Sull’utilità (e il danno) del latino nella vita
Queste riflessioni prendono spunto da quanto sento dire ormai da molti anni sull’opportunità di studiare ancora latino nei licei. Si tratta, per i più, di una lingua inutile, non solo e non tanto perché non viene più parlata da nessuna comunità importante, ma soprattutto perché toglie spazio ad altre materie ritenute più utili.
L’obiezione è certamente fondata e comprensibile, forse anche giusta. Il mondo è cambiato, la società è cambiata, ma credo che sia cambiato soprattutto il modo di percepire la scuola e la sua funzione. Se viene intesa esclusivamente come un mezzo per fornire quanto servirà concretamente più tardi, nel mondo del lavoro, allora sì, studiare latino è assolutamente inutile, forse perfino dannoso, perché toglie tempo a materie (lingue, chimica, biologia, informatica ecc.) che forse – ma voglio sottolineare questo forse – aiuteranno a trovare un lavoro adeguato, faciliteranno alcuni percorsi universitari, permetteranno di capire qualcosa di più sulla società contemporanea. Però, credo, questo dipenderà dalle singole scelte individuali. Un architetto o un avvocato, ad esempio, non saranno facilitati da molte materie di tipo scientifico studiate a scuola, ma ciò non significa che il loro apprendimento sarà stato inutile: avranno acquisito strumenti che permetteranno di comprendere le basi di molte questioni attuali e di esprimere un parere non del tutto fuori luogo. Inoltre, anche il lavoro è sottoposto a cambiamenti continui, può capitare di doverlo cambiare o di essere costretti a fare qualcosa cui non avremmo mai pensato; e una volta concluso il percorso scolastico, ciò che si è appreso si è appreso, il resto sta nelle capacità individuali.
Arrivo allora al punto: è proprio vero che la scuola deve preparare all’università e al lavoro in modo specifico? Io credo di no. Sarebbe, oltretutto, di per sé assurdo. In una classe composta di circa 25 persone, quasi tutte intraprenderanno corsi e attività differenti, e nessuna scuola può tenere conto di queste infinite diversità. Un percorso scolastico di valore, e allora sì veramente utile, deve certamente insegnare nozioni più o meno specifiche, ma deve anche offrire conoscenze ampie, strumenti cognitivi, capacità di usare il linguaggio, di ragionare in concreto e in astratto, di argomentare; deve insegnare che cos’è il presente, ma deve insegnare che cos’è il passato. E quindi, è utile costringere gli studenti a perdere il loro preziosissimo tempo a studiare declinazioni, verbi, costrutti di una lingua “morta”? È utile leggere gli autori latini, così lontani nel tempo, o imparare la storia della letteratura latina, fatta principalmente di nomi di opere che non si leggeranno mai? Dipende, a mio avviso, dal modo in cui si vuole intendere l’utilità. Un’utilità di consumo immediato, certamente, non c’è; ma se a questo concetto attribuiamo un significato più ampio, che trascende i limiti dell’immediato e della praticità, che considera “utile” ciò che permette la conoscenza di sé come cultura, come popolo, come individuo, allora non ritengo lo studio del latino dannoso, ma un’opportunità per comprendere – benché in maniera, per così dire, obliqua – la contemporaneità nel suo continuo evolversi.
