soglia della donna oggetto delle sue attenzioni, che non vuole cedergli (durae limen amicae); una strategia bellica spesso messa in atto consiste nell’assalire nottetempo i nemici addomentati, e uccidere il popolo disarmato. Allo stesso modo, spesso gli amanti sfruttano il sonno dei mariti e portano le armi contro i nemici immersi nel sonno (vv. 21-25). E oltrepassare schiere di guardiani e sentinelle è compito sia del soldato che dell’innamorato, per il quale queste ultime assumono spesso le fattezze del severo ostiarius, che lo divide dal suo bene (vv. 27-28). Insomma, se Marte è incerto, nemmeno Venere è sicura, e l’esito di un’impresa non è mai prevedibile: talvolta, inaspettatamente, victi …resurgunt (“i vinti si risollevano”), mentre l’insuccesso attende coloro dei quali nessuno mai potrebbe razionalmente prevedere la sconfitta (v. 30 quos … neges umquam posse iacere, cadunt).
2 – Forte di questa lunga serie di analogie, Ovidio può smentire chi chiama l’amore desidia (“pigrizia, inerzia, accidia”, v. 31). Anzi, proprio come la guerra, esso può risultare occupazione caratteristica solo di una mente ben sveglia e attiva (v. 32 ingenii est experientis Amor). E, contro la tradizionale caratterizzazione del giovane innamorato come un inconcludente immerso nei sogni sentimentali, nella conclusione dell’elegia l’amore viene esplicitamente indicato come un’attività formativa ed eticamente educativa: “Chi non vorrà diventare pigro, si dedichi all’amore” (v. 46 qui nolet fieri desidiosus, amet), esattamente come dice di fare il poeta stesso. Un simile finale ci conduce proprio nel cuore di quell’operazione di transcodificazione valoriale che Ovidio sta compiendo per rendere accettabile l’amore elegiaco nella Roma augustea, in cui, per volontà del princeps, è in atto una severa opera moralizzatrice di ritorno al mos maiorum. Ma l’elemento per noi più indicativo è che questa equiparazione fra amore e guerra è ancora viva nella nostra coscienza linguistica: e, come sappiamo, la semantica è tutto. Anche noi, in fondo, parliamo di strategia da attuare per la conquista, di piani da elaborare perché l’oggetto delle nostre attenzioni ceda, perché una volta espugnatane la resistenza, si arrenda e si dichiari vinto e in potere del vincitore.
3 – Esemplificativa in tal senso è la novella della matrona di Efeso, la fabula Milesia più famosa fra le cinque di Petronio, narrata da Eumolpo in Satyricon 111-112 sulla nave dell’armatore-pirata Lica, per riportare l’armonia dopo la zuffa scoppiata una volta scoperti i clandestini e riconosciuto fra essi Encolpio, che del comandante è il peggior nemico. Molto è stato scritto circa i meccanismi del riso propri della novella; una delle analisi più puntuali è quella di Oronzo Pecere, in un saggio ancora oggi utilissimo. Potremmo però anche analizzare la presenza, nella novella, di diversi punti in cui il campo semantico e le immagini belliche e militari si sovrappongono a quelle che segnano il progredire della conquista erotica. Com’è noto, la novella si colloca all’intersezione di molteplici generi letterari: fabula Milesia dagli inserti mimici e comici, è, allo stesso tempo, anche parodia, con il necessario ribassamento nei ruoli, del racconto virgiliano relativo all’amore fra Didone ed Enea, come segnalano le due citazioni virgiliane di Aen. IV 34, in Sat. 112, 12 (Id cinerem aut manes credis sentire sepultos?) e di Aen. IV 38 in Sat. 112, 2 (Placito etiam pugnabis amori? / Nec venit in mentem quorum consederis in arvis?). In questo ribassamento, diremmo oggi in chiave borghese – o, addirittura, piccolo-borghese – dell’intreccio di sapore tragico proprio della vicenda virgiliana, alla regina corrisponde ora la matrona, anzi, la vidua; al vir, Enea, corrisponde l’anonimo miles, il soldatino di guardia ai cadaveri dei crocifissi; alla principessa Anna, sorella della regina innamorata (e a sua volta corrispondente, per il suo ruolo, alla trophos, la nutrice che nella tragedia rappresenta spesso il buon senso popolare, la communis opinio, e talora si fa aiutante della sua padrona), corrisponde l’ancilla. Ma la catena di analogie può continuare: all’ipogeo, dove si consuma la passione fra la vedova e il soldato, corrisponde la spelunca dove avviene il coniugium fra Didone ed Enea, unione che la regina equipara a nozze legittime, per questo bollando, dopo l’abbandono, l’eroe troiano come perfidus (Aen. IV 405, mentre al verso successivo il medesimo atto è qualificato come nefas): e ricordiamo come in Sat. 112,3 l’unione fra la vedova e il soldato venga qualificata, eufemisticamente, proprio come “nozze” (iacuerunt ergo una non tantum illa nocte, qua nuptias fecerunt…). Ancora: la spelunca, la caverna del racconto virgiliano sta a simboleggiare la segretezza di cui tale unione dovrebbe restare ammantata, benché essa sia equiparata nella sensibilità di Didone a un