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  • Enea Heavy

    Enea Heavy

    Il titolo è giusto così. Prendendo spunto da un recente volume a cura di K.F.B. Fletcher e O. Umurhan, Classical Antiquity in Heavy Metal Music, pubblicato nel 2020 dalla casa editrice inglese Bloomsbury Academic, oggi parliamo di musica Heavy Metal. Premetto, doverosamente, che nulla ne conosco, e le informazioni che seguono sono quindi tutte tratte dal volume in questione, qualche volta anche con la difficoltà di ritradurre dall’inglese degli originali spesso italiani.

    Il volume è una miscellanea, che raccoglie nove interventi di autori vari, tutti gravitanti in ambito anglosassone, quando non anglosassoni essi stessi. L’assunto di base è spiegato nell’ampia introduzione (pp. 1-21) firmata dai due curatori. Lo riassumo qui: i due studiosi, nel 2014, erano stati invitati a parlare in un convegno del rapporto fra Heavy Metal e antichità classica. Da lì, l’idea di espandere la relazione in un saggio a più voci, dedicato al medesimo tema. Nell’introduzione, molte parole sono spese (a mio parere inutilmente) per difendere il genere musicale in questione; cercare di conferirgli una patente di nobiltà che nessuno che abbia in mano il libro, immagino, penserebbe di contestare; assalire la prassi dominante fra gli antichisti, per cui i Reception Studies musicali dell’Antichità si occupano quasi esclusivamente di opera lirica (pur riflettendo questa concezione, che risponde al gusto del curatore, osservo che anche questo sito ha dato spesso spazio a manifestazioni musicali non operistiche). A questo fa seguito una rapida storia del genere Heavy Metal, che sintetizzerei così: nascita alla fine degli anni Sessanta (i due autori riconoscono una sorta di primato ai gruppi denominati “Led Zeppelin” e “Black Sabbath”); un salto di qualità a partire dagli anni Ottanta, in connessione all’attività degli “Iron Maiden”, che nell’album Piece of Mind, 1983, avrebbero introdotto una poesia di Tennyson (Charge of the Light Brigade, 1854, divenuta The Trooper) e un brano dedicato al mito di Icaro (Flight of Icarus). A partire da allora, i curatori individuano due tipologie di musica: una, nata all’inizio degli anni Novanta, chiamata Viking Metal, che si rifà nella scelta degli argomenti a miti (o a richiami paesaggistici) del profondo Nord europeo, Scandinavia e Islanda in particolare; l’altra che chiamano Mediterranean Metal, più legata alla tradizione classica, e in particolare all’eredità (anche geografica) dell’impero romano.

    Nel volume un saggio è dedicato a Virgilio; un altro a Cesare, un terzo all’innografia greca, da Omero a Proclo. I restanti articoli si occupano di specifiche figure dell’immaginario antico (Cassandra, Didone e Caligola, non senza un inevitabile tributo ai Gender Studies), di luoghi dell’immaginario classico (l’antico Egitto, con altrettanto inevitabile omaggio ai Colonial Studies), del gusto per l’orrido e l’occulto che accomuna antichità e musica Metal. Qui mi occupo del primo saggio, in cui K.F.B. Fletcher, uno dei curatori, si interessa a tre gruppi Heavy Metal italiani, ispiratisi tutti e tre a Virgilio. Il primo si chiama “Hesperia”, e all’Eneide ha dedicato quattro album, Aeneidos Metalli Apotheosis, usciti rispettivamente nel 2003, nel 2008, nel 2013 e nel 2015; il secondo gruppo si chiama “Stormlord”, autore di un album uscito nel 2013, dal titolo Hesperia (da non confondere con l’omonimo gruppo di prima). Il terzo, infine, è il gruppo denominato “Heimdall”, autore di un album uscito anch’esso nel 2013, e intitolato Aeneid. Di Hesperia (il gruppo) Fletcher non si occupa, giustificando il fatto con quattro argomentazioni: è poco distribuito internazionalmente; si tratta di una “one-man band” (sembrerebbe un ossimoro); i suoi testi sono tutti in italiano; non si esibisce dal vivo. Degli altri due gruppi, va detto che Stormlord mescola italiano, latino e inglese; Heimdall cita l’Eneide nella classica traduzione inglese di Dryden (1697), una scelta decisamente singolare.

    Dedico questo post al gruppo denominato Stormlord, e all’album Hesperia. Il gruppo ha origini lontane (1991). Da allora ha pubblicato sei album, l’ultimo dei quali, Far, è del 2019: il gruppo è ancora in attività, con una formazione che è rimasta sostanzialmente fissa nei quasi trent’anni, ormai, di collaborazione artistica. E’ stato sempre contraddistinto da un certo interesse per il mondo classico. Nell’album del 2001 At the Gates of Utopia il brano iniziale si intitola “Under the Samnites’ Spears”; in quello del 2004, The Gorgon Cult, oltre alla Gorgone che dà titolo all’album figurano citati Ecate, Medusa, i Lemuria, e il brano centrale si intitola “The Oath of the Legion” . Nell’album Mare Nostrum, del 2008 (che precede immediatamente Hesperia), si allude, ovviamente, all’antico Mediterraneo. Nel complesso dei diversi album sono citati, a detta di Fletcher, Dante, Tennyson e Lovecraft. Fletcher si interroga del perché di questi rimandi e ne fornisce tre motivazioni, tutte da verificare: una è il peso che la cultura classica ancora riveste nella cultura italiana (da Dante in poi, nella generica e un po’ frettolosa formulazione del volume); il secondo sono i richiami mitologici tipici del genere musicale in sé, che sono di stampo celtico-vichingo per le formazioni nordiche, ma di stampo classico-romano per le formazioni mediterranee. Infine, Fletcher insiste su un forte nazionalismo reviviscente in Italia, di cui questi gruppi sarebbero la spia, alla pari delle manifestazioni di…Casa Pound. Da parte mia mi limito a riferire, con qualche dubbio. Anche perché Fletcher non si pone la domanda che più volte ci siamo posti in questa sede, ossia come mai proprio la musica, in tutti i suoi generi, Heavy Metal compreso, sia, fra le arti, quella che ha conservato più legami con l’antico. Lo studioso, per accreditare la sua ipotesi, si rifà a due interviste del 2013, con le quali Fabio Calluori (chitarrista degli Heimdall) e Francesco Bucci (basso degli Stormlord) celebrano, rispettivamente, “le origini della nostra cultura latina e romana” e il “nostro passato, di cui siamo orgogliosi” (ritraduco dall’inglese). In ogni caso, Fletcher è disposto a riconoscere, p. 26, che “There is no simplistic whitewashing of the Aeneid or its hero here. Metal’s turn to local topics may be nationalistic in origin, but not all bands approach such material in the same way, or with the same intent”. E possiamo lasciare la questione così.

    L’album Hesperia si compone di otto brani, che coprono, per così dire, la prima metà dell’Eneide (gli Heimdall seguono invece più da vicino il poema virgiliano, con dodici tracce che accompagnano passo per passo il testo di base). Eccone titoli e durata: Aeneas, 6:05; Motherland, 4:37; Bearer of Fate, 6:44; Hesperia, 4:19; Onward to Roma, 6:38; Sic Volvere Parcas, 1:05; My Lost Empire, 5:27; Those Among the Pyre, 9:38. La scelta sottolinea subito due cose: il focus è sul viaggio di Enea e sul suo arrivo finale in Italia, come del resto rivela anche il titolo dell’album; ampia parte dell’album è dedicata a momenti di riflessione sulla missione di Enea, a cominciare dalla sosta cartaginese, nella quale si riflettono allo stesso tempo il maggiore atto di eroismo e il maggiore atto di viltà del protagonista, con tutta l’ambiguità che al poema virgiliano riconosciamo in tempi moderni. Quanto ai testi cantati, essi possono essere (a dispetto dei titoli inglesi) in latino, in italiano (una brutta traduzione dell’Eneide), o in inglese. E’ in latino, ad esempio, il primo brano, Aeneas, in cui il cantante (Cristiano Borchi) recita – a dire il vero, in modo incomprensibile: il dato si ricava dal libretto di accompagnamento – i vv. 1-17, 19-20; 22, ancora 5-7, ripetuti come una sorta di ritornello; e 33 del primo libro virgiliano. Significativo mi sembra che, nel momento in cui il testo è rispettato in sommo grado nella sua facies originale, tanto da non mutarne la lingua, in realtà sia alterato dall’omissione dei vv. 18 e 21; mentre la ripetizione dei vv. 5-7 prima del 33, uniti gli uni e l’altro dalla ricorrenza del verbo condere, sottolineano la moles dell’impresa (Tantae molis erat Romanam condere gentem) e la sua finalità (dum conderet urbem). Mi pare anche notevole che il brano sei, l’unico con titolo non inglese, ripeta quel sic volvere Parcas che è la clausola del v. 22 (già presente nel brano 1, isolato e messo in rilievo dalla omissione dei vv, 21 e 23).

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    Il latino ritorna nel brano numero 5, Onward to Roma. In questo modo, le due metà del disco, simmetricamente, si aprono entrambe su una citazione latina. Nel titolo del brano Fletcher sottolinea la stranezza di usare Roma, non “Rome”, come inglese vorrebbe, e vi riconosce una presa di posizione del gruppo. I versi citati sono quelli di Aen. 6, 781-784, parte della profezia di Anchise che ripromette al figlio, ritrovato nell’Ade, una discendenza felix prole virum. Il seguito della profezia, con il celebre invito a parcere e debellare, è rievocata in inglese.

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    Due cose ancora sottolinerei prima di chiudere. Il racconto non ha andamento cronologico: il brano numero due ha per protagonista Naute, personaggio del quinto libro (vv. 704ss.); My lost Empire, il penultimo brano, è una rievocazione di Troia messa in bocca ad Enea. Hesperia, il brano numero quattro, ripete le parole al primo approssimarsi delle coste italiche, nel terzo libro del poema virgiliano (vv. 521ss.); Those among the pyres, il brano finale, è una rievocazione di tutti i personaggi che hanno dovuto morire perché l’impresa eneadica arrivasse a buon fine.

    Seconda cosa: Fletcher, nel finale della sua analisi, mette in relazione l’album con ulteriori manifestazioni di musica mediterranea (non necessariamente italiana) di matrice nazionalista. Io ricorderei che già un gruppo punk rock degli anni Ottanta, i Litfiba, avevano proposto, nel lontano 1983, una Eneide di Krypton, poi riproposta nel 1990 e nel 2015. Mi chiedo quanto il precedente abbia pesato nel passaggio fra le generazioni. E in ogni caso, lo vedo come un più importante riferimento alla presenza perenne del poema virgiliano.

    © massimo gioseffi, 2020

  • Alberto Grilli (1920-2007)

    Alberto Grilli (1920-2007)

    Giusto cent’anni fa, il 31 maggio 1920, nasceva a Milano Alberto Grilli. Molti di noi ancora lo ricordano, molti sono stati suoi allievi, diretti o indiretti. L’idea iniziale era di celebrare la ricorrenza del centenario invitando una serie di studiosi di oggi a parlare non tanto di Grilli, quanto dei temi che gli erano stati cari, per mostrare come siano ancora vitali, oggetto di dibattito, qualche volta di polemica, ma certamente di studio e di avanzamento del sapere. Ringraziamo gli amici Thomas Benatouil, Carlos Lévy, Guido Milanese, Giancarlo Reggi e Alessandro Russo che hanno generosamente accettato di aiutarci in quel progetto. Le circostanze anomale di quest’anno ci hanno obbligato a rinviare il tutto al 31 maggio 2021, sperando che nulla più osti alla festa. Ci è parso però giusto, accettando un suggerimento di Guido Milanese, ricordare comunque Alberto Grilli. Lo facciamo fra noi, con la voce di alcuni amici che lo hanno conosciuto, che gli sono stati in vario modo discepoli, e che hanno accettato di lasciare una testimonianza sonora di pochi minuti. Non abbiamo voluto fare una vera celebrazione accademica. Quella ci fu già nel 2008 a Lugano, poco dopo la scomparsa di Grilli, e gli atti relativi sono disponibili online, come volume LXII, 2009, della rivista “Acme”. Vi si leggono, fra l’altro, contributi di Giancarlo Mazzoli, Guido Milanese, Nicola Pace, Federica Cordano e Giancarlo Reggi, oltre alla rievocazione di Stefano Martinelli Tempesta, che la casa editrice della rivista offre in open access sul proprio sito (https://www.ledonline.it/acme/allegati/Acme-09-I-07-Martinelli-Tempesta.pdf). Assieme a questa testimonianza ricordiamo anche il caloroso ricordo di Alberto Grilli scritto da Nicola Pace, e pubblicato sul volume XIX della rivista “Eikasmos”, nel 2008.

    Alberto Grilli, dopo circa vent’anni di insegnamento nei licei lombardi, nel 1966 assunse a Milano la seconda cattedra di Letteratura latina, al fianco di Ignazio Cazzaniga, l’uno e l’altro allievi di Luigi Castiglioni. Insegnò fino all’anno accademico 1989/1990, rimanendo ancora in servizio, come coordinatore del Dottorato, fino al 1996. Non smise invece mai il servizio attivo nella ricerca. Massimo Gioseffi, succedutogli nella cattedra di Latino II, ricorda di averlo invitato più volte a parlare di temi suoi: cosa che faceva sempre, accettando immediatamente qualsiasi richiesta, lieto di potersi mescolare con i giovani, di farsi loro guida, loro censore se era il caso (e di Massimo, per primo), ma con toni affettuosamente bonari (“No, questo non si può dire!”), amichevoli, costruttivi. Lo ricorda poi attivo organizzatore degli incontri dell’Associazione Italiana di Cultura Classica, del cui direttivo nazionale aveva fatto parte per molti anni, e della cui sezione milanese rimase a capo fin quasi alla morte (lo rivediamo tutti ancora oggi, negli ultimi mesi di vita, nella sua bella casa all’ottavo piano di una nota via milanese, dalla quale si dominavano i monti lontani; lui, sofferente e attaccato a più riprese a un respiratore artificiale, era pur sempre desideroso di fare, di invitare, di proporre progetti, di vedere persone e discutere cose). Eppure, continua Gioseffi, il primo incontro con Alberto Grilli non avvenne nelle aule universitarie: avvenne alla Scala, quando ignorava chi fosse, ma si ritrovò vicino suo e di sua moglie, per una Zauberflöte diretta da Wolfgang Sawallisch… Grilli era studioso impeccabile, ma non era una di quelle figure tutte casa e studio: amava vivere, andare in giro, conoscere volti nuovi, mettersi alla prova (e mettere gli interlocutori alla prova) in qualche accesa discussione, sempre pronto a riconoscere, quando c’erano, le ragioni dell’altro.