A parte le ovvie considerazioni di tipo etimologico (del genere, l’italiano deriva dal latino e quindi è bene conoscere la lingua “originaria”), la conoscenza del latino permette una maggiore consapevolezza di uno degli strumenti che più utilizziamo nella nostra vita quotidiana – e spesso purtroppo in maniera inadeguata, quando non addirittura erronea – cioè la lingua italiana. Scoprire, come è capitato di recente in un corso di letteratura per la laurea magistrale, e sottolineo magistrale, che alcuni studenti erano convinti che il figliolo della parabola evangelica fosse prodigo perché perdonato dal padre, e non per avere sperperato del denaro (dal latino prodigus, appunto), dovrebbe spingerci a riflettere sull’utilità di tale studio. Inoltre, il latino costituisce un’ottima base per l’apprendimento di altre lingue europee, di derivazione latina e non solo. Inglese e tedesco sono piene di forme latine (post-mortem, verbatim, i.e. = id est ecc.) e di conii sul latino; una scrittrice popolarissima, Agatha Christie, in The Mysterious Affair at Style (1920) chiama un suo personaggio, Cynthia, “the irrepressible”, probabilmente perché lo sentiva un termine più elegante o più letterario di una normale forma come “the unstoppable”. Quanto al difficile spelling di questa lingua, mi è capitato di vedere scritto a grandi lettere “The Exibition”: forse, sapere da dove deriva il termine, riconoscerne la radice latina exhibere, avrebbe evitato l’errore. Qualunque professore di italiano, poi, dirà che una conoscenza anche essenziale della lingua latina aiuta quando si devono spiegare ad esempio le origini della letteratura, sia a livello linguistico che letterario: come minimo, gli studenti hanno l’idea che prima esisteva un imponente sistema culturale e linguistico; inoltre, a livello concreto, non si perderà tempo a spiegare titoli come De monarchia o L’Orlando furioso… Al di là delle semplici nozioni linguistiche, non si deve dimenticare che la stessa letteratura italiana per secoli si è espressa in latino, pur essendo già storicamente e cronologicamente italiana, e che comunque la letteratura latina è stata letta e studiata per secoli ed è stata di modello – imitato, a volte anche contestato, ma comunque sempre conosciuto – per molti autori e molte opere. Ignorare questa letteratura significa avere una minore comprensione di tante opere e movimenti letterari. La presenza di Virgilio nella Commedia, diversi episodi divenuti celebri come quello di Pier delle Vigne con l’albero sanguinante, sono certamente comprensibili con l’ausilio di commenti e commentatori, ma risultano più significativi e più facilmente apprezzabili qualora se ne conosca il modello. Quanto ai movimenti letterari, si pensi al Romanticismo, che nasce in parte anche dal rifiuto dei modelli latini. Un esempio interessante è la poesia di Wordsworth Lines Left upon a Seat in a Yew-tree (1795), che segna la nascita di un nuovo paesaggio letterario – e quindi di una nuova poesia – proprio descrivendo un paesaggio anti-bucolico: What if here/ No sparkling rivulet spread the verdant herb?/ What if the bee love not these barren boughs? / Yet, if the wind breathe soft, the curling waves,/ That break against the shore, shall lull thy mind/ By one soft impulse saved from vacancy. Non tutti, ovviamente, proseguiranno gli studi filologi o letterari – anche se molti ne coltiveranno l’interesse, e quindi il latino potrà essere più utile di quanto si creda. E comunque, a un avvocato o a un manager o a chiunque si ritroverà a parlare davanti a un pubblico, non sarà stato utile l’aver letto le orazioni di Cicerone e averne analizzato la tecnica? Un appassionato o un dilettante di musica riusciranno a comprendere qualche parola del Requiem di Mozart e gli spettatori potrebbero non disperarsi, come si è visto succedere nell’ultimo concerto di Natale alla Scala, perché senza il programma non capivano il titolo e le parole dei brani della Messa in Do maggiore di Beethoven, che si intitolano ovviamente Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei. Davanti alle celebri tele del Guercino e di Poussin non ci si stupirà di quella strana frase in latino….. Anche un filosofo contemporaneo – e non di origine europea! – come Byung-Chul Han, che scrive su fenomeni sociali di assoluta attualità, la stanchezza nella società moderna oppure la tecnologia digitale, ragiona a partire da termini latini: nel suo ultimo libro, Nello sciame. Visioni del digitale (2013), termini quali spectare, spectaculum, respectare danno inizio all’analisi del medium digitale (sic).
