Tag: latin literature

  • Incontri sulla didattica I

    Incontri sulla didattica I

    Nei giorni 28 e 29 ottobre 2019 si sono tenuti presso l’università degli Studi di Milano due pomeriggi di incontri sulla didattica. Il primo è stato dedicato a una serie di interventi “teorici”; il secondo, a una serie di simulazioni di lezioni su alcuni temi prefissati. Nella prima giornata hanno dunque preso la parola alcuni docenti universitari, di varie sedi italiane; nella seconda, dei docenti di liceo hanno mostrato una loro lezione “tipo”. Da quelle giornate riportiamo alcuni materiali, per gentile concessione degli Autori. La scelta è del tutto personale. L’assenza di alcune relazioni non implica un giudizio su di esse, né comporta un  rifiuto da parte degli Autori alla condivisione dei testi presentati nei due pomeriggi milanesi.

    Apriamo dunque la serie di interventi con la relazione di Andrea Balbo, docente all’università di Torino.

    Balbo è un esperto di didattica del latino, materia che ha praticato per molti anni nelle scuole della sua regione, che ha insegnato presso i percorsi formativi degli insegnanti secondari (SSIS e derivati vari), sulla quale ha scritto due manuali di grande successo, e molti altri interventi. Riportiamo qui le slides presentate il 28 ottobre scorso. In esse, Balbo offre un’immagine dello status del latino nella scuola italiana, e dei risultati di apprendimento verificati sulla prova di ingresso degli studenti iscritti al Corso di Laurea in Lettere dell’ateneo torinese. I dati variano di poco a Milano, dove peraltro, finora, la materia “Latino” non è fra quelle verificate dai test di ingresso al corso di laurea in Lettere (lo dovrebbe essere dal prossimo anno). Il dato più eclatante che emerge a Milano è la presenza di circa un terzo di iscritti provenienti da scuole nelle quali il Latino non era materia di studio, e dunque, per quanto riguarda il Latino, “analfabeti”, ma non per colpa loro. Il dato è in continua crescita di anno in anno: Lettere è un corso di laurea che attrae sempre più studenti non liceali (a Milano, quanto meno, le iscrizioni complessive non sono significativamente in calo), con tutti i problemi che questo comporta. Naturalmente, molti di questi studenti sono bravissimi, disciplinati, disposti a mettersi in gioco imparando la materia da “adulti”, il che non è necessariamente un handicap. Per altri, il latino rimane un ostacolo che non si può e non si vuole superare. E’ indubbio però che le università debbano porsi questo problema in modo sempre più netto.

    Ecco dunque le slides, che mettono a fuoco il problema e offrono molto altro materiale, in parte connesso a questo tema, in parte inerente a tutta una serie di problemi collaterali. Cliccando sui segni di + e – è possibile ampliare/rimpicciolire l’immagine; cliccando sulla doppia freccia nell’angolo in alto a destra è possibile scaricare o stampare direttamente dal proprio computer (o cellulare) il materiale offerto. Le slides, assai numerose – 63 in tutto! – possono richiedere un po’ di tempo prima di apparire a video.

    Buona lettura a tutti!

    © 2019

  • Le piante delle Bucoliche – VI

    Le piante delle Bucoliche – VI

    Man mano ci addentriamo nel Liber virgiliano, troviamo situazioni e piante già incontrate in egloghe precedenti. La sesta egloga è speculare alla quarta: una profezia che dall’hic et nunc del poeta (il consolato di Pollione) volge lo sguardo verso un futuro umanamente lontano, in una; una narrazione che dal formarsi del mondo dal Caos indiscriminato arriva fino alla stretta contemporaneità del poeta, nell’altra. La sesta egloga racconta, sotto forma di mito (come la quarta sotto forma di profezia), la Storia del mondo, dalle origini all’oggi di Virgilio, simboleggiato dalla proclamazione a poeta dell’amico Cornelio Gallo. Nelle trasformazioni che hanno dato origine al mondo non mancano le piante: viene da quel contesto la frase Incipiant silvae cum primum surgere (v. 39), adottata, come sappiamo, quale titolo del libro di Gigliola Maggiulli, che ci fa costantemente da guida.

    L’egloga ha struttura complessa. I primi sei versi servono di introduzione programmatica; al mondo agreste riporta l’immagine di Thalia, la musa della commedia e, per estensione, della poesia bucolica, che non erubuit silvas habitare. Dal v. 6 al v. 12 c’è una dedica, a un Varo tradizionalmente identificato nel giurista cremonese Alfeno Varo. In questa sezione due, e di tradizione, sono i richiami al mondo vegetale. Il flauto del poeta è indicato con l’immagine usuale della canna, tenuis harundo, v. 8; la poesia virgiliana è sintetizzata nel richiamo alle myricae, v. 10, e al nemus, v. 11, in modo del tutto simmetrico a quanto visto nell’egloga quarta alla quale, dunque, rimando (nemus è, come sappiamo, interscambiabile con silvae, il termine attestato nell’altra egloga).

    Dal v. 13 al v. 30 si estende la cornice propriamente detta. In essa si racconta di come due pastori (pueri, v. 14), con l’aiuto della ninfa Egle abbiano costretto il ritroso Sileno a donare loro un canto da tempo promesso, sorprendendolo al mattino, ancora sotto l’effetto delle abbondanti libagioni della sera precedente (Sileno era stato tutore di Bacco, e da questo suo ruolo conserva un’evidente passione per il succo dell’uva). La scena si ambienta in aperta campagna, nei pressi dell’immancabile grotta (v. 13). Pochi, però, gli elementi vegetali: sul capo di Sileno pende, secondo una consuetudine greca, una corona di fiori, che si era soliti porre in testa in occasione del convivio (v. 16). I fiori della corona servono ai due pastori per ricavarne dei legacci, vincula, parola e situazione più volte insistite (vv. 19 e 23). Si tratta, ovviamente, di legami molto fragili, quasi scherzosi, più di parvenza che reali. Ma Sileno d’altronde, una volta svegliatosi e capita la situazione, non sembra contrario a offrire il suo canto. Il volto del semidio al risveglio è rosso, perché così l’ha dipinto Egle, v. 22, utilizzando come colorante il succo delle more selvatiche, il rubus ulmifolius. La ragione del gesto nel complesso ci sfugge; ma certo Sileno, così dipinto, assomiglia più che mai a una statua oracolare.

    (more di bosco in fase di maturazione)

    L’ultimo riferimento botanico di questa prima parte si riferisce all’effetto del canto di Sileno, che fa sentire la sua azione su creature e animali selvatici (Fauni et ferae, v. 27), ma anche sulle piante. Le rigidae quercus ondeggiano muovendo ampiamente la loro chioma, come per assenso alle parole del semidio (v. 28).

    (quercus virgiliana [roverella], riconosciuto come
    albero monumentale, nel comune di Maglie, Lecce
    )

    Anche il finale dell’egloga presenta elementi di cornice (vv. 82-86). Del canto di Sileno si dice infatti che è un canto famoso, che era stato composto da Apollo – il dio della poesia – che se ne avvalse mentre viveva sulle rive dell’Eurota (il fiume di Sparta e della Laconia tutta, sulle cui sponde il dio corteggiò inutilmente Dafne e amò tragicamente Giacinto). L’Eurota si era fatto interprete e memoria di quel canto, lo aveva insegnato alle piante di alloro che sorgono numerose lungo il suo corso, e da quelle piante, presumibilmente, lo deve avere appreso Sileno. Il legame alloro/Apollo è comunque tradizionale, così come quello alloro/poesia, visto che di corone di alloro si incoronavano i vincitori delle gare pitiche, che prevedevano competizioni per musicisti e poeti.

    (il fiume Eurota)

    Veniamo al canto vero e proprio. Sileno rievoca la formazione del mondo, con linguaggio fortemente epicureo. Le piante sono, come s’è detto, un elemento di questo processo, ma non particolarmente insistito (vv. 31-40). In seguito, Sileno traccia una storia dell’umanità dalla conquista del fuoco al diluvio universale (l’ordine, nell’egloga, è inverso), al mito degli Argonauti e della nave Argo, la prima a solcare i mari. Dal v. 45 in poi, Sileno si concentra sulla figura di Pasifaë, la mitica moglie del re Minosse di Creta, che, per una vendetta di Afrodite, si innamorò di un bianco torello con il quale, alla fine, concepì il Minotauro. Virgilio si interessa soprattutto alla parte dolorosa della storia, quella dominata dall’impossibilità pratica di un’unione fra una donna e un toro, e dal dolore che ne consegue nell’animo di lei, dominato da una passione forzatamente insoddisfatta. La vicenda si presta a introdurre diversi elementi vegetali: mentre Pasifaë vaga incessantemente sui monti, alla ricerca di un amato che sempre le sfugge (perché liberamente al pascolo; e perché, ovviamente, non capisce le attenzioni della donna), il torello, tranquillamente sdraiato sull’erba (molli fultus hyacintho, v. 53), rumina l’erba rendendola pallida con i succhi gastrici (pallentes ruminat herbas, v. 54), all’ombra di un leccio (ilice sub nigra), o, se proprio ne ha voglia, presta le sue attenzioni alle altre mucche della mandria. Il giacinto naturalmente non può sorreggere un toro, né costituisce il componente primario di un campo. Ma un campo ricco di giacinti selvatici (da non ricercare necessariamente in montagna) è un campo fiorito, florido, invitante, nel quale è bello pascolare e fermarsi a ruminare. Quanto al leccio, è una new entry nell’immaginario bucolico virgiliano. Noto anche come elce, appartiene al genere delle querce (quercus ilex è il suo nome scientifico), ed è, come quelle, pianta spontanea nei nostri climi, anche se diffusa soprattutto lungo la costiera tirrenica, di longevità secolare ed ampie dimensioni (può arrivare ai 20 m di altezza e ai 4/5 di diametro) e fitto fogliame scuro (nigra). Una ilex sovrastava, stante la testimonianza di Orazio, il fons Bandusiae probabilmente situato nel suo possedimento in Sabina (carm. 3, 13).

    (leccio solitario)
    (foglie e ghiande di leccio)

    Messa da parte una fuggevole allusione ad Atalanta e alle mele d’oro delle Esperidi (che non sono piante reali), v. 61, un altro mito ad alto tasso botanico, diciamo così, è quello delle sorelle di Fetonte che, dopo il recupero e il seppellimento del cadavere del fratello (fulminato da Giove per i disastri procurati guidando con imperizia il carro del Sole), addoloratesi oltre misura, furono trasformate in ontani. Il narratore esterno dice che, vv. 62-63, con il suo canto (o forse meglio, ‘nel suo canto’, all’interno dei temi trattati), Sileno le musco circumdat amarae corticis, e poi le solo proceras erigit alnos, “le circonda con l’amara corteccia di muschio” (non è il muschio ad avere corteccia, naturalmente, ma l’alnus; il muschio si estende sulla corteccia delle piante) e “le fa sorgere dal suolo trasformate in alti ontani”. L’ontano, alnus glutinosa, è una pianta arborea alta 10 e più metri, che vegeta un po’ in tutta Italia dal livello del mare fino ai 1000/1200 m di altitudine, con una certa preferenza per la regione delle Prealpi e dei laghi prealpini. L’ontano ama infatti i terreni umidi, acquitrinosi, quando non addirittura paludosi, e i corsi d’acqua: il che si adatta perfettamente al mito di Fetonte, secondo tradizione caduto nelle acque del fiume Eridano (sia questo, o no, l’attuale Po). La corteccia dell’ontano ha proprietà curative, e viene perciò utilizzata in decotti di odore gradevole, ma sapore amaro (amarae corticis).

    (alnus glutinosa)

    Quanto al muschio, si tratta di pianta pioniera, ossia tra le prime a insediarsi per colonizzare un ambiente, che ama anch’essa l’umidità ed è capace di trattenere una grande quantità d’acqua per lunghi periodi, per poi rilasciarla lentamente nell’ambiente circostante. Una pianta di muschio è formata da piccoli fusti e da foglie microscopiche, prive di tessuti vascolari e di vere radici. La funzione di ancoraggio al terreno è infatti svolta da strutture filamentose sotterranee, i rizoidi, attraverso i quali la pianta si espande a coprire la massima superficie possibile.

    (muschio su corteccia di conifera)

    La scena centrale dell’egloga è però costituita dall’investitura poetica di Cornelio Gallo, vv. 64-73. Essa si svolge lungo le rive del Permesso, il fiume che scende dall’Elicona, già luogo sacro alle Muse nella poesia esiodea. Proprio Esiodo è esplicitamente nominato come predecessore di Gallo. A celebrare la grandezza di questi, arrivano Apollo e tutto il corteo delle Muse. La cerimonia vera e propria viene compiuta tuttavia da Lino, mitico cantore e figlio di Apollo, già evocato nella quarta egloga. Lino ha sul capo una corona trionfale, fatta di generici fiori e di apio amaro, v. 68. L’apium graveolens, il banale sedano della nostra cucina (secondo altri, il prezzemolo), è pianta usata per incoronare i vincitori dei giochi Nemei, che al loro interno prevedevano anche gare di canto. I giochi erano stati istituiti, secondo la tradizione, per una circostanza luttuosa, e Lino, a sua volta, era considerato il fondatore del genere elegiaco, praticato da Gallo, ma che in origine era utilizzato soprattutto per le lamentazioni funebri. Ciò spiegherebbe l’aggettivo amarum, che mal si addice al sedano in sé (o al prezzemolo).

    (sedano coltivato)

    Nel corso dell’investitura, Lino consegna a Gallo una zampogna, indicata con l’immagine tradizionale dei calami, v. 69. Dello strumento si dice che con esso Esiodo fosse stato capace di smuovere le piante, come un novello Orfeo. L’immagine è espressa con la scena delle rigidae orni che, al suono della zampogna, abbandonano i monti e seguono il cantore (v. 71). L’ornus, o più esattamente fraxinus ornus, in italiano detto anche orniello o frassino della manna, è pianta di media altezza (in genere non supera i 10 m), diffusa un po’ in tutta Italia, ma specialmente nelle regioni alpine e prealpine del Nord, fino a un’altitudine di 1200/1500 m, e in quelle appenniniche, fino a un’altitudine massima di ca. 1000 m. E’ pianta robusta, capace di ripopolare terreni desertici, che si usa anche come ornamento dei giardini in virtù della sua ampiezza e della bella fioritura tardo primaverile, oltre che, alle volte, per il suo legname. Ha radici tenaci e robuste, che impediscono al terreno di franare, ma forma slanciata, che non impedisce alla restante vegetazione di crescere alla sua base. Il fogliame è leggero e viene mosso con facilità dal vento: caratteristiche che, nel loro complesso, possono spiegare sia l’habitat montano assegnatogli da Virgilio, sia l’idea di una complessiva rigidità, eccezionalmente però scossa, come sono scosse dal vento le chiome dell’ornus.

    (filare di fraxinus ornus in Ungheria)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – V

    Le piante delle Bucoliche – V

    L’egloga quinta presenta l’incontro di due pastori che, in amicizia e rispetto reciproco, decidono di celebrare con il loro canto un terzo personaggio, Dafni, che uno dei due riconosce addirittura come proprio maestro, e l’altro come figura comunque degna di lode, una sorta di nume tutelare di ogni comunità pastorale. Dafni era il protagonista del primo idillio teocriteo, nel quale veniva cantata la sua sofferenza d’amore, che lo aveva portato a morte. I due canti virgiliani proseguono l’opera di Teocrito: nel primo, il giovane Mopso rievoca il dolore degli uomini e della natura dopo la morte di Dafni; nel secondo, il più anziano Menalca celebra la rinascita e l’assunzione in cielo di Dafni, con la conseguente gioia della natura e della comunità pastorale. L’incontro fra i due pastori avviene per caso, ma il canto si svolge in un ambiente a noi ben noto, fatto di olmi mescolati a noccioli (v. 3 hic corylis mixtas inter consedimus ulmos), dove sono garantiti l’ombra e la frescura e non manca neppure una comoda grotta, la cui entrata è cosparsa di labrusca, v. 7. E’ questa la vite selvatica (vitis silvestris), della quale infatti sono messi in risalto i grappoli, rari, perché manca l’opera dell’uomo ad aiutarli nella crescita.