    (I coniugi Grilli, nella loro casa di Trieste, con amici)

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    Tre cose si possono segnalare di Grilli. Il giorno della presentazione ufficiale della raccolta dei suoi scritti, l’aula in cui si celebravano il volume e l’Autore era gremita di docenti di scuola, già suoi allievi, più ancora che di colleghi dell’Accademia (che pure non mancavano). Grilli ne fu fiero: la sua idea era, come ribadirà fra breve Nicola Pace, che la scuola costituisse la prima linea nella lotta contro il non sapere; che i professori andassero considerati come soldati in trincea, che quotidianamente esponevano sé stessi al fuoco nemico; che il legame fra Università e Liceo non dovesse mai essere interrotto, e parlava come di persone non del tutto complete di chi poco o nulla aveva insegnato nella scuola. Non era rimasta questa la situazione negli anni che lo videro in ritiro: e di ciò si rammaricava non poco. Seconda osservazione: Grilli aveva un suo metodo, che partiva sempre dalla parola, e ragionando sulle parole, sul loro significato, sul valore etimologico e sulle sfumature che potevano assumere in ogni specifico contesto, era così in grado di dire sempre qualcosa di giusto e di originale. Di fronte a un insegnamento che, spesso, e lo verifichiamo tutti quotidianamente, trascura proprio il significato delle parole, perché “tanto poi c’è il dizionario”, lui, che un dizionario lo aveva vagheggiato e iniziato, sarebbe trasecolato! Proprio per questo suo metodo, si era occupato di molti temi, apparentemente lontani e diversi fra loro : dai testi che più gli erano cari amava avanzare anche verso altri, estranei alla sua quotidiana frequentazione. Ancora Massimo Gioseffi ricorda ad esempio, terza osservazione, che un giorno Grilli discusse una tesi sulla Regula Magistri, dalla quale scaturì in seguito un’importante pubblicazione. Di fronte allo stupore di Gioseffi, disse più o meno così: “Vedi, Massimo, non è importante che io sia esperto in materia. Alla laureanda l’ho dichiarato subito; ma lei quello voleva studiare. E io ho pensato: lo studierò con lei. Pensa che bella occasione!”. Ecco, Alberto Grilli aveva come tutti, è ovvio, i suoi temi preferiti, i suoi autori, le cose alle quali ritornava più frequentemente. Ma non aveva mai perso la curiosità e l’umiltà dell’imparare. E questo, pensiamo, è quanto ha trasmesso in chi lo ha conosciuto…

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    (Foto di Vittorio Calore, Paideia, Brescia 1992)

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    Fra i suoi allievi diretti, nel senso accademico del termine, Nicola Pace ne rievoca la figura come la si incontrava agli esami o nella preparazione della tesi di laurea, ma ricorda anche come figure quali quella di Grilli siano importanti proprio per il modello che ci propongono e che, se anche improponibili in uguale maniera nell’attuale realtà universitaria, ancora ci parlano e servono a ragionare sul nostro modo di essere e di pensare come docenti.

    (I coniugi Grilli in Croazia, con Nicola Pace e Stefano Martinelli Tempesta)

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    Elisabetta Gagetti, archeologa milanese, parla dei suoi incontri con Grilli in alcuni momenti fondamentali della propria carriera: dalla prima lezione in via Festa del Perdono alla scelta della materia di laurea, agli studi di glittica che l’hanno resa famosa. Ne viene fuori un ritratto di maestro e uomo a tutto tondo, con proprie idee, pensieri, giudizi, forse anche pregiudizi; ma non per questo chiuso in se stesso, in una disciplina specifica, in un sapere incapace di riconoscere e seguire con affetto e partecipazione chi avesse scelto una strada parzialmente diversa dalla sua.


    Anello in ambra con castone plastico raffigurante un busto femminile
    Età traianea
    ©️ Direzione Regionale Musei del Friuli Venezia Giulia –
    Museo Archeologico Nazionale di Aquileia

    [Gli articoli citati nella testimonianza sono A. Grilli, Eridano, Elettridi e via dell’ambra, in Studi e ricerche sulla problematica dell’ambra, Roma 1975, pp. 279-291 e 295; A. Grilli, La documentazione sulla provenienza dell’ambra in Plinio, in “Acme” XXXVI, 1983, pp. 5-17] 

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    Guido Milanese, genovese di formazione, ma legato ad Alberto Grilli da lunga consuetudine personale e professionale (come spiega lui stesso nella testimonianza), parla di Grilli studioso di filosofia antica, ma soprattutto di Grilli come maestro nel vero senso della parola, disposto cioè a farsi tale anche con chi non fosse suo allievo nel senso specifico del termine, ma allievo e basta – ossia giovane di buone doti e pronto a imparare da quanti, per età ed esperienza, avevano più pratica di lui.

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    Stefano Martinelli Tempesta rievoca la decisione di Grilli di lasciare i suoi libri di studio agli allievi, ciascuno secondo l’ambito di interesse che gli era proprio. Non fu lascito da poco, per quantità e qualità (e, a volte, anche per estrinseco valore bibliografico) dei volumi trasmessi. Ma, come dimostra Stefano analizzando un caso specifico, non fu lascito da poco soprattutto per la possibilità di avviare nuove ricerche o realizzare inedite scoperte, in una trasmissione del sapere concreta e reale, che non si è interrotta nemmeno dopo la morte.

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    Come di consuetudine in questi casi, chiudiamo il ricordo riportando un articolo di Alberto Grilli, uno dei suoi ultimi, offerto in open access dalla Fondazione Canussio di Cividale del Friuli (UD). Si tratta dell’intervento intitolato Le due facce della moneta nella letteratura latina, che ci pare rappresentare bene il metodo e la larghezza di interessi del maestro. E’ la relazione a un convegno del 2002, Moneta, mercanti,  banchieri. I precedenti greci e romani dell’euro, i cui atti sono stati pubblicati a cura di Gianpaolo Urso, ETS, Pisa 2003. La Fondazione, fra l’altro, offre sul proprio sito una bibliografia degli scritti di Alberto Grilli, a cura di Alessandro Cristofori, che aggiorna e completa il precedente lavoro di Nicola Pace, apparso nel volume degli scritti di Grilli intitolato Stoicismo, epicureismo e letteratura, Paideia, Brescia 1992: http://www.fondazionecanussio.org/palaestra/grillibiblio1.pdf

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    (Grilli in Val Camonica, lungo la via Valeriana)

    © Elisabetta Gagetti, Massimo Gioseffi, Stefano Martinelli Tempesta, Guido Milanese, Nicola Pace 2020

  • Quid est enim tempus?

    Quid est enim tempus?

    Il percorso artistico dell’olandese Louis Andriessen (classe 1939, tutt’oggi attivo) appare decisamente inusuale rispetto a quello di molti compositori nord europei nati fra le due guerre. Nonostante i primi brani di Andriessen (ad esempio Séries, 1958) non lascino sospettare nulla di diverso rispetto al clima dell’epoca, ben presto, rileggendo la lezione di Stravinsky e aprendosi a una visione musicale più ampia, Andriessen si è portato su binari spesso in aperto contrasto con la logica della scuola di Boulez e di Stockhausen.

    Il primo seme di quest’indipendenza di linguaggio Andriessen lo riceve durante il periodo della formazione. Dopo avere frequentato il conservatorio a L’Aja, viene a studiare con Luciano Berio in Italia. Studiare con Berio non significava solo confrontarsi con uno dei compositori più vivaci e intellettualmente curiosi di quegli anni, ma anche entrare in un circolo culturale che radunava personalità di ogni tipo: Bruno Maderna, Cathy Barberian, ma anche Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Dario Del Corno e molti altri, tutti frequentatori della casa milanese di Berio.

    Tornato in Olanda, Andriessen fa il suo secondo incontro fondamentale, quello con l’America. I Paesi Bassi sono in quegli anni un importante crocevia nel panorama jazzistico, non solo fiorenti di una tradizione autoctona, ma frequentati da musicisti d’Oltreoceano che cercavano fortuna sui palchi europei, nei quali le problematiche razziali sembravano meno evidenti che negli States. Il jazz non è l’unica novità che l’America offre ad Andriessen. In quegli anni, un gruppo di musicisti proponeva un’avanguardia che sembrava virare bruscamente rispetto al percorso che la musica occidentale aveva intrapreso fino ad allora: il minimalismo.

    Da questi incontri scaturisce la decisione di voltare le spalle alle istituzioni e agli organici ufficiali. Andriessen costituisce un proprio ensemble (De Volharding, “La Perseveranza”), su modello di quelli creati da compositori come Steve Reich e Philip Glass. I gruppi strumentali scelti da Andriessen sono inusuali: spesso trovano spazio sassofoni, chitarre e bassi elettrici, un organico modulato su quello della moderna Big Band. Andriessen tuttavia non si limita ad accogliere passivamente le proposte della musica americana, ma, dopo averle assimilate, fornisce una risposta dal sapore inconfondibilmente europeo. In quest’ottica si inserisce la composizione De Tijd (Il Tempo), datata 1981.

    Come recita il titolo, il brano rappresenta il punto d’approdo delle riflessioni di Andriessen sul tempo, parametro di cui i minimalisti avevano offerto una radicale rilettura. La composizione è preceduta da mesi di letture alla ricerca non solo di un testo su cui strutturare il brano, ma anche di una visione filosofica profonda sul problema del tempo. Il punto di partenza è Dante con il verso diciassettesimo dal XVII canto del Paradiso: “Mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti”. Le Confessioni di Agostino sono l’ultimo e finale approdo di un lungo percorso che si snoda fra i trattati del naturalismo rinascimentale e le più moderne teorie einsteiniane. La frase che colpisce Andriessen è collocata nel libro XI al paragrafo 14.17: Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio. Tuttavia, Andriessen sceglierà, anche per una personale ossessione numerica, di musicare il paragrafo undici di quel libro, in cui si affronta il problema della relazione fra passato, presente e futuro.

    L’attingere alla cultura letterario-filosofica di età antica e medievale-rinascimentale non è inusuale per Andriessen. Nella sua vasta produzione troviamo: Il Principe (1974) da Machiavelli; De Staat (1976), fondato sulla Repubblica di Platone; delle musiche di scena per un Orpheus (1977); Odysseus’ Women (1995), da Omero; Writing to Vermeer (1999), con libretto di Peter Greenaway ispirato a documenti e lettere connesse al celebre pittore olandese; Racconto dall’Inferno (2004), da Dante. Questo interesse per la cultura classica (e non solo classica) in parte riflette l’amore per i linguaggi antichi, soprattutto musicali, in parte è un lascito dei suoi anni milanesi.

    Andriessen con De Tijd vuole esprimere l’idea dell’eterno presente in cui si annullano passato e futuro. Implicitamente, la composizione è anche una risposta alla ripetitività del minimalismo. De Tijd offre l’illusione di essere una musica statica, sempre uguale e ripetitiva ma in realtà, nella sua apparente immobilità, muta sempre senza mai risultare uguale a se stessa. Il materiale musicale di partenza è estremamente semplice (fig. 1), due accordi di settima di dominante (senza la quinta), collocati alla distanza di un intervallo di quinta giusta: mi, sol#, re, cui si aggiunge si, re#, la. Si tratta di una sovrapposizione accordale che si rispecchia in continuazione dentro se stessa. Entrambe le settime di dominante, accordo di tensione che necessita di una risoluzione, contengono la nota verso cui tende l’altro accordo, il mi e il la. L’ascoltatore è immerso in una dimensione temporale non lineare, ma circolare. Proprio il cerchio è il simbolo che indica nella musica medievale il tempus perfectum, la scansione metrica basata sul 3, a cui si contrappone il tempus imperfectum, basato sul 2. La simbologia numerica del 2 e del 3 e i rapporti matematici scaturiti dalla loro relazione intrecciano l’intero brano.

    Il testo di Agostino è affidato a un coro di voci femminili. L’uso dell’elemento testuale si richiama, in modo molto semplice, alla tecnica medievale del Cantus Firmus, per cui ogni sillaba è intonata su una lunga nota tenuta. Si tratta di un principio che, rivisitato rispetto alla sua antica origine, appare più fonetico che semantico. A sostenere il coro troviamo la sezione degli archi (curiosamente priva dei violoncelli), che delinea le statiche armonie del pezzo. Su questi due elementi si innestano gli interventi del resto del grande Ensemble , che prevede: 6 flauti, 2 flauti contralti, 3 clarinetti bassi, un clarinetto contrabbasso, 6 trombe, due arpe, l’organo Hammond, due chitarre basse, più una nutrita sezione di percussioni.