Io stessa sono diventata latinista abbastanza tardi, avendo in precedenza preferito lo studio delle lingue moderne e in particolare della letteratura americana. La prima cosa di cui mi sono accorta quando ho intrapreso gli studi latini è stata che mi stavano aiutando, per così dire a ritroso, a comprendere meglio quello che avevo già studiato. Un collega, professore di inglese, si lamentava della difficoltà di insegnare lingua agli studenti di Lingue, ma riconosceva che gli studenti provenienti dal liceo classico hanno una marcia in più, anche se all’inizio magari sanno meno la lingua, perché ne hanno fatta di meno; ma la marcia in più sta, secondo lui, nel fatto che non faticano a colmare il gap (basta “solo” studiare lessico e fraseologia, e leggere quanti più testi possibile…), mentre hanno una predisposizione mentale al confronto con l’altro (spaziale, cronologico, espressivo ecc.) che gli studenti provenienti da altri tipi di scuola mediamente non hanno. E il relatore della mia prima tesi, Luigi Sampietro, anglista e americanista, soleva dire che è senz’altro utile studiare l’inglese, ma che la cultura procede non solo in orizzontale nella contemporaneità, ma anche in verticale, nel passato, e per conoscerla è quindi altrettanto utile il latino.
Riporto altri due esempi per illustrare quanto un percorso scolastico che comprenda non solo materie immediatamente spendibili sul mercato del lavoro, ma anche insegnamenti “inutili”, possa servire a trovare lavoro e a cambiarlo se quello che abbiamo smette di piacerci. Un direttore del reparto Registrazione di una multinazionale farmaceutica, chiamiamolo A.G., ha selezionato per anni i suoi collaboratori fra laureati in Medicina, Farmacia, Tecniche Farmaceutiche, Biologia o altre facoltà scientifiche. Ora, a detta dei suoi racconti, motivo preferenziale non è mai stato il sapere tecnico – certo, chi aspira a entrare in un laboratorio deve sapere quali sono gli strumenti di un laboratorio, o che dall’idrogeno opportunamente combinato si può avere acqua fresca, ma può venire fuori anche una bomba di una certa pericolosità – perché idea della ditta era che quel sapere tecnico lo avrebbe fornito la ditta stessa, e comunque nel passaggio fra università e assunzione il sapere universitario era, in larga parte, già divenuto obsoleto (prove di laboratorio e giurisprudenza in materia farmaceutica sono in continua, rapidissima, evoluzione) – figuriamoci quindi il sapere liceale, considerato…praticamente preistorico! Invece l’intelligenza, la capacità di muoversi su più campi e più lingue, la rapidità a de-costruire e ri-costruire schemi ed informazioni, e a dar loro forma argomentativa chiara e convincente: queste erano le doti necessarie, e queste non si acquisiscono più, una volta superati i vent’anni d’età. O le si possiedono entro quella età, oppure non le si possederanno mai. Secondo esempio: la sorella di un amico (diciamo S.F.) si è laureata in Ingegneria Industriale e, dopo il dottorato, è stata immediatamente assunta presso una società di Ingegneria degli Idrocarburi; dato che il lavoro era ripetitivo e che quindi sentiva depressa la sua creatività, ha deciso di cambiare totalmente attività ed è andata a lavorare in una prestigiosa holding finanziaria. Essendo ingegnere, naturalmente, sapeva poco o nulla di matematica finanziaria, ma l’idea di fondo dei suoi “datori” (a breve, probabilmente, soci) è che ogni pratica finanziaria sia, entro certi limiti, un caso a sé: e dunque servono, sì, alcune cognizioni di base sul mondo dell’economia; ma serve soprattutto la capacità di sapersi ri-mettere in gioco, di studiare ogni caso partendo da zero, in un contesto (legislativo, economico, di formazione dei capitali) che è in continua evoluzione, e non è mai uguale a se stesso…
Nessuno di questi esempi chiama in causa in modo diretto il latino, ma entrambi dimostrano come parlando della scuola e dei suoi insegnamenti non si possa ragionare solamente in termini di utilità. Certo, nemmeno questi esempi – o le considerazioni di questo post – esauriscono l’argomento, e non esauriscono neppure le considerazioni sull’opportunità di studiare latino a scuola. Resta però vero che un percorso scolastico che insegni esclusivamente materie utili è, a mio avviso, in gran parte inutile, perché esclude la varietà, la possibilità di scelte differenti, la conoscenza fine a se stessa (che può sempre tornare utile chissà quando nella vita), la diversità delle idee e degli approcci metodologici. Il latino non è facile da studiare per tante ragioni, anche se può essere proposto in maniera diversa da come per anni si è stati soliti fare, puntando magari meno sulla grammatica e sul nozionismo. In ogni caso, per me una scuola che non insegni che perseguire uno scopo, qualunque esso sia, è faticoso e duro, ma alla fine procura gioia e fierezza, non è solo inutile: è totalmente dannosa.