coniugium: ci pensa però la Fama a divulgare la notizia (Aen. IV 175 viresque acquirit eundo). Viceversa, il soldato della novella petroniana è deliziato non solo dall’avvenenza della vedova, ma anche dalla segretezza (Sat. 112, 4 delectatus miles et forma mulieris et secreto), che aggiunge pepe all’avventura. Ma le analogie non finiscono qui: ricordiamo come Didone, travolta dalla passione, nella sua impossibilità di trovare la pace e il riposo notturno, non possa togliersi dalla mente il volto, gli sguardi e le parole di Enea (Aen. IV 3-5 multa viri virtus animo multusque recursat / gentis honos; haerent infixi pectore vultus / verbaque), come confessa alla sorella (vv. 9-13): “Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent! / Quis novus hic […] hospes, / quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis! / […] quae bella exhausta canebat!“. Del pari la matrona, oggetto di una strenua opera di seduzione da parte del soldato, e qualificata all’inizio come casta, considera il miles dotato di un certo fascino fisico e intellettuale (Sat. 112, 2 Nec deformis aut infacundus iuvenis castae videbatur). La matrona si va, in altre parole, persuadendo lentamente – non potrebbe, dopo tante professioni solenni di virtù, cedere al primo venuto! – grazie all’accorta opera di seduzione del giovane. Egli, infatti, dopo la piacevole sorpresa rappresentata dall’avere scoperto, in un luogo così spettrale e desolato come il conditorium, una donna che, a dispetto dei quattro giorni passati senza cibo, del viso lacerato da unghiate e segnato dalle lacrime, gli appare subito “bellissima” (Sat. 111, 7 visaque pulcherrima muliere), cerca di lanciare un ponte comunicativo in direzione della vedova con argomentazioni consolatorie tanto vere, nella loro essenzialità, quanto trite. Queste argomentazioni (Sat. 111, 8 omnium eundem esse exitum et idem domicilium), nella loro sintesi brutale, depauperata di tutta l’articolazione sapientemente retorizzata che era tipica, per esempio, delle coeve Consolationes senecane, rivelano l’inanità di una certa topica diventata ormai sterile esercizio “di maniera”, come attesta lo sbrigativo terzo elemento della triade argomentativa (et cetera quibus exulceratae mentes ad sanitatem revocantur). Ma il primo attacco viene respinto, e, di fronte all’indifferenza della donna, il soldato ha la perseveranza di non ritirarsi (Sat. 111, 10 Non recessit tamen miles, “il soldato, tuttavia, non batté in ritirata”): elabora così un piano più sottile, coinvolgendo l’ancilla in una strategia aggirante, autentica manovra a tenaglia che costringe alla resa la vedova. Il piano, notoriamente, prevede di suscitare l’interesse dell’ancella tramite il vino e il cibo del suo modesto rancio (e qui la fidissima ancilla sembra assumere caratteri propri di un’altra maschera comica, quella della vecchia ubriaca). La prima tappa viene coronata dal successo (donec ancilla … porrexit ad humanitatem invitanti victam manum, con ipallage, “sino a che, l’ancella, prima porse spontaneamente la mano vinta dal cortese invito del soldato”); il soldato cerca quindi di expugnare dominae pertinaciam (Sat. 111, 10 “espugnare l’ostinazione della donna”), quasi che si tratti di una città assediata da conquistare. Se quel che preoccupava il miles era la pertinacia della donna, ella ora muta atteggiamento, anche grazie alla strategia persuasiva dell’ancilla ora alleata dell’assediante. Tale strategia non deve poi essere particolarmente sottile, dato che, sottolinea maliziosamente il narratore, nemo invitus audit, cum cogitur aut cibum sumere aut vivere (Sat. 111, 13 “nessuno ascolta controvoglia, quando lo si costringe a prendere cibo o a vivere”). Così la donna passa est frangi pertinaciam suam: torna qui il termine pertinacia, indicante quell’ostinazione nel volersi privare del cibo – e dei conforti della vita – che le parole dell’ancilla, e il cibo e le parole del miles, oltre alla di lui non disprezzabile presenza fisica, contribuiscono ben presto non solo a incrinare, ma proprio a “spezzare”. E come, una volta conquistate le fortificazioni più esterne di una città, si può passare a un secondo assalto, diretto verso il cuore di essa, il soldato parte all’attacco, questa volta non dell’ostinazione della vedova, ma del suo pudore: etiam pudicitiam eius aggressus est (Sat. 112, 1). La donna, precedentemente, è stata qualificata come abstinentia sicca (Sat. 111, 13): la voluta ambiguità dell’aggettivo, indicante il duplice essere “a secco” della vedova – di cibo e bevande, ma anche eroticamente – viene ribadito là dove si esplicita la sua capitolazione, che avviene su un duplice livello: ne hanc quidem partem corporis mulier abstinuit, victorque miles utrumque persuasit (Sat. 112, 3,”la donna non tenne a digiuno nemmeno questa parte del corpo e il soldato, vittorioso, la persuase nell’uno e nell’altro campo”).