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    Quis tenebit illud et figet illud, ut paululum stet, et paululum rapiat splendorem semper stantis aeternitatis, et comparet cum temporibus numquam stantibus, et videat esse incomparabilem, et videat longum tempus, nisi ex multis praetereuntibus motibus qui simul extendi non possunt, longum non fieri; non autem praeterire quicquam in aeterno, sed totum esse praesens; nullum vero tempus totum esse praesens; et videat omne praeteritum propelli ex futuro et omne futurum ex praeterito consequi, et omne praeteritum ac futurum ab eo quod semper est praesens creari et excurrere? Quis tenebit cor hominis, ut stet et videat quomodo stans dictet futura et praeterita tempora nec futura nec praeterita aeternitas? Numquid manus mea valet hoc aut manus oris mei per loquellas agit tam grandem rem?  
    (Agostino, Confessioni, XI 11.13)

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    Il brano appare all’ascolto come un immobile flusso musicale che scorre con estrema lentezza (si tratta di 248 battute che si estendono per la durata di circa 40 minuti). Per la prima parte del brano non si verifica alcun avvenimento significativo, la percezione fatica a cogliere movimenti o mutamenti, che in realtà sono continuamente presenti. Con l’avanzare della composizione, i Pattern ritmici, all’inizio estremamente dilatati, si accorciano progressivamente e l’entrata della sezione dei fiati rende maggiormente percepibile la cangiante struttura ideata da Andriessen. La staticità di coro e archi, raffiguranti l’atemporalità, impatta con i materiali dei fiati e delle percussioni, che realizzano eventi temporalmente connotati.

    Andriessen con quest’ampia e disorientante struttura sonora restituisce il senso del testo di Agostino, dove eternità e temporalità sono poste in confronto dialettico fra di loro, la prima segno di una realtà ultraterrena, la seconda dell’ineludibile condizione umana. Tuttavia, il brano non sembra suggerire una risposta al dilemma agostiniano, ma ne prende semplicemente atto. L’edificio sonoro si spegne nel nulla, resta solo una rapida cellula ritmica percossa dai legnetti, forse il ticchettio di un orologio, forse il nescio dell’uomo di fronte all’enigma del tempo.

    © Mattia Sonzogni, 2020

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    Per chi fosse interessato a Andriessen, ricordiamo il volume miscellaneo, Andriessen a cura di Enzo Restagno, edizioni EDT, Torino, 1996; un’intervista realizzata da Carlo Boccadoro in Musica coelestis. Conversazioni con undici grandi della musica d’oggi, Einaudi, Torino 1999; l’articolo di Tom Service, A guide to Louis Andriessen’s music, all’indirizzo https://www.theguardian.com/music/tomserviceblog/2012/oct/15/louis-andriessen-classical-music-guide; il sito http://musicinmovement.eu/composers/louis-andriessen.

  • Beethoven e il classico

    Beethoven e il classico

    Strano destino quello di Beethoven! Quando, da bambino, ho iniziato a interessarmi a un certo tipo di musica, Beethoven rappresentava il centro del repertorio. Da Schroeder dei Peanuts  che ne strimpella incessantemente le note, incurante di Lucy e disposto a considerarlo una buona risposta alla vita, a Pippo, che ne assumeva le vesti in una rivisitazione del “Topolino”, senza dimenticare l’omaggio non irrinunciabile de “L’Arancia meccanica”, le biografie cinematografiche, il romanzo di Luigi Magnani dedicato a “Il nipote di Beethoven” ecc. ecc. (e naturalmente, gli omaggi colti: Bernstein che ne inaugura il bicentenario alla RAI con un Fidelio incandescente; lo stesso direttore che con i Wiener Philarmoniker e Maximilian Schell ne presenta una per una le sinfonie in prima serata televisiva; Karajan che incide tutto il corpus sinfonico in video per la Unitel, con i Berliner; ancora Bernstein, che ne dirige trionfale il Fidelio a Vienna, e Paolo Grassi riesce a fare spostare l’intera équipe anche alla Scala…), la musica cosiddetta “classica” ruotava tutta intorno al nome di Beethoven. Anche di altri musicisti, naturalmente, era riconosciuta la straordinaria grandezza. Ma lui era una sorta di spartiacque, il più giovane rappresentante de Lo stile classico (come si intitola un celebre libro di Charles Rosen, dedicato a Mozart, Haydn e, appunto, Beethoven); il primo rappresentante dell’Ottocento romantico. Poi venne Amadeus, il film, e il ruolo centrale è passato da Beethoven a Mozart. Non che la cosa sia impropria, o dispiaccia, o che si possa considerare un errore da miopi. Beethoven è ancora molto presente nelle sale da concerto e nella discografia più recente; ma non ha più quel riconoscimento di cui godeva un tempo, non poi tanto remoto. E questo, senza che se ne possa ben dire la ragione.

    Il punto più basso della sua fortuna lo ha forse raggiunto proprio quest’anno, che pure avrebbe dovuto essere per lui, nato nel 1770, un anno di anniversari e di festa. In un articolo apparso sul “Chicago Tribune” il 30 dicembre 2019, la musicologa (del Massachusetts) Andrea Moore proponeva infatti di boicottare l’anniversario beethoveniano. Beethoven è già troppo presente; è un genio riconosciuto; ha messo parole definitive in molti campi (sinfonie, concerti per piano e per violino, sonate per solo piano, o per piano e violino, una delle quali omaggiata niente meno che da Tolstoi; un’opera, i Lieder, i quartetti ecc.). Perché celebrarlo ancora? Meglio dedicarsi a musica nuova.

    https://www.chicagotribune.com/opinion/commentary/ct-opinion-ban-beethoven-anniversary-20191230-ukklfgb25baaxcjjiddm3ud76y-story.html

    Uccellaccio del malaugurio, considerando che, per le ben note vicende di questi giorni, tutte le sale da concerto e i teatri d’opera sono chiusi da ormai tre mesi, in tutto il mondo. E chiusi rimarranno, si presume, anche per l’intera estate che ci attende, e forse oltre. A parte una Leonore e un Fidelio a Vienna a inizio anno, e un trionfale Fidelio londinese subito prima della chiusura, ben poco Beethoven in realtà si è sentito!

    Qui vogliamo rimediare ricordando le sue composizioni che hanno qualche attinenza con il mondo antico. Non sono molte, va detto. Beethoven non era un operista (fatto salvo il già ricordato Fidelio, dalla difficile gestazione in più tempi), e i suoi brani sinfonici o da camera non recano, in genere, un titolo o un programma precisi. Sono pura musica, che lascia all’ascoltatore il compito di associarla alle immagini, alle sensazioni, alle idee che preferisce. Beethoven compose molti Lieder, non solo in tedesco, ma anche in inglese, scozzese, gallese e perfino in italiano, nell’arco di circa quarant’anni, dal 1783 al 1823. In italiano compose anche varie arie da concerto, per questo o quel cantante, per questa o quella serata in qualche casa nobiliare. Si tratta per lo più di singole arie con accompagnamento pianistico, ma nel caso dei brani da concerto anche con una vera e propria orchestra, magari di formazione cameristica. I testi derivano spesso da opere precedenti, e ne sono autori librettisti famosi come Metastasio o Giovanni de Gamerra. Nessuno di questi testi fa particolare riferimento al mondo antico. Come omaggio alla nostra lingua, riporto però ugualmente il più famoso di essi, la scena per soprano Ah, perfido!, su parole di Metastasio. E’ il canto di un’amata abbandonata, che starebbe bene sulla bocca di una Arianna o una Didone. Beethoven lo compose ventiseienne, forse per influsso del suo maestro, Antonio Salieri. Era dedicata a una nobildonna di diciannove anni, perché la eseguisse ai suoi ospiti, nel salotto di casa. Venne eseguita in teatro nel 1796, da Josepha Dusek, che qualche anno prima aveva collaborato con Mozart, ospitandolo nella sua villa a Praga, ai tempi della prima rappresentazione sia del Don Giovanni che, forse, de La clemenza di Tito. Sotto al link, riporto il testo cantato.

    Ah perfido! Ah spergiuro! Barbaro! Traditor! Parti? E son questi gli ultimi tuoi congedi? Ove s’intese tirannia più crudel? Va, scellerato, va, pur: fuggi da me: l’ira de’ numi non fuggirai. Se v’è giustizia in cielo, se v’è pietà, congiureranno a gara tutti, tutti a punirti. Ombra seguace, presente ovunque sei, vedrò le mie vendette. Io già le godo immaginando; i fulmini ti veggo già balenar d’intorno… Ah no, fermate vindici dei. Risparmiate quel cor; ferite il mio. S’ei non è più qual era, son io qual fui: per lui vivea, voglio morir per lui.

    Per pietà non dirmi addio,
    Di te priva che farò
    Tu lo sai bell’idol mio:
    Io d’affanno morirò.
    Ah crudel tu vuoi ch’io mora,
    Tu non hai pietà di me,
    Perché rendi a chi t’adora
    Così barbara mercé?
    Dite voi se in tanto affanno
    Non son degna di pietà?

    Più stretto contatto con il mondo classico ha il balletto, l’unico mai composto da Beethoven, Le creature di Prometeo (Die Geschöpfe des Prometheus), del 1800. A quella data Beethoven, lasciata Bonn, viveva a Vienna, all’epoca – e non solo! – un’autentica capitale della musica. Qui fu contattato dal Teatro Imperiale e dal celeberrimo coreografo italiano Salvatore Viganò, per scrivere la musica di un ballo eroico allegorico in due atti. Difficile dire le ragioni della commissione. Beethoven però accettò, nonostante la sua inesperienza nel campo, forse attratto dall’argomento. Il balletto andò in scena il 21 marzo 1821. Prometeo è uno dei grandi miti di fine Settecento. Qualche anno prima Goethe gli aveva dedicato una tragedia mai ultimata; ad altra latitudine, se ne ricorderà, ancora una ventina d’anni più tardi, Leopardi. Ma le citazioni e i riferimenti in tal senso si potrebbero facilmente moltiplicare. Il lascito illuminista, che vede in Prometeo un eroe della luce e della civiltà; e gli spunti, se non già propriamente romantici, quanto meno da Sturm und Drang che animano la società di inizio Ottocento e vedono in Prometeo l’eroe singolo, in lotta perfino contro gli dei, si rispecchiano ambedue facilmente nella figura del Titano e nel suo mito. Beethoven dovette sentire il fascino di tutto ciò. Lo scenario del balletto prevede infatti che Prometeo sia raffigurato come un demiurgo che porta la fiamma della razionalità all’umanità bruta. Egli plasma due statue cui infonde la vita, conducendole poi sul Parnaso alla presenza di Apollo. Questi apre loro il mondo della Bellezza, chiamando in aiuto prima Amfione, Orfeo ed Arione, poi le Muse, Pan e Bacco, perché li istruiscano alla musica, al canto, alla danza. Senza di queste cose, infatti, non esiste vera umanità…

    Così come ci è giunto, il balletto prevede un’ouverture e sedici numeri, ognuno marcato dalle consuete indicazioni di tempo (“Adagio”, “Poco Adagio”, “Allegro vivace” ecc.), e solo da quelle. Il balletto oggi si vede poco in scena: questa primavera la Scala lo aveva generosamente programmato, ma è uno di quegli spettacoli che per quest’anno non vedremo… Io qui offro il brano più noto, entrato nel repertorio delle sale da concerto, ossia l’ouverture. Lascio però anche il link, per chi lo volesse ascoltare per intero, a un’esecuzione concertistica, attualmente reperibile su youtube. La durata è di circa un’ora. Nell’ouverture, dopo una serie di accordi maestosi, un breve “Adagio” molto solenne e rievocativo anticipa un “Allegro mosso con brio”, che sintetizza la frenetica attività del Titano.

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    Nel 1811 una nuova commissione portò Beethoven a Pest, dove si inaugurava un teatro. Dopo che furono scartati diversi progetti, ci si risolse per mettere in scena tre brevi atti unici, su testo del poeta August von Kotzebue. Due di essi prevedevano musiche di scena (ossia, accompagnamenti volti a introdurre le singole scene e a rimarcare in sottofondo specifici momenti di particolare importanza), entrambe opera di Beethoven. I due testi si intitolano rispettivamente König Stephan (“Re Stefano”, il re santo di Ungheria) e Die Ruinen von Athen (“Le rovine di Atene”). La somma dei tre testi voleva simboleggiare l’idea che lo spirito attico, dopo la caduta della Grecia in mano ai Turchi e la rimozione, da parte degli invasori, di ogni traccia dell’antica nobiltà, si era trasferito in Ungheria, dove, mescolandosi con la nuova religione e il forte sentire indigeno, era in procinto di dare vita a una nuova Classicità, di cui il teatro che si stava inaugurando si sarebbe dovuto fare simbolo. Una volta passato l’evento “mediatico”, Beethoven cercò di recuperare la musica da lui composta, per realizzare su quella base una vera e propria opera, di diverso argomento. Ma alla fine non se ne fece mai nulla, a parte una nuova esecuzione dei brani orchestrali, in forma di concerto, a Vienna nel 1822. Per Le rovine d’Atene Beethoven compose un’ouverture e altri otto pezzi, per lo più corali. Oggi si esegue relativamente spesso la prima, perché è divenuta anch’essa un pezzo da concerto; e qualche volta anche la Marcia alla Turca, che sarebbe il brano nr. 5; è più raro sentire il pur pregevole coro dei Dervisci (nr. 4). Il resto, in sostanza, è caduto nell’oblio. Come in precedenza, offro qui a mia volta solo l’ouverture, nella quale si rievoca il risveglio di Minerva (è chiamata proprio così) dopo 2000 anni, nell’Atene in mano ai Turchi. Per la serie completa dei brani rimando a un’esecuzione dal vivo delle intere musiche di scena (durata circa 40′), reperibile su youtube.