© Isabella Canetta, 2015 (isabella.canetta@unimi.it)
Qualche giorno fa mi trovavo in un mobilificio, i libri finti della hall per far scena avevano per titolo “Letteratura Latina”, ciò a dimostrare quanto il latino sia avvertito da tutti come prestigioso. Io stesso, che conosco poco il latino per non averlo studiato negli anni della mia formazione, già sentivo nei confronti dei miei coetanei che studiavano al liceo una distanza incolmabile (e la sento tuttora) che mi preclude l’accesso a una cultura ricchissima. Nondimeno molti che vengono da licei accreditati mi dicono che lo sforzo per lo studio delle lingue antiche è stato troppo e decisamente non adeguato ai tempi moderni, perché ha impedito loro di studiare discipline tecnico-scientifiche poi incontrate nelle università. Mi domando: e se studiassimo meno latino nei licei e lo introducessimo nelle altre scuole? E in più se dal latino che accresce “la capacità di muoversi su più campi e più lingue”, espandessimo, sin dai primi anni d’apprendimento, il sapere a lingue antichissime come l’arabo o il cinese sì da aprire le porte a una conoscenza, anche letteraria, di millenni? (Risolveremmo tra l’altro, obliquamente, le gravissime tensioni generate dallo scontro tra più culture in non più di due generazioni). È necessaria una rivoluzione scolastica degna di una grande riforma, epperò utile e tecnicamente fattibile: lo studio di molta matematica (si dovrebbe attualizzarla, come ha dichiarato recentemente il professor Odifreddi), per non dire di alcune discipline tecniche è, quello sì, inutile.
In effetti, mi sono sempre chiesta perché, pur esistendo già da tempo il liceo delle scienze applicate che sostituisce l’insegnamento del latino con l’informatica e un ampliamento delle scienze naturali, il liceo scientifico tradizionale continui ad essere preferito, almeno qui a Milano, dagli studenti e dalle famiglie. Probabilmente perché, come dice Michele, il latino è ancora considerato una materia prestigiosa, tutto sommato l’unica che davvero differenzia i due licei, per il resto sostanzialmente identici. Difficile dire se la scelta risponda a criteri di ordine socio-economico (lo scientifico tradizionale sarebbe frequentato da ragazzi provenienti da un ceto più alto), oppure di ordine culturale (il liceo tradizionale rende più facile agli studenti le scelte future, quando i loro interessi di adulti non coincideranno necessariamente più con quelli di quando avevano 14 anni?). Io ho due nipoti: uno ha frequentato il liceo tradizionale, adesso studia Ingegneria e si lamenta perché i suoi compagni di corso hanno l’informatica come unico interesse e non sanno parlare d’altro; il fratello ha provato quello tradizionale, poi però ha preferito le scienze applicate e non dovere studiare latino. Credo che sia stato spinto a cambiare da vari fattori, tra cui l’ambiente liceale, l’atteggiamento di alcuni insegnanti, l’eccessiva mole di studio anche per materie di cui non riusciva a capire l’utilità. Certo, le lingue antiche sono impegnative e bisogna faticare per impararle, come tutte le lingue, del resto; e la fatica sarà perciò sembrata sproporzionata a chi si è dedicato poi a studi prettamente scientifici, sociologici o economici, e si è trovato a dover studiare materie mai fatte fino all’università. Ma non credo che il liceo debba essere onnicomprensivo e proporre tutto quanto si dovrà imparare nel prosieguo degli studi; vengono già offerte numerose opzioni, adatte a ogni tipo di interesse e di progetti futuri. A mio avviso, uno o due indirizzi liceali devono mantenere un profilo basso in fatto di specializzazione, per offrire agli studenti strumenti e conoscenze magari apparentemente inutili, ma che permetteranno loro di scegliere in seguito che cosa fare nella vita, e di riuscire a farlo. Per dirla con lo scrittore di fantascienza Robert A. Heinlein: «the three-legged stool of understanding is held up by history, languages, and mathematics; equipped with these three you can learn anything you want to learn, but if you lack any one of them you are just another ignorant peasant with dung on your boots».