    (vitis silvestris nei boschi)
    (infiorescenza di vite silvestre)

    Nel corso dell’egloga distinguerei, come al solito, fra canto e cornice. Nella cornice non ritornano molti elementi agresti, se non sotto forma di immagine. Mopso promette un canto che, dice, vv. 13-14, avrebbe inciso nella corteccia di un faggio, pianta che sappiamo ricorrente nel paesaggio virgiliano e che, con la grotta, delinea quanto meno una serie di ondulazioni collinari. Menalca esalta la grandezza dell’amico, prima che questi dia inizio al suo canto, attraverso il paragone con un altro cantore, assente dalla scena, di nome Aminta, e osserva che Mopso eccelle sul rivale tanto quanto l’olivo predomina sul salice flessuoso, o la rosa sulla saliunca. Nel primo caso si tratta probabilmente di una superiorità qualitativa, che vede nell’olivo (qui ricordato come pallens. v. 16, in virtù del colorito del fogliame) la pianta totemica della civiltà mediterranea.

    (pianta d’ulivo da giardino)

    Il cromatismo viene messo in evidenza anche per la rosa (anzi, un intero roseto, v. 17), rossa, punicea, cui è contrapposta la saliunca, identificata di norma con la valeriana saliunca, una pianta erbacea, di basso fusto, dall’infiorescenza rada e poco significativa, che nasce spontanea in ambienti aridi e sassosi, specie di montagna.

    (valeriana saliunca)

    Altre metafore sono più generiche. Una volta terminato il canto di Mopso, Menalca lo proclama piacevole come dormire, stanchi, nell’erba di un campo (in gramine, v. 46). Mopso ricambia il favore, con un’analoga serie di immagini (vv. 82-84), nessuna delle quali tocca però l’ambito vegetale. Questo ritorna, solo superficialmente, nel riferimento allo strumento musicale adoperato da Menalca, un flauto, denominato, v. 85, come “canna”, cicuta; e nella descrizione del bastone pastorale con il quale Mopso contraccambia l’amico, vv. 88-90, lavorato e reso elegante dalla disposizione simmetrica dei nodi.

    Diverso è il caso dei canti. Mopso ricorda una natura addolorata, fatta di animali che non vanno più al pascolo, di ninfe in lutto (cui i noccioli, coryli, sono chiamati a fare da testimonio, v. 21), di montagne incontaminate e boschi intonsi che piangono anch’essi l’evento crudele, v. 28. Dafni è celebrato come un protos heuretes, un inventore/civilizzatore. E’ l’allievo di Pan, v. 59, che ha introdotto fra gli uomini il culto di Bacco, le feste a quel dio tradizionalmente associate, e il tirso, il tipico bastone delle Baccanti.

    (Baccante con un tirso, bassorilievo moderno)

    L’eccellenza di Dafni nel mondo pastorale è segnalata da una serie di immagini di maniera, vv. 32-34. Dafni era di ornamento alla comunità dei pastori, come le viti lo sono alle piante che le sostengono, i grappoli d’uva matura alle viti stesse, le spighe al campo coltivato. Anche il dolore per la sua scomparsa è espresso da una metafora agricola. Ai campi sono stati affidati, con la semina, grandia hordea, v. 36, ‘ricchi chicchi di orzo’, e invece ora, al loro posto, sorgono erbacce infestanti, v. 37, infelix lolium e steriles avenae. La semina è sempre un atto di fiducia, qui mal riposta. Hordeum in realtà è un termine generico, che nella classificazione moderna indica una trentina circa di specie, tutte graminacee. E’ difficile dire a quale si riferisse esattamente Virgilio. Certo si tratta di chicchi selezionati e ben scelti, sui quali era riposta la massima fiducia, che, senza l’evento luttuoso e imprevisto descritto nel canto, non sarebbe stata mal risposta. Quanto alle steriles avenae, non vanno identificate con l’avena coltivata, ma semmai con l’avena barbata, una pianta erbacea alta 30-80 cm, che cresce negli incolti e ai margini delle vie, con spighe setolose, dai chicchi piccoli e poco fruttiferi, quindi, ai fini della commestibilità. Allo stesso modo, il lolium sarà, con ogni probabilità, il lolium temulentum, ossia la zizzania, una graminacea infestante, con fiori a spiga rossa, che tende a mescolarsi e a confondersi con il grano – ma i cui chicchi hanno carattere intossicante.

    (avena barbata)
    (campo di steriles avenae)
    (lolium temulentum)

    Allo stesso modo, anche nel settore dei giardini e dei fiori da giardino, alla viola (mollis, ‘cedevole’, ovvero di basso fusto) e al narciso (purpureus, ‘rosseggiante’), che già conosciamo dalle altre egloghe, per effetto della morte di Dafni si sostituiranno ora il carduus e il paliurus dalle spine acute (vv. 38-39). Nel primo caso, c’è incertezza fra i commentatori virgiliani, che hanno identificato il carduus ora nella centaurea solstitialis (il cosiddetto “fiordaliso giallo”, un’asteracea spinosa, di carattere erbaceo, raramente superiore ai 5 dm, di carattere spontaneo e, anzi, spesso invasiva), ora nel cirsium arvense, il cardo dei campi italiano, che è sempre un’asteracea, più alta della precedente, con fiori compresi tra il rosa e il viola, anch’essa di carattere infestante. Il paliurus è invece comunemente identificato nella marruca, la pianta dalle cui spine, secondo tradizione, fu fatta la corona di Cristo. Si tratta di un arbusto, diffuso in tutta la macchia mediterranea, specie in ambiente collinare, che può essere alto anche qualche metro, con foglie difese da piccole, ma spiacevoli spine. Oggi relativamente poco diffuso nelle nostre campagne, un tempo era molto usato per le siepi di confine, sia per la presenza delle spine, sia perché pianta mellifera.

    (centaurea solstitialis)
    (cirsium arvense)
    (paliurus spina Christi)
    (dettaglio dei rami di paliurus)

    Più generiche sono le immagini del secondo canto, quello di Menalca. Una parte di esse risponde simmetricamente a quanto già detto da Mopso. Ritroviamo perciò silvae e rura che gioiscono per la rinascita e la nuova condizione divina di Dafni (v. 58); gli intonsi montes che lanciano grida di gioia per quell’avvenimento (vv. 62-63); generici arbusta che proclamano la divinità del personaggio (v. 64). Nelle feste pastorali per il nuovo dio, sono presenti crateri d’olio tra le offerte sacrificali (v. 68), e vino pregiato, di Chio, per le libagioni dei pastori (v. 71). Queste avverranno in casa durante l’inverno, all’ombra di un pergolato durante l’estate, indicata con la facile metonimia della presenza delle messi (v. 70). Ai vv. 76-78 ritroviamo un costrutto ormai noto e visto già più volte. Gli onori e le cerimonie per Dafni rimarranno in vigore fintantoché la natura seguirà il suo corso – la Natura, come sappiamo, è sempre il campo usato per indicare il ripetersi garantito e incontrovertibile di determinati fenomeni (rimando per questo a un precedente post di questo stesso sito, https://sites.unimi.it/latinoamilano/immagini-di-natura/ ). Qui l’idea è espressa con una serie di immagini che stanno fra l’agreste e lo zoologico: il cinghiale è animale da montagna, il pesce vive nell’acqua, le api si nutrono di preferenza di timo – che, come sappiamo dalla seconda egloga, è pianta profumata, e quindi particolarmente attraente per gli insetti e utile dunque come pianta mellifera – e le cicale di rugiada. Le cicale naturalmente non si nutrono di rugiada, ma di succhi vegetali e della linfa degli alberi. Quella usata da Virgilio è però un’immagine callimachea (fr. 1, 32-34 Pfeiffer), dietro alla quale sta la tradizione, già platonica (Fedro, 262D), della cicala come antico essere umano dimentico di provvedere al proprio cibo per amore verso le Muse.

    (ape che sugge un fiore di timo – ingrandimento fotografico)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – IV

    Le piante delle Bucoliche – IV

    La quarta egloga si apre con l’immagine vegetale più nota dell’intero libro: ai generici arbusta, già incontrati più volte, e alle altrettanto generiche silvae, vengono contrapposte le humiles myricae. L’aggettivo, già utilizzato nella seconda egloga per le capanne che poco si elevano dal suolo, è ben noto; la pianta indicata, lo è di meno. Di norma, myricae viene tradotto con ‘tamerici’, un genere di piante di cui esistono una sessantina di specie, molto diffuse in tutto il bacino mediterraneo, soprattutto nelle zone litoranee e prossime al mare. Possono assumere forma di arbusto o di albero, sono sempreverdi o a foglie caduche, nelle specie arboree raggiungono un’altezza di 15 m. L’esemplare più comune in Italia è la tamarix gallica, cespugliosa, ma che può comunque raggiungere i 5-6 m di altezza; anch’essa cresce di preferenza lungo le coste e i greti dei torrenti, in terreni sciolti, spesso sabbiosi. Molto comune allo stato selvaggio, serve però anche come pianta ornamentale dei giardini – con i nomi di tamerice, tamerisco, cipressina, scopa marina – e per il rimboschimento di luoghi sabbiosi, come barriera frangivento e per il consolidamento delle dune, perché è capace di sopportare la salsedine e vegeta senza difficoltà in terreni salini, fino a un’altitudine di 800 m ca. La natura legnosa del suo tronco e il fenomeno di lacrimazione che la caratterizza trovano conferma in quanto Virgilio dice delle myricae nelle egloghe ottava, v. 54, e decima, v. 13.

    (tamarix gallica, coltivata ad albero)
    (cespuglio naturale di tamarix gallica)

    Ma una pianta del genere si adatta solo in parte all’immagine iniziale dell’egloga, che prevede una netta contrapposizione fra la verticalizzazione delle silvae e  l’orizzontalità delle myricae, e le cose non cambiano nemmeno supponendo che Virgilio avesse in mente la forma cespugliosa di alcune specie. Per questo, nelle myricae del passo si è proposto di identificare qualche pianta a basso fusto, come potrebbe essere l’erica campestre, o comunque qualche altro elemento della stessa famiglia. Se infatti associamo più comunemente l’erica alle brughiere della Scozia o dello Yorkshire (si pensi alla sua ricorrenza in Wuthering Heigths, 1847), le oltre seicento specie in cui il genere si suddivide hanno habitat e conformazioni abbastanza variegati, e molte di loro, come l’erica arborea e l’erica scoparia, sono diffusissime sui nostri litorali, specie quelli tirrenici.

    (erica di campo)
    (erica di campo)

    Quanto all’egloga propriamente detta, essa, com’è noto, racconta la trasformazione del mondo a partire dalla nascita di un puer che resta innominato. Al fenomeno viene assegnata una precisa data, l’anno 40 a.C., l’anno del consolato di Asinio Pollione. La crescita del puer è seguita dal poeta per uno spazio di almeno trent’anni, quelli necessari a portarlo alla piena maturità. Nulla ci viene detto circa l’identità del bambino; ma l’indicazione cronologica, il riferimento iniziale ai carmina della Sibilla, la paideia che per lui viene ipotizzata ambientano certamente l’egloga in Italia, pur senza consentire ulteriori precisazioni. Il meccanismo messo in atto da Virgilio è fortemente innovativo: nella tradizione antica il progresso dell’umanità viene raffigurato di norma come un’inarrestabile decadenza e allontanamento da un’età eroica, e aurea, che sta alle spalle della nostra contemporaneità, e non davanti ad essa. Virgilio inverte l’ordine: l’età dell’oro delle origini sta per ripetersi, a breve giro di termine. Negli anni necessari al suo compimento, rimarranno certo alcune tracce della vita di ogni giorno, e quindi anche alcune attività lavorative, a travagliare la generazione di passaggio cui il poeta sente di appartenere. Fra queste attività non mancano quelle agricole, riassunte nell’incisiva formula del telluri infindere sulcos del v. 33. Anche il successivo venir meno di queste sopravvivenze è indicato con una serie di immagini agresti (vv. 40-45): la terra fertile (humus) non sarà più soggetta agli strumenti agricoli (non rastros patietur); la vite non dovrà più essere potata, azione che abbiamo già visto citata sia nella seconda che nella terza egloga; non servirà più arare i campi; né tingere la lana, perché gli animali al pascolo assumeranno spontaneamente i colori desiderati. A quest’ultima azione provvederanno coloranti naturali, come il murex (= la porpora), ed erbe particolari, come il lutum e la sandyx. Il primo termine individua la Reseda luteola, pianta pigmentosa, di color giallognolo, un’erbacea spontanea diffusa in tutta Europa, alta ca. 1 m, con fusto sottile e liscio, e fiori piccoli e variopinti. Il suo utilizzo come colorante giallastro (il lutum è propriamente la terra fangosa; Virgilio qui lo dice croceus, ‘color zafferano’) è ben noto fin dall’antichità.

    (reseda luteola)

    Qualche problema maggiore pone invece la sandyx. Plinio ne parla infatti come di un colorante di origine minerale, non vegetale, e pensa a un errore di Virgilio. Gli interpreti antichi del passo la definiscono invece un’erba, in parallelo al lutum; per questo si è pensato alla Rubia tinctorum, o robbia, dalla quale si ricava il cosiddetto ‘rosso di garanza’, un pigmento molto usato in pittura, che si ottiene dalle radici della pianta essiccate, frantumate e bollite in acido. 

    (rubia tinctorum)

    Messo da parte il facile uso metonimico di nautica pinus per indicare una nave al v. 38 (i pini fornivano, effettivamente, un pregiato legname da costruzione), le altre immagini botaniche dell’egloga si concentrano intorno alla serie di doni e di fenomeni naturalistici che dovrebbero accompagnare la nascita e la crescita del puer. Una parte di essi è del tutto generica: al v. 23 si ricorda che la culla stessa del puer offrirà blandos flores, ‘fiori profumati’, ma indeterminati. Al v. 24 si dice che, per effetto della nascita, verranno meno le erbe velenose, ma anche qui senza specificare nessun esempio. Altri fenomeni sono più precisi: intorno alla culla la terra produrrà, spontaneamente e senza bisogno di intervento umano, edera, baccare, colocasia e acanto (vv. 18-20). Delle quattro piante citate già conosciamo l’edera e l’acanto. Il baccar compare qui per la prima volta, ma sarà citato anche nell’egloga settima, v. 27, come pianta apotropaica contro i sortilegi. Già Plinio era incerto circa la sua identificazione; oggi si tende a farlo coincidere con l’Helicrysum italicum, un fiore della famiglia degli astri, dal tipico colore giallo lucente (così scrive anche Gigliola Maggiulli, che però usa poi la denominazione di Helicrysum sanguineum, una margheritacea che è fra i simboli odierni di Israele). L’elicrisio fiorisce in tutto l’arco mediterraneo, specie in terreni vicini al mare, rocciosi e poco fertili. In alcune specie è coltivato anche nei giardini, come pianta a fioritura estiva, le cui corolle, essiccate, servono per corone di lunga durata (ideali, quindi, come dono da mettere intorno alla culla).

    (elicriso in fiore)

    Nessuna incertezza circonda invece la colocasia, che già Plinio identificava con il kyamon, l’odierna Nelumbo nucifera, una ninfea diffusa in Egitto, comunemente nota come ‘fiore del loto’. Poiché anche l’acanto, cui si accosta, è, come sappiamo dalla terza egloga, pianta esotica, l’effetto virgiliano sta nell’unire nell’elenco piante comuni (edera e baccare), utili per farne corone, con piante ricercate, a impreziosire il dono. E’ possibile che, più che al fiore, Virgilio pensasse alle foglie della Nelumbo, che sono grandi fino a 60 cm, di colore verde brillante, fuoriuscenti dall’acqua per un metro e anche più. In questo modo, sarebbe ulteriormente giustificato l’accostamento con l’edera e l’acanto, piante non particolarmente pregiate per la loro fioritura.

    (colocasia o fior di loto)
    (foglie e fiori di loto)

    Nascita e crescita del puer saranno accompagnate da una serie di adynata. Ovunque, ad esempio, fiorirà il prezioso amomo, v. 25, al momento diffuso solo nei territori orientali (in Assiria, dice Virgilio: come sappiamo dalla terza egloga, sarebbe più esatto dire in India). Al v. 28 si promette che tutta la campagna (campus) comincerà a biondeggiare (flavescet, un incoativo di forte effetto) di messi, indicate con l’espressione sineddotica mollis arista. Le aristae, o ‘reste’, sarebbero propriamente i filamenti rigidi con cui terminano le spighe delle graminacee, e quindi stanno qui per l’intera spiga, e la spiga per il grano: ciò che vuol dire il poeta è che il frumento sarà reperibile ovunque, senza bisogno di coltivarlo.