    Nel 1807 Beethoven aveva composto il suo unico brano di ambito propriamente latino, l’ouverture per la tragedia Coriolanus di Heinrich Joseph von Collin (ma in realtà sono sette minuti che dovrebbero fare da spartiacque fra i diversi tempi della rappresentazione teatrale). Nel suo testo, Collin rievoca la nota storia del comandante romano passato ai Volsci e poi, dietro le suppliche di madre e moglie, decisosi a non guidare più le armate nemiche contro Roma, e quindi ucciso dai suoi nuovi alleati (nel testo di Collin, per la verità, Coriolano si suicida). Attratto da questa situazione drammatica, Beethoven scrisse una musica potente, stringente, che ben rende l’incalzare degli avvenimenti e i comportamenti in bianco e nero dei diversi personaggi. Richard Wagner, fattosi esegeta del brano, osservava che il nodo drammatico messo in scena dal collega sembra corrispondere al momento capitale del dramma, il confronto fra l’eroe e le sue donne, che lo mettono a colloquio con la propria coscienza, e affermava che era come se, nel brano, Coriolano afferrasse con mano potente e terribile tutte le armi del risentimento, per farne una punta con cui trafiggersi il cuore (in effetti, i meno giovani ricorderanno un celebre “Carosello” nel quale una mano guantata di ferro, su questa musica, calava imperiosa a reclamizzare l’amarissimo che fa benissimo, riservato all’uomo forte…). Siamo, probabilmente, nella temperie più “romantica” di Beethoven. Gli eroi di Livio e Plutarco (soprattutto Plutarco, quello che ispirava anche il Karl Moor dei Räuber schilleriani), rivissuti alla luce della nuova sensibilità, diventano i protagonisti di una difficile affermazione dell’Io. La lotta del singolo contro il mondo che percepisce come a lui ostile si fa cioè emblema di ciò che unisce, al di là delle culture, le diverse generazioni, e si trasforma in simbolo di quanto l’uomo può ritrovare anche nel lontano passato. All’ouverture faccio seguire uno dei molti Caroselli disponibili su youtube, che in realtà è quello che più mortifica la musica di Beethoven, ma che spero diverta ugualmente gli spettatori…

    Vorrei chiudere però con un brano che non ha legami diretti con la classicità, ma che per la mia generazione resta un ricordo indelebile. A Natale del 1989 Leonard Bernstein, davanti alle rovine del muro appena abbattuto, a Berlino, diresse orchestrali e coristi dei complessi dell’una e dell’altra (ex-) Germania e un quartetto di solisti rappresentativo di nazioni che molto avevano sofferto durante l’ultima guerra. Una ferita si chiudeva, o almeno così sembrava, e solo Beethoven poteva celebrare l’avvenimento. Del compositore venne eseguita l’ultima sinfonia, la nona, la più “filosofica”. Nell’ultimo movimento, che include il celebre Inno alla Gioia su testo di Schiller, alla parola Freude, “Gioia”, intonata più volte dal coro e dai solisti, Bernstein fece sostituire la parola Freiheit, “Libertà” (non senza qualche problema metrico). Beethoven era l’unico compositore a cui si poteva riconoscere il ruolo di cantore di un simile sentimento. La chose enivrante, come insegna anche Carmen (e il nostro sito) è proprio la libertà, e null’altro che la libertà.


    © Massimo Gioseffi, 2020

  • Incontri sulla didattica II

    Incontri sulla didattica II

    Continuiamo la rendicontazione degli incontri tenutisi a Milano a fine ottobre, offrendo le slides presentate dal prof. Franco Sanna sul tema del confronto con internet. La relazione, e un più ampio riferimento al materiale in questione, si possono trovare sul sito curato direttamente dall’Autore, intitolato “Latinamente. Sito per cultori del mondo classico”. Questo l’indirizzo internet: https://www.latinamente.it/ .

    Nelle slides del prof. Sanna a me sembra importante soprattutto l’invito a non avere paura di internet e degli strumenti informatici, che ormai costituiscono il linguaggio comune dei nostri studenti. Conosciamo tutti l’ambivalenza di atteggiamento che, nella scuola, ma non solo in quella, ha accompagnato l’esplosione del fenomeno internet. Ce ne siamo occupati in un altro post, in relazione al volume di John Picchione, La scrittura, il cervello e l’era digitale, Macerata 2016 (https://sites.unimi.it/latinoamilano/illusioni-perdute/). L’editoria italiana, che ha saputo utilizzare pochissimo il linguaggio internet, sia in ambito scolastico, sia nell’ambito più generale e comune, offre un perfetto esempio di questa ambivalenza. Da un lato, infatti, siamo tutti quotidianamente e quasi spasmodicamente connessi a qualcosa, per l’intera durata delle nostre giornate; dall’altro internet, più difficile da controllare, viene periodicamente represso e messo in un angolo nella prassi didattica, e non solo in quella. Internet invece, come non è la panacea per tutti i problemi, non è però neanche un demonio da esorcizzare. E’ uno strumento che si deve imparare ad usare, e insegnare agli studenti ad usare, con un compito per noi nuovo, ma non differente dal solito quanto a impegno nello sviluppo delle capacità critiche. Senza contare la possibilità di utilizzare gli strumenti informatici per una didattica che abbia un aspetto (in larga parte) ludico, quando è il caso, senza per questo risultare meno rigorosa.

    Off topics, approfitto dell’occasione per segnalare due banche dati, ambedue italiane, che offrono testi in prosa e in poesia scientificamente certificati, nell’ignoranza di molti possibili utenti (che preferiscono riferirsi quotidianamente a uno strumento come “The Latin Library”, prezioso certo, ma che offre testi sgarrupati, di ignota provenienza e spesso pieni di errori dovuti al malfunzionamento dello scanner, ma mai corretti da nessuno). Si tratta rispettivamente del sito “Musisque Deoque”, progettato da Paolo Mastandrea e altri, che offre testi latini in poesia forniti di apparato critico, ricavato dalle edizioni scientifiche di riferimento, e adattato alle necessità di internet (http://mizar.unive.it/); e di “DigilibLt”, progettato da Raffaella Tabacco, che offre un amplissimo repertorio di testi in prosa tardoantichi, spesso ignoti ai più e di difficile reperimento anche per gli specialisti, corredati di schede di presentazione, notizie bibliografiche, note sugli autori (http://www.digiliblt.unipmn.it/). Entrambe le banche dati offrono la possibilità di recuperare con facilità testi estranei al circuito degli “eserciziari” più comuni, ma spesso utilissimi nella pratica scolastica, specie del biennio, quando – è domanda ricorrente, che ci sentiamo rivolgere tutti – non si sa mai bene che cosa far leggere ai proprio studenti. Inutile dire che “DigilibLt” vive del lavoro infaticabile e in gran parte non remunerato di un’équipe vercellese, e di finanziamenti che vengono per lo più dalla regione Piemonte e da altri enti locali; “Musisque Deoque” vive a sua volta di finanziamenti incerti, e da anni fatica a ottenere dal Ministero della Ricerca il riconoscimento cui avrebbe diritto.

    Ecco intanto le slides del prof. Sanna, che invitano a non avere paura di internet e forniscono una prima mappa degli strumenti disponibili online. Ricordo che la versione completa dell’intervento (inclusa la traccia recitata in aula) è reperibile sul sito “Latinamente”. Quanto al pdf, utilizzando i simboli sulla barra superiore è possibile ingrandirlo, farlo scorrere velocemente o, partendo dalle virgolette a caporale sull’angolo superiore destro, scaricarlo e stamparlo.

    A ulteriore commento del tema trattato riporto, nel caso qualcuno ancora non lo conosca, un vecchio sketch norvegese, datato 2001 (!), opera di Knut Nærum:

  • Una rilettura (post)romantica di Catullo

    Una rilettura (post)romantica di Catullo

    La passione del compositore Carl Orff (1895-1982) per la classicità, che risale all’età scolare, si indovina facilmente anche solo scorrendo i titoli della sua produzione: Orpheus, 1925; Antigonae, 1949; Trionfo di Afrodite, 1953; Oedipus der Tyrann, 1959; Prometheus, 1968; De temporum fine comoedia, 1973. Tale passione si accompagna a quella ancora più precoce (visto che data dall’infanzia) per il teatro, campo in cui Orff ha di fatto quasi esclusivamente concentrato i suoi sforzi compositivi. Nel 1930 dalle mani del musicista trentacinquenne escono due serie di Chorsätze a cappella, in cui vengono messe in musica alcune liriche catulliane. In particolare: nella serie denominata Catulli Carmina I, vengono intonati i carmina 85, 5, 51, 41, 8, 87 e 75 (in quest’ordine); nella serie denominata Catulli Carmina II (del 1931), il 46, il 101 e il 31. In questi due cicli il compositore, oltre a rivelare la sua predilezione per il poeta veronese, per la prima volta si serve del latino come lingua per i testi da musicare (qualche precedente era reperibile solo negli esercizi scritti per la scuola, il cosiddetto Schulwerk). Il primo dei due cicli è anche l’antecedente diretto di un’opera di più ampio impegno compositivo, completata solo nel 1943 e rappresentata all’Opera di Lipsia – rimaneggiata in una nuova veste – con il nome di Ludi scaenici Catulli Carmina. Per questa composizione Orff aveva  musicato anche i carmina 58, 70, 109, 73 e 32.

    Prima di analizzare le particolarità di quest’opera, pare opportuno chiarire quale sia la natura della forma compositiva cui il compositore si riferisce con l’indicazione di ludi scaenici. Infatti, come aveva già sottolineato Werner Thomas, amico e collaboratore di Orff, questa dicitura allude al Theatrum emblematicum barocco, in cui l’argomento tende ad assumere carattere antipsicologico e il coro a rivestire funzione didattica di commento. In effetti Orff, pur non avendo mai confermato questo riferimento, aveva già fatto uso delle Imagines magicae di origine barocca nella Lukaspassion (1932) e aveva lavorato fino al 1933 alla rielaborazione della commedia gesuitica Philotea (1643) di Johannes Paullinus, opera peraltro mai rappresentata vivente l’autore e la cui partitura è andata in seguito perduta. Per parte sua, Orff – riferendosi alla scena dei Ludi – preferì sempre richiamarsi semmai alla forma della commedia madrigalesca (sui precisi caratteri della quale, bisogna dire, regna un po’ di confusione), della quale verrebbero a suo dire recuperate le figure dei ballerini e il coro che canta a cappella. Ad ogni modo, al di là del riferimento più o meno esplicito a questo o a quel modello, è fuori di dubbio che i Catulli Carmina sono un prodotto dello studio e del recupero erudito, da parte di Orff , di forme del teatro barocco.

    Nel 1953 i Carmina vennero uniti con i precedenti Carmina Burana (risalenti al 1936) e il già ricordato Trionfo di Afrodite, realizzato invece per l’occasione. Le tre cantate vennero a costituire uno spettacolo unitario, andato in scena per la prima volta – con il titolo di I Trionfi  – al Teatro alla Scala di Milano. I tre testi condividono la stessa concezione scenica; in essi l’azione o manca del tutto o, se anche è presente, è in un certo senso simbolica e ambisce a significare qualcosa di universale, perché originario, elementare, e come tale comune a tutti e sempre valido. Per raggiungere questo effetto Orff si serve del suo personalissimo stile, che definisce “fatto musicale originario” (Urgrundmusik), in cui parola, suono e gesto scenico esprimono la stessa cosa. In questo senso, però, i Catulli carmina presentano almeno un paio di particolarità rispetto al resto del trittico. La prima è la presenza di un’orchestra che, quando presente, è di sole percussioni (prima volta per Orff) e che, raccogliendo un coacervo di strumenti extraeuropei già sperimentati in ambito didattico, contribuisce a creare un forte senso di alienazione spazio-temporale nell’ascoltatore. Poi, altra eccezione, i carmina presentano una struttura di teatro nel teatro, in cui la vicenda amorosa del poeta Catullo viene offerta di exemplum a un gruppo di giovani innamorati, che assistendovi dovrebbero liberarsi della propria passione. Per questo, nella composizione Catullo viene a essere contemporaneamente poeta, visto che fornisce lui stesso i testi del ludus, e personaggio, agendo, per così dire, il suo dramma.

    Il testo della cornice narrativa (Praelusio ed Exodium), entro la quale si inserisce poi la vicenda catulliana (Actus I, II e III), è tutto di mano di Orff (latino incluso), e suggerisce una buona conoscenza della letteratura e della cultura antica, da Plauto agli elegiaci (Properzio, Ovidio, senza contare, ovviamente, Catullo), all’imperatore Adriano. Orff fa anche uso di proverbi, e addirittura perfino delle epigrafi pompeiane (CIL IV, 9123 e CIL IV, 7621), probabilmente ritrovate nelle Pompeianische Wandinschriften di Hieronymus Geist (1936), o nell’edizione ad usum scholarum di Ernst Diehl (1910). Sulla scena appaiono due cori, iuvenes e iuvenculae, che dopo essersi reciprocamente dichiarati amore eterno (eis aiona, tui sum), cominciano a indirizzarsi inviti amorosi, a tratti esplicitamente erotici, innescando un entusiastico gioco linguistico fondato su un lessico di sapore elegiaco, pieno di diminutivi e vezzeggiativi (O tua blandula, blanda blandicula, tua labella ad ludum prolectant; O tua mentula cupide saliens, peni peniculus, velut pisciculus, is qui desiderat tuam fonticulam).

    (iuvenes et iuvenculae)

    Interviene però un coro di senes, che prima deride le parole dei giovani, poi definisce ingenuo tanto entusiasmo. Con l’obiettivo di istruire i giovani sull’illusorietà del sentimento amoroso, i vecchi introducono allora la vicenda del poeta Catullo.

