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  • I giovani nelle Metamorfosi

    I giovani nelle Metamorfosi

    Come affrontare a scuola un poema complesso e sfuggente come le Metamorfosi di Ovidio? Inevitabilmente si tratta di selezionare, di banalizzare forse: gli spazi e i tempi dettati dai programmi scolastici non consentono a chi insegna di essere ambizioso come Ovidio e di abbracciare l’intera storia (dell’opera, e del mondo in essa rappresentato). Questa, allora, la proposta che avanzo: siccome ci si rivolge a dei giovani (gli studenti), si dedichi attenzione ai giovani che compaiono nel poema. Due sono i vantaggi di un simile approccio: il primo è occuparsi di personaggi che sono teoricamente già noti agli studenti da letture pregresse, o che non possono non essere loro noti; il secondo, potere richiamare Virgilio, punto di confronto ineludibile per i poeti epici venuti dopo di lui, e quindi anche per lo stesso Ovidio.

    Virgilio, l’ha spiegato Massimo Gioseffi in un articolo del lontano 2008, è l’autore che per primo apre le porte dell’epica a figure di adolescenti, accomunate dall’anelito a cimentarsi precocemente nella guerra, spesso per dimostrarsi all’altezza dei padri; solo che la guerra non è un gioco da ragazzi, e i giovani sono quasi sempre destinati a soccombere in una lotta che si configura impari fin dall’inizio. Ovidio riprende questa dialettica giovane-vecchio, padre-figlio, ma in maniera originale. I giovanissimi che popolano l’orizzonte delle Metamorfosi si cimentano a loro volta in azioni intempestive e non commisurate alle loro capacità; ma, a differenza di quanto avviene nell’Eneide, queste azioni non hanno nulla di eroico. Sono solo audaci (per qualsiasi mortale, figurarsi quindi per chi non ha ancora raggiunto il pieno controllo delle proprie capacità!), oppure incaute o anche solo semplicemente inconsapevoli. Da ciò deriva una seconda differenza rispetto a Virgilio,  differenza che ha a che fare con l’atteggiamento del poeta nei riguardi dei propri personaggi. Virgilio compiange simpateticamente le vittime della guerra, a prescindere dallo schieramento di appartenenza, e quale che ne sia la responsabilità circa l’epilogo drammatico cui vanno incontro. Ovidio, invece, non mostra necessariamente simpatia per i “suoi” giovani: essi sono artefici della propria rovina, senza sconti e senza riscatto. La rovina è anzi, spesso, la conseguenza diretta della loro giovinezza e delle caratteristiche, in gran parte negative, associate dal mondo latino a questa età.

    Ecco allora tre proposte di lettura, dedicate ad altrettanti personaggi delle Metamorfosi: tutti (o quasi)a confronto, ideale o reale, con gli insegnamenti dei rispettivi padri. Per ognuno di essi offro qui un breve sunto, volutamente orientato, della vicenda in cui è coinvolto e la motivazione della scelta. In allegato, aggiungo una possibile “traduzione” didattica degli episodi esaminati. Alcune precisazioni: le tre proposte sono destinate, idealmente, a una classe quarta di liceo classico o scientifico. “Idealmente”, perché l’allegato può essere scaricato, modificato e riadattato a seconda dei contesti e delle intenzioni di ogni comunità entro la quale si pensi di leggere i testi. Le proposte sono concepite anche come alternative, e non necessariamente come sommative.

    Ancora, in merito ai tempi e agli spazi: tutti i percorsi prevedono una parte di lavoro da eseguire in classe, una parte a casa, a cura degli studenti. In classe si svolgono le fasi di elicitazione, di comprensione e di analisi dei testi. Le acquisizioni vengono rielaborate e riepilogate nella fase di sintesi, in un’ottica di dialogo fra insegnante e alunni. A casa viene assegnata l’analisi, per così dire, “letteraria” dei brani proposti, sulla scorta di confronti con i modelli e le rielaborazioni successive.

    Fetonte è il primo personaggio di questa rassegna dedicata ai giovani nelle Metamorfosi: il primo per collocazione nella compagine dell’opera (I e II libro), e forse anche per importanza, dato che l’episodio che lo vede protagonista è uno dei più lunghi del poema. E dei più noti: numerose sono state le interpretazioni, anche politiche (si pensi all’analisi proposta da Alessandro Barchiesi). Personalmente, intendo soffermarmi sulla interpretazione letterale del testo. Due i nuclei tematici principali della vicenda: il primo è la conferma della paternità del ragazzo, condizione preliminare – in una società spiccatamente patrilineare come quella romana – all’affermazione della propria identità. Il secondo concerne l’incapacità di Fetonte di guidare il carro del Sole. Il dio, per convincere il ragazzo che è veramente suo figlio, gli ha concesso di domandare qualsiasi cosa voglia. Fetonte chiede di essere, per un giorno, auriga del cocchio con cui il dio porta la luce sulla terra. La richiesta è densa di significato: Fetonte vuole sostituirsi al padre nel compito che gli è proprio e che più lo qualifica. Se si mostrasse all’altezza, dimostrerebbe di esserne il degno figlio. Il Sole, di fronte alla richiesta, rimpiange la propria promessa, e tenta di fare cambiare idea al figlio. Significativamente, il primo argomento a cui ricorre è proprio la giovinezza e la debolezza che ad essa è intrinseca: Magna petis, Phaethon, et quae nec viribus istis / munera conveniant nec tam puerilibus annis (vv. 54-55). L’aggettivo puerilis, preceduto dall’avverbio rafforzativo tam, fa apparire la richiesta come il capriccio di un bambino, che non si rende conto di stare scherzando col fuoco (nel vero senso della parola). In seguito, il Sole fa notare a Fetonte che ciò che desidera non è adatto a un mortale: chiedendo di guidare il carro, infatti, pretende più di quanto perfino un dio potrebbe sperare. Le aspirazioni di Fetonte sono inadeguate e determinate dall’inconsapevolezza, come segnalato dall’attributo nescius (v. 589). In tale inconsapevolezza sarei incline a vedere, di nuovo, un riferimento alla giovane età del figlio: agli occhi del padre, Fetonte appare un ragazzetto in preda alla propria ambizione, che non sa quello che vuole. Infine, il Sole promette a Fetonte che la mancata soddisfazione della richiesta sarà compensata dall’ottenimento di qualunque altra cosa possieda l’universo ricchissimo. La risposta è prevedibile: il giovane non sa individuare il proprio ruolo nel mondo, ed è eccessivo nelle ambizioni. A questo punto, il Sole si rassegna. Fa un ultimo tentativo per convincere Fetonte a non volersi sostituire a lui: ma Fetonte conferma il suo essere inscius delle proprie forze e si butta con foga sul carro. L’epilogo è tragico, ma tutto inscritto nelle premesse del racconto: Fetonte è debole e nuovo al mestiere (l’accezione negativa sottesa all’idea di novitas nel mondo romano trova qui conferma), il cocchio non gli risponde. Quando si rende conto dell’altezza vertiginosa cui l’ha condotto la propria ambizione e che, alla prova dei fatti, non è in grado di dominare, il giovane si fa prendere dalla paura, trema e sviene. Finalmente è consapevole della propria responsabilità: adesso rimpiange di avere ottenuto dal padre ciò che voleva; preferirebbe, dice, chiamarsi figlio di Merope. Ma è troppo tardi: l’universo rischia la catastrofe e Giove interviene a salvare la situazione. Con le sue folgori colpisce Fetonte, che rotola giù dal carro tanto agognato e precipita nel fiume Eridano.      

    È lo stesso Ovidio ad accostare Fetonte e Icaro nell’elegia proemiale dei Tristia. Anche Icaro esce di rotta e finisce per volare troppo in alto; tentativo che, per entrambi, si risolve in un fallimento: Fetonte precipita nell’Eridano, Icaro nel mare che da lui prende il nome. Se il Sole si era però mostrato troppo accondiscendente nei confronti del figlio (salvo pentirsene e cercare di farlo ravvedere, quando ormai è troppo tardi), le responsabilità di Dedalo sembrano accentuarsi. È lui il colpevole dell’esilio da Atene; è sempre lui a volere fare ritorno in patria per mezzo di un volo inadatto a un mortale, e quindi a maggiore ragione tale per un puer, quale è suo figlio. Ma Ovidio non risparmia nemmeno Icaro: è Icaro che, ignarus sua se tractare pericla (met. VIII 196), si compiace dell’apparato di penne costruitogli dal padre, entro il quale si pavoneggia prima e dopo di sperimentarlo nel volo. E sempre Icaro che, inebriato dall’audacia della nuova esperienza, cum puer audaci coepit gaudere volatu (met. VIII 223), si avvicina troppo al sole, dimentico dei consigli paterni, e provoca così lo scioglimento delle ali che il padre gli aveva fabbricato. Dedalo e Icaro sono figure che dovrebbero essere già note alla classe, perché sono state incontrate nella presentazione del carme 64 di Catullo e del VI libro dell’Eneide. La rielaborazione ovidiana del mito consente di approfondire la loro vicenda. Proprio il confronto con i pochi versi virgiliani può risultare però particolarmente significativo sia del diverso modo di costruire la narrazione da parte dei due poeti, sia del diverso pathos e valore morale che ognuno di essi attribuisce alla vicenda. Un esempio di audacia punita per l’uno come per l’altro poeta: ma mentre Ovidio insiste, come s’è visto, sulle colpe umane dei suoi protagonisti, Virgilio (che pone il mito come esempio di coppia mortale che sfida le leggi della Natura, esattamente come di lì a poco faranno, con la catabasi da vivo di Enea, anche l’eroe troiano e suo padre) assegna al racconto un valore quasi “figurale”, e lo trasformazione nell’ammonizione a non volere trascendere le leggi della vita, se non si ha la sicurezza del favore divino. Facilis descensus Averno.

    L’ultimo personaggio che propongo in questo percorso è Proserpina. La dea si segnala rispetto ai due casi precedenti, in quanto il racconto che la riguarda mette in gioco un universo al femminile, con una figlia e una madre, e non un padre (situazione per la quale non sarebbero mancati altri possibili casi, così come numerosi sono ancora i casi di giovani inscii, uno per tutti Narciso). Ho però scelto Proserpina proprio per la possibilità di una declinazione tutta al femminile della sua vicenda, e tutta entro un ambito divino. Anche Proserpina, infatti, come Fetonte e Icaro, vanifica i tentativi del genitore (qui, una genitrice) di conservarla in vita. La ragazza viola la condizione che Giove aveva posto a Cerere perché la figlia potesse tornare stabilmente sulla terra. Cibandosi di sette chicchi di melograno mentre passeggia nei campi dell’Averno, ella sancisce la propria appartenenza a quel regno per altrettanti mesi dell’anno e compie una scelta che non è però, così come la propone il poeta, un atto voluto e meditato di affermazione di sé e della propria autonomia, ma un gesto compiuto per leggerezza, senza stare a pensarci troppo, avvenuto cultis dum simplex errat in hortis (met. V 535).

    Simplex, ignarus, nescius: l’aggettivazione messa in campo da Ovidio è ferrea e significativa. L’audacia, nel bene e nel male, è caratteristica connaturata alla giovinezza; audax era, fin dalla sua prima apparizione (Aen. VIII 110), anche il virgiliano Pallante, l’icona forse più bella dei giovani nell’Eneide. Ma audax e audacia sono, in latino, voces mediae, parole che si possono interpretare in senso tanto positivo quanto negativo. L’epica si era perciò incaricata di spiegare ai lettori come, e con quali cautele, l’audacia andasse incanalata, per diventare dote costruttiva, e non distruttiva, di sé e degli altri. Virgilio aveva posto il problema, individuando nella dinamica padri/figli e nel bisogno emulativo che i figli nutrono nei confronti dei padri l’elemento di forza, ma anche di rischio, nel rapporto fra le generazioni. Ovidio, più attento alle ragioni interiori dei suoi personaggi, evidenzia quali siano le ragioni di un possibile fallimento di quella dinamica. Ai giovani di oggi il compito di tornare a discutere sull’argomento, con le loro proposte e le loro convinzioni!

    © Valentina Chinese, 2021

  • Claudiano e Eutropio

    Claudiano e Eutropio

    Riportiamo l’audio dell’intervento tenutosi l’11 giugno 2020, su piattaforma Zoom, nell’ambito dell’incontro intitolato Extra limina. E’ un audio preso in diretta, con tutti i limiti e gli incidenti del caso, sia nell’esposizione che nella qualità sonora. Solo abbiamo “frantumato” la registrazione complessiva (della durata di poco più di trenta minuti), in modo da fare combaciare audio e schermate pdf, in occasione dell’incontro presentate a schermo condiviso. Sotto ogni immagine si trova quindi la sezione di parlato corrispondente. Tanto le immagini quanto l’audio sono scaricabili, con i procedimenti consueti.