4 – Il lessico della conquista, il linguaggio tratto dall’ambito militaresco, nella coeva prosa di Seneca sono volti a connotare la lotta contro i vizi per la lenta conquista della sapientia: nella novella petroniana, invece, le immagini agonistiche e il lessico mutuato dall’ambito militare segnano le tappe della progressiva distruzione e polverizzazione della pudicitia, o meglio, di un’immagine di pudicitia che si rivela ben presto uno sterile simulacro. C’è in questa novella petroniana un preciso intento parodico diretto contro il Seneca delle Consolationes e delle Epistulae morales ad Lucilium? John P. Sullivan, nel suo ricco saggio datato 1968 nel Capitolo V (“Critica e parodia nel Satyricon“, in particolare alle pp. 190 ss. dell’edizione italiana) discute di moralità nel Satyricon e nelle opere di Seneca, presenta molti spunti di riflessione in proposito, senza però prendere una posizione netta su molti passi, e affermando infine che: “[…] sembra difficile opporsi alla conclusione che i passi apertamente morali del Satyricon, sospetti come potrebbero esser comunque nella loro cornice umoristica […], siano qui per fini più letterari che didattici” (p. 204). Ma torniamo a quel victor miles … persuasit di Sat. 112, 2. Qui c’è, in prima battuta, il riconoscimento del successo di un attacco progettato razionalmente e condotto con ordine nella corretta articolazione delle sue parti. Ma c’è anche modo di osservare come la vittoria del soldato si connoti soprattutto come coronamento di un’opera di persuasione, o meglio, per parafrasare Dante, del fatto “che bell’onor s’acquista in far persuaso”. La vittoria sembra cioè tanto più onorevole in quanto il nemico cede sì, sconfitto, ma la sconfitta viene da lui percepita come una scelta consapevole, come un’adesione volontaria a un’argomentazione persuasiva che egli è libero di accogliere. In altre parole, in guerra e in amore tutto è concesso: anche, e soprattutto, mascherare l’opera di conquista in quella di una persuasione fra pari. Detto altrimenti, quella che è, tradizionalmente, come abbiamo visto in Ovidio, un’operazione di conquista condotta alla maniera di una campagna militare, o di una battaglia – fuori di metafora, la seduzione – che deve seguire una precisa strategia, diventa in Petronio il campo di battaglia in cui si dispiega la strategia della parola: la stessa attraverso la quale il miles, una volta resosi conto del rischio capitale che corre (in quanto i familiari di un crocifisso, vista allentata la custodia, hanno sottratto il corpo per seppellirlo), presenta indirettamente alla donna il suo suggerimento su come risolvere la spinosa questione. Certamente, egli non potrebbe chiederle direttamente il cadavere del marito da appendere alla croce rimasta vuota. E tuttavia, forte della vittoria che ha riportato da poco, egli osa l’inosabile: e così, attraverso quella che sembra una parodia della meditatio mortis di un aspirante suicida di stampo eroico (Sat. 112, 6), sollecita indirettamente, da parte della vidua, la soluzione che ella stessa, forse, gli vorrebbe proporre. La donna ora è non minus misericors quam pudica, e, da castissima che era (pudicissima, cfr. Sat. 112, 3, in accezione spiccatamente ironica), è ora diventata prudentissima (Sat. 112, 7: né, si noti, viene più qualificata come matrona o mulier, ma, con significativo ribassamento, solo come femina). Motivo di vanto non è più la pudicitia, ma l’ingenium, cioè, la sua “ingegnosa trovata”, che consente di fare tesoro delle risorse esistenti, proprio come si conviene -ed ecco qui che Petronio spariglia le carte ancora una volta – a una buona donna di casa, a una matrona, quale la protagonista del racconto viene presentata sin dalla prima riga della fabula. Si compie così la duplice trasformazione dei protagonisti del racconto, segno che in amore – e in guerra – tutto è lecito e tutto è possibile: sia il passaggio dal ruolo di squallido seduttore a quello di accorto persuasore, sia la transizione, in brevissimo tempo, dal ruolo di pudica vedova, per giunta aspirante suicida, a quello di donna pratica, capace di vilipendio del cadavere del marito per salvare il nuovo amante.
Bibliografia di riferimento
L. Castagna, La Novella della matrona di Efeso: meccanismi del riso, in La matrone d’Éphèse: histoire d’un conte mythique – Colloque international, 25-26 janvier 2002, “Cahiers des Études Anciennes”, 39, 2003, I, 27-42
P. Fedeli-R. Dimundo, Petronio. I racconti del Satyricon, Salerno Editrice, Roma 1988;
M. Labate, L’arte di farsi amare: modelli culturali e progetto didascalico nell’elegia ovidiana, Giardini, Pisa 1984;
O. Pecere, Petronio: la novella della matrona di Efeso, Antenore, Padova 1975;
J.P. Sullivan, The Satyricon of Petronius: A Literary Study, Indiana University Press, 1968 (trad. ital. Il “Satyricon” di Petronio. Uno studio letterario, La Nuova Italia, Firenze 1977).
© Silvia Stucchi, 2018