    (senes)

    Ecco dunque comparire sulla scena il personaggio Catullo (Actus I), che si esprime solo tramite le parole delle sue liriche. Tuttavia, come accennavo prima, davanti agli occhi degli spettatori si trovano contemporaneamente due Catullo: il personaggio, che, essendo presentato dai senes (e quindi da Orff) col preciso obiettivo di avvalorare il loro punto di vista, risulta almeno in parte rivisitato, aggiustato per il fine narrativo; e il poeta, che, oltre a fornire i testi al personaggio, offre sfumature più numerose di quest’ultimo, potenzialmente variabili con il variare della conoscenza del Liber che ogni singolo spettatore può avere. Mi sembra quindi opportuno evidenziare alcuni esempi che possano dare conto dell’operazione che Orff ha compiuto intessendo un gioco ironico, consapevole o meno, con gli spettatori, che permette ancora una volta di problematizzare il rapporto della classicità con le epoche successive.

    Il racconto inizia con un coro che declama il carme 85, il celebre Odi et amo. Seguono la presentazione del protagonista e dell’amata Lesbia, e il loro duetto d’amore (scene I, II e III).

    (Odi et amo)
    (Vivamus, mea Lesbia, atque amemus)
    (Ille mi par esse deo videtur)

    Nella scena IV compare Celio, amico del poeta, al quale questi, offeso e preoccupato per aver assistito al mimo di Lesbia che danza insieme ad altri uomini, declama il carmen 58. L’identificazione di questo Celio risulta meno lineare di come è data dal compositore. Infatti, l’atteggiamento che il poeta tiene sulla scena nei suoi confronti porterebbe a riconoscervi il Caelius, flos Veronensum iuvenum del carmen 100, amico provato di Catullo, perfettamente a conoscenza delle sue sofferenze d’amore. Proprio in tal senso andrà dunque letto il Lesbia nostra del testo catulliano. Eppure, è ben nota la tendenza di parte della critica a interpretare quel nostra in senso letterale, riconoscendo in Celio il Marco Celio Rufo, oratore italico, non veronese, difeso da Cicerone nella Pro Caelio, anch’egli vittima dell’amore per Lesbia. Il riferimento ciceroniano è un’interessante prova extra-testuale, tanto più se si accetta che questo Celio sia il medesimo Rufo del carmen 77, lì definito amico ma traditore del poeta. Ancora più fitta si fa però la questione a problematizzare l’identità del Rufo del carmen 77, che certamente potrebbe essere l’oratore, ma che potrebbe anche essere tutt’altra persona. Dunque, nella migliore delle ipotesi i Celio in certo qual modo legati alle sorti di Lesbia e Catullo nel Liber sono almeno due, mentre nei Ludi scaenici Orff sembra riassumere nello stesso personaggio sia l’amico confidente, sia il traditore, che prenderà il posto di Catullo tra le braccia della donna amata nell’Actus II (scena VII). Dopotutto, è topica nel repertorio operistico e letterario la figura dell’amico presunto leale, salvo poi rivelarsi infido nel corso della vicenda. Ad ogni modo, l’operazione di Orff risulta arbitraria, e tanto basti.

    (Caeli, Lesbia nostra)

    Un’ulteriore interpretazione dei dati “biografici” contenuti nel Liber è riconoscibile procedendo oltre. Scoperto il tradimento di Lesbia e di Celio, in sogno (scena VI) e nella realtà (scena VII), il personaggio Catullo apre l’Actus III con spirito mutato. Intona nuovamente l’Odi et amo con cui si era aperto il ludus, ma questa volta alla fine del carmen, anziché presentarsi Lesbia, fanno la loro comparsa Ipsitilla (scena IX) e Ameana (scena X). Le due avventure amorose del protagonista vengono offerte agli spettatori come tentativi fallaci di consolarsi dell’abbandono della donna amata. Nella scena di Ispitilla (carmen 32) vi è ancora qualche traccia di affetto, deducibile sia dalla dinamica, che oscilla tra il piano e il pianissimo, sia dal fatto che viene inscenata la scrittura di una lettera privata indirizzata dal poeta alla donna. Questi due indizi potrebbero sottendere una relazione intima tra i due, ferma restando l’estrema fisicità che la lettera dipinge. In ben altri termini è presentata la vicenda di Ameana (carmen 41), dove non vi è nemmeno un tentativo pur fittizio di dolcezza. Piuttosto, i toni sono quelli di una pubblica duplice accusa rivolta alla donna, quella di essere puella defututa, e per di più disonesta. Ciò che mi interessa mettere in evidenza rispetto a questi episodi è però l’ordine in cui Orff sceglie di presentarli, immaginandoli entrambi successivi alla deludente esperienza con Lesbia, e consecutivi tra loro.

    (Amabo, mea dulcis Ipsitilla)
    (Ameana, puella defututa)

    Inutile segnalare che, invece, leggendo il Liber non vi è alcuna possibilità di sapere se i due episodi vadano pensati in quest’ordine, né se siano davvero successivi all’amore per Lesbia. Eppure, questa è la scelta del compositore, ed è ancora una volta una scelta squisitamente drammaturgica. Anche questa struttura narrativa, come quella dell’amico traditore, e forse anche più di quella, risulta infatti piuttosto nota. Il tentativo di vendicarsi della donna amata intrecciando relazioni di ripicca inesorabilmente fallaci è già motivo tibulliano (I, 5) e percorre tutta la letteratura occidentale, fino ai giorni nostri (nel repertorio operistico, ad esempio, si ricordi il cambio Lola/Santuzza negli affetti di Turiddu, in Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, 1890). Anche la presenza di più di una relazione amorosa, tra l’altro di tono sempre meno romantico, era già stata sondata – per esempio – da Jacques Offenbach nei suoi Les Contes d’Hoffmann (1881). Lì pure un poeta, artista e campione del romanticismo tedesco, offriva se stesso come exemplum ad alcuni giovani studenti, chiarendo come fosse stata la sequenza di tre amori, quelli per Olympia, Antonia e Giulietta, a portarlo a perdere l’anima e a scegliere, alla fine, di dedicarsi solo all’arte, preferendola anche alla tanto attesa, bellissima Stella. Le somiglianze con il Catullo orffiano sono, in questo caso, suggestive, ma non ci è dato sapere se il compositore avesse presente questo antecedente – e in fondo poco importa. Importa semmai notare che provando, come altri prima e dopo di lui, a riordinare la biografia catulliana a partire dagli indizi forniti dal Liber, indizi che egli riteneva sempre biografici, Orff abbia compiuto questa operazione seguendo uno schema tipico delle biografie sentimentali, alla formazione del quale sicuramente Catullo e gli elegiaci latini hanno contribuito e dal quale lo stesso Offenbach, e molti altri, possono più o meno involontariamente avere attinto.

    Per concludere, vorrei sottolineare un’altra scelta, più sottile, che mi sembra sottesa alla narrazione di Orff e che denuncia, come le altre, un certo grado di lavoro sul materiale catulliano di riferimento. Conclusi i tentativi di consolarsi tra le braccia di altre donne, e dopo aver intonato il carmen 8 (scena XI) per farsi forza nel chiudere i rapporti con Lesbia, il personaggio Catullo incontra nuovamente sulla scena la donna accompagnata da Celio, e finalmente la vicenda sembra prendere un’altra piega. Infatti, lei gli va incontro pronunciando il suo nome, mentre lui la respinge. Segue l’intonazione dei carmina 87 e 75 in un’unica soluzione, come già apparivano nel Chorsatz. In quest’ultima scena (XII), il protagonista pronuncia le dure conclusioni verso le quali lo hanno portato le estenuanti vicissitudini con la donna amata. Egli la accusa di essere venuta meno al foedus amicitiae, cui lui si sarebbe invece mantenuto irreprensibilmente fedele (così almeno dice), e pronuncia la celebre distinzione tra amare e bene velle, sostenendo che nec iam bene velle queat tibi, si optima fias, nec desistere amare, omnia si facias. Insomma, alla conclusione del ludus Orff sembra voler condividere questa distinzione catulliana, che di fatto assume i caratteri di un punto d’arrivo per il suo protagonista. Anche in questo caso, però, mi pare che l’antinomia catulliana venga adattata alle esigenze del compositore. Infatti, nel modo in cui la presenta Orff sembrano perdersi le implicazioni che i termini bene velle e amare portavano con sé sul piano socio-familiare del mondo latino, limitandosi a significare delle sfumature sentimentali e un punto di vista diverso dall’inizio per il personaggio Catullo, divenuto in un certo senso più consapevole. Del resto, questa era la posizione portata avanti dai senes, e la ragione stessa di proporre l’exemplum catulliano. D’altra parte, il riferimento culturale sembra essere sempre quello della biografia sentimentale: Catullo che respinge Lesbia, non è diverso da Hoffmann che respinge Stella alla fine dei Contes.

    Tornando a Orff, pare legittimo pensare che in questo quadro dei Trionfi il compositore, coerentemente con la concezione scenica dell’intero trittico, abbia voluto dipingere principalmente l’aspetto individuale e romantico dell’amore, con l’obiettivo di rappresentare un universale umano, pur mediato, come abbiamo visto, da un post-romanticismo narrativo in cui ancora trovava ispirazione all’altezza degli anni Quaranta. Infatti, la complessità apparentemente perduta dell’antinomia catulliana tra amare e bene velle ritorna con tutto il suo spessore, e con un esito inedito anche per il poeta latino, nel Trionfo di Afrodite, insieme con il recupero, da parte del compositore, della poesia di Saffo, di Euripide e dei carmina docta 61 e 62. Proprio l’ultimo quadro dei nostri carmina, l’exodium proposto alla fine dell’episodio di teatro nel teatro, introduce di nuovo i due cori di giovani che, dopo aver ripetuto l’eis aiona iniziale, aprono il rito nuziale inscenato nel Trionfo d’Afrodite e negli epitalami catulliani, con le parole Accendite faces.

    (Exodium)

    La passione tumultuante si è placata, il Trionfo successivo celebrerà la forza d’Amore incanalato in una relazione matrimoniale. L’amante di Lesbia deve farsi da parte…

    © Michele Genovese, 2019 (foto di Marcello Ferrario, 2009)

  • E l’assassino è…Sofocle

    E l’assassino è…Sofocle

    Che i romanzi polizieschi amino flirtare con il mondo classico è cosa nota, e mi permetto di rimandare a una pubblicazione di qualche anno fa, nata dai bellissimi incontri organizzati dal prof. Maurizio Grimaldi al Liceo “G.B. Vico” di Nocera Inferiore, in occasione del Certamen Vergilianum che da oltre vent’anni vi si tiene alla fine di Aprile. L’intervento, pubblicato negli atti del 2015, è reperibile anche sul sito “Academia.edu”, all’indirizzo https://www.academia.edu/25957587/Delitti_virgiliani.

    Se poi l’autore è Colin Dexter, 1930-2017, ideatore della fortunata serie che ha per protagonista l’ispettore Morse, la cosa è ancora più facile. Non solo perché Morse opera a Oxford, luogo della classicità per eccellenza; ma anche perché Dexter, laureato in Classics, è stato per anni insegnante di latino e greco nelle scuole superiori inglesi, prima di passare a lavori legati all’amministrazione oxoniense, a causa di una progressiva sordità e altri problemi di salute. La serie dell’Ispettore Morse, tredici romanzi in tutto, scritti fra il 1975 e il 1999 (cui si affianca una fortunata serie televisiva, realizzata anch’essa con la supervisione di Dexter), non manca perciò di far sfoggio di dottrina classica, anche perché tale dottrina è il mezzo attraverso il quale l’ispettore segnala la propria distanza dal volenteroso, ma povero di cultura, sergente che sempre l’accompagna, il mite e paziente Robert (Robbie) Lewis.

    Dal quinto romanzo della serie, The Dead of Jericho (tutti i testi sono stati tradotti in italiano, prima per Longanesi e Mondadori, ora per Sellerio; i tredici romanzi sono stati trasferiti nella serie televisiva, che conta però anche una ventina di episodi originali), ricavo la lunga citazione, in inglese, che costituisce la sostanza di questo post e ne spiega il titolo. Alcune avvertenze: Jericho è un quartiere di Oxford, realmente esistente. Il romanzo sviluppa le indagini relative al suicidio, apparentemente senza spiegazione, della bella Anne Scott, un’insegnante che dà lezioni private e ripetizioni di tedesco a casa sua, e poi quelle relative alla morte di un suo vicino, coinvolto in un tentativo di ricatto che porta alla sua violenta uccisione. E’ però la sorte di Anne quella che ci interessa. Morse è colpito subito dalla biblioteca domestica della donna, dove, accanto agli strumenti del mestiere, figura un gran numero di classici greci e latini, letti nella meravigliosa “Penguin Collection”. Nella pagina che riporto, Morse è al pub con il sergente Lewis – una scena che si ripete spesso nei romanzi: la birra e la musica di Wagner sono le passioni non tanto segrete dell’ispettore – e lì rivela le ragioni del suicidio di Anne, o almeno quelle che ritiene tali (i romanzi di Dexter non hanno mai finali banali, e le conclusioni di Morse non sono sempre confermate dai fatti; altro non dico). Della lunga citazione segnalo per ora soltanto la battuta finale, un omaggio a tutti coloro che hanno a che fare con i classici…

    ‘There are three basic views about human life,’ began Morse. ‘One of them says that everything happens by pure chance, like atoms falling through space, colliding with each other occasionally and cannoning off to start new collisions. According to this view there’s nothing in the scheme of things that has sorted us out – you and me, Lewis – to sit here in this pub, at this particular time, to drink a pint of beer together. It’s all just a pure fluke-all just a chancy set of fortuitous circumstances. Then you get those who reckon that it’s ourselves, as people, who determine what happens -at least to some extent. In other words, it’s our own characters that affect the way things turn out. Sooner or later our sins will find us out and we have to accept the consequences. And then there’s another view: the view that it doesn’t matter a bugger what particular circumstances are, or what individual people do. The future’s fixed and firm -just like the past is. Things are somehow ordained from on high-pre-ordained, that’s the word. There’s a predetermined pattern in life. What’s going to be-is going to be; and whatever you do and whatever your luck is, you just can’t avoid it. If your number’s up -your number’s up! Fate -that’s what they call it.’