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    © massimo gioseffi, 2020

  • Una proposta per Cesare

    Una proposta per Cesare

    Perdurando il periodo della cosiddetta “Didattica a distanza” (DAD), ho ritenuto opportuno proporre ai miei studenti anche delle verifiche scritte. Naturalmente, tale esigenza non è nata da un’ansia docimologica o dalla preoccupazione di non avere sufficienti elementi di valutazione, dal momento che la circostanza eccezionale imporrà duttilità anche su questo aspetto dell’azione didattica. Come tutti i colleghi, anche io ho pensato soprattutto  all’opportunità di non creare una frattura difficilmente recuperabile, dopo un’interruzione prolungata, in  termini di capacità di  analizzare e rielaborare concetti, idee, forme espressive, in una produzione scritta.

    Ma come strutturare uno scritto di latino in modo che la prova corrisponda – almeno in parte – alle fatiche e alle capacità individuali di ogni studente, e non a forme di solidale e condivisa collaborazione tra compagni e frenetica consultazione di fonti più o meno attendibili? Pur tra molte incertezze, alla fine ho predisposto per la mia classe terza (liceo scientifico) una verifica sul De bello civili di Cesare.

    Faccio alcune premesse didattiche e tattiche. La prima: il brano proposto  non era noto ai ragazzi, ma loro conoscevano il De bello civili, avendo letto e analizzato insieme a me  I, 3-4 (in italiano); I, 7 (italiano); III, 82 (italiano); III, 90-91 (in latino); III, 96 (in latino). Per ovvi motivi, ho fornito io stessa la traduzione del brano, dal momento che sarebbe stato impossibile verificare le reali competenze traduttive a distanza. Le domande poste miravano a ricondurre obbligatoriamente gli studenti sul testo latino, e a fare in modo che la traduzione in italiano fosse solo un aiuto, ma non la base delle loro riflessioni.

    Dal momento che il mio liceo usa la piattaforma GSuite, ho caricato il compito su classroom dieci minuti prima del videocollegamento, nel corso del quale ho chiarito le richieste e spiegato le consegne, per non dare troppo tempo di “guardarsi in giro”, a discapito dell’originalità e della profondità dell’approccio al testo da analizzare e commentare. Gli studenti hanno lavorato senza il mio controllo, ho solo chiesto di caricare su classroom i loro compiti entro due ore. A fronte di domande differentemente impegnative, ho pensato di valutare percentualmente ogni singola risposta e di adottare, quali criteri per l’attribuzione dei punteggi,  la pertinenza (sempre fondamentale, ma in particolare con le attuali modalità didattiche, dal momento  che, se un ragazzo scarica qualcosa di generico sul testo o l’autore, la pertinenza è il primo elemento a soccombere), la ricchezza delle conoscenze e la capacità di analisi , l’originalità e la forma espressiva.

    Non sarei sincera se non precisassi che ho lavorato con una classe di grande spessore (lo scorso anno, in seconda liceo, otto studenti hanno conseguito  la certificazione linguistica di latino, a vari livelli) e quindi, anche a distanza, ho potuto leggere e correggere un certo numero di elaborati eccellenti, ricchi contenutisticamente e analiticamente, originali, personali. Ecco dunque la prova somministrata, leggibile (e scaricabile) secondo le consuete regole d’uso dei PDF:

    Ora che ho corretto e restituito tutti i compiti, posso dire che le prove rispecchiano in modo piuttosto attendibile i profili di questi ragazzi, nei punti di forza e in quelli di debolezza. Sicuramente ci sono state forme di aiuto reciproco, ma ho l’impressione che queste siano state limitate e attivate solo a fronte di quelle domande che gli studenti avrebbero trovato complesse anche in classe, e quindi ammetto di non essere in grado di capire fino in fondo se attribuire  la vaghezza e la ripetitività di certe risposte a un lavoro “messo in condivisione” o alla complessità richiesta per  elaborare affermazioni puntuali e convincenti a certi quesiti.

    In particolare, mi riferisco alle domande 2 e 5; nel primo caso, alcuni hanno fatto fatica a passare da una semplice descrizione della struttura sintattica del testo a una prospettiva analitica, soprattutto a un’indagine sul rapporto tra sintassi e tematiche. Nel secondo caso, alcuni studenti hanno fatto fatica a esprimere un giudizio su un giudizio, semplificando la risposta in direzione di un commento ai testi di Cesare (prescindendo dalle parole di Canali) o – al contrario – in direzione di un commento alle parole di Canali (trascurando o scivolando lievi sui testi di Cesare). Ma questo è un problema che riscontro anche nelle verifiche di italiano, quindi trasversale e non di pertinenza esclusiva del latino.

    © Letizia Forte, 2020

  • Un artificio di Plauto

    Un artificio di Plauto

    Può essere interessante proporre un’analisi delle commedie plautine a partire da un punto di vista inedito, trascurato dalla critica, anche quella “ufficiale”. Mi riferisco alla tecnica dell’“a parte”, quell’artificio teatrale che, già presente nel teatro greco, ha conosciuto in epoca contemporanea un importante sviluppo, soprattutto come strumento d’indagine della psiche e dei pensieri più profondi dei personaggi che agiscono in scena, che così possono essere svelati e condivisi con il pubblico.

    Ma che cosa è, propriamente, un “a parte”? L’“a parte” si realizza quando un personaggio parla direttamente al pubblico, con l’intenzione precisa di non farsi sentire dagli altri personaggi che condividono con lui, in quel momento, il palcoscenico. La tecnica si rivela quindi come una voluta rottura della finzione teatrale, la cui efficacia dipende dal legame che palcoscenico (attore) e platea (pubblico) instaurano nel corso della messinscena. Le parole pronunciate in “a parte” godono infatti di uno statuto speciale, perché sono udite solo dal pubblico per una precisa scelta del personaggio e, ovviamente!, del commediografo che gliele fa pronunciare. L’”a parte” mette in discussione anche il rapporto tra attore e personaggio. Nella realizzazione di un “a parte”, infatti, l’altro personaggio presente in scena non sente le battute pronunciate, ma l’attore che lo incarna ovviamente sì, anche perché deve sapere quando replicare con le sue battute, collegandosi all’azione che si sviluppava prima dell’”a parte”, in modo tale da far procedere l’azione. A essere coinvolta è quindi l’intera dimensione finzionale del teatro, rispetto alla quale Plauto dimostra grande consapevolezza, al punto da non perdere occasione di usare questo artificio, come altri, quale strumento di riflessione sul teatro stesso.

    La situazione per cui le parole di un personaggio non sono udibili da un altro personaggio, pur presente in scena insieme con lui, potrebbe infatti risultare poco credibile, se non venisse preparata adeguatamente. Perché l’“a parte” funzioni è necessario che il pubblico capisca la situazione e sia in grado di tracciarne i confini. Da questo punto di vista risultano utili i segnali discorsivi che accompagnano l’entrata e l’uscita dall’“a parte”. Questi segnali servono anche per dedurre qualche informazione circa le modalità della rappresentazione stessa, costituendo dei veri e propri elementi di regia. Posta la difficoltà per noi moderni di ricostruire la messinscena nel mondo antico, è bene sottolineare che l’”a parte” è innanzitutto un fatto testuale. È chiaro che la sua piena realizzazione prende corpo nella messinscena, ma è altrettanto vero che esso resiste alla lettura, ragione per cui sono possibili alcune osservazioni registiche al riguardo. Due sono le modalità di realizzazione di un “a parte”: nel primo caso, la battuta viene pronunciata da un personaggio non  visto dagli altri presenti in scena; nel secondo caso l’“a parte” si presenta come un’interruzione nell’andamento di un dialogo o come una sua introduzione. A queste due modalità corrispondono dei segnali discorsivi precisi. Essi sono volti, nel primo caso, a dichiarare il mettersi in disparte dei personaggi, per meglio origliare il monologo o il dialogo degli altri personaggi presenti sul palco, e, allo stesso modo, il loro successivo andare incontro a questi ultimi quando hanno deciso di porre fine alla loro segregazione; nel secondo caso, i segnali discorsivi servono a sottolineare la mancata percezione da parte degli altri personaggi delle parole pronunciate da chi si esprime nell’“a parte”. Per chiarire: se un personaggio pronuncia le sue battute in “a parte”, non visto dagli altri, di cui sta però ascoltando la conversazione, nel dialogo plautino sono spesso presenti espressioni come sermonem accipere, sermonem captare, subauscultare, clam, clanculum, concedere, abscedere. Se invece un personaggio interrompe il dialogo per concedersi un “a parte”, nel testo si trovano, in bocca al suo interlocutore, espressioni come quid te solus tecum loquere?, quis hic loquitur? ecc., che indicano chiaramente che le parole pronunciate in “a parte” non sono state sentite.

    Ma come si comportano gli altri personaggi in scena, mentre viene pronunciato un “a parte”? Chi condivide in quel momento il palcoscenico, può comportarsi in due modi: o immobilizzarsi, creando una sorta di fermo immagine (molto funzionale nel caso dell’interruzione del dialogo), o proseguire il proprio movimento scenico (soluzione più adatta quando il personaggio che si esprime in ” a parte” non solo non viene udito, ma nemmeno visto dagli altri personaggi in quel momento in scena).

    Risolti questi problemi di carattere generale, resta da osservare che l’“a parte” non è un espediente raro e ricercato nel teatro plautino. Le battute pronunciate in “a parte” sono, nelle commedie a noi pervenute, più di cinquanta. Un numero così elevato richiede una riflessione: qual è la finalità cui Plauto tende con questa tecnica? Propongo di individuare almeno cinque scopi diversi (anche se non sempre così nettamente distinti, come invece li dividerò ora) : far ridere, creare un equivoco, commentare lo sviluppo dell’intreccio, commentare una questione di attualità, svelare la natura metateatrale di una scena. Vediamone alcuni esempi.

    Far ridere

    L’”a parte” è uno degli strumenti di cui Plauto si serve per suscitare la risata. La tecnica assolve in maniera efficace allo scopo comico, perché crea un doppio livello di ascolto: uno legato al mondo rappresentato, l’altro di commento a tale finzione. A ciò corrispondono inevitabilmente due differenti visioni di quanto accade in scena. In alcuni casi i commenti “a parte” servono a rendere caricaturale un personaggio, enfatizzandone i tratti comici; in altri, ad abbassare il tono del discorso, in modo da creare un rovesciamento, che sorprende lo spettatore perché contrario alle sue aspettative. Nell’Aulularia, ad esempio, l’incontro tra l’avaro Euclione e il vecchio Megadoro non avviene secondo il normale andamento di un dialogo: Euclione infatti, servendosi dell’“a parte”, interrompe continuamente la conversazione per esprimere il suo timore per l’incolumità della pentola in cui ha nascosto il suo denaro (vv. 183-199). Agli occhi dello spettatore si rivela così la psicosi del vecchio, che vive nel costante terrore che l’adorata pentola gli venga rubata, al punto da fraintendere le intenzioni di chiunque gli si accosti per parlargli. Sempre rivolgendosi a Megadoro (vv. 543-549), Euclione interpreta a modo suo tutte le affermazioni del vecchio: preoccupato che possa avere scoperto l’oro, si affretta a dichiarare la propria condizione di povertà (Neque pol, Megadore, mihi neque cuiquam pauperi, opinione melius res structa est domi). L’intento di Megadoro è quello di sposare la figlia di Euclione senza nemmeno esigere una dote, per questo cerca di rassicurarlo, affermando che i suoi beni non solo resteranno immutati, ma saranno addirittura accresciuti (immo est et di faciant ut siet, plus plusque et istuc sospitent quod nunc habes). Euclione però non è ancora a conoscenza delle intenzioni del vecchio e crede che Megadoro sappia della pentola (Illud mihi verbum non placet ‘quod nunc habes’. Tam hoc scit me habere quam egomet. Anus fecit palam). Come si può notare, i commenti “a parte” di Euclione non fanno altro che evidenziare il suo continuo vivere in una condizione di sospetto, di timore. Questa modalità rende caricaturale la figura dell’avaro, i cui unici pensieri sono rivolti alla al proprio denaro e alla pentola che lo contiene. Anche Molière, nella sua riscrittura L’Avare, presenterà il vecchio Arpagone nel costante timore di essere derubato, provando come la comicità plautina sia riuscita ad attraversare, immutata, i secoli.