    (spighe con reste)

    Subito dopo, Virgilio ricorda che l’uva rosseggerà da sola perfino sui cespugli spinosi, degli inculti sentes non meglio definiti. L’ultima immagine è però quella che più ci interessa. Le querce trasuderanno direttamente miele (roscida mella, ‘miele rugiadoso’) dalle loro dure cortecce. Le querce sono effettivamente piante spesso utilizzate dalle api come sostegno per i favi: sono ampie, resistenti, presentano al loro interno cavità ottime per la costruzione del favo. Ma Virgilio qui non vuole presentare un’immagine usuale e quotidiana, seppure amplificata nella sua misura, trasformando in fenomeno comune quello che, al momento, sarebbe solo un caso particolare. Quello che il poeta vuole piuttosto dire è che il passaggio attraverso le api, la loro nidificazione, la loro produzione del miele diverranno a breve, come nel caso del lavoro umano, completamente inutili, perché il prodotto finale, il miele, verrà realizzato spontaneamente, senza bisogno di nessuna lavorazione. E’ questa la prima intuizione della società delle api come immagine da utilizzare in parallelo all’immagine della società umana, secondo un procedimento che troverà maggiore sviluppo nel quarto libro delle Georgiche. Nella foto posta qui sotto, che conserva alcuni elementi di copyright, ma è offerta libera da diritti in internet, si vede, a ingrandirla bene, una grande quantità di api che coprono – quale che ne sia la ragione – il tronco di una quercia. Il prodigio dell’apparire improvviso di sciami su piante, siano o no delle querce, ricorre più volte nell’immaginario antico, e torna anche nell’Eneide, VII 64-67, fra i prodigi che annunciano l’arrivo di Enea e dei Troiani al re Latino.

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – III

    Le piante delle Bucoliche – III

    La terza egloga presenta la gara pastorale fra Menalca e Dameta, sotto l’arbitrato di Palemone. L’egloga è nettamente divisa in due. La prima parte vede il litigio, in presa diretta, fra i due pastori, incontratisi casualmente, passati rapidamente agli insulti reciproci, e alla fine pronti a dimostrare il proprio valore sfidandosi nel canto. La seconda parte, nella quale includerei anche le due battute di Palemone, è la gara di canto propriamente detta. Lo svolgimento è amebeo, a botta e risposta, e si estende per dodici battute di due versi ciascuna, per un totale di 48 versi. Palemone prima della gara ne fissa le regole, dimostrando però nello stesso tempo la propria abilità di cantore, e quindi la sua competenza a farsi giudice. Nella battuta finale, che suggella l’egloga, dichiara il verdetto: i due pastori si equivalgono, ed è impossibile scegliere l’uno piuttosto che l’altro. Palemone sancisce la fine della gara con una metafora agreste, v. 111: claudite iam rivos, pueri; sat prata biberunt, “chiudete i canali di irrigazione dei campi, perché l’acqua con cui sono stati irrigati i campi è sufficiente”. Il verso, nella sua interezza, o nelle due parti di cui si compone, è poi divenuto proverbiale.

    Per il resto, distinguerei fra le due parti di cui si compone l’egloga. Nella cornice i riferimenti agresti non mancano, ma non assumono particolare importanza o specificità. Sul luogo dell’incontro, ad esempio, e sull’ambientazione topica dell’egloga, nulla ci viene detto. Nella serie di insulti che i due pastori si scambiano, vv. 10-11, Menalca accusa Dameta – in un modo un po’ tortuoso, ma comunque abbastanza esplicito – di avere danneggiato le viti novelle di Micone (un terzo personaggio che resta ignoto: il nome, che ricorre nella settima egloga, v. 30, potrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo, a indicare un giovane ragazzo), con una mala falx, una falce ‘maligna, malevola, che agisce male’, per dispetto o, più probabilmente, per gelosia. Della vite e della sua coltivazione già sappiamo abbastanza dalle altre egloghe, ed è ovvio che tagliare i tralci quando sono ancora in crescita è un gesto poco amichevole. Vittima dell’ira di Dameta, assieme alle viti, è anche un generico arbustum, un cespuglio di non si sa cosa, forse l’intrico stesso delle viti, specificato subito dopo. A ricambio dell’insulto, Dameta accusa Menalca di avere distrutto volontariamente, per esplicita gelosia, l’arco del giovane Dafni, che era stato regalato al ragazzo da qualche non precisato rivale (magari anche lo stesso Menalca?). L’azione sarebbe avvenuta, vv. 12-15, ad veteres fagos, “sotto i vecchi faggi”, pianta che ormai sappiamo essere un elemento costante del paesaggio virgiliano. In questa sezione dell’egloga troviamo una sola pianta finora sconosciuta. Al v. 20 Menalca accusa Dameta di avere rubato a un altro pastore, Damone, il caprone che quello aveva guadagnato in una gara di canto e di essersi poi nascosto, durante la fuga e l’inseguimento, post carecta, ‘dietro i carici’. Dameta non nega il fatto, ma afferma che il caprone spettava a lui, e che Damone aveva vinto la gara senza meritarlo davvero. A noi comunque interessa il termine carecta. E’ un neutro collettivo, sul modello di salictum = salicetum, ossia la macchia di salici, nella prima egloga, v. 54. La pianta, di cui si individua una macchia, propriamente si chiama carex, e da Linneo è stata identificata con un genere di Ciperaceae, piante acquatiche, o comunque adatte a vivere su substrati umidi, che si rinvengono facilmente negli stagni e nei terreni acquitrinosi. Sono spesso piante infestanti dei tappeti erbosi abbondantemente irrigati e si distinguono per il colore chiaro, la compattezza, le foglie coriacee. Si trovano un po’ dovunque, specie nelle zone temperate. Virgilio ne riparla nelle Georgiche, 3.231, definendo la carex come acuta e come possibile pasto di un toro rimasto separato dal resto della mandria, proprio perché è pianta molto diffusa, ma che non si trova su terreni comuni. Nel nostro caso, è quindi come se Dameta si fosse nascosto, per eludere gli inseguitori, in qualche palude, celandosi nella vegetazione di contorno alla stessa, sapendo bene che nessuno l’avrebbe inseguito in un luogo così disagevole.

    (carex elata)

    Nella fase di cornice c’è un’altra apparizione del mondo vegetale. I due pastori, sfidandosi, decidono che cosa mettere in palio, come premio per il vincitore. Dameta propone una vitella della mandria che sta pascolando (è il premio che poi verrà scelto, e che a Dameta, pastore mercenario, che sta pascolando una mandria non sua, in fondo non costa molto). Menalca non accetta subito, perché teme di dover rendere conto dell’animale eventualmente mancante, al padre e alla matrigna, che a sera contano il bestiame. Propone allora delle tazze di faggio, cesellate con varie figure. Attorno a due personaggi umani (uno è l’astronomo Conone, l’altro non si sa bene chi sia), il fregio continuo è fatto di tralci di vite mescolati a foglie di edera. Della vite sono messi in evidenza i corymbi, ossia l’infiorescenza a grappolo. L’edera è pallens, il che individua l’hedera helix, a foglia bianca centrale, che è specie ornamentale e di maggior pregio.

    (infiorescenza della vite)
    (hedera helix)

    Dameta non accetta la proposta, perché è già in possesso di due tazze di uguale valore e uguale materiale, cesellate con l’immagine di Orfeo che trascina le selve con il canto e, come fregio continuo, con foglie d’acanto. L’attributo mollis, ‘flessuoso’, con cui Virgilio designa questa pianta, indicandolo così come adatto a un fregio che contorni la struttura circolare di una tazza, identifica l’attuale Branca ursina, una pianta acclimatata in Italia come pianta ornamentale dei giardini (i capitelli corinzi, com’è noto, ne riproducono le foglie). L’acanto cresce in terreni incolti e aridi, sotto forma di macchie di cespugli, dal livello del mare fino ai 700 m circa di altitudine. Le foglie erano usate fin dall’antichità contro le irritazioni cutanee, e anche per questo la sua coltivazione è sempre stata abbastanza diffusa.

    (acanto in fiore)

    Venendo alla parte propriamente detta della gara, va tenuto conto del carattere molto stilizzato della stessa. Già Palemone, nella sua battuta introduttiva, vv. 55-57, fa riferimento ad elementi piuttosto generici, per descrivere un locus amoenus entro cui svolgere il confronto: parla di mollis herba, di ager e arbos che parturiunt (una bella, ma facile metafora), di silvae che frondent, di annus (‘stagione’) formosissimus. Il primo termine agreste lo troviamo in un distico di Menalca, vv. 62-63, che ricorda alloro e giacinto come piante sacre ad Apollo (in alloro si metamorfizzò Dafne, vanamente amata dal dio; Giacinto era un giovane amato anch’esso da Apollo, e da questi inavvertitamente ucciso). Il giacinto è qui raffigurato come suave rubens, ‘rosseggiante’

    Dameta, vv. 64-65, ricorda invece la bella e vezzosa Galatea, che ama provocare i suoi possibili innamorati lanciando loro delle mele, per farsi notare, ma fugge poi, ritrosa quanto si conviene a ragazza di buoni costumi, a nascondersi fra i salici, quei cespugli vicini ai corsi d’acqua e delimitanti le proprietà romane, che già conosciamo dalla prima egloga, e che ben si adattano a Galatea, specie se Galatea fosse la ninfa marina, e non una qualsiasi pastorella (un dubbio che nell’egloga permane). Peraltro, Galatea si nasconde sì, come convenzione sociale vorrebbe, ma fa in modo che il pastore veda bene dove si è nascosta, e possa quindi facilmente raggiungerla e proseguire i loro giochi.

    In uno scambio di distici dedicati ai doni per gli amanti, Menalca ai vv. 70-71 promette di inviare a un suo puer non meglio identificato dieci mala aurea tratti da un albero silvestre, e altri dieci gliene promette per il giorno dopo. E’ discusso se si debba pensare a mele rosse molto appariscenti, di particolare maturazione e brillantezza; alle mele dorate delle Esperidi (un frutto mitologico); a qualche altro frutto specifico, e diverso dalle mele comuni, come potrebbero essere le mele cotogne, cydonia oblonga – anche se il loro sapore aspro le rende improbabili come pegno d’amore, ed è solo con la cottura che si enfatizza in loro la presenza degli zuccheri, utilizzati ad esempio per la cotognata, un dolce di carattere gelatinoso.

    (pianta di mele cotogne)

    Nei distici dei vv. 80-83 i due contendenti paragonano i rispettivi amati, Amarillide e Aminta, a cosa spiacevoli il primo (perché Amarillide è descritta irata), a cose piacevoli il secondo (perché Aminta è ben disponibile alla compagnia). Nell’elenco molti sono i riferimenti agresti: il vento è pericoloso per gli alberi, la pioggia per le messi pronte al raccolto; d’altra parte, ai campi coltivati piace l’irrigazione, alle pecore la lenta salix, il salice flessuoso, ai capretti l’arbutus. Si tratta dell’arbutus unedo, o ‘corbezzolo’ e ‘albatro’, una pianta cespugliosa sempreverde, molto frequente nella macchia mediterranea, dai frutti rossi e gialli, ma dai colori comunque sempre vivaci, commestibili e dolci al gusto.

    (cespuglio di corbezzolo)
    (il frutto del corbezzolo)

    In un makarismos indirizzato ad Asinio Pollione, protettore del poeta al tempo della composizione delle Bucoliche, Dameta si augura che in onore del suo patronus il miele possa scorrere a rivi, e l’ispido rovo – probabilmente la mora selvatica, ma il termine come già sappiamo è generico – possa produrre l’amomo, v. 89. Si tratta evidentemente di un adynaton. Quanto il rubus è senza pregio, tanto l’amomo, il cardamomo odierno (elettaria cardamomum), è frutto prezioso, di origine orientale, dai piccoli semi di sapore aromatico e bruciante, utile contro tosse, raffreddore, infiammazioni gengivali e mal di denti.

    (pianta di amomo)
    (frutti e semi)

    Al v. 82 Dameta invita dei non meglio identificati pueri, usciti per cogliere le fragole di bosco, a stare attenti al serpente (probabilmente, una vipera) che si nasconde / si può nascondere nell’erba.

    (fragaria vesca silvestris)

    Al v. 100 Dameta lamenta infine che il suo toro rimanga magro nonostante non gli manchi il pascolo. La causa di tale magrezza viene individuata nella passione amorosa, anticipando tutta quella sezione delle Georgiche in cui proprio gli amori fra bovini assurgono a simbolo della forza e della follia della passione amorosa. I codici parlano di un toro macer nonostante sia pingui in arvo o, a seconda dei testimoni, pingui in ervo. Quest’ultimo sembra il termine più esatto: arva per Virgilio sono di norma i campi coltivati, arati. Ervum è invece la moderna vicia ervilia, o vecciola, una leguminacea – dunque, una pianta ad alto valore nutritivo – simile alle lenticchie, ma soprattutto ancora oggi usata come mangime di alto potenziale per ovini e bovini.

    (vicia ervilia)

    Siamo all’ultimo passaggio. La gara si conclude con due indovinelli, che, nonostante i molti tentativi fatti, non hanno ancora trovato piena spiegazione. Dameta chiede quali siano le terre in cui il cielo è visibile per uno spazio non più vasto di tre ulne (alias tre cubiti: un cubito misura ca. 50 cm). Menalca risponde chiedendo in quali terre nascano i fiori che recano iscritto il nome dei re. Su quale fiore sia così individuato, non esiste dubbio: è il giacinto, che già conosciamo, e nei cui petali gli antichi vedevano le iniziali YA- e AY- dei nomi di Giacinto, appunto, e Aiace. Poiché però il fiore aveva, secondo il mito greco, questa doppia origine, dall’uno o dall’altro eroe, nell’incertezza di quale sia la soluzione caldeggiata da Menalca, l’indovinello resta forzatamente senza risposta.

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – II

    Le piante delle Bucoliche – II

    La seconda egloga ripresenta, naturalmente, alcuni elementi già incontrati nella prima. Come Titiro, anche Coridone canta all’ombra dei faggi. Non una singola pianta, in questo caso, ma un intero faggeto (inter densas fagos), attraverso il quale si conferma l’ambientazione montana dell’egloga (montibus et silvis studio iactabat inani). Questa ritorna anche in seguito, quando Coridone ricorda fra i possibili doni per Alessi i due capreoli trovati nec tuta valle, vv. 40-42 . Più difficile da interpretare il riferimento del v. 21 alle mille agnae che pascolano Siculis in montibus. Il richiamo alla Sicilia, da un lato, sembra un elemento di precisa identificazione topica, un dato che nella prima egloga mancava del tutto; d’altra parte, Coridone qui sta presentando una realtà che non trova conferma nel resto dell’egloga (l’inizio ci ha detto che non è un ricco pastore, proprietario di greggi: cfr. il precedente post “Mitomania e mitomani II”), dunque qualche dubbio è legittimo anche circa la precisazione geografica fornita: quelle greggi inesistenti si possono anzi tanto più amplificare, quanto più sono lontane, fuori dalla vista e dal controllo di chiunque. In ogni caso, il boschetto di umbrosa cacumina svolge la stessa funzione compiuta dal singolo faggio nella prima egloga, offrendo il riparo, all’ombra del quale è possibile il canto.

    Durante il proprio lamento Coridone offre di sé un’immagine differente: sta vagando sotto il sole cocente, alla ricerca di Alessi. E’ il tempo della mietitura; è l’ora del desinare. Gli arbusta, cespugli non ben definiti, proteggono le cicale che friniscono, v. 13; gli spineta, cespugli spinosi non meglio determinati anch’essi, fanno da riparo alle lucertole, v. 9. Una contadina prepara la focaccia che servirà di pranzo (nell’illustrazione dell’edizione Giuntina, Venetiis 1515, che serve da copertina, la porta invece in un canestro sul capo). Fra gli ingredienti si riconoscono l’aglio (alium cepa) e il timo (thymus serpillum), usati come condimento, e qualificati come herbae olentes, v. 11.

    (fioritura di timo selvatico)

    Nel complesso, le immagini vegetali dell’egloga si concentrano in tre blocchi. Il primo dipende da una certa sentenziosità di stampo elegiaco di cui Coridone si compiace spesso, fatta di similitudini e di comportamenti ripetuti, che è perciò il mondo della natura a fornire con una certa abbondanza. Da qui deriva ad esempio un costrutto come quello dei vv. 63-65, in cui Coridone ricorda l’inevitabile caccia che la leonessa compie nei confronti del lupo, il lupo della capretta e la capretta del citiso. Cosa questo sia, o meglio che cosa possa essere, l’abbiamo già discusso nel commento alla prima egloga. Nel passo in esame si conferma il suo carattere di pianta adatta al pascolo. Già in precedenza, v. 18, Coridone aveva però espresso attraverso un’immagine botanica un paragone fra Alessi e Menalca (un precedente suo amore, come sembrerebbe di capire). Alessi è più bello, perché candidus (il colorito nobile, da cittadino non costretto ai lavori agresti); Menalca era invece scuro di pelle, abbronzato, abituato alla vita all’aperto. Non si insuperbisca però Alessi per la superiorità: alba ligustra  cadunt,  vaccinia nigra leguntur, “i bianchi ligustri cadono al suolo – si intende: senza nessuno che li raccolga – i neri vaccini vengono raccolti”. Non è il colore a fare la vera differenza, ma l’utilità delle piante o, nel caso dei ragazzi, la loro disponibilità verso l’amante. In questo parallelo, il ligustro non pone problemi: il ligustrum vulgare è pianta cespugliosa (che può arrivare fino a 3 m di altezza), molto diffusa in tutto il bacino mediterraneo, in genere sempreverde e con dei fiori biancastri, poco appariscenti, a grappolo, che appaiono fra tarda primavera e principio dell’estate. Il ligustro oggi è abbastanza diffuso come pianta da giardino, ma non certo per la vistosità della sua infiorescenza, che nel complesso di una siepe tende a scomparire.