    ‘What do you believe, sir?’

    ‘Me? Well, I certainly don’t go for all this “fate” lark. It’s a load of nonsense. I reckon I come somewhere in the middle of the other two. But that’s neither here nor there. What is important is what Anne Scott believed; and it’s perfectly clear to me that she was a firm believer in the fates. She even mentioned the word, I remember. And then there was that particular row of books just above the desk in her study-all those Penguin Classics, Lewis. It’s pretty clear from the look of some of those creased black spines that the works of the Greek tragedians must have made a deep impression on her, and some of those stories-well, let’s be more specific. There was one book she’d been rereading very recently and hadn’t put back on the shelf yet. It was lying on her desk, Lewis, and one of the stories in that book-‘

    ‘I think I’m getting a bit lost, sir.’

    ‘All right. Listen! Let me tell you a story. Once upon a time -a long, long time ago, in fact -a handsome young prince came to a city and quite naturally he was entertained at the palace, where he met the queen of that city. Soon these two found themselves in each other’s company quite a bit, and the prince fell in love with the beautiful and lonely queen; and she, in turn, fell in love with the young prince. And things were easy for them. The prince was a bachelor and he found out that the queen was a widow-her husband had recently been killed on a journey by road to one of the neighbouring cities. So they confessed their love-and then they got married. Had quite a few kids, too. And it would’ve been nice if they’d lived happily ever after, wouldn’t it? But I’m afraid they didn’t. In fact, the story of what happened to the pair of them after that is one of the most chilling and terrifying myths in the whole of Greek literature. You know what happened then, of course?’

    Lewis looked down at his beer and reflected sadly upon his lack of any literary education.

    ‘I’m sorry, I don’t, sir. We didn’t have any of that Greek and Latin stuff when I was at school.”

    Morse knew again at that moment exactly why he always wanted Lewis around. The man was so wholesome, somehow: honest, unpretentious, humble, almost, in his experience of philosophy and life. A lovable man; a good man. And Morse continued in a gentler, less arrogant tone.

    ‘It’s a tragic story. The prince had plenty of time on his hands and one day he decided to find out, if he could, how the queen’s former husband had died. He spent years digging out eye-witnesses of what had happened, and he finally discovered that the king hadn’t died in an accident after all: he’d been murdered. And he kept working away at the case, Lewis, and do you know what he found? He found that the murderer had been -‘ (the fingers of Morse’s left hand which had been gesticulating haphazardly in front of him, suddenly tautened and turned dramatically to point to his own chest) ‘-that the murderer had been himself. And he learned something else, too. He learned that the man he’d murdered had been-his own father. And in a blinding, terrifying flash of insight, Lewis, he realized the full enormity of what he’d done. You see, not only had he murdered his own father – but he’d married his own mother, and had a family by her! And the truth had to come out – all of it. And when it did, the queen went and hanged herself. And the prince, when he heard what she’d done, he -he blinded himself. That’s it. That’s the myth of Oedipus.’

    Morse had finished, and Lewis felt himself strangely moved by the story and the way his chief had told it. He thought that if only his own schoolteachers had been able to tell him about such top-of-the-head stuff in the way Morse had just done, he would never have felt so distanced from that intimidating crew who were listed in the index of his encyclopaedia under ‘Tragedians’.

    Nel romanzo, Anne si è sposata giovanissima a un marito morto poi in un incidente stradale, provocato da un neopatentato, ancora inesperto di guida. A quel neopatentato, forse senza saperlo, Anne ha dato ripetizioni di tedesco, in prospettiva di quello che corrisponde, più o meno, al nostro esame di maturità. Oppressa dalla vedovanza lei, dal fascino della propria insegnante lui (un classico dell’erotismo adolescenziale), è finita che i due non si sono limitati alle lezioni di tedesco, e poiché da cosa nasce cosa, giusto il giorno del proprio suicidio Anne ha appreso, dalle analisi ufficiali, di essere rimasta incinta del giovane. Non solo: in una conversazione accidentale, la sera prima Anne ha saputo che il giovane potrebbe essere suo figlio – il figlio avuto dal legittimo marito, ma che la coppia aveva affidato a un istituto di adozione, perché, sposatisi troppo giovani, non avevano i mezzi materiali per crescere il bambino. Insomma, ecco qua Edipo, Laio e Giocasta in una versione moderna, come spiega al suo assistente (e ai lettori) Morse:

    ‘You can appreciate, Lewis, how Anne Scott’s intimate knowledge of this old myth was bound to affect her attitudes and actions. Just think! As a young and beautiful undergrad here, she had met a man and married him, just as in the Oedipus myth Queen Jocasta married King Laius. Then a baby arrived. And just as Jocasta could not keep her baby because an oracle had told her that the baby would kill its father -so Anne Scott and her husband couldn’t keep their, because they had no permanent home or jobs and little chance of bringing up the boy with any decent prospects. Jocasta and Laius exposed the infant Oedipus on some hillside or other; and Anne and her husband did the modern equivalent-they found a private adoption society which took the baby off their hands immediately. I don’t know much about the rules and regulations of these societies, but I’d like to bet that in this case there was a provision that the mother was not to know who the future foster-parents were going to be, and that the foster-parents weren’t to know who the actual mother was.

    ‘When Laius, Jocasta’s husband, was killed, it had been on the road between Thebes and Corinth -a road accident, Lewis! When Anne Scott’s husband died, it had also been in a road accident, and I’m pretty sure that she knew all about it. But, in itself, that couldn’t have been a matter of great moment. It had been an accident: the inquest had found neither party predominantly to blame. If experience in driving means anything, it means that you have to expect learner drivers like Michael Murdoch [il giovane nella parte involontaria di Edipo, ndr] – to do something daft occasionally; and in this case, Anne Scott’s husband wasn’t careful enough to cope with the other fellow’s inexperience. But do you see how things are beginning to build up and develop, Lewis? Everything is beginning to assume a menacing and sinister importance. Young Michael Murdoch was visiting Anne Scott once a week for special coaching; and as they sat next to each other week after week I reckon that sheer physical proximity got a bit too much for both of them. The young lad must have become infatuated by a comparatively mature and attractive woman -a woman with a full and eminent figure; and the woman herself, who had probably only been in love once in her life, must surely have felt the attraction of a young, virile lad who worshipped whatever ground she chose to tread. Then? Well, then the trouble starts. She misses a period – and then another; and she goes off to the Jericho Clinic – where they tell her they’ll let her know as soon as they can. As the days pass, Anne Scott must have felt that the fates were conspiring against her. Michael Murdoch was the very last person in the world she was going to tell her troubles to: he’d finished his schooling, anyway, and so there was no longer any legitimate reason for them seeing each other. Perhaps they met again once or twice after that – I just don’t know. What is perfectly clear is that Anne Scott was growing increasingly depressed as the days dragged on. Life hadn’t been very kind to her, and looking back on things she saw evidence only of her failures:  her hasty adolescent marriage that had been short-lived and disastrous; other lovers, no doubt, who’d given her some physical gratification, but little else; and then Michael Murdoch …’

    ‘So,’ resumed Morse, lapping his lips into the level of his pint, ‘Anne Scott’s making a bit of a mess of her life. She’s still attractive enough to middle-aged men like you and me, Lewis; but most of those are already bespoke, like you, and the ones that are left, like me, are a load of old remaindered books – out of date and going cheap. But her real tragedy is that she’s still attractive to some of the young pupils who come along to that piddling little property of hers in Jericho. She’s got no regular income except for the fees from a succession of half-wits whose parents are rich enough and stupid enough to cough up and keep hoping. She goes out quite a bit, of course, and occasionally she meets a nice enough chap but… No! Things don’t work out, and she begins to think-she begins to believe -that they never will. She’s got a deeply pessimistic and fatalistic streak in her make-up, and in the end, as you know, she abandons all hope. But she was a pretty tough girl, I should think, and she’d have been able to cope with her problems -if it hadn’t been for that shattering revelation at the evening.

    ‘She’d been reading the Oedipus story again in the Penguin translation-probably with one of her pupils-and the ground’s all naked and ready for the seeds that were sown that fateful evening. Adoption and birthdays-they were the seeds, Lewis, and it must have been the most traumatic shock of her whole life when the terrible truth dawned on her: Michael Murdoch was her own son. And as the implications whirled round in her mind, she must have seen the whole thing in terms of the fates marking her out as another Jocasta. Everything fitted. Her husband had been killed – killed in a road accident-killed by her own son -a son with whom she’d been having sex -a son who was the father of the child she was expecting. She must have felt utterly powerless against the workings of what she saw as the pre-ordained tragedy of her own benighted life. And so she decides to do the one thing that was left open to her: to stop all the struggling and to surrender to her fate; to co-operate with the forces that were now driving her inexorably to her own death -a death she slowly determines, as she sits through that long and hopeless night, will be the death that Queen Jocasta chose. And so, my old friend, she hanged herself …

    Da qui la battuta finale:

    “The whole wretched thing’s nothing less than a ghastly re-enactment of the old myth as you can read it in Sophocles. And as I told you, if there was one man guilty of Anne Scott’s death, that man was Sophocles”.

    I classici diventano vita, perché la vita varia nelle forme, ma rimane sempre uguale nella sostanza; per questo, essi possono fornire infinite occasioni di narrazione e ri-narrazione, bisognose di essere attualizzate, ma non di essere modificate, perché sempre identica è la sostanza del vivere umano. Nello stesso tempo, i classici sono uno strumento ermeneutico della nostra esistenza, alla quale forniscono gli archetipi capaci di darle significato (tragico, nel caso di Anne; esegetico, per Morse). Tutto ciò però, pensa sconsolato Lewis, solo a patto che qualcuno abbia saputo renderceli vivi, evitando così di farli apparire come un vecchiume senza senso e intimidatorio. Un augurio per tutti!

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Medea solo per adulti

    Medea solo per adulti

    Dalle teche RAI, riversate da generosi privati su youtube, è emerso uno “sceneggiato televisivo” (così viene definito: in realtà è una serata teatrale, ripresa non negli spazi ristretti di un palcoscenico, ma in studi televisivi aperti, a Roma) dedicato a I figli di Medea, come recita il suo titolo. Siamo nel giugno del 1959, giusto sessant’anni fa; la televisione aveva iniziato le sue trasmissioni cinque anni prima.

    Lo sceneggiato nasce come una messa in scena abbastanza tradizionale (e volutamente mal realizzata: si vedano i toni pomposi assunti da Alida Valli che interpreta Medea alla maniera di una Francesca Bertini, o l’orrida recitazione della normalmente brava Rita Savagnone come Afrodite, per non dire nulla dell’irritante Eros di Elio Lo Cascio) del mito di Medea come si legge nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, per poi aprirsi a un’improvvisa attualizzazione, che vede Alida Valli e il suo antagonista, Enrico Maria Salerno, immersi non solo nell’oggi (di allora), ma anche impersonare sé stessi – per quanto, naturalmente, tutto ciò che essi dicono su sé stessi, sulla loro relazione, sul figlio comune, sia chiaramente fasullo. Da qui una serie di pungenti attualizzazioni, qua e là forse ingenue, di un pirandellismo di seconda maniera; ma a volte decisamente moderne, e ancora attuali, sullo sfruttamento mediatico dei minori e dei figli; sulle distorsioni portate alla vita civile dai mezzi di comunicazione di massa; sul valore da assegnare ai “reality” e alla “presa in diretta” televisiva; sull’uso dei media e della televisione del dolore, che ha sostituito l’emozione al ragionamento, e la reazione “di pancia” a quella “di testa” – tutti temi di assoluto interesse anche nel nostro oggi quotidiano (e con oggi, intendo proprio dire oggi…). Unica variazione è che nel 1959 i mezzi di comunicazione con cui prendersela sono ancora il teatro, la televisione, i giornali; ora sono mutate le forme, ma non i concetti di base.

    Realizzato, come usava al tempo, in diretta (si vedano alcuni errori evidenti, anche se forse voluti in nome della credibilità: il microfono a giraffa che compare all’improvviso dall’alto, l’ombra del cameraman che oscura Enrico Maria Salerno, Nicoletta Orsomando che si impappina e deve controllare sui fogli l’aggettivo giusto, oppure Ferruccio De Ceresa che inverte due complementi e si corregge in corso d’opera…), lo sceneggiato ha ingenuità e punti di forza. E’ però anche l’occasione per ricordare tre mostri sacri del nostro passato televisivo, attualmente un po’ dimenticati e rimossi, come succede a chi, con la sua bravura, costituisce impietoso termine di paragone per il presente: il regista Anton Giulio Majano, responsabile di tanti sceneggiati televisivi; e i già ricordati Alida Valli, bravissima nel fare il verso a se stessa, ed Enrico Maria Salerno, attore di straordinario fascino e modernità interpretativa. Non vanno dimenticati nemmeno i tanti caratteristi di contorno qui utilizzati, come i già ricordati De Ceresa e la Orsomando, o Tino Bianchi, nei panni accorati del Dottor Vinciguerra. Tutti sono stati fra i grandi protagonisti della stagione eroica della TV italiana. Nel 1961 la Valli sarebbe tornata a lavorare con Majano in un altro sceneggiato televisivo, Il caso Mauritius, dal romanzo di Jakob Wassermann; Salerno era già noto al grande pubblico per avere recitato in varie commedie televisive e per avere preso parte, nel ruolo dell’affascinante ma fatuo Wickham, in uno sceneggiato che Daniele D’Anza aveva tratto da Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen (1957).