    Creare un equivoco

    Lo scambio di persona è un espediente caro a Plauto. Nelle commedie dei simillimi (Amphitruo, Bacchides, Menaechmi), l’intreccio muove proprio a partire da un equivoco di questo tipo, che genera forte comicità. È spesso attraverso l’“a parte” che i personaggi dichiarano il loro essere caduti in errore, consentendo così al pubblico di comprendere la serie di fraintendimenti che lo scambio di persona determina nel corso dell’intreccio. Uno degli esempi più divertenti è offerto dai Menaechmi. Lo scambio involontario tra Menecmo I e Menecmo II ha consentito a quest’ultimo di banchettare piacevolmente in compagnia di una donna (l’amante di Menecmo I) e di ricevere beni preziosi senza avere speso nulla. Quando poi Menecmo II incontra la moglie di Menecmo I, quest’ultima lo scambia per suo marito; non trovando altra via d’uscita, Menecmo II si finge allora pazzo, costringendo la donna a chiamare suo padre e un medico. Approfittando di una distrazione della donna, Menecmo II fugge, ed è proprio a questo punto che entra in scena Menecmo I (vv. 910-922). Incollerito per essere stato messo alla porta dalla sua amante (è infatti Menecmo II ad essersi goduto il banchetto!), risponde con ira alle domande del medico (Quin tu is in malam crucem?), volte a chiarire la sua sanità mentale (Dic mihi hoc quod te rogo: album an atrum vinum potas?); nella reazione di Menecmo I il medico e il suocero leggono chiari sintomi di pazzia (Iam hercle occeptat insanire primulum; Audin tu ut deliramenta loquitur?). Solo con lo scioglimento dell’intreccio viene fatta chiarezza sulla vicenda, che si chiude con il reciproco riconoscimento dei gemelli. Perché l’equivoco funzioni è necessario che la coppia di simillimi non sia mai in scena nello stesso momento, ma che lo spettatore sappia sempre (ed è qui che ha il suo ruolo l’”a parte”) quale fra i due gemelli è quello in quel momento in scena (se segni esteriori differenziassero i due personaggi, verrebbe meno la credibilità complessiva del racconto). La grande capacità di Plauto nel variare su uno stesso tema lo ha però portato a elaborare anche un’eccezione alla prima regola: l’Amphitruo. La commedia si apre infatti con l’incontro della coppia di identici, Sosia e Mercurio, e tratta, per la prima volta nella storia della letteratura occidentale, il tema esistenziale del doppio, i cui risvolti (allo stesso tempo comici e drammatici) sono di nuovo messi in risalto proprio attraverso la tecnica degli “a parte”.

    Commentare lo sviluppo dell’intreccio

    Talvolta l’“a parte” viene sfruttato per chiarire lo sviluppo dell’intreccio, ora facendo il punto della situazione che si è creata sul palco, ora per dichiarare i propri intenti, rendendo così il pubblico abile alla comprensione di quanto si svolge sotto i suoi occhi. Inoltre, nei casi in cui il personaggio che recita in “a parte” non solo non viene udito, ma nemmeno è visto dagli altri personaggi presenti in scena, egli è messo in condizione di origliare le conversazioni altrui. Ne consegue che il personaggio in questione possa venire a conoscenza di informazioni che sarebbero dovute restare segrete, determinando così una svolta nell’azione scenica. È il caso del servo Calino nella Casina (vv. 467-489). Origliando la conversazione del vecchio Lisidamo e di Olimpione (huc aures magis sunt adhibendae mihi), Calino ne scopre le trame (Nunc pol ego demum in rectam redii semitam: hic ipsus Casinam deperit. Habeo viros!) e corre a riferirle a Cleostrata, moglie di Lisidamo, che preparerà una vendetta umiliante per il marito: Lisidamo si troverà infatti a letto con il servo Calino, travestito dalla bella Casina.

    Commentare questioni di attualità

    Il teatro plautino è spesso portato a riflettere sulla realtà in cui vive. Scopo primario delle commedie plautine è certo far ridere, senza velleità rivoluzionarie o sovversive; è però vero che al loro interno si possono individuare alcune riflessioni di carattere culturale e pedagogico, per noi importanti, perché veicolano informazioni circa la realtà, i costumi e gli usi al tempo di Plauto. Uno spunto particolarmente interessante riguarda l’opinione plautina sulla filosofia, che proprio in quegli anni iniziava a diffondersi a Roma. Mi riferisco in particolare all’uso del verbo philosophari nei Captivi. Dopo essersi scambiati identità, Filocrate e il suo servo Tindaro vengono interrogati dal vecchio Egione, loro padrone; mentre Filocrate risponde alle domande di Egione, Tindaro commenta “a parte” le parole del giovane, facendo riferimento, nel giro di pochi versi, a Talete di Mileto e servendosi del verbo philosophari (vv. 271-276; 283-284). Ma qual è l’immagine che Tindaro ci presenta? Sembra che per il servo la filosofia sia un mezzo per ingannare le persone e non per cercare la conoscenza. Talete, a paragone di Filocrate, non è che un nugator, per il quale Tindaro non spenderebbe nemmeno un talento (Thalem talento non emam Milesium). Ma c’è di più: quando Filocrate parla della morte, da sempre tema centrale nel pensiero filosofico, Tindaro afferma che il giovane, oltre ad essere bugiardo (non mendax modo est), starebbe anche facendo della filosofia (philosophatur quoque iam).

    Svelare la natura metateatrale di una scena

    All’interno del corpus plautino, un esempio emblematico dell’uso dell’“a parte” si può trovare ancora una volta nell’Amphitruo. Nell’incontro tra Sosia e Mercurio, Plauto dimostra la sua capacità di giocare con il genere comico, sovvertendo e modificando lo statuto di alcune tecniche. Il dialogo si svolge su due direttrici fondamentali, una di Sosia, l’altra di Mercurio, che si intrecciano e si ribaltano nel corso della scena. Tutta la prima parte è infatti occupata dal monologo di Sosia, inframmezzato dai commenti “a parte” di Mercurio; il verso 292 fa da spartiacque, perché a quel punto Sosia si accorge di non essere solo e la situazione si ribalta: al verso 300 Mercurio attacca con il suo monologo e a commentare “a parte” ora è Sosia. Se nel corso del dialogo è possibile individuare ciascuna delle casistiche evidenziate in precedenza, la scena offre un ulteriore spunto. Il dialogo tra i due personaggi non è alla pari: Mercurio, in quanto divinità, sta al di sopra di Sosia e orienta la conversazione per spaventare l’interlocutore e rubarne l’identità. Il dio, fingendo di non aver visto Sosia, pronuncia il suo monologo mentre il servo può commentare “a parte”. Come osservato, è comune una dichiarazione d’intenti dei personaggi che si preparano a recitare in “a parte”, e così fa anche Mercurio, ma con finalità opposta, cioè con l’intenzione precisa di farsi sentire (Clare advorsum fabulabor, hic auscultet quae loquar. Igitur magis modum maiorem in sese concipiet metum). In questo modo, tutti i commenti “a parte” di Sosia (che crede di non essere sentito, e cerca una complicità con il pubblico, a danno di Mercurio, ignorando che in realtà il pubblico è già stato informato e reso a sé solidale dal dio) si tingono di forte, ulteriore comicità.

    La varietà di casistiche offerte dai testi plautini costituisce dunque un buon punto di partenza per chi voglia cimentarsi nello studio di questo poeta. Va da sé che la suddivisione proposta è specifica dei testi plautini e, per poter essere applicata anche ad altri autori, richiede di essere ridiscussa; ma è altrettanto vero, come già si è accennato, che gli strumenti del teatro comico non sembrano differire poi troppo nel trascorrere da un autore a un altro, da testo a testo, da epoca a epoca. Lo studio degli “a parte” rivela la modernità del comporre plautino, nel quale troviamo già definite molte delle strategie comiche ancora oggi efficaci. Non vanno sottovalutati nemmeno l’alto grado di consapevolezza con il quale Plauto fa uso di questo espediente e l’abilità da lui dimostrata nel porre l’attenzione sul ruolo del pubblico e sul patto esistente tra autore/attori e spettatori: condizione essenziale per rendere possibile il teatro…

    ©  Agnese Di Girolamo, 2020

  • Testo al centro

    Testo al centro

    Più volte si è sentita esprimere la convinzione (anche dalle pagine di questo sito), che la traduzione di un testo, quale che sia la lingua in cui si esprime l’originale, debba essere solo l’ultima tappa di un percorso più lungo e vada quindi affrontata, specie nella forma scritta, solo nel momento in cui lo studente, insieme all’insegnante, abbia già svolto un lavoro di comprensione e di analisi profonda del testo di partenza. Il discorso vale, ovviamente, anche per il latino. Anzi, soprattutto per il latino. L’eterogeneità dei percorsi liceali che prevedono lo studio di questa materia, caratterizzati da un diverso numero di ore settimanali scuola per scuola, il permanere o meno della disciplina nel percorso quinquennale e le diverse finalità alle quali, stanti le indicazioni ministeriali, lo studio del latino dovrebbe oggi guardare, rendono assolutamente necessario esplicitare l’impossibilità di cercare nella traduzione una sorta di risposta unica e universale al testo; e allo stesso tempo anche l’assurdità di costruire muri, figli di un malinteso grammaticalismo e della “flotta di Roma” che non è “romana”, al posto di aprire ponti con il mondo classico e innalzare nuovi edifici sulle fondamenta di quello.

    Propongo dunque qui, a partire da questa convinzione, un possibile testo di esercitazione (da sfruttare così come è, o come semplice modello), che si immagina valido per studenti di fine biennio o di terzo anno, e che può essere utilizzato come prova di accertamento linguistico o come verifica pratica delle nozione acquisite nel percorso di letteratura. Il brano che si presenta contiene infatti una serie di costrutti che, stando alla maggior parte dei libri di grammatica del biennio, sono stati ampiamente affrontati a metà circa del secondo anno.

    Partiamo dunque dal testo. Ho scelto un passo di Cesare, De bello Gallico VI, 24.

    Fuit antea tempus, cum Germanos Galli virtute superarent, ultro bella inferrent, propter hominum multitudinem agrique inopiam trans Rhenum colonias mitterent. […] Nunc quod in eadem inopia, egestate, patientia qua Germani permanent, eodem victu et cultu corporis utuntur; Gallis autem provinciarum propinquitas et transmarinarum rerum notitia multa ad copiam atque usus largitur, paulatim adsuefacti superari multisque victi proeliis ne se quidem ipsi cum illis virtute comparant.

    Dall’originale ho eliminato un ac iniziale, che, come spesso accade in Cesare, collega il capitolo con quello che precede. In realtà, volendo inserire il brano in un contesto che lo renda più facilmente comprensibile (e, personalmente, penso che avrei fatto così in classe), mi sembrerebbe opportuno accompagnare il testo con il capitolo che viene prima e con quello che viene dopo, in originale ma accompagnati da una traduzione italiana, come succede nella pratica delle prove olimpiche e, in misura solo parziale, per la seconda prova dell’esame di Stato nei licei classici. Allo stesso modo, ho tolto la parte centrale del capitolo, facilmente recuperabile per chi la volesse reintegrare, perché meno incentrata sulla contrapposizione antea / nunc che mi premeva mettere in evidenza. Le frasi tagliate, con i loro riferimenti alle popolazioni che hanno successivamente occupato la silva Hercynia e all’’auctoritas di Eratostene e degli altri geografi greci consultati da Cesare, mi sembravano divagare da questo e spostare l’attenzione dal nucleo centrale del brano. Naturalmente, diverso sarà l’atteggiamento di chi, come detto, nel testo cerca una verifica dell’agire letterario di Cesare e di chi, come farò ora invece io, al brano è interessato principalmente per il suo nocciolo concettuale e per le possibilità di verifica che esso offre.

    In tale prospettiva, ritengo possibili tre diversi approcci, applicabili in contesti e situazioni differenti. Non si tratta di scegliere l’uno piuttosto che l’altro, alla ricerca di quale sia il metodo migliore; ognuno è semplicemente in grado di suscitare domande diverse, così da sollecitare risposte e competenze diverse. Pertanto, una volta somministrato il testo alla classe, si chiederà di rispondere alle domande che seguono. Valgono due regole generali: la risposta va formulata in italiano; parte integrante della risposta è però l’individuazione della frase latina che la determina, e che va sottolineata nel testo e trascritta come elemento irrinunciabile della risposta. Ecco dunque le tre possibilità.

    PRIMO APPROCCIO: comprendere “dal” testo

    1. Per quale motivo i Galli, nel passato, hanno colonizzato il territorio dei Germani?
    2. Che cosa è cambiato nel corso del tempo per le popolazioni germaniche?
    3. Quali elementi hanno determinato la trasformazione dei Galli?
    4. La debolezza dei Galli con quali parole è esplicitata in conclusione del brano?

    Questa modalità ha un limite evidente. Cercando la traduzione sui molti siti per studenti disponibili in rete, è relativamente facile fornire la risposta in italiano e poi risalire da questa alla frase in latino che la giustifica. Questa tipologia di lavoro è perciò consigliabile in situazioni in praesentia, dove la possibilità di accedere alla rete è assente (o, almeno, dovrebbe esserlo). Il pregio di quest’approccio è la possibilità di superare, soprattutto per gli studenti del biennio, l’ansia della traduzione, permettendo nel contempo di far capire che prima della traduzione è imprescindibile la comprensione del brano. Volendo, naturalmente, è sempre possibile integrare questa formulazione con domande di più stretta osservanza grammaticale. Valga d’esempio, nel nostro brano, la possibilità di individuare particolari costrutti quali il cum narrativo, le subordinate causali, i participi congiunti etc…

    SECONDO APPROCCIO: comprendere un mondo

    In questo secondo caso, le modalità di somministrazione del testo e di risposta ai quesiti formulati non sono differenti. Cambia semplicemente il focus delle domande. Pertanto, si tratta di un esercizio che non è necessariamente alternativo al primo, ma che si può immaginare come suo complemento. Ecco allora due possibili domande suscitate dal brano:

    1. Nel brano è possibile scorgere, da parte di Cesare, un collegamento polemico anche con il presente di Roma? Se sì, in quale parte tale riferimento viene, secondo te, esplicitato?
    2. Nella frase Trans Rhenum colonias mittere Cesare usa il termine “colonia”, vocabolo strettamente “romano”, per indicare operazioni politico-militari dei Galli. Che cosa si intende nel mondo latino per colonia?