Grazie per queste “considerazioni inattuali”, che ne aprono molte altre. Condivido appieno quanto scritto da Isabella Canetta. Ho fatto il liceo classico e non mi sono mai pentita di questa scelta. Se avessi dei figli oggi, pur nel disastro socio-economico che ci circonda (o forse a maggior ragione per quello) desidererei con tutta me stessa che scegliessero a loro volta il liceo classico. Ma non voglio aggiungere qui argomenti di tipo teorico o emotivo; vorrei tentare, per quanto posso essere capace, di parlare di aspetti più pratici. Io penso che la situazione di scarsa attrattiva e scarso interesse esercitato oggi dal liceo classico derivi da un problema generale, che affligge l’Italia, vale a dire il fatto di venire da una trentina d’anni durante i quali, per varie ragioni (politiche e culturali) in cui adesso non entro, la capacità di capire il valore reale delle cose e soprattutto la capacità di far emergere tale valore (e sfruttarlo anche economicamente a favore della società e della comunità) sono state completamente smantellate. Questo ha fatto e fa sì che in Italia non si investa più e non si consideri più “di valore” ciò che realmente lo è, ciò che – a lungo termine – costituisce la nostra ricchezza reale. L’Italia è un Paese unico al mondo per risorse paesaggistiche e culturali; siamo seduti su un giacimento di petrolio, che basterebbe per noi e per i nostri figli, e non siamo in grado di utilizzarlo, anzi lo denigriamo. Va bene, e allora? Come si fa? Cercando di non cadere nel circolo vizioso della lamentela sterile, penso che una possibile soluzione sia tentare di fare quello che la nostra classe politica evidentemente non è in grado di fare, vale a dire “veicolare” le coscienze in una vera e propria operazione di marketing culturale. E come in ogni operazione di marketing che si rispetti l’obiettivo è vendere un prodotto che al momento non è richiesto dal pubblico. Come? E’ ovvio che la solita vecchia, seppure appassionata, difesa a spada tratta del liceo non può funzionare. Ma nemmeno può funzionare la strategia che snaturi il liceo classico, lo annacqui per “rincorrere utenti”. Nessuno ha mai visto Steve Jobs rincorrere la gente per vendere un iPhone. Quello che serve secondo me è un’orgogliosa autoproclamazione del liceo classico quale strumento unico (in Italia ma forse nel mondo) per accedere a un percorso professionale eccellente. Chi va al liceo classico è destinato, se vuole, a fare grandi cose: è pronto per qualsiasi percorso verso qualsiasi posizione dirigenziale, in Italia e all’estero, molto più di chi abbia fatto qualsiasi altro tipo di scuola. Tanto per fare un esempio, un ragazzo che esce dal liceo classico italiano è al di sopra della media di qualsiasi matricola americana: tutti lo riconoscono (dati ed esperienza alla mano: all’estero l’hanno ben presente, forse solo noi ancora non lo abbiamo capito…). Questo andrebbe detto e proclamato, attraverso vere e proprie campagne pubblicitarie e attraverso i nuovi mezzi tecnologici, che siano indirizzate alle famiglie di ragazzi delle medie, che dovrebbero fare la fila per mandare i propri figli in un’istituzione così prestigiosa. Un’operazione forse costosa (anche se non così tanto), per la quale andrebbero ricercate le risorse economiche e le collaborazioni (con modalità nelle quali non mi addentro: qualche idea c’è, ma sarebbe tema interessante di altre discussioni). Il liceo classico è un prodotto “cool”, da vendere a caro prezzo e, mi viene da dire, a pochi fortunati. Sono sempre stata per la diffusione della conoscenza ad ampio raggio, e lo sono ancora. Ma questo non significa un abbassamento del livello di tale conoscenza; significa fare in modo che ciascuno abbia pari possibilità di accedere al meglio, senza distinzione di razza, sesso, ceto. Ma poi DEVE subentrare un meccanismo funzionante di selezione, meritocratica e intelligente, che indirizzi i flussi in maniera sensata e concorde alle attitudini e alle aspirazioni di ciascuno; ma deve essere una selezione dura. E questo per me dovrebbe valere per il liceo classico come per l’università. Non saper selezionare significa non saper scegliere o non avere il coraggio di farlo: inutile dire che la disfatta in questo caso è garantita. Avrei molto altro da dire, ma lo spazio e il tempo stringono…