    Il modello vistoso cui guarda la produzione è La guerra dei mondi, lo sceneggiato radiofonico realizzato da Orson Welles nel 1938 mescolando finzione e realtà e coinvolgendo il pubblico in una finzione scambiata per realtà. Alla radio si sostituisce la televisione, a un’improbabile invasione di marziani una vicenda privata, non priva di maggiori risvolti sentimentali: l’epica diviene così elegia. Aldo Grasso nella sua Enciclopedia della televisione testimonia però che il gioco riuscì anche nel 1959. Pare che commissariati di polizia, il numero 696 invocato nello sceneggiato (e corrispondente al centralino di un ospedale torinese) e le sedi RAI fossero stati inondati di telefonate e di segnalazioni di avvistamenti.

    Qualche parola va aggiunta ancora a ricordare Vladimiro Cajoli, cui si deve l’idea complessiva. Nato in provincia di Arezzo nel 1911, dopo avere collaborato in modo più o meno saltuario con varie riviste letterarie e teatrali, debuttò in TV proprio con questo sceneggiato. Ne aveva mandato il copione a un concorso indetto dalla RAI (!), vincendolo e ottenendo così, come premio, la messa in onda del testo. Da allora collaborò stabilmente con la televisione italiana (morì nel 1979), realizzando fra altre cose alcuni episodi della bellissima serie dedicata dalla regista Giuliana Berlinguer a Nero Wolfe, il personaggio creato da Rex Stout (un matematico con grande interesse per il latino). Stout riteneva, a quanto si racconta, gli episodi italiani come i meglio riusciti a rendere l’anima e il senso della sua creatura letteraria. Inutile commentare che erano altri tempi e un’altra televisione.

    Nell’annunciare il programma, la Orsomando ricorda che, per il suo carattere drammatico, se ne consiglia la visione ai soli spettatori adulti. Oggi l’idea che una situazione drammatica imponga qualche cautela televisiva ci fa ridere. Eppure, sebbene in tutt’altro senso, resta vero che della trasmissione sia giusto consigliare la visione ai soli spettatori adulti, quelli cioè che abbiano ancora voglia di ragionare (per farlo, basta cliccare sull’indirizzo indicato sopra la foto di Maria Callas, Medea per Pier Paolo Pasolini).


    https://abastor.wordpress.com/2012/11/22/i-figli-di-medea/

    ©  massimo gioseffi, 2019

  • L’ultimo volo di Icaro

    L’ultimo volo di Icaro

    E’ assioma più volte verificato tra le pagine di questo sito che la musica, più di altre arti (letteratura, pittura, cinema), abbia conservato uno stretto legame con la mitologia classica e con il repertorio di sapere che da essa deriva. Le ragioni sono incerte, forse andranno cercate in un bisogno di valorizzazione e di giustificazione culturale: anni fa avevo osservato in un articolo l’impressionante quantità di riferimenti classici presenti nella letteratura poliziesca, specie quella d’annata, quando le detective stories erano ancora considerate un genere minore, di cui un po’ vergognarsi, frequentato più per ragioni economiche che come esibizione di bravura stilistica e compositiva; ed è possibile che qualcosa del genere avvenga anche con la musica cosiddetta colta, oggi un genere indubbiamente minoritario e di nicchia. Può essere, invece, che in musica, più che nelle altre discipline, sia forte il senso della tradizione, e minore quindi le possibilità – o forse anche solo la necessità – di esplorare nuovi campi e territori, maggiormente interessando la possibilità di confrontarsi con nuovi mezzi su temi del passato. E ancora: è possibile che ancorarsi a miti e storie ben conosciute sia una sorta di contrappeso al carattere astratto che, per sua natura, la musica tende ad avere. La discussione è aperta. Ma, per fare un esempio, colpisce osservare come in questa estate, abbastanza scialba di grandi avvenimenti musicali, degli otto spettacoli presentati da un Festival che è certo la quintessenza della conservazione, quello di Salisburgo, a parte tre incentrati sulle presenze di singoli divi, gli altri cinque erano tutti dedicati a un personaggio mitologico classico – in un festival che, per definizione, ha sempre rifuggito dalle scelte tematiche unitarie: Idomeneo (Mozart), Orfeo (Offenbach), Edipo (Enescu), Medea (Cherubini) e Salome (Strauss), che viene dalla classicità biblica per via di Oscar Wilde, ma sempre personaggio classico è.

    Questo post lo vorrei però dedicare a un brano eseguito in uno dei concerti “Proms” della BBC. Cosa siano i Proms (abbreviazione di Promenade) ho già avuto occasione di dirlo in un altro post: una serie di concerti promossi dalla rete nazionale inglese con le sue orchestre, ed orchestre ospiti. Occupano tutte le giornate dalla metà di luglio alla metà di settembre; si svolgono perlopiù (ma non solo) alla Royal Albert Hall; hanno una tradizione più che centenaria (dal 1895); vengono trasmessi per radio (tutti), per televisione (molti); alternano brani sinfonici (prevalenti), a opere liriche, musical, incontri di musica pop. Uno dei compiti culturali dei Proms è presentare testi inediti, o inediti quanto meno per la Gran Bretagna. E’ appunto questo il caso del brano che mi ha colpito, e che si intitola Icarus. Autrice è una compositrice russa, divenuta cittadina americana, Valerija L’vovna Auėrbach, detta Lera Auerbach (nessuna parentela, ovviamente, con Erich). La Auerbach è nata nel 1973 in una città nella regione degli Urali, ai confini con la Siberia, da una famiglia di musicisti. Ha studiato in patria, perfezionandosi poi alla Manhattan School of Music e alla Juilliard School di New York, la città dove si è trasferita nel 1991 e dove tuttora vive. Ha debuttato come compositrice con un suo brano eseguito alla Carnegie Hall da Gideon Kremer e dal suo gruppo, la “Kremerata Baltica”, nel 2002. Da allora è autrice di un vasto numero di composizioni, molte a carattere cameristico, ma anche due sinfonie, un balletto (dedicato alla Sirenetta di Andersen: il balletto, nel 2005, inaugurò dopo le ristrutturazioni l’Opera di Copenhagen), due opere liriche, un Requiem ortodosso, un oratorio, vari concerti per strumenti e orchestra.

    Icarus è un brano del 2006, che nei concerti Proms è stato eseguito per la prima volta nel Regno Unito. La prima esecuzione del brano risale invece al 2011, al bellissimo festival di Verbier, sulle montagne svizzere del Vallese. Il brano è derivato dall’ultimo movimento della sinfonia nr. 1 della Auerbach, intitolata Chimera, anch’essa datata 2006. Ha avuto varie esecuzioni, negli States (Boston e Chicago), in Canada (Winnipeg), in Ungheria (Budapest) e in Belgio (Bruxelles), forse anche altrove. Nella prima sezione viene descritta, a mio parere, la concitazione e l’eccitazione della fuga; è un brano agitato, che poi d’un tratto si placa, fino a lasciare spazio, in una sorta di seconda sezione, a un bell’assolo del violino primo: un po’ come se si descrivesse, credo, la gioia e la pace di un volo che ormai sembra assicurato e tranquillo. Questa sezione non dura a lungo: un movimento a spirale dell’orchestra dà spazio alla rapida e vorticosa caduta di Icaro. Una quarta sezione, dominata dagli ottoni, illustra il lutto per la morte del giovane; una quinta e ultima, più lenta e solenne, introdotta dal pizzicato dei violini, con ampio spazio concesso di nuovo al violino solista e all’oboe, rappresenta, a mio parere, il cordoglio ufficiale per Icaro, una sorta di funerale sul suo cadavere. I toni sono ancora molto seri, scuri, ma nello stesso tempo è come se il dolore fosse già stato distanziato e, in certa misura, elaborato, e il corteo funebre alla fine si allontanasse poco a poco, lasciando la scena vuota. Si muore sempre da soli…

    Va detto che la Auerbach fornisce della musica un’immagine leggermente diversa (il suo intervento, che corrisponde alle note di sala del concerto tenutosi a Boston nel 2016, si legge alla pagina https://blog.bostonphil.org/auerbach-icarus): “The title Icarus was given to this work after it was written. All my music is abstract, but by giving evocative titles I invite the listener to feel free to imagine, to access his own memories, associations. Icarus is what came to my mind, listening to this work at that time. Each time I hear the piece—it is different. What is important to me is that it connects to you, the listener, in the most individual and direct way, that this music disturbs you, moves you, soars with you, stays with you. You don’t need to understand how or why— just allow the music to take you wherever it takes you. It is permissible to daydream while listening or to remember your own past. It is fine not to have any images at all, but simply experience the sound”. E così, dunque, sia!

    (Auerbach, Icarus, Londra 2019)

    © Massimo Gioseffi. La partitura di Icarus è copyright delle edizioni Hans Sikorski (Schirmer per Canada e USA)

  • Nel nome di Augusto – Festina lente

    Nel nome di Augusto – Festina lente

    Come consuetudine, “Latinoamilano” celebra l’imminente Ferragosto con un omaggio musicale ispirato alla figura di Augusto o alla cultura augustea. Quest’anno abbiamo scelto una composizione di Arvo Pärt, compositore estone nato nel 1935 e tuttora in attività, che porta per titolo il motto Festina lente, che era, nella forma greca σπεῦδε βραδέως, la frase del cuore dell’imperatore a detta di Svetonio, Augusto, 25. Nel caso di Pärt, più che un richiamo all’antica figura, dietro al titolo è da vedere presumibilmente un’indicazione cronometrica per l’esecutore. Il brano è un pezzo per orchestra d’archi, e risale al 1988. Qui l’ascoltiamo in un’esecuzione particolarmente intensa, del 2011, come parte di un concerto commemorativo della strage delle Twin Towers a New York.

    (Festina lente, 1988)

    E’ questa l’occasione anche per spendere qualche parola intorno a Pärt, musicista schivo e solitario, balzato agli onori del successo e della cronaca agli inizi degli anni Duemila. Dopo gli studi a Tallin e le prime composizioni entro il sistema sovietico e la dodecafonia e l’atonalità allora imperanti, Pärt costituisce uno dei primi tentativi di liberarsi da quel credo e recuperare l’insegnamento del passato. Per questo, è amato o odiato quasi del pari… Fra le sue composizioni, punto di svolta è il bellissimo Cantus, scritto nel 1976 e dedicato alla memoria di Benjamin Britten, morto giusto quell’anno. In Britten, di cui si avverte qualche eco nella composizione, Pärt riconosceva una sorta di fratello maggiore, che, lontano dalla dodecafonia propriamente detta, aveva cercato un linguaggio moderno. Cantus è probabilmente la composizione più nota di Pärt, l’unica – ad esempio – ad essere mai stata eseguita dall’orchestra scaligera (nel 2000 e nel 2008).

    (Cantus, 1976)

    Pärt ha però un vastissimo catalogo di composizioni, fra le quali spiccano quattro sinfonie (datate rispettivamente 1963, 1966 e 1971 le prime tre, ancora nel pieno del periodo dodecafonico; 2004 la quarta, salita all’onore delle cronache perché dedicata al miliardo russo Michail Borisovič Chodorkovskij, arrestato l’anno prima per frode fiscale e poi condannato per vari reati finanziari, amnistiato nel 2013, ma considerato – da Amnesty International e altre organizzazioni – vittima di un processo politico intentatogli da Vladimir Putin); vari concerti per strumenti solistici e orchestra; diversi pezzi per pianoforte o organo; numerose composizioni per coro, a cappella o con accompagnamento orchestrale; molti componimenti di ambiente ecclesiale (Messe, oratori, cantate, un Magnificat, un Te Deum, uno Stabat Mater, un Miserere); ecc. Due elementi sono costanti nella produzione di Pärt, l’impegno anche politico della propria musica; l’interesse per il canto gregoriano e lo sfondo spesso religioso (di religione ortodossa) delle composizioni. Fra i vari titoli, ne ricordo ancora due, di particolare impegno e fortuna: Spiegel im Spiegel (“Specchio nello Specchio”), per violino, violoncello e pianoforte, del 1978, una sorta di riassunto del pensiero musicale di Pärt; e Fratres, una composizione originariamente scritta per violino e pianoforte in dialogo fra loro, ma poi continuamente riscritta e riadattata a strumenti e combinazioni sempre diverse. Caratteristica della musica di Pärt è l’utilizzo di un’armonia semplice, fondata di norma sull’accordo di tre note, e la riduzione ai minimi termini del materiale di contorno, in una ripetizione “minimalista” dell’accordo di partenza. Dalla sua ampia produzione offro qui due pezzi corali (l’accompagnamento si può fare con qualsivoglia strumento: piano, organo, chitarra – lo stesso autore ne ha curato le varie edizioni), come proposta per i molti cori attivi nelle scuole. Il primo è una ninna nanna sul facile testo Kusse, kusse, kallike, continuamente ripetuto; il secondo è la versione tedesca del Padre Nostro (Vater Unser).

    (Ninna nanna estone – versione per archi)
    (Ninna nanna estone– versione per piano)
    (Vater Unser)
  • Racine, Virgilio & co.

    Racine, Virgilio & co.

    Qualche settimana fa ho potuto finalmente mettere le mani sul romanzo Titus n’aimait pas Bérénice di Nathalie Azoulai, libro che molto ha fatto parlare di sé in Francia, dove ha ottenuto il premio Médicis nel 2015, ma non è stato ancora tradotto in italiano. Mentre lo cercavo febbrilmente tra gli scaffali della libreria francese di Tel Aviv, pensavo di impadronirmi di un esempio di ricezione della cultura classica nel mondo ebraico, proprio in corrispondenza del momento di massimo conflitto tra il mondo pagano greco-romano e la cultura ebraica. Non ho trovato ciò che cercavo; il libro mi ha sorpreso in positivo, aprendo tutt’altra strada da quella che avevo immaginato. Ne offro una breve recensione, accompagnata da alcune idee che mi sembrano centrali quanto al modo in cui funziona il meccanismo della tradizione/ricezione, in particolare nella cultura ebraica.