    Tali domande hanno lo scopo non solo di verificare la comprensione del brano, ma anche di aiutare a costruire un collegamento tra ciò che si legge e ciò che già si conosce (o si dovrebbe conoscere). Ovviamente, le domande possono essere modificate a piacere, partendo da quanto ciascun docente ha approfondito nello sviluppare le competenze di “civiltà” della cultura latina, come suggerito dalle cosiddette “indicazioni Gelmini”, e/o dal contributo interdisciplinare che ha offerto il collega di Storia del biennio. Va osservato che per rispondere a queste domande la traduzione del brano ricavata da qualche sito può essere certo d’aiuto, ma non è dirimente. Il lavoro di fondo deve venire per forza di cose realizzato dallo studente, e deve essere realizzato mettendo in relazione fra loro vari strumenti e varie acquisizioni di sapere, nessuna delle quali è di per sé in grado di sostituirsi alla sua autonoma rielaborazione del tema.

    TERZO APPROCCIO: comprendere “nel” testo

    Anche in questo caso le modalità di somministrazione del testo e di risposta ai quesiti formulati possono restare le stesse. Cambia di nuovo, però, il focus delle domande. Per questo, si tratta sempre di un esercizio non necessariamente alternativo ai precedenti. Ecco quindi altre due possibili domande suscitate dal brano:

    1. Alla prima riga si fa riferimento a un passato in cui Germanos Galli virtute superabant; cosa intende qui Cesare con il sostantivo virtus?
    2. Il termine virtus ritorna nel finale del brano. Perché è così importante questo concetto all’interno del passo in esame? Che cosa vuole far comprendere Cesare nel suo racconto?

    In questo approccio, l’idea è di partire dal testo per scavare nella sua profondità. I brani hanno sempre un messaggio che vogliono veicolare, ed è importante aiutare gli studenti a percepire il senso profondo di quanto leggono. Oltre alla grammatica, quindi, e alla “semplice” comprensione di ciò che accade, è necessario che essi sappiano intuire anche il valore del brano che leggono, prescindendo dalla sua traduzione in italiano, che, anzi, nel migliore dei casi finisce per essere tutt’al più uno strumento di servizio, ma non la finalità del lavoro (e quindi il recuperarla via internet non aiuta per davvero lo scavo del testo, visto che questa resta un’attività lessicale e concettuale, che inevitabilmente deve partire dalla lingua originale).

    Come s’è detto, i tre approcci proposti possono essere utilizzati contemporaneamente; nulla vieta di costruire una prova che abbia al suo interno obiettivi diversi e richieda competenze diverse, e che possa quindi mettere in luce livelli diversi di profondità nell’accostarsi a un testo. Se il primo approccio meglio si presta a una prova in praesentia, come s’è detto, e fosse anche la “presenza virtuale” cui ci costringono questi giorni, gli altri due non solo non hanno una simile necessità, ma addirittura possono trarre beneficio dall’absentia. In tutti i casi, rinunciando a un (intrinsecamente impossibile) tentativo di trasporre alla lettera un messaggio da una lingua a un’altra, non diventa però per questo automaticamente impossibile mantenere vivo il dialogo con il mondo classico. Vicini, lontani, presenti, assenti. Nulla, in realtà, cambia per davvero.

    ©  Davide Marelli, 2020

  • Espedienti per sopravvivere?

    Espedienti per sopravvivere?

    Nella recente pratica imposta dalla didattica a distanza  mi sto avvalendo di un sistema cloud con  la possibilità di scrittura su files  in condivisione (nella mia scuola abbiamo un servizio interno di clouding riservato a studenti e docenti del Liceo; ma va benissimo la app Drive di Google), e del collegamento audio e video (nel nostro caso, Meet.Google; ma anche Zoom.us è validissimo).

    Certo, la comunicazione a mezzo video è stancante, manca quella spazialità fisica cui siamo così ben abituati: la passeggiata da un’aula all’altra, il tempo dilatato nel cercare il libro, il diario, l’appello, la battuta, il richiamo, la bidella che entra con la circolare, l’eco della voce del collega nell’aula vicina, la mano che si alza per chiedere… il permesso per andare in bagno, “Prof. le porto un caffè?”, “Il quaderno? L’ho dimenticato a casa. Il compito però l’ho fatto…”; e altro, altro che fa da cornice alla lezione tradizionale in aula. Ma da almeno tre settimane l’aula è il mio salotto, la cattedra è la mia scrivania, e non posso che dirmi fortunata per avere questo spazio tutto per me .

    Bene. Trovati gli strumenti di comunicazione a distanza, stabilita la connessione, si affaccia il panico: come posso fare lezione di lingua greca e latina?

    Nel mio piccolo, ho affinato il metodo già avviato all’epoca delle aule fisiche: il testo, in lingua, viene proiettato sulla LIM e agli studenti viene consegnato su foglio stampato – quindi niente pagina del libro di testo – senza note, così che la concentrazione sulla lingua possa essere massima; poi sotto la mia guida si svolge l’analisi, che alterna l’individuazione dei sintagmi (fatta a voce) all’identificazione della struttura sintattica (con evidenze grafiche), osservando anche gli artifici retorici dell’ordo verborum; in seguito, dopo una traduzione grossolana  e di servizio (con attenzione ai falsi amici), ci si addentra nel commento delle scelte lessicali.

    Ho adattato questo orientamento  di metodo alle possibilità offerte dalla comunicazione a mezzo web. Sullo schermo, grazie alla tecnologia  condiviso tra il docente  e il/i discente/i, campeggia solingo il testo, sul quale  l’analisi è stata già avviata in questo modo: il testo viene scomposto con degli  ’a capo’ in corrispondenza di ciascuna proposizione; si gioca sugli allineamenti: la principale sempre sul margine sinistro, le subordinate spostate in avanti in base al loro grado (+ o -). Poi si usano evidenziatori, ora cromatici ora grafici, per segnalare, rispettivamente, le voci verbali e i marcatori sintattici (congiunzioni, pronomi relativi); infine si sottolineano eventuali avverbi di tempo e luogo, cui pure compete la definizione della trama e del ritmo della frase. In questo modo il testo è stato percorso – ovvero letto e riletto – più volte. Ne offro un esempio, per rendere il discorso più chiaro. Ho scelto i parr. 9-11 del 20 capitolo del De coniuratione Catilinae di Sallustio, secondo una convenzione così stabilita:

    • la prop. principale, come le sue coordinate,  sarà sempre allineata a sinistra del file;
    • vengono spostate con la funzione ‘tabulazione’ solo le proposizioni subordinate;
    • non si spostano mai i sintagmi dalla loro ubicazione.

    All’interno di ciascuna proposizione vengono indicate:

    • in grassetto le forme verbali;
    • in grassetto e corsivo le forme verbali implicite di tipo nominale, come il participio e il gerundio/gerundivo;
    • in corsivo i marcatori sintattici, ovvero quegli elementi (congiunzioni, pronomi relativi o interrogativi, avverbi di luogo o tempo ecc.) che ‘aprono ‘, in posizione enfatica,  il periodo o la proposizione.

    Per svolgere questo tipo di operazione, sarà necessario leggere e rileggere più volte il testo, interrogasi analiticamente su quali siano i sintagmi e come siano posizionati nella frase; sarà così forse possibile cogliere l’evidenza di alcuni artifici retorici (nel caso di iperbato, anastrofe o altre situazioni in cui l’ordo verborum renda difficile individuare immediatamente la concordanza), il cui riconoscimento  diventa parte essenziale per comprendere l’intenzione comunicativa implicita nel testo.

    Nel pdf qui allegato, consultabile secondo le solite regole, e anche scaricabile a piacere, usando la barra di comandi in capo alla raffigurazione, presento il testo rielaborato:

    Il lavoro viene avviato dall’insegnante, che illustra e riepiloga i criteri usati per comporre la grafica, ma viene poi proseguito dagli studenti, o al momento, su una pagina cloud che permetta la scrittura condivisa, o come compito domestico, di cui si farà la correzione la volta successiva, a campione e per paragrafi.

    Alla data odierna, ho potuto sperimentare l’efficacia dell’analisi guidata che ho cercato di illustrare; gli studenti dichiarano di riuscire a condurre una riflessione più consapevole dell’organizzazione sintattica della frase. Costretti a non spostare nessun sintagma, colgono l’insieme e possono azzardare un’ipotesi di traduzione in base ai significati di base noti, chiarire i passaggi che necessitano ricorso al dizionario, cogliere aspetti dell’organizzazione retorica del testo. Nelle prossime settimane si tratterà di verificare l’efficacia di una proposta di ri-traduzione quale si trova nell’esempio  che riporto. Adeguare l’esercizio di lingua alle necessità della didattica a distanza va bene, ma ora si tratta anche di poter effettuare verifiche che siano diverse dalla mera traduzione, facilmente reperibile in uno dei mille siti ben noti agli studenti.

    Di sicuro interesse  è il modello offerto dalle prove di certificazione delle competenze di lingua latina; mi sono in parte ispirata ad esse nell’ideare la prova che riporto, la cui finalità è volta a verificare la comprensione della struttura sintattica, e quindi la comprensione del fatto narrato. Prerequisiti ne sono le conoscenze di morfologia e sintassi che, in un terzo anno di liceo classico, dovrebbero essere sufficientemente note.  Si tratta dunque di approntare una verifica delle competenze di lingua, che dovrebbero essere tali da poter comprendere il significato di un testo, per potere poi valutare delle scelte lessicali adeguate al contesto.

    Il passo che qui propongo è molto ampio (De coniuratione, XXI-XXII); nella pratica effettuale si tratterà di scegliere porzioni adeguate al tempo messo a disposizione. Dopo aver svolto l’analisi del testo secondo la convenzione indicata sopra, con l’aiuto della versione allegata (è una lingua italiana antica e pomposa, 1840) si chiederà allo studente di fornire una propria traduzione, senza l’aiuto del dizionario latino, ma con quello di lingua italiana.

    1. TESTO
      ASSEGNATO:

    [21] 1 Postquam accepere ea homines, quibus mala abunde omnia erant, sed neque res neque spes bona ulla, tametsi illis quieta movere magna merces videbatur, tamen postulavere plerique, ut proponeret, quae condicio belli foret, quae praemia armis peterent, quid ubique opis aut spei haberent. Tum Catilina polliceri tabulas novas, proscriptionem locupletium, magistratus, sacerdotia, rapinas, alia omnia, quae bellum atque lubido victorum fert. Praeterea esse in Hispania citeriore Pisonem, in Mauretania cum exercitu P. Sittium Nucerinum, consili sui participes; petere consulatum C. Antonium, quem sibi collegam fore speraret, hominem et familiarem et omnibus necessitudinibus circumventum; cum eo se consulem initium agundi facturum. Ad hoc maledictis increpabat omnis bonos, suorum unumquemque nominans laudare; admonebat alium egestatis, alium cupiditatis suae, compluris periculi aut ignominiae, multos victoriae Sullanae, quibus ea praedae fuerat. 5 Postquam omnium animos alacris videt, cohortatus, ut petitionem suam curae haberent, conventum dimisit.

    [22] 1 Fuere ea tempestate, qui dicerent Catilinam oratione habita, cum ad ius iurandum popularis sceleris sui adigeret, humani corporis sanguinem vino permixtum in pateris circumtulisse: inde cum post exsecrationem omnes degustavissent, sicuti in sollemnibus sacris fieri consuevit, aperuisse consilium suum; atque eo +dictitare+ fecisse, quo inter se fidi magis forent alius alii tanti facinoris conscii. 3 Nonnulli ficta et haec et multa praeterea existumabant ab iis, qui Ciceronis invidiam, quae postea orta est, leniri credebant atrocitate sceleris eorum, qui poenas dederant. 4 Nobis ea res pro magnitudine parum comperta est.