Leggendo la precedente considerazione “attuale” mi viene da pensare: Poveri i miei nipoti, e tanti come loro, esclusi già in partenza da percorsi di eccellenza e magari da ogni possibilità di diventare dirigenti!!!! Io non credo che sarà così, molto dipenderà dalle capacità di ognuno di sfruttare le competenze acquisite per diventare ciò che vogliono. Conosco, frequento e stimo molte persone che il classico non l’hanno frequentato, e neppure il liceo; tuttavia, sono riuscite a farsi strada nella vita. Il liceo classico, è cosa nota, sta perdendo iscritti, probabilmente perché è considerato poco moderno, ruotando attorno a materie sganciate dall’attualità. A costo di apparire iper-tradizionalista, non credo che le campagne pubblicitarie o il marketing possano cambiare molto la situazione, tanto meno dipingere questo tipo di studi come un indirizzo “cool” o una scuola prestigiosa. Anche perché poi ci sarebbe lo scontro con quello che il liceo, ogni liceo, quotidianamente richiede: uno studio faticoso, l’impegno, occupare i propri pomeriggi a studiare invece che a dedicarsi a cose più divertenti…. la pubblicità venderebbe l’apparenza di un prodotto, non quello che implica veramente.
E poi, sempre perché sono iper-tradizionalista, ritengo che l’indirizzo scolastico vada scelto a seconda delle attitudini e degli interessi del singolo, non sulla scia emotiva di possibili eccellenze future. Io credo che ogni indirizzo scolastico abbia un proprio valore; il valore del classico sta, a mio avviso, nel fornire strumenti cognitivi, una certa apertura verso la differenza, la capacità di ragionare in astratto. Il latino e il greco contribuiscono senz’altro a tutto ciò.
Ma, come alcuni obiettano, anche altre lingue straniere, quali l’arabo e il cinese insegnano la differenza, il ragionamento, e in più offrirebbero la conoscenza di culture con cui ci scontriamo ogni giorno. Queste sono lingue piuttosto lontane dalla nostra, e perciò non meno complicate, a livello grafico, fonetico, lessicale, morfologico, del latino e del greco, anzi lo sono perfino di più; e ho l’impressione che studiarle – o l’una o l’altra, entrambe mi pare davvero improponibile! – colmerebbe solo in parte la distanza culturale tra noi e “loro”. Sono già alcuni anni che tento di imparare il cinese e cerco di approfondire la cultura della Cina nei suoi vari aspetti (calligrafia, poesia, pittura, cinema, arte del tè e arti marziali), ma sono ancora molto lontana dall’averla capita. Certo, in fondo potrei dire lo stesso del latino, che pure studio da più anni. Credo però che il latino, oltre a far conoscere attraverso la lingua e la letteratura un’altra cultura, permetta anche di cogliere una migliore conoscenza della nostra cultura e della sua evoluzione, del nostro passato e dei processi storici che ci hanno condotto a essere ciò che siamo. Insegnandoci che tutto è in evoluzione, ma tutto segue un filo continuo, ci insegna così anche la capacità di rapportarci con curiosità e rispetto con quanto è differente da noi – o almeno, è questo che uno studio fondato più sull’incontro con i testi che con la grammatica dovrebbe insegnare. Anche così si favorisce un incontro, e non uno scontro tra civiltà.
Concordo in parte con Martina (soprattutto quando invoca “un meccanismo di selezione meritocratica e intelligente”). Mi pare evidente che attualmente ci siano orientamenti ideologici che non solo trascurano, ma si oppongono alla cultura umanistica e all’insegnamento delle lingue classiche, per ragioni meno nobili di quelle che animarono nel dopoguerra la polemica tra il latinista Concetto Marchesi, e il filosofo Antonio Banfi, in nome dell’uguaglianza sociale. Si trattava allora dell’insegnamento del latino alle medie. Entrambi comunisti, Banfi sosteneva la necessità di una scuola media “concreta e pratica” che desse ai giovani la preparazione necessaria sia per accedere al ginnasio, sia per proseguire gli studi negli istituti tecnico-professionali, mentre Marchesi ribatteva che bisognava dare anche ai figli dei lavoratori quella scuola “formativa”, in cui il latino è indispensabile, che consenta loro di acquisire quelle capacità critiche necessarie per assolvere una funzione di guida della società.