    Il romanzo (390 pp.) si apre in un bar dove un certo Titus decide di lasciare la propria amante: “Titus quitte Bérénice pour ne pas quitter Roma, son épouse légitime […] Titus s’avance vers Roma et dit, reprends-moi, et Roma, qui ne supporte pas qu’il abandonne ainsi le château de leurs années, le reprend”. A prima vista sembra che Berenice, la protagonista, proietti la storia di Tito e Berenice sulla sua vicenda. Persino i nomi non sono credibili: davvero la moglie legittima si chiama Roma? In realtà, la vicenda prende poi un’altra piega: non è tanto la vicenda di Tito e Berenice a costituire una spiegazione e consolazione per la Berenice d’oggi, abbandonata dal suo amante: è invece la costruzione dei personaggi di Jean Racine (1639-1699) e, in definitiva, Jean Racine stesso a costituire, per Berenice, la chiave “pour se remettre du chagrin d’amour”. A fronte delle banalità che le vengono dette per consolarla del suo amore finito, solo una frase risuona chiara al suo orecchio: Dans l’Orient désert quel devint mon ennui! (Racine, Bér. 234). Nasce l’ossessione di Berenice per Racine, giacché “Elle trouve toujours un vers qui épouse le contour de ses humeurs, la colère, la catatonie… Racine, c’est le supermarché du chagrin d’amour, lance-t-elle pour contrebalancer le sérieux que ses citations provoquent quand elle les jette dans la conversation”. Comincia a leggere tutte le tragedie di Racine, a cercarne i fili tesi della lingua, una lingua “unique”. Trae le sue conclusioni: “si elle pourra comprendre comment ce bourgeois de province a pu écrire des vers aussi poignants sur l’amour des femmes, alors elle comprendra pourquoi Titus l’a quittée”. Anche se la storia della nostra Berenice ricomparirà più avanti nel libro, la rotta della narrazione cambia del tutto: Berenice va a visitare le rovine dell’abbazia di Port-Royal, dove Racine venne educato. Comincia qui per il lettore un viaggio a fianco di Racine, a partire dagli anni della scuola.

    Il romanzo segue le vicende dell’autore francese fino alla morte e anzi oltre, fino alla distruzione dell’abbazia di Port-Royal (1713). In questa biografia ‘sentimentale’ di Racine si intravedono tre grandi sezioni: I) l’educazione; II) la competizione a teatro, cioè l’inizio della sua carriera di poeta ai tempi di Molière e Corneille; III) i giorni della corte. Nathalie Azoulai riesce a trasformare in narrazione il ‘dietro le quinte’ dell’opera di Racine, in maniera assai convincente: se il materiale non mancava per la vita di corte e i suoi intrighi, i giorni della scuola a Port-Royal erano certamente più difficili da drammatizzare. La scrittrice ci riesce, proponendo uno sguardo allo specchio: ciò che lei cerca di fare con Racine è esattamente ciò che Racine ha fatto nelle sue opere, cioè trasformare un conflitto, storico o mitologico, in un dramma, in un’azione scenica. La Azoulai non cade nella facile illusione di intessere una storia legata ad ognuna delle dodici tragedie di Racine, ma punta tutto sull’humus da cui nascono le tragedie: le letture di giovinezza del poeta, che ‘creano’ il suo modo di vedere il mondo. Da dove infatti poteva venire a un ragazzino rimasto orfano in tenera età la capacità di analizzare in profondo i sentimenti e riproporli in scena? La risposta della Azoulai è indubbiamente dall’educazione di Racine, che si può ben definire una education séntimentale; senza contare che, come richiede ogni dramma, ogni periodo della sua vita, compreso questo, è innervato da un conflitto. Il risultato è una lode non banale del potere della letteratura sull’animo umano, sulla durata di tale potere (nella vita di una persona, ma a ben guardare anche nella vita di una nazione o persino della cultura mondiale) e sulla capacità della letteratura di farsi chiave di interpretazione del reale.

    Quali sono dunque i testi su cui Racine si forma? E quale il conflitto? Naturalmente ci sono le Bucoliche e le Georgiche di Virgilio, Plutarco, Tacito, Quintiliano, l’Odissea, Seneca, i tragici greci. Questi testi vengono inseriti nella vicenda come parte di un reale programma di studio del tempo. Dove nasce il conflitto? Questi testi sono la chiave linguistica per Racine per aprire scrigni più reconditi o, anzi, perfino chiusi a Port-Royal, cioè il libro IV dell’Eneide e le Etiopiche di Eliodoro di Emesa. Due sono le strade, a mio parere, che hanno portato la Azoulai a integrare questi testi nel romanzo come attori fondamentali dell’educazione sentimentale del drammaturgo: da una parte, per Virgilio, la préface alla Bérénice dello stesso Racine; dall’altra, per Eliodoro, un aneddoto noto dalla Histoire de l’Académie Française di Valincour.

    Racine infatti, dovendosi giustificare nella préface all’edizione a stampa della tragedia (quasi un novello Terenzio) per la scelta di un tema apparentemente poco tragico come la separazione di Tito e della principessa giudaica Berenice, sceglie la vicenda di Enea e Didone come paradigma massimo delle passioni causate dall’abbandono: “Cette action [la vicenda di Tito e Berenice] est très fameuse dans l’histoire, et je l’ai trouvée très propre pour le théâtre, par la violence des passions qu’elle y pouvait exciter. En effet, nous n’avons rien de plus touchant dans tous les poètes, que la séparation d’Enée et de Didon, dans Virgile. Et qui doute que ce qui a pu fournir assez de matière pour tout un chant d’un poème héroïque, où l’action dure plusieurs jours, ne puisse suffire pour le sujet d’une tragédie, dont la durée ne doit être que de quelques heures ? Il est vrai que je n’ai point poussé Bérénice jusqu’à se tuer comme Didon, parce que Bérénice n’ayant pas ici avec Titus les derniers engagements que Didon avait avec Enée, elle n’est pas obligée comme elle de renoncer à la vie” [il corsivo è mio]. Nonostante le sue dichiarazioni, per scatenare ulteriormente i flutti tempestosi delle passioni, Racine introduce nella vicenda il tentato suicidio di Berenice (Bér. 1227-1240).

    Eliodoro, a sua volta, fornisce il tocco romantico – proibito – dell’incontro tra i due giovani, Teagene e Cariclea, nel terzo libro, di cui Jean legge alcuni passi (nella traduzione di Pierre Grimal del 1958 nel testo della Azoulai: anacronismo dettato dall’impossibilità di somministrare ai lettori la traduzione cinquecentesca di Jacques Amyot [1548] senza spezzare l’inganno letterario – Racine lesse il testo direttamente in greco). Valincour, nella sua Histoire de l’Académie Française, di cui Racine fece parte, riporta l’aneddoto del ritrovamento del libro proibito ben due volte tra gli oggetti personali di Racine, aneddoto che viene drammatizzato anche dalla Azoulai: che cosa avrà voluto dire per Jean il bruciare delle gote di fronte alla vergogna di essere scoperto in flagrante e di fronte al rogo del libro sequestratogli? Certamente rimane segnato dall’idea continua di conflitto, a partire proprio dal conflitto tra i testi da imitare e il pericolo che essi pongono agli occhi degli insegnanti. Come può un testo classico, frutto di un’epoca canonizzata dalla scuola, costituire un pericolo?

    Il conflitto tocca ogni momento della vita di Jean e anima ogni scenario creato dalla Azoulai con vero tocco drammatizzante. Sottolineo ‘drammatizzante’ perché raccontare la trama del romanzo risulta piuttosto difficile: esso non si basa su una grave situazione di conflitto che genera lo sviluppo degli eventi, ma su tre conflitti ‘minori’, sui quali la Azoulai punta il riflettore di volta in volta, mentre segue la vita di Racine: il conflitto ai tempi della scuola tra l’insegnamento rigido impartitogli e la libertà di leggere testi proibiti e fare domande scomode quanto brucianti; la competizione iniziale con Corneille e Molière a corte; la tensione tra la assoluta, quasi erotica, fedeltà a un re cattolico e la sua educazione giansenista di gioventù.

    Questi conflitti ‘tenui’, interiori ma vessanti, sono a mio avviso proprio ciò che più significativamente connette il romanzo alla scrittura della Bérénice. Infatti, tornando alla préface della tragedia, si nota come la competizione tra i drammaturghi del tempo, ben messa in scena dalla Azoulai, richiedeva un’ardente difesa in risposta alle accuse che venivano mosse a Racine. La scelta è una scelta di imitazione della semplicità degli antichi, da Sofocle a Orazio: “Il y avait longtemps que je voulais essayer si je pourrais faire une tragédie avec cette simplicité d’action qui a été si fort du goût des anciens. Car c’est un des premiers préceptes qu’ils nous ont laissés : “Que ce que vous ferez, dit Horace, soit toujours simple et ne soit qu’un”. Ils ont admiré l’Ajax de Sophocle, qui n’est autre chose qu’Ajax qui se tue de regret, à cause de la fureur où il était tombé après le refus qu’on lui avait fait des armes d’Achille. […] Il y en a qui pensent que cette simplicité est une marque de peu d’invention. […] Car pour le libelle que l’on fait contre moi, je crois que les lecteurs me dispenseront volontiers d’y répondre”.

    L’imitazione dei grandi testi antichi spinge il drammaturgo a tentare una strada di non sicuro successo, in cui dovrà spendere ogni forza per rendere drammatico e apparente il conflitto delle volontà. Non a caso alla préface egli prepone – epigrafe o esegesi? – la concisissima descrizione di Svetonio: Titus, reginam Berenicen, cum etiam nuptias pollicitus ferebatur, statim ab urbe dimisit invitus invitam. Le parole invitus invitam catturano essenzialmente il dilemma di Tito: egli non vuole, ella non vuole. Come il fato di Enea, richiamato da Racine, ordina la partenza, Roma ordina l’esilio di Berenice. Questa icastica espressione di conflitto interiore torna ossessivamente nel romanzo ed è questo il secondo aspetto in cui la trama-cornice si riflette nella trama della vita di Racine: l’ossessione per le parole. L’ossessione di Berenice per i versi di Racine si riflette infatti nell’ossessione del giovane Jean per le parole di Virgilio: la regola imposta dal maestro Lancelot di “disséquer les textes” (p. 33) lo porta (e porta il lettore) a riflettere a lungo alle traduzioni del locus classico Ibant obscuri sola sub nocte per umbram (Aen. VI, 381): come rendere la concisione del latino in francese? Ma sono soprattutto i segni dell’amore bruciante e della sua presagita sofferenza da parte di Didone a tenere sveglio Jean, proprio quella sofferenza che egli richiama quando introduce la sua Bérénice: pallida morte futura (Aen. IV, 644) e caeco carpitur igni (IV, 2). Del primo, Jean ancora non riesce a intravedere una traduzione perfetta che renda ogni aspetto del latino; del secondo, si domanda a quale realtà fisiologica l’ignis rimandi: arriva a chiedere al suo maestro Jean Hamon (1618-1687) a quale temperatura possa arrivare il sangue di una donna (dettaglio sapientemente costruito dalla Azoulai sulla base della scienza medica del tempo). A mio parere i due versi evidenziano con precisione i due livelli di elaborazione della poesia: da una parte la necessità di una lingua introspettiva e selecta, dall’altra l’esplorazione della realtà profonda dei sentimenti da esprimere.

    Come ho detto, mi attendevo qualcosa di ben diverso dal romanzo: immaginavo che la scrittrice sarebbe tornata indietro direttamente alla vicenda iniziale, alla separazione fra il neo-imperatore Tito e la principessa Berenice. La scelta diversa, ingannevole della Azoulai non mi ha però deluso e mi ha portato a confermare alcune idee sui meccanismi della ricezione del mondo classico nella cultura ebraica. Tale riflessione vale forse più specificamente per la cultura ebraica di Israele, ma mi pare che si possa anche ampliare lo sguardo sulla cultura ebraica mondiale mantenendo la medesima conclusione. Il senso di marginalità, di minoranza (tanto più forte nella Francia dell’ultimo decennio, che ha visto una fuga massiccia della sua popolazione ebraica) causa, a mio parere, una sorte di spinta centripeta nelle espressioni di ricezione: la ricezione di un mondo tanto ‘altro da sé’ quanto il mondo pagano antico passa preferenzialmente per un punto di contatto ‘a metà strada’, di solito nella cultura europea moderna, vuoi nell’arte o nella letteratura. Tale punto di contatto non è funzionale all’incontro col classico in sé, ma alla creazione di un terreno comune col lettore occidentale: un terreno in cui il classico diventa prima di tutto immaginario culturale, piuttosto che realtà storica determinata. Questo aspetto è tanto più visibile nella cultura ebraica, in cui il rimando alla cultura europea dell’età moderna è un modo di negoziare la posizione nella cultura europea o, meglio ancora, occidentale, di Israele. Rispetto a questa tendenza generale, conosco solo due aree che fanno eccezione, cioè con le quali l’interazione è diretta e non mediata: la filosofia occidentale (in cui il pensiero antico è basilare e fondamentale in senso storico e logico) e la psicoanalisi, un campo di grande produttività per la ricezione del classico (in cui il punto d’origine è immediatamente riconoscibile nella persona di Freud e nei suoi scritti). Ma di questo bisognerà parlare in un’altra occasione.

    © Giacomo Loi

    Foto di copertina di Johan Persson, Londra 2012. Anne-Marie Duff interpreta Bérénice di Jean Racine