    Ecco infine la traduzione di supporto, che ho derivata dal volume Opere di C. Crispo Sallustio volgarizzate da Giulio Trento e Francesco Negri, ed. Giuseppe Antonelli, 1840, liberamente consultabile online:

    XXI. Com’ebbe inteso ciò quella gente, che aveva assai d’ogni male, ma né facoltà, né fiore di speranza, quantunque pur col turbare la pace credesse rifarsi d’assai; nondimeno la maggior parte chiedeva ch’ei proponesse a qual partito avessero a far guerra e a qual pro, quali e dove i sussidi e le speranze. Udresti allora Catilina promettere nuove taglie, proscrizion di ricchi, magistrati sacerdozii rapine e quantunque seco porta la guerra e la licenza de’ vincitori. E aggiungeva esservi nella Spagna, di là dall’Ebro, Pisone, con un esercito nella Mauritania P. Sizio Nocerino, ambidue intinti nel suo disegno: chieder il consolato C. Antonio, e sperava d’averlo come collega, uomo tutto suo e per ogni rispetto bisognoso di novità; e con esso console darebbe mano all’opera: Oltre a ciò calunniava ogni uomo dabbene; lodava per nome ogni suo partigiano; a chi ricordava la povertà , a chi la voglia ardente, alla maggior parte il pericolo e l’infamia a molti la vittoria di Silla, per cui s’era predato cotanto. E poi che gli vide pronti, confortatigli a favorire la sua concorrenza, licenziò la brigata.

    XXII. Corse allora voce che Catilina, dopo questo discorso, per obbligare gl’indettati col giuramento, recasse intorno tazze di sangue umano; e assaggiatone ciascuno dopo gli esecrandi voti, come ne’ solenni sacrifizi si costuma, aprisse l’intenzione sua; e vantasse d’averlo fatto affinchè meglio fra loro  tenesser fede per esser di sì enorme scelleratezza consapevoli. Alcuni e queste e parecchie altre cose dicevano esser trovati di coloro, a’ quali era avviso, che l’atrocità del misfatto de’ condannati valesse a mitigare l’odio, che poi scoppiò contra Cicerone. Noi non siamo sì al chiaro di questa cosa quanto vorrebbe la sua gravezza.

    ©  Rossella Sannino, 2020

  • Sallustio e Catilina

    Sallustio e Catilina

    In questi giorni di sosta obbligata e didattica ‘in remoto’ proviamo ad offrire alcune riflessioni che consentano di affrontare in modo originale un testo molto conosciuto e frequentato nelle scuole come il De coniuratione Catilinae di Sallustio. Di fronte a un’opera di tale fama si può correre a volte il rischio di un approccio pago di una certa fissità; al contrario, il De Coniuratione rappresenta ancora oggi una questione aperta e tutta da discutere, intrigante e irrisolvibile. Proponiamo qui tre differenti spunti di lavoro.

    Il primo, come è stato già richiamato in un post precedente di questo stesso sito, riguarda la data di composizione dell’opera. Nei manuali e nelle antologie scolastiche Sallustio è considerato un autore della tarda repubblica, ed è tendenzialmente accostato a Cesare e a Cicerone, non senza ragione. L’età di Cesare e Cicerone fu infatti fondamentale per Sallustio: ad essa risalgono la sua maturità di uomo e di politico e il suo ingresso nella Storia che conta; in quegli anni esercitò il governo sulla provincia dell’Africa Nova, sia pure (pare) cedendo alla tentazione di saccheggi e rapine che gli costarono la definitiva e ingloriosa uscita dal Senato. Fu un periodo decisivo, perciò, per l’uomo Sallustio, che tuttavia non era ancora divenuto scrittore.

    Gli stessi manuali che lo inseriscono tra gli autori di età cesariana e tardo repubblicana fanno risalire la data di composizione della sua prima opera, il De coniuratione appunto, a un intervallo tra il 43 e il 41 a.C. Questa datazione ‘avanzata’ nasce in Francia con Gaston Boissier (che nel 1905 propose di far risalire la scrittura al 42-41 a.C.), ed è stata accolta da molti e importanti studiosi (un altro, Gino Funaioli, nel 1921 aveva pensato di allargare l’intervallo temporale, posponendo la conclusione della composizione dell’opera al 40 a.C.). Sebbene sia impossibile accertare la verità, data l’assenza nel De coniuratione di espliciti riferimenti agli eventi politici contemporanei, alcuni elementi corroborano l’ipotesi di Boissier. Innanzitutto, è improbabile che Sallustio abbia intrapreso la scrittura di un’opera sulla congiura di Catilina mentre uno dei principali protagonisti di quegli avvenimenti era ancora in vita (alludo a Cicerone). L’inizio della composizione dell’opera dovrebbe perciò essere successivo al dicembre del 43, data di morte dell’oratore. Ronald Syme, di conseguenza, suggeriva che l’opera, se iniziata dopo il dicembre del 43, difficilmente poteva essere stata conclusa nel 42. Sempre Syme ha osservato che nella seconda monografia di Sallustio, il Bellum Iugurthinum, sembra trasparire un giudizio sul secondo triumvirato e le proscrizioni dei triumviri: l’ondata di vendette e ingiustizie che seguirono i provvedimenti di Antonio, Ottaviano e Lepido, dice Syme, aveva lasciato il segno e modificato la visione politica di Sallustio, il quale, ai tempi della composizione del De coniuratione, probabilmente era stato testimone ‘in presa diretta’ di quegli avvenimenti.

    Il De coniuratione dunque (se accettiamo una datazione grossomodo definibile come 42-41 a.C.) sarebbe sì l’opera di un uomo che figura tra gli ultimi senatori della Repubblica; ma il momento storico in cui Sallustio compose la sua monografia è successivo alla morte di tutti i personaggi che vi fanno da protagonisti, e con essi è morto anche l’ordinamento repubblicano. Sallustio, perciò, scrive già immerso in un day-after, e anche molto after, nel bel mezzo di un periodo macchiato di sangue nel quale si sapeva bene che cosa fosse terminato, ma non si poteva ancora intravedere ciò che sarebbe nato (come diceva Gramsci, con riferimento ad altro periodo storico, il vecchio mondo era già morto, ma il nuovo non era ancora nato: e Sallustio non ne vedrà la nascita, essendo morto a sua volta prima dello scontro finale tra Antonio e Ottaviano). Sallustio, dunque, come forma mentis era senz’altro un uomo della tarda repubblica, ed era stato un compagno dell’autore del De bello civili. Ma, come scrittore, appartiene a un momento successivo, un momento di profonda crisi e disorientamento, e di tale collocazione temporale occorre tenere conto nel considerare la sua opera. Si può registrare, ad esempio, che Sallustio compone il De coniuratione Catilinae negli stessi anni in cui Virgilio è al lavoro sulle Bucoliche. L’autore del De coniuratione costituisce dunque l’estrema esperienza di un ‘prima’ ma, allo stesso tempo, è anche la prima voce del ‘dopo’, ossia dell’età del secondo triumvirato.

    Il secondo spunto è direttamente collegato al primo. Perché Sallustio scelse di tornare sulla congiura di Catilina nel bel mezzo delle nuove proscrizioni dei triumviri? Perché farlo venti anni dopo gli avvenimenti narrati? Il passato non si riprende mai per pura curiosità. Che cosa dovette vedere Sallustio in quegli avvenimenti di così pertinente al presente suo e dei suoi contemporanei?

    La scelta della congiura come soggetto non era scontata. Catilina è una figura protagonistica forte e poteva garantire il pathos che Sallustio desiderava (un pathos ‘ellenistico’, si dice spesso). Ma non mancavano altri candidati autorevoli, ad esempio Silla o Pompeo. Si  ricordi che il peso storico della congiura di Catilina, evento epocale a detta di Cicerone e dello stesso Sallustio (facinus memorabile sceleris atque periculi novitate, capitolo IV, 4), è stato messo in discussione da diversi studiosi nel corso del Novecento. Anzi, c’è addirittura chi ha ipotizzato che la congiura sia in realtà una delle più grandi fake news di tutti i tempi, orchestrata da Cicerone con sapiente regia mediatica per eliminare un personaggio scomodo come Catilina e assicurare un successo politico a sé e a chi gli era vicino (Waters, 1970). Senza entrare nel merito, l’esistenza stessa di queste posizioni deve indurci a problematizzare la scelta di Sallustio, che avviene non cento anni dopo i fatti, ma venti, quando molti dei suoi testimoni diretti erano ancora in vita.

    Per affrontare la questione (perché Catilina?) occorre un’attenta lettura del testo. Una prima evidenza: all’infuori del protagonista, nell’operetta un ruolo importante è riconosciuto solo a Cesare, Catone e Cicerone. I primi due sono gli attori del dibattito in senato sulla condanna a morte dei Catilinari; il terzo è l’antagonista diretto di Catilina. Da qui si può cominciare a cercare una risposta: Sallustio con la congiura di Catilina ha scelto una vicenda che gli permettesse di citare tre fra i principali protagonisti degli ultimi venti anni della Repubblica, chiamando così a raccolta figure fondamentali anche per il passato più recente. Esse vengono fotografate un attimo prima che tutto precipitasse: Cesare e Catone nel 63, sebbene già autorevoli e influenti, erano ancora all’inizio delle loro rispettive carriere; con la repressione della congiura Cicerone si consacrava come grande leader ottimate; intanto, Pompeo preparava il ritorno trionfale dall’Asia. Mettere in scena Cesare, Catone e Cicerone, e con loro il senato romano, Crasso, e l’ombra di Pompeo sullo sfondo, ha allora il sapore di una resa dei conti con una pagina della Storia di Roma, che si prolunga ben oltre i fatti narrati e che ingombra di sé tutto il ventennio appena trascorso…

    Non mi soffermo sul trattamento riservato da Sallustio a Cicerone nell’opera, né sul dilemma dei discorsi di Cesare e Catone (problemi tuttora aperti). Offro alcune riflessioni sulla sola figura di Cesare all’interno del De coniuratione. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti sul nesso tra la congiura e la contemporaneità di Sallustio, per lungo tempo ci si è rifatti alla posizione di Eduard Schwartz (1897), per il quale il De coniuratione sarebbe nato come opera di propaganda militante, allo scopo di difendere Cesare e attaccare Cicerone, autore di una sorta di ‘libro nero’ (il misterioso De consiliis suis, mai arrivatoci) nel quale avrebbe accusato apertamente Cesare di aver preso parte alla congiura di Catilina. Questa opinione oggi è stata ricalibrata: nell’opera sallustiana non c’è livore verso Cicerone, il quale riceve un trattamento tutto sommato equilibrato. Resta vero, però, che Cesare, fin dal 63 a.C., venne più volte avvicinato a Catilina, ed è evidente che Sallustio ha operato alcune manipolazioni del materiale a sua disposizione per allontanare il più possibile il nome di Cesare da Catilina e dai suoi piani rivoluzionari (si veda ad esempio l’inizio delle macchinazioni di Catilina, retrodatato al 64 a.C. e associato fin da subito a Crasso, non a Cesare: retrodatare l’effettivo inizio della congiura aggrava le responsabilità di Catilina e indirettamente scagiona Cesare, che non compare in scena prima del capitolo XLIX, vittima delle calunnie di due senatori che, guarda caso, tentano di coinvolgerlo nella congiura a causa di rivalità personali).

    Sallustio tuttavia opera una strategia ben più singolare per liberare Cesare da ogni sospetto, e lo fa attraverso la costruzione del personaggio di Catilina. Catilina, infatti, presenta su di sé tutte le caratteristiche che la propaganda avversa aveva addebitato a Cesare: Catilina ha tra i suoi precedenti una condotta sessuale scandalosa; è un corruttore di giovani e, attorno a lui, si addensa la folla di tutti coloro che a Roma hanno bisogno di favori illeciti o si trovano sul lastrico (si confronti, per esempio, quanto si legge nel capitolo XIV con quello che Svetonio dice di Cesare nella di lui biografia, capitolo XXVII); e, ça va san dire, Catilina aspira alla tirannide. Ma non è tutto: Catilina giustifica la sua rivolta con la difesa della propria dignitas ed esorta i suoi a vindicare se in libertatem (cap. XX). Ci ricorda qualcuno? Si guardi al De bello civili,I, 4, 4 e 22, 4. Sallustio sceglie dunque di difendere Cesare addossando su Catilina tutte le accuse che erano state rivolte al dittatore, il quale appare completamente estraneo ai fatti della congiura ed è invece accostato a Catone per virtù e integrità morale. Concludo però questa parte con uno spunto ‘di crisi’: si provi a guardare, in quest’ottica, anche al finale dell’opera. Qui Catilina, non senza scandalo di alcuni lettori, esce di scena in maniera a dir poco straordinaria: il combattimento e la morte eroica a Pistoia sembrano minare l’immagine del crudele e perverso nemico dello Stato fin lì alimentata; egli, come ogni ineccepibile generale, appare un Cesare a tutti gli effetti, e nella morte assomiglia perfino a Decio Mure. Che cosa può significare questa contraddizione, definita da La Penna con la celebre formula della ‘paradossalità’? Catilina è un anti-Cesare, ma è molto di più di questo. È in questo suo essere un concentrato di bene e di male che il Catilina di Sallustio si offre come figura emblematica degli ultimi anni della repubblica. Non è da escludersi che quest’ultima considerazione possa avere delle ripercussioni anche sull’interpretazione del Cesare sallustiano, ma lascio aperta la riflessione.