    (siepe di ligustro)
    (siepe di ligustro in fiore)

    Più difficile è identificare con certezza i vaccinia. Il termine ritorna al v. 50, in un contesto floreale (vd. infra), che ha fatto pensare all’identificazione della pianta con il giacinto, una bulbosa dal fiore primaverile, molto profumato e bello, che si coltiva tuttora a scopo ornamentale, anche dentro casa, e che fiorisce in quasi tutti i colori possibili e immaginabili, ma in natura vede prevalere le tinte scure.

    (giacinti ornamentali)
    (giacinto selvatico)

    Un’altra interpretazione vede invece nei vaccinia, citati anche nella decima egloga come nigra, i mirtilli. In questo caso, il parallelo con i ligustri, fiori candidi che producono bacche infruttuose, giocherebbe non tanto e non solo sull’opposizione di colori, ma anche sulla distinzione fra pianta fruttifera (il mirtillo) e pianta infruttifera (il ligustro, le cui bacche non sono commestibili). L’identificazione resta però incerta, ed entrambe le soluzioni proposte hanno i loro difensori.

    (mirtillo in fiore)
    (mirtillo)

    Il secondo ambito di riferimento delle immagini vegetali all’interno dell’egloga si riferisce a una quotidianità di lavori, rispetto alla quale Coridone si contrappone, o che si lamenta di avere interrotto per amore di Alessi. Già abbiamo visto la netta distinzione che si delinea, all’inizio, fra lui, che all’ombra canta senza speranza la propria passione, e i mietitori, che si riposano anch’essi, sì, ma dopo la fatica di una mattinata di lavoro. Anche in seguito, Coridone ricorda una serie di operazioni lasciate interrotte, o che potrebbe/dovrebbe riprendere, con maggior costrutto rispetto a un inutile lamento amoroso. Compare qui la vite semiputata (v. 70), “potata solo in parte” – la potatura della vite è prassi essenziale per la crescita e la produttività della pianta, ed è azione che si dovrebbe compiere a inizio primavera; se Coridone ancora non l’ha terminata alla stagione delle messi, è segno di grave incuria. La vite, in quel contesto, è descritta come in ulmo, secondo l’uso di farla crescere come rampicante intorno a un olmo. Vite e olmo legati fra loro (“maritati”, in termine tecnico) sono un’immagine ricorrente, anche nella tradizione poetica moderna, per una coppia particolarmente affiatata. La foto che propongo viene dalla valle del Chianti, in Toscana, dove si trovano ancora alcuni filari di questo tipo (non sono sicuro, però, che la pianta “marito” sia un olmo: del resto, in epoca moderna si sono usati anche l’acero campestre, il salice e l’ulivo). Oggi questa tecnica, che consentiva di risparmiare le spese d’impianto del filare e proteggeva la vite da eventuali colpi di calore, è pochissimo praticata. La produzione viticola è infatti molto più bassa di quella che si produce con il vigneto specializzato, a filari, mentre nella mentalità agricola ora domina la specializzazione produttiva, a scapito dell’autosufficienza delle singole proprietà; e la specializzazione favorisce, ovviamente, il vigneto a filare.

    Fra le altre azioni che Coridone si lamenta di avere fatto, e non avrebbe dovuto farle, o di non avere fatto a tempo debito, c’è quella di avere lasciato sfogare il vento (vv. 58-59: Austro, il vento tempestoso) sui fiori, non proteggendoli a sufficienza. I fiori da proteggere dal freddo ritorneranno anche nella settima egloga, v. 6. Dal quarto libro delle Georgiche intuiamo che non si tratta di una coltivazione a scopo estetico: il giardino di fiori profumati serve a stimolare le api alla produzione del miele, ed è un elemento indispensabile della villa romana. Ancora, come cura dall’amore infruttuoso per Alessi, Coridone si propone di tessere qualche oggetto con i giunchi di vimine, vv. 71-72: per esempio, immaginiamo, gerle o canestri, da utilizzare nella raccolta della frutta (così propone lo stesso Virgilio nel primo libro delle Georgiche, come attività da compiere nei momenti di riposo dai lavori dei campi), oppure da vendere al mercato. Coridone descrive poi un mondo di lavori intorno a sé, che abbiamo visto già fare capolino nell’immagine iniziale dei mietitori, ma che ritorna nel sottofinale attraverso l’idea dei buoi che tornano dai campi alla fine della giornata, portando, ormai è sera, l’aratro suspensum, ‘sollevato dal suolo’ (v. 66). In questo modo, Virgilio ci suggerisce la durata dell’egloga, visto che il canto di Coridone era iniziato a mezzogiorno, e ora il giorno sta finendo. Da ultimo: Coridone invita Alessi a condividere con lui la vita in campagna. Assieme potrebbero suonare sul flauto di Pan, indicato con facile sineddoche come cicuta, “la canna”, dal materiale che lo costituiva e che già abbiamo visto abbondare lungo le rive del Mincio (vv. 36-39). Coridone propone anche di humiles habitare casas insieme (‘abitare le basse capanne, che non si alzano dal suolo’, v. 29. Nella prima egloga Melibeo aveva descritto la sua abitazione come un tugurium); di cacciare assieme i cervi; di viridi compellere gregem hibisco, vv. 29-30. E’ questa l’immagine su cui concentrare l’attenzione. L’ibisco (normalmente identificato con l’althaea officinalis più che con il nostro ibisco domestico, hibiscus syriacus, importato in Europa solo in epoca moderna), appartiene al genere delle Malvaceae. E’ pianta molto diffusa in tutta Europa, ma specie in quella mediterranea; ama il sole, però vuole le radici all’ombra e all’umido, per cui cresce spesso lungo i fossi, i canali, gli argini, attorno alle case di campagna. Di tendenza invasiva, è tollerata dagli agricoltori perché foglie e radici sono utilizzate in erboristeria, come emollienti e calmanti, quindi come antidolorifici naturali. I fiori, piccoli ma colorati (a colori tenui: spesso bianchi o rosa, talvolta lilla o rossi), numerosissimi da luglio a ottobre, ne fanno anche una pianta ornamentale, da giardino. I fusti, di altezza a volte superiori al metro, ne consentono la coltivazione sia a cespuglio che ad alberello. Nel testo virgiliano, hibisco può essere sia dativo che ablativo. Nel primo caso, sarà un dativo di direzione: Coridone invita Alessi a spingere (compellere) il gregge verso l’ibisco, non perché le caprette si nutrano in modo particolare di questa pianta (peraltro, da esperienza diretta, le capre distruggono qualsiasi siepe appena commestibile; dei fiori dell’ibisco che abbiamo in giardino è molto ghiotta la tartaruga domestica), ma per indicare campi ricchi di flora, di cui l’ibisco si farebbe così simbolo. Con uguale procedimento, un campo primaverile è indicato, nella sesta egloga, v. 53, come ricco di giacinti, ossia fertile di vegetali. Se intendiamo hibisco come ablativo, dovremo invece pensare a un bastone ricavato dal fusto della pianta, il che è abbastanza realistico pensando al nostro ibisco, un po’ meno all’althea selvatica.

    (althea officinalis)
    (piante di althea officinalis)
    (ibisco siriaco ad alberello)

    Infine, ecco l’ultimo ambito botanico al quale fa riferimento Coridone. Nel presentare una serie di doni che dovrebbero allettare Alessi e invitarlo a trasferirsi in campagna, Coridone immagina come presenti alla scena (ma il suo è ormai una sorta di delirio onirico) delle Ninfe che portano canestri di fiori e di frutta, vv. 45-55. Nell’elenco c’è un po’ di tutto: fiori e frutti che si producono in stagioni diversi; colori e profumi che si mescolano fra loro. Proprio l’aspetto cromatico e quello olfattivo sembrano anzi avere guidato la scelta del cantore, perché sono caratteristiche costanti di pressoché tutte le piante citate, anche quando Virgilio sottolinei solo una di esse. Nell’ordine infatti troviamo: pallentes violae, le violette bianche di primavera, la viola alba da sottobosco; summa papavera, probabilmente i papaveri da campo, papaver rhoeas, non quelli da oppio, di cui abbiamo parlato in un altro post; il narciso, narcissum poeticum, bulbosa colorata anch’essa primaverile, presente sia in natura sia, di maggiori dimensioni, nei giardini coltivati; l’aneto profumato, anethum graveolens, erba aromatica dalla gialla infiorescenza estiva; la casia, fiore di incerta identificazione, comunemente interpretata come la lavandula stoechas; i mollia vaccinia di cui abbiamo già parlato; la calendola (calendula officinalis), per quanto riguarda i fiori; pesche (malum dalla tenera lanugo, preferibili alle mele cotogne spesso indicate al loro posto nei commenti), castagne, prugne, alloro e mirto fra le piante. Degli uni come delle altre fornisco una rapida rassegna fotografica. Inizio dai fiori.

    (viola alba)
    (papaver rhoeas)
    (narcisi da campo)
    (aneto in fiore)
    (lavandula)
    (calendula officinalis)

    Ed ecco ora i frutti. Tralascio le castagne, già presenti nella prima egloga, ma anche le pesche e le prugne, che immagino a tutti ben note, ricordando solo che il pesco (prunus persica) è pianta di origine orientale, diffusa nel Mediterraneo a partire dall’epoca alessandrina; il pruno, prunus domestica, nell’età di Virgilio era ancora una pianta ricercata ed esotica, importata di recente dall’Asia, e non nativa dell’habitat mediterraneo (dove pure aveva facilmente attecchito). Dell’alloro e del mirto ricordo il carattere profumato di entrambi; e il loro essere consacrati rispettivamente ad Apollo e a Venere, due divinità che attraverso le piante di riferimento vengono così, in qualche misura, evocate all’interno del canto, a suggellare, nel finale della scena, il suo carattere di canzone amorosa.

    (filare di laurus nobilis, l’alloro)
    (myrtus communis)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Le piante delle Bucoliche – I

    Le piante delle Bucoliche – I

    Inizio oggi un’ambiziosa serie di post, che vorrebbe passare in rassegna la flora presente in ognuna delle dieci egloghe virgiliane. Anni fa avevo progettato, con un’amica fotografa, un libretto che illustrasse le egloghe pianta per pianta. Non se ne fece nulla. Adesso, grazie a internet, il compito è più facile. Strumento indispensabile di lavoro sono le foto disponibili in rete e, per la parte scientifica, il volume di Gigliola Maggiulli, Incipiant silvae cum primum surgere (un verso della sesta egloga). E’ un libro utilissimo, in cui tutte le piante citate da Virgilio – non solo nelle Bucoliche – sono passate in rassegna una per una, per essere schedate, analizzate, discusse. Purtroppo, il fallimento della casa editrice che lo aveva prodotto e la data relativamente ‘antica’ del volume (Roma 1995) hanno impedito una sua adeguata diffusione e la messa in internet, che sarebbe stata cosa utilissima. In parte, cerco perciò di rimediare qui.

    Partiamo dalla prima egloga e dalle piante che vi sono nominate.

    Titiro suona sdraiato all’ombra di un faggio (v. 1). I faggi tornano nella seconda, nella quinta e nella nona egloga. Il faggio di Titiro è una pianta patula, ampia, che ‘si apre bene’, e che offre ristoro e protezione (sub tegmine). Il pastore, supino (recubans), suona il flauto, presumibilmente appoggiato alla grande corteccia dell’albero. Quello che a volte sfugge in questa immagine è che la fagus sylvatica, il faggio odierno, è pianta da habitat collinare e montano, piuttosto diffusa in tutto il paesaggio alpino e appenninico d’Italia, trovando il suo optimum abitativo intorno ai 900-1000 m di altitudine, anche se si conoscono casi eccezionali di faggeti (uno in Toscana, l’altro sull’appennino emiliano) che scendono fino a 150 m ca. sul mare. Insomma, il faggio non è una pianta di pianura: anni fa, la Banca Agricola Mantovana, oggi defunta, realizzò una strenna natalizia dedicata alle piante di Virgilio, e la foto del faggio andò a recuperarla lungo la valle del Chiese, nella zona del lago d’Idro, che credo sia una delle sedi abituali di seconde case dei Mantovani. Perché allora Virgilio dedica tanto spazio al faggio? La prima risposta possibile, è allontanare l’ambiente dell’egloga (e di tutte le egloghe) da ogni possibile interferenza con un paesaggio biografico. L’egloga racconta la storia di Titiro, non quella di Virgilio: e come Titiro è vecchio (e Virgilio nemmeno trentenne) o ex-schiavo (e Virgilio nacque libero, come attestano i tria nomina), così l’ambiente abitativo di Titiro non coincide, da subito, con quello di Virgilio (l’ager Mantuanus). Nella stessa ottica, il faggio si concilia invece con i monti, dalle cui pendici scendono le ombre della sera, nel finale dell’egloga (v. 83). Altra risposta possibile, è invece ricordare che i faggi sono ignoti a Teocrito, ma in greco fēgos è il nome della quercia (quercus robur), pianta ricorrente nelle Bucoliche, ma soprattutto pianta che gli antichi esegeti connettevano al verbo fagein, nutrire. La fagus virgiliana, come la fēgos greca, cioè, sarebbero piante arcaiche, primitive, connesse a un’idea di nutrimento naturale e spontaneo, da raccoglitori di frutti, che non conoscono agricoltura e fatica.

    (faggeto montano)

    Anche il nocciòlo (corylus) e la quercia (quercus) citati ai vv. 14 e 17 da Melibeo concorrono a un’immagine boschiva e da collina, se non proprio da montagna, almeno, ovviamente, nel loro habitat naturale. Nell’egloga il nocciòlo vede avvenire, sotto di sé, l’abbandono da parte della madre dei due piccoli capretti appena nati: in questo modo, una pianta che serve tradizionalmente alla nutrizione alimentare è testimone dello sfacelo, anche economico, portato dalle espropriazioni (spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit). La quercia, colpita dal fulmine, aveva pronosticato un simile scompiglio: la quercia è pianta solida, rigida, spesso utilizzata nelle similitudini per indicare un opporsi tetragono al destino. Ruolo che qui, simbolicamente, le viene invece meno.

    (quercia fulminata)

    Titiro, nella sua risposta, paragona Roma e la città conosciuta fino a quel momento da lui e da Melibeo, quella al cui mercato essi erano soliti recarsi, rispettivamente a un cipresso e a un cespuglio di viburno. Mi pare significativo che, nelle Bucoliche, nessuna di queste due piante torni più: quella di Titiro è un’immagine poetica, costruita su sapere comune, non su un panorama che si voglia in qualche misura ricostruire. Il cipresso (cupressus sempervirens) è scelto come simbolo di Roma per il suo svettare solitario, v. 25. Con i viburna Virgilio individua invece dei cespugli a basso fusto, ed è possibile che il termine avesse, per lui, valore del tutto generico. Il moderno viburnum lantana, detto anche popolarmente “lentaggine” (e lenta è l’aggettivo con cui Virgilio caratterizza qui i viburna: ‘flessuosi’), è pianta piuttosto diffusa in Italia centro-settentrionale, usata come ornamento dei giardini, ma presente anche allo stato selvatico, che arriva fino a 3/4 metri di altitudine, entro un habitat non superiore ai 1000 m di altezza sul mare. Fiorisce in primavera, con fiorellini bianchi, piccoli ma numerosi; per il resto, è pianta abbastanza insignificante, adatta a creare ombra o a fare siepe. Nei giardini odierni se ne conoscono sottospecie differenti.

    (viburno da giardino, coltivato a siepe)

    Possiamo ora passare velocemente sopra le pinus ricordate da Melibeo al v. 38, o su termini generici come poma (qualsiasi pianta da frutto; come frutti maturi, mitia poma, la parola ritorna al v. 80) e arbusta, un altro termine generico. Al v. 48 Melibeo descrive i beni di Titiro come una palude ricoperta di giunco, ossia di canneti: pianta da territorio paludoso, e che ben si adatta a descrivere i dintorni di Mantova (oggi bonificati), e un po’ tutta la pianura padana (anche Milano, fino all’età moderna, lo ricordo, era circondata da paludi).