La questione allora era a quel livello!
Da tempo la cultura umanistica non è più vista come appannaggio di un’élite, ma piuttosto come il retaggio di una cultura tradizionalista e superata, cui si oppone una concezione utilitaristica e mercantilistica imperante, che invade anche il campo della cultura e del sapere, appiattendo ogni considerazione.
Eppure…
Sembrerebbe che la portata della cultura classica non sia da ridurre soltanto al campo strettamente umanistico.
Qualche citazione in ordine cronologico:
1. dal Rapporto Mortimer (1983)
Nel 1983 una commissione di scienziati, voluta da Reagan, presieduta da K. Mortimer, con l’incarico di fornire una relazione “sulla formazione necessaria ai giovani per affrontare la nuova società tecnocratica”, affermava che “La moda di abbandonare le solide fondamenta della cultura umanistica…è un grave errore. …La cultura umanistica arricchisce il senso della scelta, il panorama delle opzioni, la capacità di valutare i problemi secondo la qualità e non solo secondo la quantità. Chiunque può imparare in tre mesi a usare un computer. Nessuno, o ben pochi riusciranno a recuperare una cultura umanistica che non hanno mai avuto. […] Quando è nata Silicon Valley, non esistevano gli specialisti della Silicon Valley. Gli inventori più audaci di nuovi sistemi, nuove macchine, nuovi giochi, nuovi programmi, furono matematici e filosofi, qualche volta laureati in storia, qualche volta in materie classiche. Intelligenza e fantasia si sono rapidamente adattate ai requisiti tecnici di quel lavoro. Il contrario è quasi impossibile. … Dobbiamo dire che si deve studiare la storia, sotto pena di non capire il presente e di essere ciechi al futuro. Dobbiamo dire di studiare lingua e letteratura… perché è sempre più importante comunicare in modo accurato, capire se stessi e farsi capire dagli altri. Dobbiamo raccomandare di studiare filosofia… perché senza la capacità di analisi e di sintesi non si può dirigere e non si può eseguire bene alcun lavoro. Dobbiamo raccomandare di avvicinare i giovani alla scienza con spirito umanistico, in modo che le visioni di insieme, i modelli di civiltà precedano i campi specifici, e che il giovane, come un viaggiatore in un percorso difficile, non perda mai il riferimento del posto in cui si trova e del punto verso il quale sta andando.”
“Il rapporto “Mortimer” sulla riforma degli studi universitari negli Stati Uniti”, a cura di F.Luzi, Senato della Repubblica, Servizio Studi, Settore socio-culturale, Roma 1986, p.52
2. dalla Commissione dei Saggi 1997
L’allora presidente di Confindustria, Carlo Callieri, nella Commissione dei Saggi, del 1997, dichiarava che “lo studio delle lingue classiche, non solo non si contrappone al sapere scientifico e tecnologico, ma può offrire un supporto essenziale a questi saperi, rivolti all’intelligenza [comprensione.n.d.r.] del mondo, come è proprio dell’autentico spirito classico”. (Contributo N.5, 4/4/1997)
3. Tullio De Mauro
“ Il 75 % del vocabolario inglese è composto da parole prese in prestito o dal francese o direttamente dal latino classico, medievale e moderno, che è dominante anche nell’apparato morfologico, dal momento che suffissi e prefissi per formare nuove parole inglesi sono in larga misura latini. [….] L’attuale enorme influenza dell’inglese in tutte le lingue europee porta in esse parole latine o greco-latine rifluenti non dall’Ilisso o dal Tevere, ma dalle rive del Tamigi (o dell’Hudson)”.
T.De Mauro, “In Italia son già 103”, Laterza, 2014, pagg.65-66
Ma come riportare l’attenzione alla scuola della società e dalla politica a questo livello?