    Terzo e ultimo spunto. A un lettore attento non sfugge la presenza insistita dei giovani all’interno del De coniuratione: Catilina sceglie i filii delle migliori famiglie di Roma, li corrompe, li addestra e se ne serve per le sue trame criminali. Egli, in particolare, attira a sé giovani che desiderano uccidere i propri genitori, per ottenerne il patrimonio al quale non avrebbero potuto avere accesso fino alla morte dei loro padri, come prescriveva l’istituto giuridico della patria potestas (ci si riferisce al temuto crimine di parricidium, vera e propria ossessione sociale di Roma, sul quale si veda il recente libro di Eva Cantarella, Come uccidere il padre, Milano, Feltrinelli, 2017). Tuttavia, se Catilina contribuisce ad alimentare tra i padri-senatori il timore del parricidio, all’interno del De coniuratione, in realtà,assistiamo sempre al fenomeno inverso. Sono sempre i figli a morire per mano dei padri. Muore il figlio di Catilina ucciso da Catilina stesso (cap. XV), muore un giovane di nome Fulvio, ucciso dal padre che non lo vuole unito ai Catilinari (cap. XXXIX), è rievocato il mitico omicidio del console Torquato, che aveva assassinato il figlio vittorioso, ma disubbidiente ai suoi ordini (cap. LII). Che cosa si cela dietro a questa catena di giovani morti nel De coniuratione? Siamo di fronte a un livello profondo del pensiero sallustiano. Nella Roma corrotta del presente si continuano ad assassinare i figli per il bene dello Stato, come avevano fatto Torquato o Bruto nella Roma dei maiores. Sallustio lega così il passato al presente, tramite la ripetizione degli stessi gesti, dentro a un ineludibile contrasto. I gesti, terribili e virtuosi, sono gli stessi degli antenati: ma nella Roma degenerata di Catilina il loro valore non è più lo stesso: perché è il filo della Storia che sembra essersi ormai definitivamente perso.

    ©  Bernardo Cedone, 2020

  • E le Bucoliche, allora?

    E le Bucoliche, allora?

    Dopo due post dedicati alla pars destruens, mi sembra necessario dedicarne uno alla pars construens. Abbiamo dunque stabilito che le Bucoliche non sono un racconto autobiografico delle vicende di Virgilio; non hanno scopo celebrativo nei confronti di Ottaviano Augusto; non creano il mito dell’Arcadia; non sono opera priva di contenuti realistici, tutt’altro. Che cosa sono, allora? Anche per questo darei almeno quattro risposte…

    La prima, in realtà, l’ho già data in un post precedente, dicendo che le Bucoliche sono un instant book, scritto a ridosso degli avvenimenti che l’hanno provocato (i fatti che vanno dal 42 al 40 a.C. – anche se nel libro è incluso un probabile riferimento al trionfo di Pollione che ci riporta al 39 [anno di conseguimento del trionfo] o al 38 a.C. [anno della sua celebrazione, dopo il ritorno di Pollione a Roma]). Per fare un parallelo, la monografia sallustiana sulla Coniuratio Catilinae è esattamente contemporanea alle Bucoliche (si data fra il 44 e il 40 a.C.), ma racconta avvenimenti del 63 a.C., cioè di circa 20 anni prima. E’ come se oggi tornassimo a raccontare la fine della cosiddetta “Prima repubblica”: certo, per uno della mia età è storia contemporanea; ma per i giovani, non erano neanche nati. Virgilio intuisce invece che il secondo triumvirato e le espropriazioni dei campi, azione simbolo di quella magistratura, costituiranno lo “shock generazionale”, come l’ho chiamato prima, della sua generazione. E a questo shock reagisce con la propria opera, che quegli avvenimenti, con i loro strascichi, ampiamente, duramente commenta.

    C’è un secondo elemento, di carattere più letterario, che rende le Bucoliche virgiliane un’opera di valore storico. Per noi, sono il primo libro di poesia latina (non epica) che ci sia arrivato organizzato così come l’ha voluto l’autore. Dopo il naufragio della poesia arcaica, il libro catulliano non segue un’organizzazione autoriale. I testi vi sono stati riorganizzati dopo la morte di Catullo, e infatti sono disposti per metro e per associazioni interne, ma non seguono una logica unitaria e consequenziale (prova ne sia che uno dei primi, l’11, si presenta come l’addio definitivo a Lesbia, sebbene debba essere ancora descritta ampia parte della storia d’amore vissuta con lei). Le Bucoliche seguono invece un ordine che fu certamente dato loro da Virgilio, come rivela una serie abbondante di riferimenti e di bilanciamenti interni. Del resto, gli antichi le chiamavano anche “egloghe”, e cioè, letteralmente, “testi scelti”: scelti nella loro disposizione, e non perché fossero solo una parte di quelli composti da Virgilio (nessuno dei poeti a lui contemporanei fa infatti riferimento a egloghe virgiliane differenti da queste). Qual è dunque questo ordine? E’ quello che in una delle “puntate” precedenti ho chiamato struttura a perno sull’egloga cinque. Mi spiego: la prima e la nona egloga (equidistanti dalla quinta: in entrambi i casi, ce ne sono in mezzo altre tre) trattano delle espropriazioni dei campi. La seconda e l’ottava (anch’esse equidistanti) contengono canti d’amore infelice; la terza e la settima sono gare di canto amebeo, ossia a botta e risposta; la quarta e la sesta hanno valore cosmologico: la quarta è una profezia che anticipa che cosa succederà del mondo da qui in avanti; la sesta racconta la storia del mondo dall’atto che per gli antichi lo costituì (non la sua creazione, perché la materia è sempre esistita; ma da un caos informe si passò a un insieme di cose ordinate, l’universo così come lo conosciamo) fino ad arrivare alla realtà contemporanea del poeta, a un hic et  nunc che nell’egloga è rappresentato dalla celebrazione di Cornelio Gallo, amico e coetaneo di Virgilio, come massimo poeta della propria generazione. La quinta egloga è costituita da due canti, che si scambiano due amici incontratisi per caso, in quella che non è una gara poetica, ma un semplice gioco di cortesie. I due canti hanno un medesimo argomento, e cioè gli avvenimenti successivi alla morte di Dafni. Questo Dafni era un personaggio di Teocrito, anzi era il protagonista del canto che viene elevato in quello che per noi (e per Virgilio) è il primo idillio della raccolta teocritea, e quindi la composizione simbolo di quella stessa raccolta. In Teocrito si racconta infatti di come Dafni, di origine semidivina (suo padre è Hermes), per avere offeso Afrodite, dea dell’amore, fosse stato fatto innamorare da questa di una ninfa che non lo corrispondeva. Il canto teocriteo è l’estremo lamento di Dafni, che langue d’amore, si sta lasciando morire, e alla fine del canto si presume che muoia. Virgilio nell’egloga scrive il sequel di questa situazione: nel primo canto, la natura partecipa addolorata al lutto per la morte di Dafni; ma nel secondo Dafni, defunto, risorge e assurge in cielo, e la natura (e i pastori) celebrano con gioia l’avvenimento. D’ora in poi, Dafni non sarà magari più su questa terra, ma sarà pur sempre una divinità che assiste il mondo pastorale. Nella decima egloga, protagonista del canto è Cornelio Gallo, abbandonato, come sappiamo (da un post precedente) dall’amata Licoride. Gallo, addolorato per quanto gli è successo, canta la propria disperazione, cerca vani conforti, riconosce che nulla è possibile contro la forza d’amore. Nell’egloga, detto in altri termini, Virgilio sta ripresentando il testo e la situazione narrata da Teocrito, ma la ripresenta in abiti, diciamo così, moderni, mettendo a protagonista non il protagonista di Teocrito, non una figura mitologica al di fuori da ogni idea di tempo, ma la figura di un poeta suo contemporaneo. Allora, egloga quinta ed egloga decima sono come due commenti al testo teocriteo, due modi di attualizzarlo: continuandolo (quinta), rifacendolo ambientato nella contemporaneità (decima). Come si vede, ogni egloga rimanda dunque a un’altra, secondo uno schema simmetrico. Le simmetrie non si esauriscono qui: ad esempio, i canti amebei si compongono, nell’egloga terza, di dodici battute (per due concorrenti: quindi 24 battute in tutto) di due versi ciascuna, per un totale di 48 versi; nell’egloga settima, l’altra egloga che si compone di una gara di canto, le battute sono invece solo sei (per due concorrenti: dunque, 12 in tutto), ma di 4 versi, per un totale comunque sempre di 48 versi. Nella seconda egloga, il pastore Coridone cerca di invitare a sé il bell’Alessi: un giovanotto si rivolge cioè a un altro giovane; nell’egloga ottava, simmetrica alla seconda, ci sono invece due canti, opera rispettivamente dei pastori Damone e Alfesibeo (che sono i cantori, non i personaggi). Damone canta l’amore di un giovanotto, che rimane senza nome, per la bella Nisa, che però, come sappiamo da un post precedente, sta per sposare e alla fine di fatto sposerà un altro; nel secondo canto, Alfesibeo dà invece voce a una ragazza, che potrebbe chiamarsi Amarillide, ma forse anche no, ma non importa. Questa ragazza, avendo amato Dafni, quando lui se ne è andato in città non l’ha più visto tornare; e ora ha intuito che non tornerà spontaneamente, e perciò ricorre a un rito magico, che dovrebbe riportarlo a sé (il finale non lascia molte speranze che il rito riesca però davvero). Allora, queste vicende d’amore includono prima una relazione m/m (maschio o “male”, all’inglese, che dire si voglia); poi una relazione m/f (male vs female, maschio e femmina); infine una relazione f/m (female vs male, una ragazza che ama un ragazzo). Lo so, in amore ci sono altre possibilità. Ma per un romano di I secolo a.C., farvi riferimento avrebbe trasformato le Bucoliche in un libro pornografico. E le Bucoliche volevano esplorare le possibilità dell’amore, non divenire pornografia.

    Questo ci porta al terzo tema. Un po’ di anni fa, il critico (italianista) Franco Moretti ha coniato per i romanzi moderni, dal Don Quixote all’Ulysses di Joyce, l’espressione “opera mondo”, indicando con questa espressione quei testi che, sotto la superficie del racconto, vogliono esplorare tutte le possibilità del reale. Le Bucoliche sono un’opera mondo. Sui temi da essi delineati (espropriazioni; passioni d’amore; ruolo della poesia; visione cosmologica della Storia), le Bucoliche sviluppano tutti i casi “dabili”, che si possono dare, nella vita umana – almeno, entro i ristretti limiti della morale del tempo. C’è infatti l’espropriato costretto a lasciare le sue terre (Melibeo, egloga prima); quello che conserva le proprie terre (Titiro, sempre egloga prima); quello che rimane sulle sue terre, ma non più da padrone (Menalca, egloga nona). C’è il giovanotto che ama un altro giovanotto (Coridone, egloga seconda), quello che ama una ragazza (il personaggio di Damone, egloga ottava), la ragazza che ama un ragazzo (Amarillide, o comunque si chiami il personaggio cui dà voce Alfesibeo, egloga ottava). C’è la gara che finisce alla pari, senza vincitori né vinti (egloga terza) e quella che finisce con un vincitore e con un vinto (egloga settima). C’è la profezia rivolta al futuro (egloga quarta) e quella che guarda al passato (egloga sesta). Tertium non datur, dice un proverbio latino: in tutti i casi presi in considerazione, non si danno ulteriori possibilità oltre a quelle che ho già enunciato… Nel libro c’è però anche una continua riproposizione delle stesse situazioni: i tre innamorati delle egloghe seconda e ottava, per dirne una, sono tutti innamorati infelici, i cui oggetti di desiderio non ascoltano i loro canti: Alessi infatti non vi è presente; Nisa si sposa comunque con un altro; Dafni non sembra tornare davvero dalla città. Ma innamorato infelice è, nella decima egloga, pure Cornelio Gallo e l’amore, come la politica, si rivela così una forza che si abbatte sui personaggi delle egloghe, e li travolge senza che quelli vi possano opporre qualche resistenza. Ma ancora una cosa: il libro è unitario e punta alla complessità del reale anche nella sua struttura continuativa. Abbiamo già visto come a Titiro, che sembra conservare i suoi beni, si contrapponga Menalca (protagonista di un’egloga “più tarda” per chi legga il libro dall’inizio alla fine), che i suoi beni, invece, credeva di conservarli, ma li ha persi ugualmente. La poesia, dice lì uno dei personaggi, non è una difesa, è come una colomba di fronte a un’aquila. A Cornelio Gallo, celebrato come grande poeta nella sesta egloga (lo riconosce come tale addirittura Apollo in persona, il dio della poesia), fa seguito Cornelio Gallo che, nella decima egloga, è tradito dalla sua amata, viene da lei abbandonato, e per questo soffre come tutti i comuni mortali… Il libro non si limita a constatare e descrivere l’ampiezza del reale: si fa anche metro di giudizio di quel reale. L’uomo può illudersi, sperare, cercare rifugio nella poesia: ma deve sapere che sono illusioni, vane speranze, rifugi temporanei; alla fine, si è sempre travolti, dalle vicende storiche o dalla propria, interna passione amorosa…