    (canneto lungo le rive del Mincio)

    Più interessante è lo spazio che viene concesso, entro quel medesimo contesto, alla salix. Poiché di tale pianta si contano oltre trecento specie, è difficile dire a quella di esse si riferisca qui Virgilio. La più diffusa è la salix alba, cui fa seguito la salix viminalis, che assolvono entrambe le caratteristiche che riconosce loro il poeta. Intanto sono piante fluviali, che nascono spontanee in natura, ma sono anche coltivate dalla mano dell’uomo, specie a protezione di canali e rive di fiumi, per le loro capacità di consolidamento del terreno, cui impediscono di slittare verso l’acqua. La salix in effetti è, con i canali d’acqua, il confine usuale delle proprietà individuate dalla centuriazione romana. Quindi, quando Melibeo rievoca un Titiro felicemente addormentato inter flumina nota (v. 51: non necessariamente ‘fiumi’, ma qualsiasi ‘corso d’acqua’, anche i canali delimitanti la proprietà), vicino a una siepe di salici (vv. 53-54), alla cui ombra può tranquillamente dormire, cullato dal ronzio delle api (v. 55), di fatto sta descrivendo un personaggio beato, circondato dalle sue cose, al centro di beni di indiscusso possesso, entro i quali continuare senza pensieri la vita di sempre. Preciso che il cosiddetto ‘salice piangente’ (salix alba tristis) è una sottospecie di salix, assai più rara, estranea al paesaggio bucolico.

    (salix alba)
    (salix viminalis)

    La proprietà di Titiro si caratterizza anche per la presenza di un alto olmo, sul quale ha nidificato la tortora. Non è qui importante individuare esattamente la specie cui Virgilio poteva fare riferimento (la ulmus minor, ovvero ‘olmo campestre’, e la ulmus glabra, ovvero ‘olmo montano’ sono le due più quotate, con una preferenza per la prima); importante è il panorama complessivo che Melibeo viene nel complesso a delineare. Come abbiamo visto, i beni di Titiro sono delimitati da una siepe di salice e dai corsi d’acqua, chiamati anch’essi a fare da confine; includono terreni umidi e un po’ paludosi, o, al contrario, sassosi e morenici (v. 47), ma comunque sufficienti a fornire dei pascua; un pomario, nel quale si ritrovano alberi da frutta produttivi; e, presumibilmente più vicino alla casa, un olmo a proteggerla e difenderla, sul quale gli uccelli nidificano indisturbati. Quella che viene così descritta è la tipica fattoria romana, rispetto alla quale solo la fagus iniziale appare in contraddizione. L’olmo, qui pianta domestica, nelle altre egloghe tornerà in continuazione come supporto della vite, una tecnica di coltivazione effettivamente praticata nel mondo antico.

    (ulmus minor)

    Anche la proprietà di Melibeo doveva avere le stesse caratteristiche. L’orizzonte mentale di Melibeo è fatto di arva (campi arati) e agri (campi coltivati), novalia (campi messi a riposo nel ciclo della rotazione), segetes  e aristae (messi e spighe), terre ben coltivate (tam culta). Il pomario si precisa come fatto di peri e di viti (v. 73), per ognuna delle quali Melibeo conosce una specifica tecnica di coltivazione: la riproduzione ad innesto, e la disposizione a filari.

    (innesto del pero)

    Non mancano naturalmente nemmeno i pascua, o comunque i terreni di cui Melibeo può disporre per questo scopo. Essi includono una rupe (v. 76), una grotta (v. 75), i già noti salici e, piante finora sconosciute, i generici dumi (cespugli non ben identificati; un dumetum è, di norma, un roveto), e la florens cytisus, descritta qui come pianta da foraggio particolarmente apprezzata dalle capre, nella decima egloga come pianta mellifera di grande valore. La moderna cytisus (la ginestra di leopardiana memoria) non coincide con queste caratteristiche, e l’identificazione della cytisus virgiliana resta incerta. Probabile che si tratti della medicago sativa, la cosiddetta ‘erba medica’ dei nostri campi, una leguminosa foraggera per eccellenza e che, in quanto azoto-fissatore, arricchisce nuovamente il suolo in modo naturale, dopo l’impoverimento dato da precedenti coltivazioni di altre famiglie, ed è per questo molto diffusa nelle campagne italiane.

    (medicago sativa)
    (medicago sativa in fiore)

    Altri hanno invece pensato al Trifolium pratense, che ha le stesse caratteristiche della precedente, ma – a differenza di quella – meno si presta a terreni aridi e assolati, e ha necessità di una certa irrigazione: cosa che ben si adatta all’immagine della campagna paludosa e solcata da canali che Melibeo ha delineato fin qui.

    (trifolium pratense in fiore)

    Resta un’ultima pianta a chiudere l’egloga. Con un’offerta finale di ospitalità, Titiro invita Melibeo a restare per una notte presso di lui, promettendogli come cena formaggio, frutta e castagne. Il castagno appartiene anch’esso al gruppo delle fagaceae, come i faggi iniziali e le querce. Diciamo che l’egloga si chiude così con una certa circolarità. Benché si possa trovare già a un’altezza sul mare di ca. 200 m, e fino agli 800 ca., anche il castagno è comunque pianta che prevede un habitat ondulato, se non proprio collinare (ricordo invece che i cittadini ippocastani non hanno nessuna parentela diretta con il castagno e appartengono al genere della aesculus, originario dell’Asia e importato in Italia a puro scopo ornamentale).

    (castagneto nel Lazio)

    Possiamo provare a concludere qualcosa? Diciamo che a me sembra che Virgilio abbia descritto un paesaggio umano e sociale molto preciso, fatto di gesti, azioni, operazioni e anche tratti paesaggistici indiscutibilmente romani e legati alla sua epoca. Viceversa, quando si riferisce a un paesaggio naturale, che serva di ambientazione geografica, non ‘sociologica’ e storica, i tratti si fanno più incerti, e resta molto dubbio che egli volesse ritrarre una località precisa. Se però così non fosse, l’impressione è che tale località andrebbe cercata più nella parte settentrionale dell’attuale provincia mantovana, che non in quella meridionale: più verso le ondulazioni che digradano dal (o portano al) lago di Garda, che nella zona in cui il Mincio si avvicina al Po e vi si getta. In ogni caso, si tratterebbe di andare in cerca delle proprietà di Titiro e Melibeo, non di quella di Virgilio. E questo mi sembra che l’egloga lo sottolinei fortemente in ogni suo tratto.

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Lettori in Arcadia

    Lettori in Arcadia

    Torno a occuparmi di Arcadia, prendendo spunto da una giusta osservazione presente nel commento alle Bucoliche di Virgilio curato da Andrea Cucchiarelli (Roma, 2012). Parlando di Arcadia, lo studioso osserva che dovremmo domandarci che cosa sapevano di essa i lettori di Virgilio, fermo restando che per un Romano del I sec. a.C. doveva trattarsi, probabilmente, di una terra vagamente esotica, poco turistica, nota al massimo di nome o giù di lì. Cucchiarelli stende un primo elenco di informazioni, che qui vorrei cercare di riprendere e ampliare. Mi sembra infatti che qualsiasi ragionamento intorno all’Arcadia virgiliana debba partire da una domanda di questo tipo, anche se la risposta è difficile da ricostruire, se non addirittura impossibile. Proviamoci lo stesso.

    L’Arcadia è una regione del Peloponneso centrale, prevalentemente montuosa, che oggi offre alcune rinomate località sciistiche. Molto boschiva, ricca di cipressi e querce, ha in queste il proprio simbolo totemico. Dalla sua conformazione geografica deriva l’idea di una regione conservatrice, come conservatore è, per via di Sparta, un po’ tutto il Peloponneso; ma, se possibile, ulteriormente tale, a causa del maggiore rigore morale riconosciuto di solito alla campagna rispetto alla città, alla montagna rispetto ai territori di pianura. Per i Greci la montagna è un mondo oscuro, il luogo della ferinità: gli abitanti dell’Arcadia vivono perciò nell’immaginario comune a uno stadio primitivo di civiltà. Per questo sono dediti alla pastorizia, attività resa del resto inevitabile dalla configurazione del loro territorio; per questo, sono esclusi da quel processo di civiltà che, nel bene e nel male, ha caratterizzato la restante umanità, che fu nomade o seminomade all’inizio; poi sedentaria e agricola; infine, urbanizzata e in lotta feroce fra comunità e comunità (è questa l’immagine del progresso che offre un biografo tardo antico di Virgilio, Elio Donato). L’Arcadia è invece vista come il luogo dove non esiste ancora la proprietà privata, o quanto meno non è ancora predominante, non è disegnata e imposta sul terreno, oltre che sulle cose, perché le greggi hanno naturalmente sempre un padrone, ma le terre pastorali sono prive di staccionate e mantengono confini incerti. Viene in mente, come possibile parallelo, il bel film di Elia Kazan, del 1947, Il mare d’erba (The Sea of Grass, da un romanzo di Conrad Richter), che giocava proprio sul motivo del conflitto agricoltori/allevatori nel Nuovo Messico del 1880, fondando lo scontro fra le due categorie su questa contrapposizione “terre aperte al pubblico utilizzo delle mandrie/terre chiuse per la coltivazione dei raccolti”, e facendone poi occasione, come è nella tradizione cinematografica, di un melodrammone familiare. In conseguenza di quanto detto, l’Arcadia è vista dagli antichi come la terra della pace che da questa situazione deriva, perché non ci sono beni da difendere né contro il vicino né contro il forestiero; è la terra più prossima alla mitica età dell’oro, insomma, prima dell’insorgere della civiltà e dei suoi mali.

    Il conservatorismo di questa regione si segnala per un altro elemento: l’Arcadia ha divinità proprie, a cominciare dalla declinazione specifica di Zeus Liceo, che ha culti di natura segreta, che ancora Pausania, 8, 38, 6-7, due secoli più tardi di Virgilio, rifiuterà di svelare. Identico discorso si potrebbe fare per Apollo, Liceo pure lui, o per le altre divinità tipiche dell’ambito pastorale, in primis Pan, con tutto il corredo di storie che a lui si riconnetteva. È invece incerto se i lettori di Virgilio conoscessero davvero la topografia dei luoghi di culto legati a queste divinità, descritti nella Periegesi da Pausania, e confermati dagli scavi archeologici americani dell’ultimo decennio. Ancora più improbabile è che conoscessero la storia della regione, o che se ne dessero pensiero: a lungo autonoma, l’Arcadia era stata poi assorbita nell’orbita di Sparta. Aveva avuto un momento di gloria dopo la battaglia di Leuttra (371 a.C.), attraverso la fondazione di Megalopoli (370) e della Lega Arcade, appunto, o come componente importante della successiva Lega Achea (come tale ne parla Polibio). Presto rientrata nell’orbita macedone, e quindi romana, aveva dato qualche filo da torcere a Roma (lo ricorda ancora Livio), ma da tempo aveva perso ogni interesse politico. Difficilmente, poi, i lettori virgiliani si saranno resi conto che il greco d’Arcadia ha particolarità sue proprie, quelle che oggi fanno parlare di un dialetto arcado-cipriota, una variante linguistica attestata in due aree periferiche di incerta assimilazione, a conferma della sopravvivenza di antiche popolazioni non del tutto sommerse dall’invasione unificante dei Dori – ancora una volta, un lascito dell’ambiente montano e della più facile sopravvivenza di antiche forme di vita entro i confini protetti delle valli. Quanto alla geografia, il Menalo, il Liceo, il Partenio erano le sue vette più famose, benché solo la prima tocchi i 2000 metri; Mantinea la località più celebre, non tanto per la battaglia del 418 (vittoria di Sparta su Atene e Argo, nella serie infinita della guerra del Peloponneso), quanto per quella del 362 (vittoria di Tebe su Sparta e luogo di morte di Epaminonda, fatti ricordati pochi anni prima di Virgilio nella biografia del generale tebano scritta da Cornelio Nepote). Oltre a Leuttra, erano certo note Tegea, già citata in un frammento di Pacuvio, Orcomeno, la palude di Stinfalo e la selva dell’Erimanto, luoghi nobilitati dalle imprese di Ercole. Prodotto tipico dell’Arcadia erano gli asini, di una razza particolare, avvezza alla fatica, conosciuta già da Plauto (nell’Asinaria). Fra le letture diffuse dalla scuola, e già dalla scuola antica, vanno ricordate la storia di Aglao di Psofide, l’uomo più felice della terra, che secondo Valerio Massimo e altri realizzò l’ideale di vivere tutta la vita nel suo e del suo, non dovere niente a nessuno, morire circondato dall’affetto dei figli; e il brano di Erodoto, 6, 105-106, secondo cui Fidippide, o Filippide, nel 490 a.C. stava percorrendo i 200 km ca. che separano Atene da Sparta per sollecitare l’intervento dei Lacedemoni in aiuto degli alleati attici, in prossimità dell’invasione persiana, quando, lungo le pendici del Partenio, incontrò Pan, che chiese nuovi culti in proprio onore, garantendo la vittoria degli Ateniesi in contraccambio. Quale che sia il significato del racconto, esso è alla base tanto della confusione (già presente in Luciano) fra questo Fidippide e l’anonimo soldato che percorse i 40 km fra Maratona e Atene per annunciare ben altro avvenimento; quanto del culto ateniese per Pan, per il quale fu subito eretto un altare ai piedi dell’Acropoli e furono introdotti opportuni riti e gare di canto, da taluni ritenuti una possibile origine dei canti pastorali. In quest’ordine di idee si inseriscono anche l’attenzione all’Arcadia offerta da certa epigrammatica greca – una fonte che sempre più riteniamo importante per le Bucoliche virgiliane – e la notizia di Polibio relativa alla diffusione del canto fra gli Arcadi, alla quale in epoca moderna tanta importanza è stata assegnata nel celebre libro di Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1951 (ma già Hamburg, 1946). Polibio 4, 19-21, in un passo in realtà più citato che letto nella letteratura successiva a Snell, dice che gli Arcadi hanno fama di umanità e ospitalità, e di pietà verso gli dèi, messa in dubbio da un massacro di guerra da lui rievocato. Un atto di tale ferocia si spiega però, a detto dello storico antico, con l’abbandono della pratica della musica come disciplina formativa, un tempo seguita da tutti i giovani arcadi, dalla fanciullezza fino ai 30 anni circa. La musica, afferma ancora Polibio, si era del resto resa necessaria in una regione montuosa e fredda, fatta di agglomerati distanti fra loro e isolati dal mondo, in quanto unica, possibile forma di aggregazione sociale, attraverso feste e cerimonie ricche di canti e di danze.

    Dall’ottavo libro di Plinio i lettori romani successivi a Virgilio (ma le notizie erano o no circolanti anche in tarda età repubblicana? Impossibile dirlo) avrebbero appreso altre cose sull’Arcadia: i culti per il lupo, ad esempio, animale sacro, venerato e temuto, con tanto di strani riti al limite della licantropia; oppure, la presenza di sacrifici umani, di nuovo prova di una ferinità e una religiosità accesa, ma particolare. Altro ancora potevano conoscere i Romani del tempo di Virgilio: la presenza di una comunità arcade sulle pendici antiche del Palatino, fin da una preistoria che si perde nel tempo, rievocata però, oltre che da Virgilio nell’ottavo libro dell’Eneide, dall’annalistica arcaica (Gneo Gellio e, probabilmente, Cassio Emina), da Varrone, Livio, Dionigi d’Alicarnasso e altri ancora. Il legame fra l’Arcadia ed Enea, di cui sarà traccia nell’Eneide la presenza non mai ben spiegata di un Arcade nel seguito di Enea, quel Patrone che viene …ab Arcadio Tegeae sanguine gentis (Aen. 5, 298-299), aveva però anche altre origini. In Arcadia esiste un monte di nome Anchisia, che la tradizione aveva collegato, ed era facile farlo, con il personaggio mitologico di Anchise. Da qui due varianti: una, che Anchise fosse morto alle sue pendici e lì fosse stato sepolto, lasciando il proprio nome alla località; l’altra, che Anchise fosse sì passato da quelle parti, così da lasciare il proprio nome al monte, ma in un diverso momento della sua esistenza, in giovinezza. Per spiegare questa possibilità, il mito, cui anche Virgilio aderisce, parlava allora di una deviazione di Priamo e del suo seguito in direzione dell’Arcadia, in occasione delle nozze di Esione, sorella del re troiano, a Salamina, o di una successiva visita a quella: deviazione che Virgilio trasforma in occasione per far nascere l’amicizia di Anchise con Evandro, il capo della comunità arcade stanziatasi poi nel Lazio, rinsaldata dal successivo incontro di Enea con Evandro, dopo il trasferimento di questi sulle pendici del Palatino. Quanto alla comunità arcade, la sua presenza nel territorio della futura Roma è vista da tutte le fonti che vi fanno cenno come un fatto normale e acclarato, un esempio di quella commistione di popoli che Roma riconosceva alle spalle della propria fondazione. In forma diversa, ma non troppo diversa, vanno ricordati la discendenza dei Sabini da Sparta, nota a Plutarco e a Dionigi d’Alicarnasso, oppure l’arrivo della gens Tarquinia da Corinto, ricordata da Cicerone. Nell’uno come nell’altro caso si trattava sempre di località del Peloponneso, forse a sottolineare il rapporto ideale avvertito da Roma con quella terra, terra di valori e di virtù militari e religiose, nelle quali i Romani potevano in larga parte riconoscersi, e delle quali sentirsi fieri (ricordo solo che il nome dei Sabini è connesso da Plinio, nat. 3, 108, a sebesthai, «venerare gli dèi»).

    Stabilito ciò, resta da chiedersi che cosa i lettori di Virgilio potevano sapere dell’Arcadia attraverso Teocrito. Nell’opera del poeta greco l’Arcadia è nominata tre volte: nel secondo idillio, vv. 48-49, come zona di produzione dell’ippomane (un’erba magica); nel settimo, vv. 106-108, in relazione ai culti che vi si celebravano per Pan; nel ventiduesimo, v. 157, come terra dai ricchi pascoli – è questo, del resto, l’idillio che celebra due “eroi” peloponnesiaci per eccellenza, Castore e Polluce. Una sola volta sono citate le montagne dell’Arcadia. Si tratta dell’idillio primo, ambientato chiaramente alle pendici dell’Etna stando a quanto si dice nei vv. 65-69, ma nel quale Pan è chiamato in soccorso da Dafni morente, che lo riconosce come dio cantore per eccellenza nel mondo dei pastori, e ai vv. 123-126 lo invita perciò a venirgli in aiuto, abbandonando il Menalo e il Liceo. Anche altrove, nel corpus teocriteo, si fa menzione di questa eccellenza di Pan, che sempre avrebbe diritto, per antonomasia, al primo premio nelle gare di canto (1, 3); che regola da sovrano riconosciuto gli altri pastori, e non ama che essi cantino quando lui non vuole, perché è stanco o di ritorno dalla caccia (1,16-18); ma che è pronto ad aiutare chi lo venera (5, 58-59), ed è addirittura disposto a farsi suo complice, se necessario, nelle conquiste amorose (7, 103-105). L’Arcadia, dunque, per Teocrito non è una terra di canti o di pastori cantanti: è la terra di Pan, dio pastorale e bucolico per eccellenza; ed è semmai Pan, non gli Arcadi, che si riconnette in qualche misura a un’eccellenza nel canto. Di questo, i lettori di Virgilio dovrebbero sempre tenere conto…

    Bibliografia minima

    Sull’Arcadia:

    A. Cucchiarelli, Publio Virgilio Marone. Le Bucoliche, Roma 2012, pp. 23-25;

    P. Gagliardi, Commento alla decima ecloga di Virgilio, Hildesheim-Zürich-New York 2014, pp. 44-49;

    M. Ferrando, Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico, Vicenza 2018.

    Sul dio Pan:

    Ph. Borgeaud, Recherches sur le dieu Pan, Rome 1979;

    M.C. Cardete del Olmo, El dios Pan y los paisajes pánico. De la figura divina al paisaje religioso, Sevilla 2016.


    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Mitomania e mitomani III

    Mitomania e mitomani III

     

    I casi esaminati in precedenza possono essere ritenuti esemplari di una mitografia (Catullo crea il mito “Catullo”, ossia il mito del giovane poeta vittima di amici ed amanti, costruito da Catullo il poeta; Virgilio crea il mito del mondo bucolico tormentato da Amore, di cui Coridone è solo il primo esponente), ma non di una mitologia. Vorrei allora dedicare quest’ultimo post a personaggi mitologici, la cui possibile mitomania è svelata o dalla contraddizione fra quanto essi affermano e quanto ci ha detto in precedenza il narratore (come nel caso di Coridone  e “Virgilio”, il narratore della seconda egloga), o dalla contraddizione fra quanto essi affermano e quanto ci ha detto una tradizione mitografica precedentemente attestata con sufficiente forza per divenire agli occhi del lettore Verità.

    Parto ancora una volta da Catullo, più esattamente dal carme 64. Ne do qui per scontata la struttura: in occasione delle nozze fra Peleo e Teti, descritte realisticamente come tipiche nozze romane, al momento della presentazione dei doni per gli sposi il Narratore esterno si sofferma a descrivere una coperta fittamente ricamata. La coperta a poco a poco prende vita, o meglio prende vita la situazione narrativa delineata dai ricami, con una voce esterna, il narratore, e una interna che a un certo punto prende a sua volta la parola. Si tratta di Arianna, abbandonata da Teseo sulle coste di Nasso, che si lamenta del proprio crudele destino. Cosa ci dice di Teseo Arianna? Ovviamente, che è perfidus, ìmmemor e crudelis, cioè usa sostanzialmente gli stessi aggettivi che abbiamo visto utilizzati nel carme 30 per Alfeno. Come questi, anche Teseo, a detta di Arianna, non è stato ai patti: ha preso quello che gli serviva, ma si è liberato della zavorra non appena possibile. Ha fatto dei promissa, ha lasciato sperare qualcosa (iubere), e ha permesso poi che i venti portassero via le sue promesse (tutte espressioni ricorrenti anche nel carme 30). Lei è invece la vittima, vittima di un foedus non rispettato, un foedus che si immaginava stabile, ma che la controparte ha brutalmente tradito, venendo meno a un investimento sentimentale ed emotivo di Arianna, e facendo crollare speranze e certezze (vv. 132-142):

    “Sicine me patriis avectam, perfide, ab aris
    perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?
    Sicine discedens neglecto numine divum,
    immemor a! devota domum periuria portas?
    Nullane res potuit crudelis flectere mentis
    consilium? tibi nulla fuit clementia praesto,
    immite ut nostri vellet miserescere pectus?
    At non haec quondam blanda promissa dedisti
    voce mihi, non haec miserae sperare iubebas,
    sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos,
    quae cuncta aereii discerpunt irrita venti…”.

    Nel seguito Arianna non fa che ripetere il lamento, solo dando carattere via via sempre più generale alle sue considerazioni (così non si comporta solo Teseo, ma tutti gli uomini maschi), arricchendo sempre di più anche l’elenco delle proprie passate benemerenze (vv. 143-153):

    Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,
    nulla viri speret sermones esse fideles;
    quis dum aliquid cupiens animus praegestit apisci,
    nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt:
    sed simul ac cupidae mentis satiata libido est,
    dicta nihil metuere, nihil periuria curant.
    Certe ego te in medio versantem turbine leti
    eripui, et potius germanum amittere crevi,
    quam tibi fallaci supremo in tempore dessem.
    Pro quo dilaceranda feris dabor alitibusque
    praeda, neque iniacta tumulabor mortua terra.

    Che cosa ci aveva però detto il Narratore di Teseo, e dei patti intercorsi fra i due amanti? Di Teseo, nella presentazione, si dice solo bene (vv. 81-85):

    Ipse suum Theseus pro caris corpus Athenis
    proicere optavit potius quam talia Cretam
    funera Cecropiae nec funera portarentur.
    Atque ita nave levi nitens ac lenibus auris
    magnanimum ad Minoa venit sedesque superbas.

    Di fronte alla difficoltà della patria (gli Ateniesi devono pagare un tributo di sangue a Minosse, re di Creta e padre di Arianna), Teseo si impegna in prima persona, come vuole l’etica romana; espone se stesso (suum corpus proicere optavit); pensa solo a vincere o a morire, se mai dovesse fallire. Di giochi d’amore non si fa parola, se non per dirci che è Arianna che, giovane e inesperta, non appena vede Teseo se ne innamora, perde la testa, non sa più chi sia e dove sia, exarsit e incenditur, sospirando, languendo, impallidendo, balbettando – tutti i signa amoris che ben conosciamo e ben conoscono i lettori di Catullo (vv. 86-102).

    Hunc simul ac cupido conspexit lumine virgo
    regia, quam suavis exspirans castus odores
    lectulus in molli complexu matris alebat,
    quales Eurotae praecingunt flumina myrtus
    aurave distinctos educit verna colores,
    non prius ex illo flagrantia declinavit
    lumina, quam cuncto concepit corpore flammam
    funditus atque imis exarsit tota medullis.
    Heu misere exagitans immiti corde furores
    sancte puer, curis hominum qui gaudia misces,
    quaeque regis Golgos quaeque Idalium frondosum,
    qualibus incensam iactastis mente puellam
    fluctibus, in flavo saepe hospite suspirantem!
    Quantos illa tulit languenti corde timores!
    Quanto saepe magis fulgore expalluit auri,
    cum saevum cupiens contra contendere monstrum
    aut mortem appeteret Theseus aut praemia laudis!

    Anche dei patti non si fa parola. Il Narratore si limita a mettere in evidenza l’investimento forsennato, eccessivo ed unilaterale della principessa cretese, che con il suo labellum (il diminutivo assicura che sia il suo) offre doni agli dèi e fa voti per la vittoria di Teseo, fino a mettergli in mano il ben noto filo (vv. 103-104):

    Non ingrata tamen frustra munuscula divis
    promittens tacito succepit vota labello.

    Così armato, Teseo vince la lotta contro il Minotauro e vince la lotta contro il Labirinto, forse anche più difficile della prima (vv. 110-115):

    Sic domito saevum prostravit corpore Theseus
    nequiquam vanis iactantem cornua ventis.
    Inde pedem sospes multa cum laude reflexit
    errabunda regens tenui vestigia filo,
    ne labyrintheis e flexibus egredientem
    tecti frustraretur inobservabilis error.

    Naturalmente, il filo è stato dato ed accettato, quindi un qualche accordo ci deve essere stato. Ma quali siano i termini dell’accordo il Narratore non lo dice. Le ragioni di ciò possono essere molteplici, anche solo di tecnica narrativa (ellenistica). Resta però che i foedera pattuiti ai quali Arianna si appella nel suo lamento, nella narrazione non ci sono. C’è lei che si sbilancia; c’è un filo che viene dato ed accettato, ma non ci sono le condizioni di questa accettazione. Anche la narrazione della partenza è piuttosto sbrigativa, e anch’essa si svolge tutta dalla sola parte di Arianna (vv. 116-123):

    Sed quid ego a primo digressus carmine plura
    commemorem, ut linquens genitoris filia vultum,
    ut consanguineae complexum, ut denique matris,
    quae misera in gnata deperdita laeta
    omnibus his Thesei dulcem praeoptarit amorem:
    aut ut vecta rati spumosa ad litora Diae
    aut ut eam devinctam lumina somno
    liquerit immemori discedens pectore coniunx?

    L’accoglienza  del punto di vista di Arianna, abbastanza indiscussa in tutta la critica (perché con gli occhi di Arianna la storia è stata raccontata da Catullo, naturalmente) ha determinato un passare sopra al controllo della veridicità delle parole di Arianna. Ma il poeta, in precedenza, ci ha detto che è lei a essere fuori di testa per amore. E allora, fino a che punto dobbiamo pensare che quanto ci dice sia vero, fino a che punto dovremo invece immaginare che, vittima di uno shock amoroso, di una delusione e una sovraesposizione sentimentale, non sia Arianna ad essere, più o meno coscientemente, preda della propria mitomania? Il dibattito è aperto…

    Il problema si ripresenta, anche più gravemente, con Virgilio. Nell’Eneide non mancano i narratori menzogneri: mentono di sicuro Giunone e la regina Amata, con quella che, seguendo Dupré, potremmo chiamare “mitomania maligna”; mente di sicuro Enea, che alla corte di Didone narra (o omette di narrare, a seconda dei casi) tutto ciò che gli conviene dire (o omettere), in accordo a quella che Dupré avrebbe chiamato “mitomania perversa”. Ma l’erede più diretta di Arianna è certamente Didone. Qui il narratore dice chiaramente che cosa pensa del comportamento della regina cartaginese. Nell’episodio fatale dell’incontro nella caverna, che dà inizio alla fase “attiva” dell’amore fra Didone ed Enea, egli chiama la resa di Didone una culpa (v. 172) e definisce “un pretesto” (per l’esattezza, usa il verbo praetexit) ogni riferimento successivo al coniugium. Ingannata dalle circostanze, e dal proprio stesso desiderio, Didone si crea nella propria mente una tipologia di legame che nella realtà non esiste, che è impossibile, e che Enea ha da subito indicato come tale. Questo è un passaggio che non andrebbe mai dimenticato (vv. 169-172):

    Ille dies primus leti primusque malorum
    causa fuit; neque enim specie famave movetur  
    nec iam furtivum Dido meditatur amorem:
    coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam.

    Il dettaglio invece viene spesso trascurato, per l’adesione sentimentale ed emotiva al punto di vista di Didone, che Virgilio ha voluto ci fosse, e nella quale normalmente cadiamo irretiti noi tutti. Ora, il problema è lungo e complesso, e non intendo sviscerarlo qui. Però c’è un dato significativo: il narratore ha espresso un esplicito giudizio; l’ha espresso quando l’irreparabile è appena avvenuto, e ancora non se ne conoscono appieno le conseguenze. La scelta di raccontare la vicenda successiva dal punto di vista della donna ci dice che Virgilio non assolve Enea; ma il verso in questione ci invita anche a dubitare di tutte le asserzioni successive di Didone. La regina cartaginese è senz’altro in torto, le sue pretese e argomentazioni sono nulle, rispetto alla verità della Storia (= Enea deve arrivare nel Lazio). Tutto quello che dice è fonte di suggestione ed auto-convincimento, reazione a uno shock emotivo non completamente gestito. Dunque, mitomania? Enea potrà ribattere, a ragione, vv. 358-359, nec coniugis umquam / praetendi taedas aut haec in foedera veni.  Su questo dettaglio il narratore non lo smentisce, e non lo smentisce nemmeno Didone nella sua replica, che pure lo rintuzza circa le altre parti del discorso. Certo, Virgilio è sempre un poeta sfuggente a troppo facili schematizzazioni: e la narrazione accosta questa verità, confermata dal giudizio di prima del Narratore, a quella che invece è una palese bugia di Enea, che nella stessa battuta dice (vv. 357-358): Pro re pauca loquar. Neque ego hanc abscondere furto / speravi (ne finge) fugam. E questo mentre invece noi lettori sappiamo che la fuga Enea aveva tentato sì di nasconderla, eccome!, vv. 288-295. Enea non è però un mitomane, è un (semi)bugiardo, con una verità certa e tante piccole bugie al servizio di quella; ma questo non cambia la situazione di Didone.

    Chi però meglio di tutti ha sviluppato il tema della mitomania “mitologica”, chiamiamola così, è certamente Ovidio. L’opera da prendere in considerazione sono, ovviamente, le Heroides. Come sappiamo, si tratta di lettere di eroine, quindici in tutto (le lettere doppie appartengono a una diversa tipologia, e qui non mi interessano). Tutte le eroine che scrivono appartengono al mondo del mito – tale è per me anche Saffo, la Saffo di Ovidio, quanto meno. Ognuna di loro si relaziona a fonti precedenti (Omero, Callimaco, Apollonio Rodio, Euripide e i tragici tutti, ma anche gli stessi Catullo e Virgilio, cui le lettere di Arianna e Didone chiaramente si rivolgono) e a miti ben attestati e sicuri – resi tali comunque dalla fonte precedente cui Ovidio guarda – e ognuna di loro cerca di convincere il suo uomo lontano, e spesso fedifrago (ma non sempre: Laodamia e Ipermestra, ad esempio, fanno eccezione, in parte anche Penelope) a tornare da lei. Vengo però alla mitomania, intesa come invenzione continuata e continua di bugie mitologiche. Le lettere sono lettere, non hanno quindi una cornice o un narratore che ci dica come dobbiamo leggerle. Ma i miti sono preesistenti. E preesistenti in una forma letteraria precisa, alla quale Ovidio guarda e con i cui interstizi si diverte a giocare. Veniamo a un  caso specifico. Ho scelto la lettera di Issipile a Giasone, la numero VI della raccolta. Siamo nel mito delle Argonautiche: Giasone a Lemno si è unito a Issipile, ha concepito con lei due gemelli (ma non lo sa), è partito spronato dai compagni per riprendere l’impresa del Vello d’oro. L’impresa è riuscita grazie all’aiuto di Medea, con la quale Giasone fugge verso la propria casa in Tessaglia. Il ritorno è lungo, lento, travagliato, e certamente non ripassa da Lemno. Dalla Tessaglia giunge sull’isola un hospes, che racconta a Issipile del ritorno dell’eroe in patria; lui sta ben attento a quello che dice, ma prima della fine si tradisce: Giasone è tornato con Medea, tenendosi ben lontano dall’isola. Ciò significa che Issipile per Giasone rappresenta ora, al massimo, un lontano ricordo. La donna decide perciò di prendere lo stilo in mano, e scrive la sua lettera.

    Le eroine di Ovidio sono tutte grafomani, raccontano molte cose… Issipile racconta la vicenda del suo incontro con Giasone. Le donne di Lemno avevano ucciso tutti gli uomini dell’isola. Quando vedono avvicinarsi gli Argonauti non sanno bene come accoglierli. C’è un’assemblea, in cui prevale il parere di lasciarli sbarcare e fare finta di nulla, mentendo circa l’assenza di abitanti maschi. Non è però questa la posizione di Issipile, che sarebbe a favore del rifiutare lo sbarco ai marinai (vv. 51-54):

    Certa fui primo—sed me mala fata trahebant—
         hospita feminea pellere castra manu
    Lemniadesque viros—nimium quoque!—vincere norunt:
         milite tam forti vita tuenda fuit! 

    Questo dettaglio non è unico e sicuro in tutte le attestazioni della leggenda: Igino, ad esempio, non vi fa cenno, in Valerio Flacco, invece, le donne combattono contro gli Argonauti che si avvicinano all’isola. La notizia cui allude l’Issipile di Ovidio si ritrova solo in Apollonio Rodio, per quanto ne sappiamo: ed è perciò questo il segnale che, come l’epistola VII va letta sulla falsariga dell’Eneide, o la X su quella di Catullo (e la I su Omero ecc.), così questa dipende da Apollonio. Issipile, peraltro, è una signora facile alla costruzione mitografica anche nel resto dell’epistola. L’impresa di Giasone, della quale naturalmente lei ha solo notizie lontane e di riporto, la racconta nel testo per ben tre volte, in termini sempre diversi: la prima, di cui assegna la conoscenza a una generica fama, è tutta favorevole a Giasone (vv. 9-14): i buoi sputa-fuoco di Marte si sono lasciati aggiogare dall’eroe, i giganti si sono uccisi fra loro, il serpente/dragone, pur sempre vigile, è stato vinto dalla destra del giovane. La seconda, assegnata all’hospes tessalo è una ricostruzione un po’ meno gloriosa (vv. 31-40): ritroviamo le stesse azioni di prima, solo amplificate nella misura, con i boves Martis che arano il terreno docili, i terrigenae che si uccidono civili Marte, il serpente che si lascia incantare… Solo che, chiaramente, l’ultima e più gloriosa azione non è più merito di Giasone, mentre fa capolino, sia pure con un ruolo non ancora ben definito, la venefica paelex che lo accompagna, cioè Medea. La terza ricostruzione è, per Giasone, la meno onorifica di tutte. Qui l’eroe non solo è scomparso da qualsiasi azione gloriosa; ma ogni azione è assegnata all’intervento di Medea (vv. 97-98): è lei che coegit tauros iuga ferre, è lei che feros angues mulsit, in maniera oramai aperta e definitiva.

    Torno però, per concludere, a quanto avevo lasciato in sospeso, cioè la descrizione del soggiorno di Giasone a Lemno. Dopo il dettaglio che avevo segnalato (l’assemblea delle donne che decidono se e come accogliere gli Argonauti), dettaglio che – lo ripeto – serve sostanzialmente a mettere in evidenza la fedeltà di Ovidio ad Apollonio, Issipile rievoca la partenza degli Argonauti da Lemno, e in particolare l’atteggiamento tenuto da Giasone. In Apollonio la scena è questa: c’è un breve discorso di commiato, in cui l’eroe non promette nulla, ma ringrazia e saluta Issipile e le fa promettere che, in caso di nascita di un figlio, lo manderà appena possibile in Tessaglia, dai genitori dell’eroe, a Iolco. Poi Giasone sale sulla nave, primo di tutti gli Argonauti, dando il buon esempio agli altri. Quindi, la nave salpa, senza che nessuno dei suoi marinai si volti mai indietro. Ecco invece la descrizione che del soggiorno di Giasone a Lemno e della partenza del giovane fa ora Issipile (vv. 55-72):

    Urbe virum vidi tectoque animoque recepi.
         Hic tibi bisque aestas bisque cucurrit hiems. 
    Tertia messis erat, cum tu dare vela coactus 
         inplesti lacrimis talia verba tuis: 
    “Abstrahor, Hypsipyle. sed dent modo fata recursus;
         vir tuus hinc abeo, vir tibi semper ero. 
    Quod tamen e nobis gravida celatur in alvo, 
         vivat et eiusdem simus uterque parens!”
    Hactenus. et lacrimis in falsa cadentibus ora 
         cetera te memini non potuisse loqui. 
    Ultimus e sociis sacram conscendis in Argon; 
         illa volat, ventus concava vela tenet.
    Caerula propulsae subducitur unda carinae:
         terra tibi, nobis adspiciuntur aquae. 
    In latus omne patens turris circumspicit undas; 
         huc feror et lacrimis osque sinusque madent. 
    Per lacrimas specto cupidaeque faventia menti 
         longius adsueto lumina nostra vident. 

    Giasone è costretto a partire, non volendolo (in effetti, anche in Apollonio è Eracle, unico a non avere legami sentimentali sull’isola, che spinge alla partenza; ma Giasone accoglie prontamente l’invito), e viene molto rimarcata la mancanza di entusiasmo dell’eroe (coactus, abstrahor, implesti lacrimis sinum ecc.). Nel suo discorso, Giasone dà per certa l’esistenza di un figlio, pur non ancora partorito. Il figlio, naturalmente, rinforza il legame familiare fra i due, facendone dei veri coniuges. Giasone si allontana proclamandosi per sempre vir di Issipile (in Apollonio si guarda bene dal fare alcuna promessa). Egli, nel complesso, mostra quindi una grande emozione, mentre è piuttosto freddo e burocratico in Apollonio. Giasone sale inoltre sulla nave per ultimo, anziché non per primo, e dopo la partenza continua a tenere lo sguardo fisso verso terra e verso Issipile. Fra i due si instaura così un lungo legame di sguardi, che ricorda le coppie di più teneri amanti (nelle Metamorfosi Ovidio recupera questo dettaglio per la coppia di sposi ideali, Alcione e Ceice; nella poesia decadente ricordo solo il caso parallelo de LAmore dei tre re di Sem Benelli).

    Sono queste delle semplici varianti mitografiche? È una risposta possibile. Siamo di fronte a quel processo di trasformazione del materiale epico in materiale elegiaco che è tipico di Ovidio? Certamente anche questo, ma senza dimenticare che la trasformazione qui non la compie il narratore/Ovidio, ma un personaggio che parla. E Issipile vive, soffre, scrive la sua lettera, e nella lettera scrive cose di fuoco in nome della scena che abbiamo appena letto. Del suo essersi impressa nel (sub?)cosciente della donna. Del di lei crederla vera. Della convinzione di Issipile di essere, grazie ad essa, la legittima uxor di Giasone, e come tale di potersi presentare. In altre parole: di una verità “altra” che la donna si è costruita, cosciente o incosciente, senza che il confine fra le due cose possa essere delineato con troppa sicurezza – una verità “altra” che nel momento in cui lei scrive si è rivelata chiaramente fasulla (e infatti Issipile scrive la sua lettera), ma che diventa il falso (o la bugia?) nella quale Issipile fin lì si è rifugiata, costruendo attorno ad essa tutto un mondo, in cui cercare la sopravvivenza. Effetto, ancora una volta, di uno shock, e di quella che per la poesia di primo secolo a.C. mi sembra la sola, possibile ragione di shock: l’amore, che è furor, morbus, ignis, e che proprio per questo tutto spiega e tutto giustifica. In questa ottica andrà inserito dunque il discorso sulla mitomania dei personaggi catulliani, virgiliani, ovidiani. 

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

  • Mitomania e mitomani II

    Mitomania e mitomani II

     

    Chi possiamo allora considerare mitomane nella letteratura latina? Una ventina d’anni fa, un geniale volume di Gian Biagio Conte, L’autore nascosto, Bologna 1997, ha riconosciuto la mitomania in Encolpio, il narratore in prima persona del Satyricon di Petronio. La formula ha avuto successo, ed è oggi un locus communis della critica su quel testo. Ma è la mitomania del personaggio un’invenzione da assegnare davvero a Petronio? Qui proporrò due esempi di mitomania nella poesia del I secolo a.C., la prima che ci sia documentata per intero nella tradizione latina. Nel prossimo e ultimo post della serie, mi occuperò invece di poeti “mitografi”, che però assegnano vistosi tratti mitomani ad alcuni dei loro personaggi.

    Andiamo con ordine, principiando dalla seconda egloga di Virgilio. In essa, com’è noto, Coridone canta il suo amore infelice per il giovane Alessi. Alessi è bello, vive in città, è il favorito del padrone; Coridone è un pastore che può offrire solo umili doni. Tuttavia, dal testo (nella sostanza, un canto di Coridone che si propone al suo amato per convincerlo a raggiungerlo nei campi, così da condividere la vita con lui) sembra che Coridone possa offrire molto, promette fiori e frutta a volontà, ha molte greggi, sa cantare con abilità, si dice bello e bravo. Solo che Alessi non lo ascolta, quindi nel finale Coridone dice di abbandonare ogni speranza e di volersi cercare un altro amante. La critica antica vedeva nelle egloghe delle vicende che rispecchiassero fatti biografici dell’autore: nella seconda egloga intravedeva quindi Virgilio innamorato del giovane Alessandro/Alessi, schiavo di Asinio Pollione. Oggi preferiamo considerare l’egloga soprattutto in relazione ai suoi modelli, in particolare l’idillio undicesimo di Teocrito, che narra l’amore di Polifemo per Galatea. Polifemo è un ciclope rozzo e mostruoso, non ha alcuna speranza con la bella Galatea, ma trova conforto nel canto. Questa storia viene utilizzata da Teocrito per consolare l’amico Nicia, medico, anche lui innamorato senza fortuna. Nell’egloga, tuttavia, Coridone non trova consolazione, ma solo uno sfogo; Virgilio sottolinea il dramma dell’amore di Coridone come passione bruciante, che si fa furor morbus, che non lascia tregua nemmeno nelle giornate più afose dell’anno (in Teocrito c’è invece una forte tinta comica, data dal fatto che Polifemo è notoriamente brutto e mostruoso, e solo lui può credersi bello, senza rendersi conto di quello che è). Anche in Virgilio, peraltro, Alessi, che vive in città, non può essere attirato dalla campagna: Coridone è rusticus e perdente da subito; anzi, Alessi è tuttora in città, e dunque il canto, seppure nominalmente rivolto a lui, da lui non viene nemmeno ascoltato, e per questo, per quanto Coridone possa usare belle parole, per quanti auto-elogi egli si possa fare, Alessi non lo raggiunge e non lo raggiungerà mai. Dunque, in definitiva, il canto di Coridone non serve a nulla, e sa fin dal principio di non servire a nulla (condizione essenziale perché si dia la mitomania). O meglio: serve solo al bisogno di rivalsa di Coridone, al suo – se vogliamo – narcisismo ferito. Il mondo descritto da Coridone è infatti un mondo assolutamente realistico, fatto di azioni e figure concrete, come concretamente descritte:sono le azioni e le situazioni che vediamo avvenire tutti i giorni (anche i nostri) nella campagna d’estate. Questo mondo assume però tratti irreali quando Coridone perde la ragione e inizia a mentire su se stesso. In quell’occasione c’è come un cortocircuito, i conti cominciano a non tornare più, non sappiamo nemmeno più dove ci troviamo, se in Sicilia o in altra parte d’Italia, la campagna e la natura perdono i loro tratti realistici, si vanno componendo (nelle parole di Coridone) come realtà altra e diversa dal reale, ma una realtà nella quale Coridone si presenta come totalmente immerso e alla cui esistenza sembra credere profondamente (altra condizione necessaria della mitomania, come dicevo nel primo post).

    L’egloga si compone di 73 versi; 68 costituiscono il canto di Coridone, i cui tratti, in modo un po’ sommario, ho delineato finora: ma i primi cinque versi sono pronunciati da un narratore esterno, e svolgono la funzione di introduzione. Il lamento di Coridone ha inizio solo dal v. 6. Cosa ci dice il narratore in quei cinque versi? Ecco il testo:

    Formosum pastor Corydon ardebat Alexin,
    delicias domini, nec quid speraret habebat.
    Tantum inter densas, umbrosa cacumina, fagos
    adsidue veniebat. Ibi haec incondita solus
    montibus et silvis studio iactabat inani.

    Vediamo di ricapitolare le informazioni:

    1. pastor, al v. 1, può significare poco, ma dominus al v. 2 è certo quello di Alessi. L’assenza di specificazione fa pensare tuttavia a un possibile padrone comune ai due pastori; in questa direzione sembra andare anche, nel canto di Coridone, la successiva allusione a un Iollas, v. 57, rivale del protagonista, ma ricco e potente, che potrebbe coincidere con il dominus citato qui. In ogni caso, dall’unione dei due passi si ricava che Coridone non è ricco, ha una differenza sociale anche con Alessi (da Finley in poi abbiamo imparato che non tutti gli schiavi sono uguali, e le gerarchie pesano anche fra di loro – le Bucoliche, già dalla prima egloga, lo ribadiscono con grande chiarezza): uno infatti vive nella domus del padrone (in città?), come deliciae domini; l’altro sta fra i faggi (in campagna) – la distanza di Alessi dalla campagna è un tema insistito anche nel seguito dell’egloga. Infine, la forte sottolineatura di formosum, a inizio di verso e di egloga, presuppone anche una differenza estetica fra Coridone ed Alessi, cui l’aggettivo si riferisce;
    2. Alessi non è lì, e Coridone anzi è solo;
    3. Coridone si trova sotto l’ombra di alcuni faggi, in una collocazione usuale per i cantori virgiliani (Tityre tu patulae…);
    4. Coridone ogni giorno si presenta nella medesima situazione (l’imperfetto in veniebat, l’avverbio adsidue), a ripetere il suo canto (situazione topica, non casuale e avvenuta una tantum);
    5. Coridone non ha speranza di successo (due volte, v. 2 e v. 5);
    6. ma il canto è la sua sola consolazione (tantum).

    Cosa ci dice invece Coridone nel suo canto?

    1. è ricco (vv. 21-22), bello (vv. 25-27) e ottimo cantore, vv. 23-24 – il narratore aveva invece parlato di incondita carmina;
    2. parla ad Alessi rivolgendoglisi in seconda persona, come se questi potesse ascoltarlo ed essere più o meno convinto dalle sue parole;
    3. vaga sconsolato nella campagna assolata, sotto la calura più ardente, nell’ora più terribile di un meriggio estivo, mentre è in corso la mietitura, e quando solo le cicale continuano a cantare fra i cespugli, mentre perfino le lucertole sono andate in estivazione (il narratore, invece, ci ha detto che Cordone è sotto i faggi e da lì non si muove, e l’indomani, come ogni giorno, tornerà sotto i faggi…);
    4. alla fine, Coridone dice di rinunciare, v. 73: il giorno dopo andrà in cerca, e certamente troverà, un altro e diverso Alessi (alius; il narratore ci ha detto che il giorno dopo sarà di nuovo lì, come tutte le giornate);
    5. la decisione del punto precedente scaturisce però dall’idea, fattasi chiara in lui, di non avere nessuna speranza di successo;
    6. in ogni caso, entro la fine del canto sa di poter trovare comunque una consolazione (un alius Alexis).

    Come si vede, le affermazioni del narratore sono “smentite” da Coridone punto per punto, o meglio sono contraddette dal canto di Coridone che fa delle affermazioni totalmente dissimili, spesso diametralmente contrapposte a quelle del narratore. Ma nella concezione antica, di stampo epico, è il narratore ad essere onnisciente, mentre il personaggio può anche mentire – e Coridone qui certo mente. Ecco perché il narratore all’inizio fa le affermazioni che sappiamo, ecco perché l’egloga non può riassumersi nel solo canto di Coridone, come pure ci aspetteremmo. In questo modo, il narratore fin dall’inizio ci mette in guardia dal non credere a Coridone e ne smentisce a priori tutte le affermazioni successive (facendo capire che sono solo parte di un canto, e un canto di un malato cronico). Ma quella di Coridone si può considerare una semplice menzogna a fine seduttivo, sul modello di quelle ovidiane? Direi di no, per alcune ragioni:

    – Coridone non sta realmente tentando di convincere Alessi, e anzi fa capire di sapere benissimo che non può convincere Alessi, perché Alessi non è presente, e dunque non lo ascolta. Il canto non viene raccolto da nessuno, e quindi non giungerà mai all’amato;

    – Coridone presenta ovviamente, come ogni innamorato che si rispetti, sé, le proprie azioni e il proprio mondo, abbellendo la realtà dei fatti: ma nel corso dell’egloga lui non si limita a qualche abbellimento, ma giunge a una serie di iperboli, di esagerazioni (canto meglio di Anfione, un mitico cantore; sono stato allievo diretto di Pan, il dio pastorale; vengo riconosciuto dai pastori come il solo degno di possedere la fistula che gli fu propria; sono più bello di Dafni, il bello per eccellenza del mondo bucolico; sono ricchissimo, mille pecore tutte di mia proprietà – si pensi, al confronto, alla modestia di Titiro nella prima egloga), e perfino di palesi falsificazioni (i doni proposti: mi limito a ricordare il bouquet di fiori realizzato direttamente dalle ninfe, vv. 45-50, fatto di piante che fioriscono in stagioni diverse). Tutte prove di una perdita di contatto con la realtà dei fatti (altrove, come detto, al contrario vivamente rispettata).

    – ma poi c’è il punto 5, che per me è quello determinante: nel passato di Coridone c’è uno shock amoroso riconosciuto e ammesso, una situazione disperata che affiora nei (pochi) momenti di lucidità che ancora gli rimangono. Proprio in questi momenti Coridone arriva a riconoscere la situazione disperata della sua posizione, per poi contraddirla subito dopo con un’altra palese bugia, la decisione di rinunciare ad Alessi. Il che ci dice che anche il resto siano bugie senza scampo, un accumulo prolungato e continuo di menzogne.  Alcune facili da smascherare; altre che si lasciano smascherare solo grazie alle parole del narratore, oppure per deduzione logica, ma a partire da quelle parole iniziali.

    Coridone si presenta così sì come un mentitore a scopo seduttivo. ma senza un fine reale: la sua è una menzogna continua, coerente, consistente, a volte smascherata dalla propria stessa riconquistata lucidità (all’interno del canto; dal narratore, per il lettore esterno che non abbia capito subito). Quando Coridone si smaschera, le sue parole di poco prima divengono una menzogna riconosciuta come tale perfino da lui, che pure ne è l’autore. Ma, in ogni caso, subito dopo la prima bugia viene seguita da un’altra menzogna, diversa e però “coerente” con la situazione complessiva (invenies alium Alexim, v. 73). Anche questa nuova bugia, però, è  contraddetta dalle parole incipitarie del narratore (adsidue veniebat, che già ci dicono che Coridone non troverà nessun altro Alessi…).

    Le Bucoliche creano un mito, nel quale l’Amore e i suoi effetti hanno larga parte. Mi piaceva iniziare da quest’egloga, perché in quest’egloga mi pare che la mitomania del personaggio qui sia più chiara che mai. Mi sono concentrato sulla seconda egloga: non sarebbero cambiati i conti se avessimo guardato all’ottava, o alla decima (le tre egloghe amorose del Liber). Il concetto è sempre lo stesso: una vicenda che si snoda attraverso una serie di passaggi comuni, e che si ripete in ognuna delle tre egloghe. C’è una forte passione, poi il brusco risveglio di uno shock; a tutto ciò fa seguito la reazione mitomane di un cantore entro il suo canto; mentre il narratore, con piccoli segnali, ci assicura della falsità di tutto ciò che il personaggio ci dice. La seconda egloga è solo l’egloga che meglio delle altre mette in luce il procedimento. Grazie alla sua posizione quasi incipitaria, il lettore del resto del Liber è avvisato, e può provvedere da solo a ragionare ogni qual volta la situazione si ripropone nel corso del Liber.

    Ma anche Virgilio ha forse un precedente, anche se questo nulla toglie alla originalità di Virgilio e alla chiarezza con la quale porta alle estreme conseguenze questa possibilità narrativa. Tutti conosciamo la vicenda di Catullo e Lesbia, scandita da carmina famosissimi. Pertanto, la do per scontata. Do per scontato anche queste considerazioni:

    – entro la vicenda noi abbiamo un punto di vista univoco, quello di Catullo; nessun narratore esterno e nessuna testimonianza antica ci permettono di verificare l’esattezza o meno di quanto Catullo dice;

    – anche Catullo si descrive come vittima di uno shock amoroso, che ha portato a una perdita almeno parziale di lucidità (situazione tematizzata dal poeta stesso: Miser Catulle desinas ineptire, carm. VIII)

    – ovvia la distinzione fra Catullo-autore reale e Catullo-personaggio, ma qui è Catullo-personaggio che interessa. Solo, rispetto alla seconda egloga, il cortocircuito è più complicato che in Virgilio, e più difficile quindi da valutare, perché Catullo è Catullo, autore e personaggio, laddove Coridone è personaggio, distinto da Virgilio autore e “narratore”;

    – la situazione così delineata è questa: il poeta è una vittima, per avere proposto un accordo, un patto, un foedus che si immaginava stabile (fides), ma che la controparte ha brutalmente tradito, venendo meno a ogni investimento sentimentale ed emotivo e facendo crollare speranze e certezze.

    Meno noti sono i carmina per Giovenzio. Ci sono certo elementi differenti: Giovenzio è maschio, e gli amori omosessuali nel mondo antico sono amori contro il tempo, dunque il foedus non è proponibile come accordo di vita, ma è proponibile comunque nel breve tempo in cui la liaison è possibile. Ciò si vede nella presenza di molti temi comuni, anzi a volte addirittura identici (è noto che per Giovenzio scrisse un altro “carme dei baci”, molto simile a quello scritto per Lesbia). Anche lo status sociale dei due amati è differente: Lesbia è donna di alta società, Giovenzio è schiavo o ex-schiavo o, se libero fin dalla nascita, è comunque un puer sottoposto a tutela (lo prevedono l’età degli amori, ma soprattutto i carmina stessi di Catullo). Queste le differenze principali, ma la vicenda ha poi lo stesso svolgimento: un foedus spezzato, un poeta che si sente tradito, una parte del tutto innocente (Catullo), una che non si capisce come abbia potuto fare le scelte che ha fatto (Giovenzio).

    Vorrei chiudere con un altro carme, scritto per un amico, il XXX. Eccone il testo: 

    Alfene immemor atque unanimis false sodalibus,
    iam te nil miseret, dure, tui dulcis amiculi?
    iam me prodere, iam non dubitas fallere, perfide?
    nec facta impia fallacum hominum caelicolis placent.
    quae tu neglegis ac me miserum deseris in malis.
    eheu quid faciant, dic, homines cuive habeant fidem?
    certe tute iubebas animam tradere, inique, me
    inducens in amorem, quasi tuta omnia mi forent.
    idem nunc retrahis te ac tua dicta omnia factaque
    ventos irrita ferre ac nebulas aereas sinis.
    si tu oblitus es, at di meminerunt, meminit Fides,
    quae te ut paeniteat postmodo facti faciet tui.

    Questo è il carmen per un amico, e non per un amante, ma l’amico viene presentato con tutti i termini con cui si potrebbe presentare un amante – il latino facilita, perché molto forte è l’interferenza lessicale fra i due ambiti; anche in italiano c’è un lessico comune, ma qui è più forte, basti pensare a frasi come inducere in amorem, ma anche tradere animam, e direi perfino omnia tuta esse, oltre all’immagine dei giuramenti portati via dai venti e dalle nubi, tipica metafora di ambito amoroso. Anche qui c’è una fides che il poeta sente tradita (perfidus, v. 3, e poi tutti i termini dell’inganno: falsus, fallax, lo stesso verbo fallere ecc.) e che ha spezzato un legame praticamente di famiglia (unanimi si usa per i parenti stretti, c. 9 i fratelli di Veranio; Aen. IV Anna, sorella di Didone). L’episodio che ha dato origine a questo litigio non ci è chiarp, ma forse non è nemmeno mportante (immemor v. 1; negligere, v. 5; retrahere, v. 9 fanno pensare che Alfeno non sia stato presente nel bisogno dell’amico, un peccato tutto sommato veniale). L’immagine finale che esce da tutto ciò coincide con quanto ho detto prima:  c’è un poeta senza colpe personali, vittima di un amico ingiusto e capace di scelte incredibili, che aveva fatto credere all’esistenza di un accordo, un patto, un foedus che si immaginava stabile, ma che poi ha brutalmente tradito, venendo meno a un investimento sentimentale ed emotivo e facendo crollare speranze e certezze.

    Insomma, questa è l’idea: ecco tre situazioni che sono, in realtà, una stessa situazione. Solo che il ripetersi per ben tre volte di una medesima vicenda è cosa sospetta, che dà adito a qualche sospetto. Davvero è stato così sfortunato in tutte le sue relazioni Catullo, o c’è piuttosto qualcosa che non funziona in lui? C’è un sovra-investimento sentimentale, certamente, che lo espone alla delusione, alla frustrazione, a un senso di inevitabile vittimismo e a una sorta di mania di persecuzione, che poi origina come rivalsa una mitomania che si esplica nella ricostruzione ex post dei fatti… Basta tutto questo a definire il personaggio Catullo un mitomane? La discussione qui può essere aperta.

    (segue)

     

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

    Illustrazione di Gottfried Franz, 1895, per Il Barone di Münchhausen di Rudolf Erich Raspe

     

  • Mitomania e mitomani I

    Mitomania e mitomani I

     

    Il concetto di mitomania nasce ufficialmente nel 1905, quando lo psicologo francese Ernest Dupré (1862-1921) pubblica a Parigi un saggio intitolato La Mythomanie. Étude psychologyque et medico-legale du mensonge et de la fabulation morbides. Tra gli studiosi più attivi sul tema vi è stato lo psichiatra e filosofo tedesco Karl Jaspers, che tra il 1910 e il 1919 ha dedicato vari studi al problema. Oggi il termine è un po’ in disuso, almeno in Italia, dove si preferisce parlare di “sindromi”, e dunque si usa di norma l’espressione “sindrome di Münchhausen”, dal nome del celebre personaggio di Rudolf Erich Raspe, noto per le sue spiritose e immaginifiche invenzioni. Nel titolo di Dupré sottolinerei in particolare i termini che fanno allusione alla menzogna e alla fabulazione morbosa, come quelli che meglio esprimono che cosa lo studioso intendeva per mitomania, da lui considerata una forma di isteria (in seguito si è preferito collegarla al narcisismo psicotico). Mitomane è, per Dupré, una persona che mente senza rendersene bene conto, per una forma di malattia – in effetti, il disturbo si inquadra nella classe dei cosiddetti “disturbi fittizi”; e che mente in continuazione, ma non con continuità, altrimenti si ricadrebbe nei casi di schizofrenia e bipolarismo. Il mitomane sa che le sue sono menzogne, ma non lo ammette; e quando è costretto a farlo, perché viene scoperto o teme di esserlo, semplicemente continua a negare la realtà e aggiunge dettagli al suo racconto, oppure tende a cambiare tema, passando ad altre descrizioni inverosimili (la psichiatria parla di “pseudologia fantastica”). In qualche caso, invece, il brusco smascheramento può portare a reazioni di estrema angoscia, accompagnate da intensa aggressività verso chi lo sta mettendo alle strette o verso le vittime inconsapevoli delle sue bugie. Perché mentire è per lui la condizione necessaria, così da evitare il confronto con una realtà insopportabile; non importa invece più di tanto la singola, specifica menzogna, come avviene, viceversa, allo schizofrenico. Dupré distingueva quattro tipi di mitomania:

    • Mitomania vanitosa, ossia il voler essere più belli di quello che si è realmente, per sentirsi migliori e provocare negli altri l’ammirazione; 
    • Mitomania errante, ossia il voler sfuggire sempre davanti alla realtà delle cose;
    • Mitomania maligna, che non è volutamente dannosa verso gli altri, ma è un tentativo di compensare un complesso di inferiorità (spesso la malignità viene usata contro qualcuno che si crede migliore di noi);
    • Mitomania perversa, si tratta di mentire sia a scopo pratico che economico per approfittarsi degli altri.

    Da tutte queste tipologie è possibile perfezionare ulteriormente la nostra definizione di mitomane: è tale chi sente il bisogno sistematico di distorcere la verità, elaborando scenari fittizi ai quali si abitua a credere, e ai quali cerca di convincere gli altri a credere, in una forma patologica e priva di finalità pratiche concrete, che a un certo punto lo porta, come per un cortocircuito interno, a non riconoscere più i confini del vero e del falso, e a presentare con tratti distorti la realtà che lo circonda. Sul tema della mitomania offro due articoli relativamente recenti della bibliografia medica. Come è tipico di questa letteratura (Dupré incluso), più che definizioni vi si offrono casistiche, dalle quali spetta al lettore trarre, semmai, delle affermazioni generali. Il primo è opera dello psicologo Charles C. Dike, apparso sulla rivista americana “Psychiatric Times” del 2008; il secondo è un capitolo della tesi di dottorato di Mario Touzin, L’art de la bifurcation: dichotomie, mythomanie et uchronie dans l’oeuvre d’Emmanuel Carrère, Université du Québec à Montréal, 2007. Entrambi i testi sono disponibili in open access in rete.

    dike – pathological lying 2008

    touzin – l’art de la bifurcation

    Dalla mitomania consegue l’abitudine a raccontare bugie più o meno elaborate, allo scopo di suscitare ammirazione per la propria persona e proteggersi dal giudizio degli altri, nella propria autostima e nella stima altrui. Nel caso della letteratura (che, se vogliamo, è tutta mitomane), diremo che mitomania è l’inattendibilità totale della narrazione, ma conscia di essere tale, da parte di un personaggio che mente senza un fine immediato e concreto; mente in continuazione; mente spudoratamente; mente perdendo il senso della realtà delle cose; ma se richiamato alla verità, ammette la propria menzogna (perché la sa per tale), salvo rispondere al richiamo alla verità con una nuova menzogna, di tipo diverso, però non di grado diverso. Il mitomane infatti è un bugiardo cronico e compulsivo, che modifica e stravolge i racconti creando una realtà alla quale finisce per credere e per voler far credere gli altri. Mentire diviene per lui un fatto patologico e le cause possono essere diverse: il desiderio di apparire diverso da come è in realtà (sarebbe una forma difensiva contro la società percepita come ostile; ma può anche essere una forma narcisistica); il desiderio di suscitare compassione e simpatia nell’animo delle altre persone; il desiderio di ricevere attenzioni e stima da parte degli altri. Cesare mente, sempre e in ogni pagina: ma non è un mitomane, è un politico. Ovidio negli Amores mente più volte, a Corinna come al lettore, e nell’Ars propugna la menzogna come tecnica di conquista. Ma non è un mitomane: è un seduttore. Un vero mitomane non deve avere interessi precisi; e deve essere convinto, almeno per tutto il tempo della finzione, della verità di quanto sta dicendo, pur sapendo nel fondo della propria coscienza che le cose non sono andate davvero così.

    Come si riconosce un mitomane? Evidentemente, appellandosi a una Verità indiscussa. Per questo occorrono, però, tre condizioni inevitabili: 1) credere in una Verità indiscussa; 2) una persona che parli di sé, in prima persona, mentendo; 3) una seconda persona che lo sbugiardi, richiamandosi a quella Verità indiscussa di cui sopra. Ora, è chiaro che per chiamare mitomane la prima persona dobbiamo essere sicuri che la seconda persona sia sincera, e che quello che ci dice essere la verità sia davvero la verità (e che esista, quindi, una Verità, come dicevo al primo punto). Questa seconda “persona”, allora, deve essere una voce esterna ed onnisciente di provata fiducia ed affidabilità, tale da assicurarci che quanto viene detto dal personaggio che parla in prima persona è fasullo. Ora, nel mondo antico (epico e lirico) si dà, nella sostanza, una sola possibilità: e cioè che un personaggio parlante di sé venga a trovarsi a contrasto con un narratore che lo sbugiarda. Il narratore è, specie – ma non solo – nell’epica, evidentemente colui che porta con sé la Verità, o al massimo che è alla ricerca di una Verità che gli venga rivelata da una voce più autorevole della sua (le Muse, di solito); il personaggio, invece, può anche essere una persona che, per effetto di un trauma, abbia perso il senso della realtà, ed esprima questa sua condizione nelle proprie parole e in quanto dice di sé. Da questo contrasto nasce ogni possibile indicazione di mitomania.

    (segue)

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

    Ringrazio per il loro diverso aiuto, ma per me ugualmente prezioso, il Dr. Gianfranco Pittini e Stefano Bellocchi