    Vengo rapidamente all’ultimo punto, per il quale mi richiamo a quanto ho detto prima dell’egloga quinta e decima in rapporto con Teocrito. Concetto essenziale nella visione romana della poesia è l’idea di aemulatio. Ciò significa che ogni poeta, per essere riconosciuto tale, prende a modello un precedente poeta e lo imita, cerca di dimostrare che gli è superiore, o almeno pari. Nel I secolo a.C., e fino a tutta l’età augustea, l’aemulatio si esercita in riferimento a poeti greci: Catullo omaggia Saffo chiamando Lesbia la propria donna amata (Saffo era nativa di Lesbo); Orazio, più o meno negli stessi anni delle Bucoliche, negli Epodi cerca di imitare Archiloco; nelle successive Odi si rifà ad Alceo. Virgilio sceglie Teocrito. Ma, come abbiamo visto, indica una idea nuova di aemulatio. Teocrito non viene imitato e semplicemente trasferito di peso nella realtà italica. Viene proseguito (il sequel) o riscritto in abiti contemporanei. Questo è l’unico modo legittimo, ci dice Virgilio, di riferirsi a un classico. Nell’Eneide il poeta proseguirà per questa strada continuando, e allo stesso tempo attualizzando, i poemi di Omero, nei cui confronti applica lo stesso schema che nelle Bucoliche aveva applicato con Teocrito. Dopo l’età augustea, l’aemulatio guarderà, per i propri modelli, ai poeti di questa stessa epoca, a cominciare proprio da Virgilio. E i poeti greci serviranno, semmai, per scavalcare i grandi dell’età augustea, e tornare così a delle radici grazie alle quali cercare un proprio posto nel mondo. Ma questa è un’altra storia, e non sarebbe giusto narrarla qui. Qui è giusto concludere dichiarando che per tutte le ragioni elencate, le Bucoliche a me sembrano un libro che non finisce mai di stupire. Ma non sempre le nostre letterature sono in grado di farcelo capire. La cosa migliore, allora, è leggerle, e leggerne quanta più parte possibile. Perché solo una lettura integrale può rendere conto di quella complessità che qui ho cercato di delineare.

    ©  Massimo Gioseffi, 2020

    PS Si ricorda che nella sezione “Testi” di questo sito si può scaricare il commento complessivo alle Bucoliche. L’opera è gratuita; se ne rispettino però i diritti d’autore.

  • Miti bucolici II

    Miti bucolici II

    Il terzo mito che vorrei sfatare è quello dell’Arcadia. Nei post precedenti dedicati a questo tema abbiamo visto che cosa un lettore medio dell’età di Virgilio poteva conoscere dell’Arcadia, e quale fosse lo spazio dell’Arcadia nell’opera di Teocrito. Anche in questo caso possiamo segnalare che le letterature d’uso scolastico trasmettono, dell’Arcadia, una visione che ha pochissimo riscontro nel testo virgiliano. Semplificando, l’Arcadia per loro sarebbe una regione ideale, nella quale si ambientano le egloghe che vogliono proporre una fuga dalla tristezza del presente, come consolazione a una situazione ritenuta abbruttente. Dietro a questa concezione ci sono pagine famose di Bruno Snell che, sul finire dell’ultimo conflitto mondiale, aveva individuato nell’Arcadia un’invenzione a tavolino, che si sarebbe realizzata per l’appunto sul tavolino di Virgilio. Gli studi successivi hanno mostrato quanto questa visione sia riduttiva e fasulla, determinata forse più dalle circostanze storiche in cui scriveva Snell, che dalla realtà dell’opera virgiliana. Partiamo allora dalla constatazione che nessuna egloga è ambientata in Arcadia; e che Arcadi possono essere alle volte i pastori presenti in alcune egloghe, ma mai gli scenari dell’opera virgiliana. Per l’esattezza, l’Arcadia è citata in quattro egloghe solamente. La prima di esse è la quarta dell’intera raccolta, cioè l’egloga del puer. Quello che dice il cantore di quel testo (diciamo pure, per comodità, Virgilio) è che la materia alta e nobile che si trova a cantare – ossia le gesta del puer – gli consentirebbero di vincere perfino il dio del canto pastorale, ossia Pan; e questo verdetto si avrebbe anche se, con termine calcistico, Pan “giocasse in casa”, fra i suoi fedeli più ardenti di zelo, e cioè in Arcadia (la regione dove il dio era nato, dove era particolarmente venerato e che già Teocrito, come abbiamo detto altrove, aveva strettamente connesso a quella divinità). Di Arcadia si torna poi a parlare solamente nell’egloga settima, ambientata sulle rive del Mincio, che vi viene nominato esplicitamente ed è descritto anche con toni di un certo realismo, che ne ricordano le sinuosità, i tratti paludosi, l’abbondanza di canneti. I due cantori che si sfidano in quella gara sono definiti entrambi Arcadi, aggiungendo che questo significa “pari nel cantare”, e “capaci (parati) sia di cantare a botta e risposta “- come di fatto faranno – “sia in un canto lungo e continuo”. Come si vede, qui l’Arcadia si fa garanzia di eccellenza poetica, ma non è terra di consolazione o di fuga dalla realtà. Nell’egloga ottava il primo dei due pastori che si sfidano in quel testo, Damone, canta la serenata che un giovane senza nome (ma da non confondere necessariamente con il cantore Damone) fa alla sua bella, nel giorno in cui questa bella, di nome Nisa, si sta sposando, però con un altro… La serenata è un canto diciamo così “formalizzato”, che ha strutture ben riconoscibili, e un ritornello che le dà ritmo. In questo ritornello si celebrano i “canti del Menalo”: e poiché il Menalo, come sappiamo, è monte dell’Arcadia – ne abbiamo già parlato – l’espressione equivale a dire “canti arcadi”, ossia “canti pastorali”. La connessione fra l’Arcadia e l’attività pastorale (che era, ed è tuttora la principale fonte di reddito di quella regione) è di antica tradizione; come nell’egloga settima, anche qui vediamo che “canto arcade” equivale a dire “canto di alto livello artistico”, e come tale è appropriato alla situazione disperata del cantore, che con la sua serenata, pur senza crederci troppo, ancora vorrebbe convincere Nisa dell’errore che, secondo lui, lei starebbe facendo. Nulla ci dice invece che la scena sia ambientata in Arcadia: anzi, quando viene descritta la cerimonia nuziale riconosciamo momenti tipici delle cerimonia romana; e quando viene descritta la proprietà del personaggio che dice Io, questa proprietà ha di nuovo tratti molto romani. L’Arcadia non è nemmeno terra di fuga o di consolazione: il pastore che la cita nel suo ritornello non intende trasferirsi da quelle parti, e dal suo canto non trae nessuna consolazione (Nisa alla fine sposerà il suo fidanzato, che non è lui; e nel finale lui dice semmai di volersi suicidare…). L’ultima menzione dell’Arcadia ci riporta alla decima egloga. Cornelio Gallo, abbandonato dall’amata Licoride, che ha seguito un altro nelle lontane regioni bagnate dal Reno, pensa che solo i pastori arcadi abbiano l’abilità necessaria per raccontare, un giorno, le sue sofferenze d’amore; e non nasconde che gli sarebbe piaciuto vivere fra loro, perché ben altra sarebbe stata la sua esistenza, se, in Arcadia, si fosse dedicato alla caccia, e con la caccia avesse evitato i mali d’amore (come si sa, dall’Ippolito euripideo, il mondo di Diana e quello di Venere sono tradizionalmente contrapposti fra loro). Qui c’è la sola menzione dell’Arcadia non solo come terra di valenti cantori, ma anche come possibile rifugio di una vita che però, per svolgersi in quella terra, avrebbe dovuto essere totalmente diversa da quella che Gallo è cosciente di avere invece vissuto. L’Arcadia, cioè, nemmeno qui è presentata come un’opzione di fuga o di rifugio: è una vita alternativa, che sarebbe bello fosse stata così, ma che si sa non essere stata così, e non poterlo nemmeno diventare. Non per nulla, tutta la parte che rievoca questa (im)possibile esistenza si sviluppa come congiuntivo desiderativo – con tanto di utinam a rimarcarlo! – ai tempi dell’imperfetto e del piùcheperfetto, ossia ai tempi della irrealtà riconosciuta come tale.

    E vengo al quarto e ultimo mito: è quello dell’assenza di realismo nelle Bucoliche. Tutta una serie di dettagli già evocati in questi due post ci dimostrano che il mondo delle Bucoliche sa essere fortemente realistico. E’ realistica la descrizione di sé che fornisce Titiro, con i vari stadi della sua vita, e con le attività economiche che hanno caratterizzato ciascuno stadio; è realistica la descrizione delle nozze di Nisa o della proprietà del suo innamorato senza speranza. Realistica è anche l’immagine del Mincio evocata nella settima egloga. Si potrebbe continuare: Coridone contrappone la propria inadempienza ai lavori minimi della campagna con una descrizione della campagna che invece ferve di lavori concreti: i mietitori, la servetta che prepara loro la focaccia rustica a mezzogiorno, i buoi che ritornano stanchi alla sera ecc. ecc. Anche la proprietà di Titiro, nella prima egloga, viene descritta con termini molto realistici, che includono il canale di confine e la siepe a separare dalle proprietà vicine, così come usava nella centuriazione della pianura padana. Molto tecnici sono i termini con i quali Melibeo rievoca la sua passata attività agricola, uno per tutti i novalia citati al v. 70 della prima egloga, che sono i campi lasciati a riposo dopo un anno di intensa produzione. Anche in questa direzione gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare. I post dedicati alle piante bucoliche ci hanno rivelato, a loro volta, che la flora descritta da Virgilio è una flora abbastanza realistica (tranne quando, già dallo stesso Virgilio, certe piante, come l’amomo, siano indicate quali esotiche); ed è una flora che individua abbastanza chiaramente la regione padana e la dorsale tirrenica dell’Italia, ossia i territori che, l’uno per nascita, l’altro per scelta di vita (Virgilio visse gran parte della sua esistenza fra Roma e Napoli, come testimonia lui stesso nel finale delle Georgiche), dovevano essere territori e panorami ben noti al poeta.

    ©  Massimo Gioseffi, 2020

  • Miti Bucolici I

    Miti Bucolici I

    Cerco di contribuire alla sospensione delle lezioni offrendo un po’ di materiale di riflessione su autori e temi latini. Dedico questo post a Virgilio e alle Bucoliche, in continuità con una serie di post già disponibili su questo sito (sul tema dell’Arcadia e sul tema delle piante presenti nelle prime sei egloghe), che, messi assieme, possono fornire una certa possibilità di lavoro.

    Il post, che per comodità di consultazione ho diviso in due, lo vorrei dedicare a sfatare quattro miti relativi alle Bucoliche. Parto dal primo, che chiamerò mito biografico. L’immagine delle Bucoliche che traspare da quasi tutte le letterature in uso nelle scuole italiane è quella di una composizione scritta in relazione alle espropriazioni dei campi avvenute dopo la battaglia di Filippi e l’accordo fra i triumviri vincitori, per ricompensare i veterani dell’esercito di Cesare. In questa visione tradizionale Virgilio, che aveva rischiato di perdere i suoi possedimenti, ma li aveva poi conservati grazie all’intercessione di Ottaviano, nella prima egloga darebbe spazio al proprio ringraziamento assumendo la veste di Titiro che, dopo avere rischiato a sua volta di essere allontanato dai propri beni, fu invece salvato dall’intervento provvidenziale (ancorché sollecitato) di uno iuvenis deus abitante a Roma. Questa lettura si scontra con almeno tre particolari. Il primo: tutto ignoriamo circa le proprietà di Virgilio, poiché il materiale antico che fa riferimento alla vicenda che ho appena raccontato non risale oltre l’età di Svetonio, cioè grosso modo duecento anni più tardi del (presunto) svolgersi dei fatti. Quel materiale ha quindi valore romanzesco, o – se vogliamo – può essere considerato al massimo come un tentativo di interpretare il testo virgiliano; ma non ha valore di testimonianza. Un testimone che vive 200 anni dopo i fatti che testimonia è, ovviamente, un testimone inattendibile. Quale fosse l’origine sociale di Virgilio, se avessero o meno lui e la sua famiglia delle proprietà terriere, se quindi il poeta sia stato coinvolto oppure no nelle espropriazioni, non lo possiamo dire. Quello che possiamo dire, secondo elemento di cui tener conto, è che i lettori contemporanei a Virgilio (delle Bucoliche ci parlano a brevissima distanza cronologica dal loro apparire due poeti vicini a Virgilio, e cioè Orazio nella decima satira del primo libro e Properzio nella trentaquattresima elegia del secondo libro) , quei lettori – dicevo – non mostrano nessuna conoscenza di una interpretazione autobiografica delle Bucoliche, e quando parlano di quell’opera la interpretano come una somma di storielle autonome e fantasiose. Terzo elemento: la struttura a perno sulla quinta egloga fa sì che alla prima egloga corrisponda, per analogia di argomento, la nona egloga, che infatti parla anch’essa di espropriazioni e di violenze avvenute in campagna. Il protagonista della nona egloga, Menalca, è un pastore rinomato per la sua abilità di canto, che aveva rischiato di perdere i propri beni, che era riuscito apparentemente a mantenerli in virtù della sua eccellenza poetica, ma che poi alla fine li aveva persi ugualmente. Se proprio vogliamo trovare un riferimento autobiografico nelle Bucoliche, dovremo dire che questa egloga si adatta molto di più a Virgilio della prima: perché nella prima Titiro è sì raffigurato a cantare la bella Amarillide, ma non sembra un cantore di eccellenza riconosciuta, ammessa da tutti, come invece è Menalca e come i poeti a lui contemporanei ci assicurano fosse riconosciuto Virgilio. Se però Virgilio è Menalca, l’egloga nona ci dice che il poeta, dopo avere pensato, o forse sperato, di conservare i propri beni, li avrebbe lo stesso persi anche lui… Io vorrei però prescindere per questa, come per la prima egloga, da ogni lettura autobiografica, per limitarmi a osservare questo: il lettore continuativo delle Bucoliche – quello cioè che non si limita a un unico testo, inevitabilmente distorto – leggeva nella prima egloga che esiste una possibilità di salvezza (dalla violenza delle espropriazioni), possibilità che Titiro ha saputo sfruttare, Melibeo no. Quello stesso lettore, andando avanti nell’opera, leggeva però anche che chi aveva pensato di salvarsi in virtù delle proprie doti o di aiuti particolari, in realtà non si era salvato, ma aveva subito il destino di tutti. Proprio in conseguenza di questo, i personaggi dell’egloga nona possono esprimere una morale generale dal tono piuttosto sconsolato: i canti, la poesia, valgono, come difesa personale, tanto quanto valgono le colombe all’arrivo dell’aquila, e cioè niente. Alla lettura biografica delle egloghe proporrei allora di sostituire una letture che chiamerò “generazionale”, introducendo l’idea che ogni generazione (un concetto storicamente labile, ma che ha una sua efficacia pratica) vive un proprio shock – per la mia generazione, affacciatasi alla comprensione della vita nei primi anni Settanta del Novecento, ad esempio, questo shock fu sicuramente il terrorismo, non a caso continuamente rimosso nel seguito della nostra vita, tanto che ancora oggi, quando viene chiamato in causa per qualche ragione, genera reazioni impreviste e a volte sorprendenti (per i giovani del 2020, spero che lo shock che ne influenzerà i comportamenti anche a distanza di decenni non debba essere il virus che ci sta tenendo tutti a casa). Le Bucoliche, a mio parere, non vanno lette in chiave personale, ma come la risposta di un grande poeta a quello che aveva immediatamente percepito essere lo shock della propria generazione. Ricordo che le Bucoliche costituiscono quello che oggi noi chiameremmo un “instant book”, ossia un libro scritto a brevissima distanza di tempo dagli avvenimenti che descrive, composto a ridosso dei fatti storici che hanno dato loro ragione di essere. Non sappiamo se Virgilio avesse campi o no, se ne sia stato espropriato, o no. Ma certamente lui aveva visto le espropriazioni e le aveva viste arrivare non dalla parte dei nemici (i Pompeiani o i Cesaricidi). Le espropriazioni, con quanto di illegale hanno portato con sé, erano state opera degli eredi di Cesare, erano state opera di chi si pensava amico e continuatore dell’azione cesariana. Inoltre, Virgilio le espropriazioni le ha viste arrivare e abbattersi su persone senza colpa; ha visto che comportavano la perdita di ogni bene e della propria identità sociale (Melibeo è costretto all’esilio; Menalca, un tempo proprietario, rimane sì sui terreni che erano stati suoi, ma nella veste di mezzadro, costretto a pagare la decima a un possessor che nulla ha fatto per lavorare i campi). Virgilio, infine, ha anche imparato che se all’inizio le espropriazioni sembravano un evento gestibile, perché ammettevano diversità di reazioni e di comportamenti, poi si sono rivelate una violenza generalizzata, che ha annullato qualsiasi diversità, contro la quale niente è servito di difesa, e nessuno se ne è potuto salvare. E’ di questo allora che parlano le Bucoliche, e si capisce perché, a distanza di oltre duemila anni, esse siano ancora un’opera ritenuta degna di essere letta (perché ogni generazione, prima o poi, si ritrova in circostanze simili), laddove se si riferissero ai fatti privati di Virgilio poco ci interesserebbero oggi. Partendo da questa ottica, capiamo anche perché Titiro sia descritto nella prima egloga con termini molto realistici e precisi, che però non corrispondono all’immagine che Virgilio aveva al tempo delle Bucoliche: nel 40 (un anno di comodo), Virgilio ha trent’anni e, come attestano i suoi tria nomina, è cittadino romano fin dalla nascita; Titiro invece è vecchio, ha la barba bianca, ha vissuto varie avventure amorose, è stato a lungo schiavo e si è riscattato solo di recente. Capiamo anche perché nell’egloga Melibeo abbia altrettanto spazio di Titito, se non di più, e perché al suo lamento sia dato altrettanto spazio che al ringraziamento di Titiro, se non di più…

    Il secondo mito che possiamo a questo punto sfatare è quello del valore celebrativo delle Bucoliche. Le Bucoliche non celebrano Ottaviano, del resto mai nominato nell’opera; e non celebrano (come pensavano i commentatori del IV secolo) i tresviri agris dividundis che avrebbero concesso a Virgilio/Titito di conservare i propri beni. Questa seconda affermazione si smonta facilmente: se l’egloga prima non si può leggere in chiave autobiografica, non c’è ragione di ringraziamento. Aggiungo che un collega espertissimo di queste cose, Fabio Stok, in un bellissimo articolo ha dimostrato come la carica di tresviri agris divendendis in realtà non sia mai esistita, sia un’invenzione di comodo della scuola tardoantica. Quanto a Ottaviano, mi limito a dire questo: nel libro virgiliano l’unico personaggio politico ricordato più volte, con tanto di “nome e cognome”, è Asinio Pollione, citato nella terza egloga come poeta, come esperto di poesia, come svolgente la funzione di patronus verso altri giovani poeti, e anche verso i due giovani poeti che si scontrano fra loro nell’egloga (nessuno dei quali è necessariamente Virgilio, ma uno dei quali ha nome – guarda caso! – Menalca…). Asinio Pollione è ricordato anche nella quarta egloga, per via del suo consolato del 40 a.C. Sappiamo che i consoli di quegli anni erano stati scelti con largo anticipo, secondo un metodo che anticipa il “manuale Cencelli” di buona memoria (Massimiliano Cencelli è un politico italiano della Prima Repubblica, credo ancora vivente, noto per non avere mai scritto il manuale che gli si attribuisce [e che non esiste come opera letteraria], ma che in realtà era una somma di regole di spartizione delle cariche pubbliche fra partiti e correnti politiche, all’interno dei partiti). In questo meccanismo, un console veniva scelto da Ottaviano, uno da Marco Antonio. I consoli del 40 a.C. furono Asinio Pollione e Gneo Domizio Calvino. Quest’ultimo era un partigiano di Ottaviano; Pollione era uomo di Antonio. Pollione è ancora ricordato, più dubitativamente, nell’egloga ottava, dedicata a un Tu che rimane senza nome, ma di cui si ricorda il trionfo (Pollione, proconsole in Macedonia nel 39 a.C., ottenne in effetti l’onore del trionfo). Accanto a questa figura, nota, evidente, ben definita – e schierata sempre con Antonio! – nel Liber bucolico compaiono altre due figure che invece non hanno nome, ma di cui si ricorda solo la funzione: il puer della quarta egloga e il iuvenis deus della prima. Una buona lettura di quei testi suggerisce di lasciare le due figure nel loro ruolo di funzioni, un puer che deve rinnovare il mondo e un deus che ha salvato – o sembra avere salvato – Titiro. Meglio evitare, cioè, di dare loro un nome. Se però proprio vogliamo invece puntare a una verità storica, dovremo ammettere che l’identificazione più probabile, fra le molte, spesso fantasiose, che sono state proposte per il puer della quarta egloga, vede in quel bambino il frutto (auspicato, ma non ancora prevedibile con certezza) del matrimonio fra Marco Antonio e Ottavia, la sorella di Ottaviano. Il matrimonio si celebrò nel 40 a.C., l’anno del consolato di Pollione, sotto i cui auspici l’evento è quindi messo. Da quelle nozze nascerà un figlio l’anno dopo, ma sarà una bambina, non un bambino: Antonia, la futura madre di Germanico. Allora, anche questo puer senza nome, se gli vogliamo dare un nome, rischia di essere legato più ad Antonio – che ne sarebbe il padre – che a Ottaviano, che ha solo il ruolo di zio materno (lo zio che, come sappiamo – lo ha dimostrato in un suo libro Maurizio Bettini – ha meno peso nella famiglia, in opposizione allo zio paterno). E il deus? Rimane figura senza nome, forse anche perché era conveniente lasciarlo così. Segnalo solo che iuvenis per i Romani è un termine ambiguo: si definisce iuvenis, per tradizione, qui iuvat rem publicam, prendendo le armi e combattendo da adulto. Quindi è un termine che, nel 40 a.C. , si prestava perfettamente al ventitreenne Ottaviano; al trentaseienne Pollione; ma anche, perfino, al quarantatreenne Antonio. Quanto a deus, è il termine con cui, nella lingua comune, si definisce il proprio patronus (Pollione dunque?), ma con cui Titiro rimarca più volte che è lui a voler indicare così il suo protettore, quale che questi sia. Dunque, nessuna delle tre possibili identificazioni ottiene, dal testo, più forza delle altre…

    ©  Massimo Gioseffi, 2020

  • Incontri sulla didattica III

    Incontri sulla didattica III

    Nel pomeriggio dedicato a degli specimina di lezione, Chiara Formenti (Milano) ha presentato una proposta didattica relativa al lessico magico nell’ottava egloga di Virgilio. Punto di partenza della relazione è stata l’osservazione che imparare il lessico è fondamentale per apprendere una lingua, ma che i lunghi elenchi di parole, ognuna seguita dal suo “significato”, che da studenti siamo stati spesso costretti a memorizzare sono stati motivo di profonda noia e sul piano pratico si sono rivelati perfettamente inutili (come ha detto Formenti, “ricordo benissimo gli elenchi, la noia e la fatica di impararli, ma non ricordo praticamente nessuno dei termini elencati”). Una lista di parole senza contesto non è infatti un modo divertente, e tanto meno efficace, di imparare il lessico di una lingua.

    Allo stesso tempo, però, senza lessico è impossibile capire un testo, e, più in generale, il lessico è un formidabile veicolo di informazioni sulla cultura di un popolo. La proposta di Formenti è quindi quella di costruire insieme agli studenti un piccolo numero di termini, appartenenti a un campo semantico ben definito, esemplificato da un testo d’autore nel quale i suddetti vocaboli siano presenti, così da meglio imprimerli alla mente partendo da un contesto specifico e, possibilmente, coinvolgente. Da qui la scelta del campo semantico della magia, ricostruito non in astratto, ma a partire da lettura, traduzione e interpretazione dell’ottava egloga di Virgilio.

    La scelta è caduta su questo tema per varie ragioni: 1. sfogliando alcuni versionari utilizzati nei licei, Formenti si è resa conto di quanto l’insegnamento liceale del latino tenda a concentrarsi su racconti bellici e politici, al massimo su temi filosofici, mentre esistono molti aspetti del mondo romano che vengono pressoché ignorati 2. Il tema magico confina con lo spazio culturale della religione, un aspetto fondamentale del mondo romano, spesso trascurato o appiattito sul modello greco 3. Il tema della magia è un tema accattivante, che può interessare i ragazzi, immersi in una contemporaneità che dà ampio spazio al racconto magico e fantastico, sia nella letteratura che al cinema e nelle serie tv (da Harry Potter, a Game of Thrones, The Discovery of Witches, Chilling Adventures of Sabrina, Shadowhunters, The Vampire Diaries, Once Upon a Time ecc.).

    Da qui la proposta pratica, che per esigenze di spazio e di tempo si concentra solo sui contenuti. A livello di didattica in classe, ha ricordato Formenti, si possono effettuare scelte parzialmente diverse, ma tutte valide: una lezione frontale (auspicabilmente partecipata); lavoro di gruppo in classe e/o a casa; lavoro individuale a casa; flipped classroom ecc., a seconda della classe che si ha di fronte (composizione-numero-caratteristiche), del tempo a disposizione, del tempo che si vuole dedicare all’argomento, del prodotto finale che si pensa di realizzare (file di testo, presentazione multimediale PowerPoint/Prezi, padlet…).

    Ecco ora le slides, per la cui consultazione e (eventuale) scaricamento valgono le regole di sempre: