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  • Offenbach 200 – Orphée aux Enfers

    Offenbach 200 – Orphée aux Enfers

    Riprendiamo il discorso intorno a Jacques Offenbach, presentando la prima delle sue operette ambientate nel mondo classico. Si tratta di Orphée aux Enfers, rappresentata al Théâtre des Bouffes-Parisiens nel 1858, il locale da lui fondato tre anni prima. Nella vicenda artistica di Offenbach, l’Orphée segna un punto di non ritorno, non solo per lo straordinario successo che arrise al testo, ma anche perché, con esso, il musicista aveva potuto superare una serie di leggi risalenti all’età napoleonica, che impedivano a teatri musicali diversi dall’Opéra di mettere in scena spettacoli complessi, di lunga durata o con più di quattro personaggi in scena – che è appunto l’organico delle prime operette offenbachiane. L’Orphée, scritto su libretto di Hector Crémieux e Ludovic Halévy (quest’ultimo nipote di un compositore famoso, e noto per la sua successiva collaborazione con Henri Meilhac, che lo porterà a firmare, nel 1875, il libretto della Carmen di Georges Bizet), prevede invece un gran numero di personaggi, due atti e quattro scene di diversa ambientazione, per una durata complessiva intorno alle due ore di musica. Colpo di genio dello spettacolo è di immaginare Orfeo ed Euridice come una coppia borghese, giunta vicina al punto di rottura del matrimonio: lei, stanca e annoiata dalle arie che si dà lui (violinista alla locale Opéra), sogna flirt e tradimenti, e si getta ben volentieri fra le braccia di Aristeo. Lui, a sua volta stanco di una moglie capricciosa e civettuola, spera solo di liberarsene per correre fra le braccia della ninfa Maquita (nome spagnolesco, da sciantosa di locale alla moda). Altra idea geniale è immaginare che Aristeo sia in realtà Plutone travestito da figura umana: in questo modo l’abbraccio di Euridice con il suo amante, quando finalmente si realizza, comporta inevitabilmente la morte dell’eroina. Inoltre, lo spettacolo prevede la partecipazione di un personaggio denominato “L’Opinione pubblica”. E’ lei che obbliga Orfeo alla grande impresa del riscatto di Euridice: se Orfeo è il cantore mitico che dice di essere, egli deve tentare l’impresa, anche se in realtà non ne avrebbe nessuna voglia. Viene così anticipato molto teatro novecentesco, specie d’ambito francese (Anhouil, Gide, Cocteau), nel quale l’insuccesso di Orfeo è iscritto nell’impresa stessa ed è un atto voluto, una libera scelta dei personaggi, e non un elemento drammatico che mette in evidenza l’impotenza dell’uomo e l’inesorabilità delle leggi divine.

    All’alzata del sipario siamo a Tebe. Un breve preludio ci introduce alla situazione, presentando una musica malinconica, che delinea prima un clima bucolico di sapore vagamente arcaico, poi uno spazio più aulico.

    (preludio)

    Euridice canta la propria gioia in un’arietta elegante e vaporosa, ricca di abbellimenti vocali, mentre, assente il marito, prepara mazzi di fiori per Aristeo, le berger joli qui loge ici (è un vicino di casa), in attesa che questi la raggiunga.

    (couplets di Euridice)

    Anziché Aristeo arriva però Orfeo, e vediamo così i due sposi litigare furiosamente. Orfeo intuisce il tradimento della moglie, e per vendicarsi promette di suonarle il suo ultimo concerto per violino, della durata di un’ora e un quarto. Euridice dapprima si dispera, poi lo deride, infine prega gli dei di liberarla da un tale marito, mentre lui elenca uno dopo l’altro tutta una serie di termini musicali.

    (duetto Orfeo/Euridice)

    Quando infine arriva Aristeo, la sua canzone è tenera e pastorale, quasi effeminata (l’interprete è un tenore di carattere, che si immagina abituato a ruoli comici), salvo svelare la propria fiera natura nel finale.

    (chanson di Aristeo)

    L’abbraccio dei due amanti porta alla morte di Euridice, espressa con una melodia delicata, che fa il verso all’opera seria. Aristeo/Plutone lascia un beffardo messaggio per Orfeo: Je quitte la maison parce que je suis morte / Aristée est Pluton et le diable m’emporte! Quando Orfeo lo trova, si dà alla pazza gioia, ringrazia Giove e tutti gli dei e proclama la sua felicità di uomo finalmente libero.

    (couplets della morte di Euridice)

    A questo punto interviene però l’opinione pubblica, che obbliga alla grande impresa. Per riuscire in essa, l’Opinione guida Orfeo verso l’Olimpo, così da chiedere aiuto a Giove. La scena si trasferisce dunque lì, dove le cose non vanno molto meglio: gli dei sono pigri, neghittosi, passano le giornate dormendo o compiendo atti contro la comune moralità. Atteone, ad esempio, è appena stato trasformato in cervo, ma non da Diana, come vuole il mito, bensì da Giove stesso, che scorgendo una certa disponibilità di Diana verso un comune mortale ha pensato bene di intervenire e rimettere a posto le cose (e la mitologia). Proprio quest’opera moralizzatrice di Giove, provoca però un’accusa nei suoi confronti: come può dedicarsi a una simile azione lui, quando è ben noto come seduttore di donne mortali? Non si è forse dato da fare, anche di recente, con la bella Euridice? Sull’Olimpo è infatti giunta notizia del rapimento della donna ad opera di un dio, e tutti naturalmente pensano a Giove, non a Plutone. Contro il padre degli dei si scatena così una rivolta delle altre divinità, che lo accusano di ipocrisia.

    (coro della rivolta)

    Quando Orfeo arriva a chiedere aiuto per recuperare la sposa, Giove si sente perciò obbligato ad assecondarlo, anche se né lui ne ha troppa voglia, né Orfeo (che pure cita, parodiandola, l’aria più famosa di Gluck, Che farò senz’Euridice) arde dal desiderio di recuperare la sposa. Incuriosito dall’audacia di Plutone, e dalla fama di bellezza di Euridice, Giove alla fine decide però di fare perfino qualcosa di più del richiesto, promettendo di aiutare in prima persona lo sposo ‘desolato’ e partendo a sua volta per gli Inferi, accompagnato dal coro inneggiante degli dei, ora riconciliatosi con il loro sovrano.

    (finale del I atto)

    Nell’Ade le cose non vanno troppo bene. Plutone si è già stancato della nuova conquista ed Euridice è annoiata dalla vita nell’oltretomba, ancora più monotona di quella terrena, con la sola compagnia di un eunuco di nome John Styx, che le fa la guardia e non la lascia civettare come vorrebbe. In breve, la donna rimpiange perfino il marito: Ah! quelle triste destinée me fait ici le dieu Pluton!

    (lamento di Euridice)

    Intanto arrivano Giove e Plutone; questi nega di avere con sé Euridice, che Giove cerca vanamente per tutto l’appartamento (la garçonnière) che il fratello gli mostra. In aiuto del padre interviene però il piccolo Cupido, che gli promette di mutare la sua forma in qualcosa di veramente capace di garantire pieno successo alla ricerca. Giove già gongola, prima di scoprire che si sta per trasformare in mosca, sia pure una mosca dalle ali d’oro. In effetti, il dio giunge così a trovare facilmente Euridice, e può sedurla con il suo charme. E’ qui che, come spesso nel teatro di Offenbach, la parola perde di significato, trasformandosi in puro suono, il fastidioso (ma seduttivo) ronzio di una mosca…

    (duetto della mosca)

    Plutone, che ha capito quanto sta succedendo, vorrebbe dare la caccia all’insetto importuno, ma ad opera di Giove e di Cupido si trova presto circondato da una ridda di altre mosche che gli volano intorno e impediscono la sua ricerca.

    (galop delle mosche)

    Piccato, Plutone offre allora un grande banchetto a tutti gli dei: l’idea è che anche Giove vi dovrà intervenire, ovviamente con la sua normale immagine, e quindi si troverà costretto ad abbandonare, almeno per poco, Euridice. Alla festa, Euridice inneggia al giovane Bacco; Plutone cerca di riuscire a trattenere con sé la donna, sottraendola alle attenzioni di Giove; questi vorrebbe invece trasformarla in baccante, per fuggire con lei. Nel pieno del festino, Plutone offre uno spettacolo di danza ai suoi ospiti: è la scena, che già conosciamo, del Galop infernale.

    (galop infernale)

    Intanto arriva Orfeo, di cui ci eravamo un po’ dimenticati, sempre accompagnato dall’Opinione pubblica. Giove, che li riconosce immediatamente e sa che cosa vogliono, pensa che questa sia una buona occasione per uscire dall’imbarazzo, e quindi concede immediatamente Euridice al marito, sia pure con il divieto di voltarsi a guardarla per tutto il tragitto di ritorno dall’Ade. Al primo rumore opportuno, però, Orfeo è ben lieto di girarsi per vedere che cosa stia succedendo, perdendo così di nuovo la moglie, e questa volta definitivamente. Per mettere ordine al caos che si è venuto a questo punto a creare, Giove prende una decisione salomonica: Euridice non sarà né sua né di Plutone, ma si trasformerà in una baccante, e come tale vivrà al seguito del giovane Bacco. La donna, in cerca di novità, accetta prontamente, e tutti i presenti inneggiano alla soluzione.

    (finale del secondo atto)
  • Offenbach 200

    Offenbach 200

    Il 20 giugno da poco passato si sono celebrati i duecento anni dalla nascita del compositore francese (anche se nato a Colonia, in Germania), Jacques Offenbach. Spiace dire che in Italia, salvo la RAI, cui va un plauso, nessuno dei maggiori teatri ha ricordato la ricorrenza. Un peccato, perché Offenbach è stato un genio (Rossini lo ribattezzò “Le petit Mozart des Champs-Elysées“), che ha inciso sulla storia della musica, ma anche sul quotidiano a lui contemporaneo, sulla nostra visione del classico, e, in minor misura, sul nostro quotidiano. Ne offro solo una prova: nel 2015 tutti ci siamo indignati e commossi per le novanta vittime dell’attentato al teatro Bataclan di Parigi. In pochi ci siamo chiesti l’origine di questo strano nome. Ba-ta-clan, scritto in realtà così, è il titolo di un’operetta di Offenbach, del 1855, ambientata in Cina, e i cui personaggi hanno tutti nomi “esotici” di invenzione, fatti di singole sillabe scandite da un trattino (bataclan è però il titolo di una canzone militaresca, una parodia del più diffuso rataplan). Quando nel 1865 fu inaugurato il teatro dalla forma di pagoda cinese, venne spontaneo intitolarlo come l’operetta di Offenbach, tale era la fama del compositore. Cito ora due fenomeni musicali per i quali tutti siamo debitori di Offenbach, anche se forse senza averne coscienza. Nell’operetta Orphée aux Enfers, del 1858, Offenbach doveva rappresentare la discesa di Orfeo agli Inferi e l’incontro con le Furie. E’ un tema già discusso, partendo da Gluck, in un altro post. Gluck, come sappiamo, nella versione viennese del 1762 del suo Orfeo aveva limitato al massimo le azioni delle Furie; nel 1774, dodici anni dopo, rivedendo il testo per Parigi, aveva invece dato loro un veemente balletto, a indicare i movimenti scomposti e, appunto, furiosi, di queste divinità. Eccolo:

    Come aveva fatto una trentina abbondante di anni prima Carl Maria von Weber con un ballo tipicamente contadino e popolare, il valzer, da lui sdoganato in una festa contadina e popolare all’interno di una sua opera, e poi, grazie a quel precedente, trasformato in ballo “colto” e nobile – Offenbach, alla ricerca di un ritmo adeguato per il suo inferno, sceglie un ballo di incerta origine e dubbio valore sociale, che si danzava in oscuri locali parigini, il Can Can. Offenbach in partitura indica in realtà il brano come Galop, la stretta finale (e quindi vorticosa) della quadriglia, un ballo accettato e comunemente praticato dall’alta società. Ma la celebrità di questo Galop infernal fu tale, che da allora in poi questo divenne il Can Can per eccellenza (la cui grande stagione è più tarda, risale agli anni Novanta del XIX secolo: a quella data si collocano sia gli schemi dei passi fissati dalla ballerina Louise Weber, sia i manifesti di Toulouse-Lautrec per il Moulin Rouge e altri locali parigini). Attraverso la sua composizione, cioè, Offenbach ha dato non solo visibilità e forma definitiva e irrinunciabile al ballo, ma è anche divenuto il simbolo della Belle époque di fine secolo, pur essendo lui morto nel 1880. Ancora nel film del 1960 di Walter Lang, Can-Can appunto, è sulla musica di Offenbach che i protagonisti ballano la loro danza proibita. Di quel Galop offro qui una versione da concerto, in attesa di ritrovare la scena al suo proprio posto:

    L’altra composizione di Offenbach che tutti conosciamo, anche se non sempre sappiamo trattarsi di cosa sua, è la celebre Barcarolle dai Contes d’Hoffmann, l’opera postuma del nostro musicista. Nell’opera è una serenata a due voci. Ne mostro innanzitutto uno dei tanti esempi di riutilizzo: due coniugi che si erano conosciuti a teatro, a una rappresentazione dell’opera di Offenbach, ma sono stati poi drammaticamente separati dalla vita, per un momento si ritrovano uniti grazie a quella musica. Altro non credo di dover aggiungere, limitandomi a riportare il link per il video :
    https://www.youtube.com/watch?v=sRvgm9qnwKQ

    Ecco però il brano originale nella sua interezza. Siamo a Venezia, di notte, in estate, e l’andamento della barcarola vorrebbe imitare il movimento sussultorio di una gondola, evocando un’atmosfera sensuale e malinconica. A cantare è la bellissima cortigiana Giulietta (la seconda voce che si ode nel brano); al suo fianco, a dare inizio alla melodia, è il giovane Nicklausse che, come tutti gli adolescenti, è raffigurato da una voce femminile di mezzosoprano. Questo il testo cantato: Belle nuit, ô nuit d’amour / souris à nos ivresses. / Nuit plus douce que le jour / ô, belle nuit d’amour! / Le temps fuit et sans retour / emporte nos tendresses / Loin de cet heureux séjour / le temps est sans retour / Zéphyrs embrasés / versez-nous vos caresses / Zéphyrs embrasés / donnez-nous vos baisers! Ah!

    Rimettiamo però ora un po’ di ordine nelle cose. Nato, come dicevo, in Germania, Offenbach si trasferisce a quattordici anni a Parigi e vi studia il ‘violoncello. Divenuto strumentista all’Opéra-Comique, acquisisce fama di virtuoso. Passato alla direzione d’orchestra, nel 1855 affitta un teatro sugli Champs-Elysées (da qui, il suo nomignolo), che chiama Bouffes Parisiens. Inutile seguire la sua carriera manageriale. Autore di due opere – una, come s’è detto, postuma – e varie composizioni ballettistiche e strumentali, Offenbach è ricordato soprattutto per le sue circa cento operette. Si vuole anzi che la parola l’abbia coniata lui, differenziando così le proprie composizioni dalle già affermate opéra-comiques. Si tratta di testi spesso brevi – non sempre! – di carattere comico quando non apertamente satirico, che alternano brani parlati a brani musicati, con ampio spazio anche ai numeri di danza. Vittima principale delle composizioni di Offenbach è la società del secondo Impero, quello di Napoleone III, incluso lo stesso Napoleone III. Dopo la sconfitta di Sedan, la caduta dell’Impero, l’esperienza della Comune, la carriera di Offenbach proseguì fra alti e bassi, ma meno gloriosamente di un tempo, fino alla morte avvenuta, come detto, nel 1880.

    Nei testi di Offenbach si riconoscono alcuni procedimenti ripetuti (tralascio l’analisi delle strutture musicali, anch’esse in genere immediatamente riconoscibili). Uno è la trasformazione in quotidiano di ciò che sarebbe sublime: ne La belle Hélène, 1864, di cui ci occuperemo in seguito più nello specifico, Elena è una “desperate housewife” che teme di vivere una vita banalmente borghese, e Paride viene raffigurato come un seduttore di quartiere, nelle cui braccia la donna è fin troppo ansiosa di cadere.

    Un altro procedimento è la parodia di situazioni celebri: nell’operetta già citata Elena invoca sempre la fatalité come responsabile della sua caduta, ancora prima che essa avvenga, quando è solo un desiderio inappagato. Ecco, ad esempio, come si rivolge alla dea Venere, colpevole a suo dire di faire ainsi cascader la vertu:

    Queste le parole cantate: On me nomme Hélène la blonde, la blonde fille de Léda. J’ai fait quelque bruit dans le monde: Thésée, Arcas et caetera. Et pourtant ma nature est bonne, mais le moyen de résister alors que Vénus, la friponne, se complaît à vous tourmenter. Dis-moi, Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu? Nous naissons toutes soucieuses de garder l’honneur de l’époux, mais des circonstances fâcheuses nous font mal tourner malgré nous! Prendez l’exemple de ma mère, quand elle vit le cygne altier, Qui, vous le savez, est mon père, pouvait-elle se méfier? Dis-moi, Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu? Ah, malheureuses que nous sommes! Beauté, fatal présent des cieux! Il faut lutter contre les hommes, il faut lutter contre les Dieux. Vous le voyez tous, moi je lutte, je lutte et ça ne sert à rien, Car si l’Olympe veut ma chute? Un jour ou l’autre il faudra bien. Dis-moi Vénus, quel plaisir trouves-tu à faire ainsi cascader la vertu?

    Altre volte la parodia si concentra su un preciso testo, poetico (Hugo, ma non solo) o musicale. Ne La Perichole, 1868, nel Perù del XVIII secolo il Viceré per fare sua la protagonista, una sorta di Madame Pompadour dei poveri, l’ha fatta sposare a un marito di comodo, che viene accolto con sommo disprezzo dai nobili di corte. La situazione ricorda quella de La Favorite di Gaetano Donizetti, andata in scena a Parigi nel 1840 e rimasta da allora in repertorio. Lì il protagonista dell’opera, Fernand, ottiene dal re di Castiglia Alfonso XI la mano di Lèonor de Guzman, ignorando che sia stata l’amante ufficiale del re, che pensa così di darle una vaga onorabilità. Ad avvisare Fernand sono i cortigiani inorriditi, che lo ritengono complice della manovra. Lèonor, abbandonata all’altare, dopo il pentimento, lunga macerazione e auto-punizione, ritrova Fernand e ne ottiene il perdono giusto prima di morire fra le sue braccia. La scena dei cortigiani viene trasferita di peso ne La Perichole, ripetendone musica e, con pochissimi adattamenti, perfino le parole. In questo modo, uno stesso pubblico andava all’Opéra, quella seria, a piangere sui destini di Lèonor; passava poi ai Bouffes Parisiens per ridere della medesima situazione.

    Altro meccanismo è quello che confonde volutamente alto e basso. Ecco come si esprime il gran Augure di Venere nella già ricordata Belle Hélène, presentandosi prima in tono grave e solenne, poi, nel ritornello Je suis gai [“allegro”], soyons gai, accelerando il ritmo, ma perdendo qualcosa in dignità, fino ad arrivare a uno spiazzante jodel:

    Ancora: Offenbach lavora spesso sulla parola, puntando a una sua sistematica e scientifica demolizione a scopo comico. E’ una lezione appresa da Rossini, dal famoso finale primo de L’italiana in Algeri. Lì tutti i personaggi lamentano di avere nella testa chi un campanello che suonando fa din…din, chi un martello che fa tac…tac, o un cannone che fa bum..bum, e chi si sente una cornacchia che fa cra…cra, fino a dissolvere il tutto in un insieme di suoni che formano un irresistibile nonsense che fa andare sossopra il cervello dei personaggi e li porta vicini, alla fine, a naufragare:

    Ne La Belle Hélène l’indovino Calcante, prezzolato, propone che Menelao per espiare certi presagi dall’apparenza nefasta passi un mese a Creta, lasciando così campo libero a Paride e a Elena. Menelao alla fine accetta, perché d’accordo con Agamennone pensa invece di tornare anzi tempo, e sorprendere l’eventuale infedeltà della moglie (al momento, non ancora consumata). Ecco cosa succede dell’invito, più volte ripetuto, pars pour la Crête:

    Altro elemento essenziale dello scrivere di Offenbach è il rovesciamento improvviso delle attese. Ne La Perichole la protagonista è davvero innamorata dell’uomo cui è stata fatta sposare per scherno, e non ha nessun interesse se non economico per il Viceré. Ecco allora come si rivolge, a breve distanza nel testo originale, al suo compagno, una volta appellandolo di nigaud (“sciocco”) e arrivando a filosofeggiare Ah! que les hommes sont bêtes!; la seconda volta tracciandone uno spiazzante ritratto così formulato: Tu n’es pas beau, tu n’es pas riche, / Tu manques tout à fait d’esprit. / Tes gestes sont ceux d’un godiche / D’un saltimbanque dont on rit. / Le talent, c’est une autre affaire / Tu n’en as guère, de talent. / De ce qu’on doit avoir pour plaire / Tu n’as presque rien… et pourtant…Je t’adore, brigand / J’ai honte à l’avouer, / Je t’adore et ne puis vivre sans t’adorer.



    Da ultimo: nelle operette di Offenbach ci sono riferimenti alla contemporaneità che a noi possono sfuggire. Il Viceré del Perù è raffigurato come gran cacciatore di gonnelle (così si diceva di Napoleone III), che promuove le sue amanti a titoli nobiliari abbastanza improbabili (anche questo si diceva di Napoleone III), che usa come schermo i mariti delle donne da lui concupite e lascia fare loro, in compenso dei torti matrimoniali, affari poco chiari (pure questo si adattava, pare, a Napoleone III). In un’aria che torna più volte nell’operetta, si dice anche che tutto ciò che è spagnolo ha maggiori probabilità di fortuna e Napoleone, tramite la moglie Eugenia de Montijo, era accusato di avere fatto la fortuna del partito spagnolo a Parigi… Di questi elementi offro una profetica testimonianza attraverso un’ulteriore operetta di Offenbach, La Grand duchesse de Gérolstein (1867). Gerolstein è una cittadina tedesca, che però non è mai stata sede di granducato. Quello che Offenbach ridicolizza qui sono le pretese imperialiste della Francia di Napoleone, alla vigilia della disastrosa campagna contro la Prussia. La nostra granduchessa ha delle mire militari, ma, come dice nella sua aria, sogna un grande esercito perché Ah! Que j’aime les militaires, / Leur uniforme coquet, / Leur moustache et leur plumet! / Ah! Que j’aime les militaires! / Leur air vainqueur, leurs manières, / En eux, tout me plait! / Quand je vois là mes soldats / Prêts à partir pour la guerre, / Fixes, droits, l’oeil à quinze pas, / Vrai Dieu! Je suis toute fière! / Seront-ils vainqueurs ou défaits?… / Je n’en sais rien… ce que je sais… Non a caso, il suo capo di stato maggiore è il generale Bum Bum, un nome che è una certezza, la cui presentazione musicale non ha bisogno, credo, di vederne riportate le parole…

    © Massimo Gioseffi, 2019 (to be continued)

  • Arcadia sull’Hudson

    Arcadia sull’Hudson

    Riprendo il ciclo di post dedicati all’Arcadia, con una prospettiva un po’ inusuale, almeno a occhi europei. Trovatomi a New York per un convegno su temi bucolici, ho scoperto l’esistenza di una scuola pittorica che si chiama “Hudson River School”, un movimento artistico sviluppatosi in America nel cinquantennio che va, grosso modo, dal 1825 al 1875, in parallelo all’opera di letterati come Henry David Thoreau (1817-1862) e Ralph Waldo Emerson (1803-1882). Devo all’amico Carlo Bottone, allora risiedente a New York, sia la visita alle sale del Metropolitan Museum dedicate a questa scuola pittorica, sia una gita (che molto consiglio a chi si trovasse da quelle parti) lungo le rive dell’Hudson, un piacevole complemento e diversivo dal caos organizzato della metropoli americana. Un ricordo per me indelebile e graditissimo.

    A chi volesse notizie precise e scientifiche su quella scuola pittorica, segnalo gli ottimi siti del Metropolitan Museum – che offre 54 dipinti, tutti commentati, e altro materiale informativo – e della Wadsworth Collection (un museo di Hartford, nel Connecticut), consultabili alle pagine https://www.metmuseum.org/toah/keywords/hudson-river-school/ e https://www.thewadsworth.org/collection/hudson-river-school/. Io qui non voglio esibire una dottrina che non ho, e che del resto in rete si può recuperare abbastanza facilmente. Dalle considerazioni intorno a quei dipinti – quelli che ho visto, quanto meno – vorrei ricavare tre suggestioni, che a me paiono tre forme del riuso arcade operato dai pittori di quella scuola.

    Il primo caso: ci sono dipinti che, pur rappresentando paesaggi più o meno reali della Valle dell’Hudson, sarebbero illustrabili con versi virgiliani, anche se la loro origine non è mai da cercare in Virgilio ma in una (presunta) osservazione dal vero e/o in una riproduzione di modelli pittorici inglesi – Turner e Constable in prima linea. Dico presunta osservazione dal vero, sia perché i dipinti raffigurano, quando hanno un’indicazione precisa, più i luoghi vicini alle sorgenti del fiume, nella zona delle Adirondack Mountains, che non quelli nei dintorni di New York, e io quei luoghi non li ho visti; sia perché, pur conservando ancora oggi la valle, man mano ci si allontana da Manhattan, un aspetto prettamente bucolico, il paesaggio in centocinquanta anni si è comunque alterato, ed è difficile capire quanto quei dipinti siano fotogrammi reali, e quanto pesi su di loro il velo dell’idealizzazione, assai forte nella poetica di questi pittori. Ecco così, ad esempio, una perfetta illustrazione del virgiliano ipsae lacte domum  referunt distenta [uberacapellae, IV 21, nel dipinto di Asher Brown Durand intitolato River Scene e datato 1854 (in realtà sono boves e non capellae, ma il resto cambia poco); oppure, ecco l’ille meas errare boves, ut cernis di I, 9, raffigurato dal quadro Autumn Oaks di George Inness, ca. 1878; il grandioso panorama proposto da The Beeches, ancora di Durand, datato 1845, in cui il pastore che, giustamente, agit gregem secondo i precetti virgiliani richiama di nuovo in mente la prima egloga, pur ridotto com’è a elemento miniaturizzato sullo sfondo di questi alberi maestosi; o, sempre di Durand (1853), le mucche che si abbeverano inter flumina nota di High Point, Shandaken Mountains (una località dello Stato di New York, vicino alla attuale città di Olive). 

    (Durand, River Scene, 1854)
    (Inness, Autumn Oaks, 1878)
    (Durand, The Beeches, 1845)
    (Durand, The Beeches, 1845, part.)
    (Durand, High Point – Shandaken Mountains, 1853, part. )

    Vengo alla seconda tipologia di intervento, che è quella della illustrazione di presunti luoghi geografici dell’Arcadia, in genere più facilmente inventati che conosciuti dal vero (la Grecia di inizio Ottocento non è ancora una meta turistica troppo sicura). Ecco ad esempio Evening in Arcady di Thomas Cole (1845); oppure, dello stesso pittore, ecco Dream of Arcady, del 1838. Sono paesaggi ideali, non diversi da quanto avevano fatto, con l’Italia, i Poussin e i Lorrain in un’altra, più antica stagione, e non diversi da quanto, per certe regioni dell’Italia (la valle di Tivoli e la Sicilia) fanno ancora gli stessi pittori della scuola dell’Hudson. Riporto, a titolo di esempio, una veduta di Taormina dove, sotto al maestoso panorama dell’Etna, si alternano rovine vere e di invenzione (l’autore è sempre Thomas Cole, 1843).

    (Cole, Evening in Arcady, 1845)
    (Cole, Dream in Arcady, 1838)
    (Cole, View of Taormina, 1843)

    Il nome di Thomas Cole, 1801-1848, riporta alla terza e forse più importante tipologia. A lui si deve un ciclo pittorico di cinque dipinti, pensati unitariamente, con il titolo di The Course of the Empire, 1833-1836. I quadri sono monumentali (100 cm per 161, ma quello centrale 130 per 193 cm) ed erano stati pensati per essere disposti in un pannello che li racchiudesse tutti, da esibire poi nella casa del committente, tale Luman Reed. Ognuno ha un sottotitolo: Stato selvaggio; Stato arcadico o pastorale; La consumazione dell’impero (quello centrale e più grande); Distruzione e Desolazione. L’idea di fondo consiste nel rappresentare un’identica scena naturale nel suo evolversi: dallo stato di Natura, libero e felice; a quello arcade, in cui l’uomo è ancora perfettamente inserito nel ciclo della Natura; alla costruzione della civiltà, di cui si fa simbolo una fiorente città dai tratti romani; alla distruzione che la civiltà inevitabilmente comporta, perché sedentarietà, fissazione dei confini naturali, costruzione di edifici e case significano il fondarsi di un capitalismo che porta a dissidi, guerre, dissoluzioni. Come sappiamo da un post precedente, è l’idea, espressa nella vita di Virgilio scritta da Elio Donato, che le Bucoliche raffigurerebbero lo stato primitivo ma felice della società, perché i pastori hanno greggi proprie, ma non impongono divisioni al terreno, sul quale le greggi devono poter pascolare senza confini. Con la nascita dell’agricoltura e quindi delle Georgiche, si arriva alla divisione dei campi e al formarsi della proprietà privata, perché i campi non sono di tutti, ma, quando va bene, sono di chi li lavora. Questo sfocia poi nelle guerre e nelle distruzioni, di cui si sarebbe fatta immagine l’Eneide. Che in Virgilio ci fosse un simile progetto naturalmente è assai discutibile; così come non credo che Cole conoscesse Virgilio o Donato (benché, se conosceva Virgilio è anche possibile e addirittura facile che lo leggesse con il commento e attraverso il filtro di Donato, che spesso accompagnava le antiche edizioni virgiliane. Ma non ho nessun dato a riguardo di una possibile conoscenza di Virgilio da parte del nostro pittore, e non è cosa che si possa dare per scontata). Resta da segnalare come, in Virgilio sì e no, in Donato in modo più esplicito, in Cole pure, una medesima critica al mondo contemporaneo e alla società cosiddetta civile, e alle forme del vivere civile, passi sempre attraverso i medesimi luoghi, e un medesimo utilizzo dell’idea pastorale, se non proprio arcade. Questa è per me, delle tre forme di riuso prospettate dal post, quella sicuramente più interessante di tutte.

    (Cole, The Savage State ca. 1836)

    (Cole, The Arcadian or Pastoral State, ca. 1836)

    (Cole, The Consummation of the Empire, ca. 1836)

    (Cole, The Destruction, ca. 1836)

    (Cole, Desolation,ca. 1836)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Alida Airaghi – Euridice

    Alida Airaghi – Euridice

    In un convegno organizzato presso il Liceo “Gonzaga” di Milano, oggi ho assistito a una relazione che aveva per argomento la poetessa italiana Alida Airaghi, 1953-vivente. Oggetto della comunicazione era il componimento “Euridice”, risalente al 1998, ma pubblicato nel 2000, nel volume Litania Periferica, Manni Editore, Lecce, e ristampato poi nell’antologia Nuovi poeti italiani, VI, Torino, Einaudi, 2012.

    Non fingerò di avere qualche sapere specifico su questa poetessa, a me fino a oggi, lo confesso, del tutto sconosciuta (mea culpa), ma i cui versi mi hanno molto colpito. Quello che so è quanto si apprende dalla voce a lei dedicata dall’immancabile wikipedia; il poco che, per ragioni di tempo, è stato detto dalla relatrice odierna, l’ottima Alessandra Terrile, che ringrazio; quello che si apprende dal sito della poetessa, da cui ho ricavato anche il testo che trascrivo (http://www.alidaairaghi.com/). Lì si legge che Alida Airaghi è nata a Verona nel 1953 e risiede a Garda. Dopo la laurea in lettere classiche a Milano, è vissuta e ha insegnato a Zurigo dal 1978 al 1992, come dipendente del Ministero degli Affari Esteri. Ha sposato il poeta friulano Siro Angeli, 1913-1991, da cui ha avuto le figlie Daria e Silvia. Collabora a diverse riviste, quotidiani e blog italiani e svizzeri. Il resto è l’elenco delle sue molte pubblicazioni, lungo un arco temporale che va dal 1984 al 2018.

    Euridice è una raccolta di nove sonetti, fortemente ritmici, nei quali viene raccontato il mito di Orfeo. A parlare è il mitico cantore che, persa la moglie, per sette sonetti progressivamente si avvicina all’idea dell’impresa mitica; nell’ottavo l’ha già compiuta, e accetta le condizioni imposte dalle divinità dell’Ade; nel nono elabora il lutto, decidendo di voltarsi a guardare Euridice.

    Ecco dunque il testo:

    EURIDICE

    I

    Niente succede a caso, niente.
    Che io ti abbia trovata, Euridice,
    che tu sia apparsa a me – felice
    di essere scoperta tra la gente –

    un giorno non qualunque
    di un non qualunque anno,
    pronta a svelarmi inganno e disinganno;
    per cui nel riconoscerti «Dunque

    sei tu», nient’altro, e basta:
    una stretta di mano, la mano
    nella mia tiepida appena, casta,

    e la voce che trema e non osa
    dire quello che sa, ma piano
    suggerisce altre cose, altra cosa.

    II

    E’ stata quindi una necessità
    incontrarti, te tra millecento
    che potevo, te pioggia sole vento
    e subito me stesso, mia metà.

    Più mia del mio sorriso e della pena,
    più mia della parola, di ogni gesto.
    Nome che chiamo, nome manifesto,
    sangue che pulsa lento nella vena.

    Perché sei tu e non altra, tu, Euridice,
    compagna e sposa mia, sorella mia,
    incisa nella pelle, cicatrice,

    che mi riempi pensiero, bocca, sesso,
    e non capisco ancora come sia
    che perdo me nel ritrovarti, adesso.

    III

    Ascoltatemi, animali e voi piante,
    tu cielo – monti torrenti scarpate –
    voi cose sospese e interrate,
    cose che mi girate intorno, tante.

    Di certo non avrei mai creduto
    di afferrare l’esistente con un dito:
    se mi sento diventare infinito
    e poi limite e fine, sordo e muto.

    Euridice, continuo a nominare,
    Euridice che canto e che invento,
    Euridice, mio eterno pensare.

    Siamo in due, siamo due e uno solo:
    esserti fuori o dentro è tormento
    in cui affondo. E poi volo.

    IV

    Può finire un amore, può cessare
    di scorrere il sangue, così improvvisamente,
    bloccarsi un corpo, tacere una mente,
    e dicono non ci sia nulla da fare.

    Io ti scuoto e ti scuoto, Euridice,
    non è possibile che non mi rispondi
    lì dove sei finita e ti nascondi,
    tornata sottoterra, mia radice.

    Ê uno scherzo, non può essere vero
    che rimanga di te solo il dolore:
    tutto intorno più nero del nero.

    Per questo alzati, cara, non fingere
    un silenzio adirato, accusatore.
    Non restartene lì come una sfinge.

    V

    Andrò da maghi a vendermi il destino,
    carte false farò con fattucchiere,
    annegato nell’acqua di un bicchiere
    perché non ci sei più, non ti ho vicino.

    Maledetti gli dei; quell’uno solo
    che ha deciso dall’alto del suo alto
    –  indifferente a tutto, ad ogni soprassalto
    del cuore, trionfante nel suo ruolo –

    di lasciarti morire, Euridice,
    che non gli hai fatto niente,
    mia figlia e sposa, amica mia, nutrice:

    lo maledico con tutto me stesso,
    dio colpevole e te innocente,
    per quello che ha voluto, che ha permesso.

    VI

    Se provassi a pregare, se riuscissi
    a convincerlo? Lui può fare
    che sia quel che non è, può fermare
    la terra, il sole, inventare un’eclissi.

    Dio degli dei, dio dei viventi, dio,
    non c’è un motivo vero, una ragione
    per cui la vita mi diventi prigione,
    e quello che era mio non sia più mio.

    Ti scongiuro, signore dell’abisso,
    ti imploro, lascia che ritorni
    a fare uno di me che sono scisso.

    Del tutto vero quello che si dice:
    sono pronto a dannare i miei giorni
    per riportarla a me, Euridice.

    VII

    Verrò a prenderti, cara, verrò
    a liberarti, Euridice sprofondata
    in un sonno ingannatore; mia malata,
    rinuncerò a curarti, se vedrò

    che ti avvolgi in un buio più profondo.
    Cosa ti tiene, che cosa ti trattiene
    laggiù, lontana dal mio bene:
    hai paura di perderlo nel mondo?

    Ma io scendo, comunque, a salvarti:
    perché la vita vera è qui, è ora,
    nel mio presente, nel mio sempre pensarti.

    Non c’è assoluto che sia meglio
    di noi, del mio volerti ancora.
    Ed è un incubo il sonno in cui sto sveglio.

    VIII

    Sono pronto a fare una promessa,
    barattando il mio sguardo col respiro
    di te viva, il mio silenzio-capogiro
    col tuo nome: Euridice principessa.

    Giuro che non ti sfioro con gli occhi,
    con le mani, che non mi avvicino
    col mio corpo teso di bambino
    incantato dal paese dei balocchi:

    purché tu, semplicemente, sia
    rimarrò muto, cieco e sospeso
    vivendo viva e vera la magia

    del tuo ritorno; impazienza
    di averti, avendoti preteso,
    mia ombra inconsistente, mia esistenza.

    IX

    Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina.
    Ma non ti guardo, taccio, sono bravo.
    Ai tuoi occhi sarò padrone e schiavo,
    Euridice, mia madre e bambina.

    Come vorrei mi prendessi la mano,
    toccarti un braccio, sfiorarti la bocca:
    so che non devo, so cosa mi tocca
    se non resisto a starti lontano.

    Sei silenziosa e ferma al mio fianco,
    oppure ti nascondi, resti indietro;
    segui ubbidiente il mio passo stanco

    e nel tuo passo leggero ti ascolto.
    Tu, trasparente pensiero di vetro:
    voglio appannarti. Ecco, mi volto.

  • La cattura di Temistocle

    La cattura di Temistocle

    Impossibile resistere alla tentazione di segnalare la prima esecuzione assoluta di una novità musicale, che ancora una volta si ispira al mondo classico. Il brano viene da un concerto tenutosi a Londra nell’ottobre dell’anno scorso, che ha visto come interpreti alcuni solisti della London Symphony Orchestra, la prestigiosa istituzione inglese, che di solito si esibisce al Barbican Centre, ma che è venuta più volte anche in Italia.

    Il concerto in questione si è tenuto nell’altra location dell’orchestra, la chiesa sconsacrata di St. Luke’s, al numero 161 di Old Street, Londra: un luogo più adatto a composizioni e concerti di carattere semi-cameristico. Due le caratteristiche del programma: si trattava di brani tutti inediti, o almeno in prima esecuzione nel Regno Unito; gli autori erano, con una sola eccezione (Sohrab Uduman) tutte donne, a sconfessare quanti – e in Italia sono ancora molti, come ci insegna la cronaca recente – pensano che le donne abbiano meno valore in musica. Fra le autrici, la vedette, diciamo così, era certamente la finlandese Kaija Saariaho (1952-vivente), oggi compositrice di prima grandezza nel panorama della musica contemporanea, le cui opere sono state eseguite anche in sedi ‘museali’ come il Festival di Salisburgo o il MET di New York (non proprio dei templi assoluti della modernità teatrale). Le altre autrici erano Jasmin Kent Rodgman (per la quale è possibile consultare il sito personale, https://www.jkr-music.com/), Faye Reader e Quinta, nome d’arte di Katherine Mann.

    Proprio a Quinta si deve il brano che andiamo ad ascoltare, disponibile alla libera consultazione sul sito della London Symphony Orchestra. Si intitola Themistocles is captured e si articola in tre parti, intitolate a loro volta A Ship for Asia Minor; I have with me two Gods; The Likely and the Rich. I brani sono disponibili anche in un disco pubblicato nel 2017, con il titolo “Flux – New Music, New Dance”, dalla NMC di Londra, disponibile all’acquisto on-line. Si tratta però di una diversa esecuzione, che unisce il brano di Quinta a composizioni di altri autori.

    Il padre di Quinta era un professore di latino e greco; è possibile che da lì venga l’ispirazione per la composizione che ci interessa, messa in musica di una celebre pagina di Plutarco, relativa alla fuga e all’esilio di Temistocle in Asia Minore, dopo avere subito l’ostracismo ad Atene ed essere stato costretto dagli Spartani a lasciare il comodo rifugio presso Admeto di Tessaglia. Da lì la malinconia della composizione, percepibile in tutti e tre i suoi movimenti. Nel recensire l’album NMC, l’autorevole rivista inglese “Gramophone” , luglio 2017, ha scritto che quella di Quinta era “the most original and distinctive voice , sottolineando poi il paesaggio sonoro minimalista entro cui si articolano i tre brani, la cui vitalità è tenuta accesa dai ritmi delicatamente pulsanti di un piano elettronico e di un violino manipolato a sua volta attraverso l’elettronica.

    Quinta, va aggiunto, è nota per la sua collaborazione con la band dei Radiohead e con il musicista di punta di quella band, Philip Selway. Ha lavorato anche con la cantante inglese Natasha Khan (nota come “Bat for Lashes”) e con Patrick Wolf, il cantautore inglese che unisce l’elettronica alla musica barocca. L’album più celebre di Quinta si intitola “My sister, Boudicca” (evidente, anche qui, il riferimento classico), ed è attualmente disponibile all’ascolto su youtube, suddiviso nei brani di cui si compone

    https://www.youtube.com/watch?v=Ss6IgCGozbM&list=OLAK5uy_n8YhvVpFOrkODwU5RYOhikhdaiRJbpVLc&index=1

    Ecco invece le tre parti della composizione che ci interessa:

    I – A Ship to Asia Minor

    II – I Have two Gods With Me

    III – The Likely and the Rich

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Et in Arcadia ego…

    Et in Arcadia ego…

    Et in Arcadia ego è il titolo di una costante iconografica diffusa soprattutto nella pittura del XVII secolo. Da quel titolo, divenuto proverbiale, nel 1936 il critico e letterato Emilio Cecchi trasse lo spunto per le proprie memorie relative a un viaggio compiuto in Grecia due anni prima, nel 1934; il libro, tuttora reperibile in commercio, descrive la visita di Corfù, Creta e in particolare Cnosso, Delfi, Micene, Corinto e parte del Peloponneso, e infine Atene, in cerca delle più importanti tracce artistiche e archeologiche. E’ un’interessante testimonianza sulla Grecia dei tempi andati, nella quale – va sottolineato – il gusto del pittoresco, dello stereotipo folclorico e folcloristico, si mescola in continuazione con folgoranti intuizioni delle tracce lasciate dalla storia più moderna. Quanto all’iconografia propriamente detta di Et in Arcadia ego, essa è stata fatta oggetto di studio nel bel volume di Petra Maisak, Arkadien. Genese und Typologie einer idyllischen Wunschwelt, Frankfurt a.M./Bern 1981. Qui mi occuperò solo delle due attestazioni più comuni del tema: il dipinto di Poussin conservato al Louvre di Parigi, e datato 1639; il dipinto di Guercino, oggi facente parte della collezione di Palazzo Barberini a Roma, datato 1618-1622 (la datazione precisa è incerta, ma oscilla fra questi due estremi). Si tratta di due riletture dello stesso tema: a indicare la propria presenza in Arcadia, supposta come un’isola felice secondo una vulgata che non è di Virgilio, ma che risale a un certo modo tipicamente rinascimentale di interpretare e semplificare le egloghe di Virgilio, è la morte. Per quanto piacevolmente si possa vivere in Arcadia, i pastori scoprono, con curiosità e sgomento, che anche in quella sorte di paradiso terrestre ha spazio la morte. Erwin Panofsky nel 1939 scrisse un celebre saggio per mettere in evidenza l’ambiguità dell’espressione, che può riferirsi sia a un generico e generale Memento mori, sia alla persona specifica della quale si scopre la tomba (e che in questo caso si immagina essere l’artista che ha realizzato il dipinto). Come a dire: anche in Arcadia si trova la morte; oppure, anch’io, benché arcade e quindi eccelso nelle mie capacità artistiche, ho trovato la morte. Poussin sintetizza tutto questo in una scena ariosa e monumentale, che descrive il rinvenimento di un sarcofago di dimensioni da mausoleo (che, se accettiamo la prima interpretazione del titolo, potrebbe essere il sepulchrum Bianoris citato da Virgilio nella nona egloga, v. 60; oppure, la tomba di Dafni, rievocata – ma con diverso epitaffio – nella quinta egloga, vv. 42-44). Come che sia, i pastori, incuriositi e stupefatti, misurano le dimensioni dell’ampia costruzione, ne leggono l’iscrizione, mettendo un dito nelle lettere incise, così da seguirne più agevolmente la struttura; indicano la tomba a una figura femminile enigmatica (secondo alcuni una pastorella; secondo altri, una dea, o forse la Sibilla abitatrice anch’essa, in Virgilio, di antiquae silvae), e per suo tramite a noi. Una precedente versione dell’opera, più piccola di dimensioni e più raccolta nell’iconografia, mostra invece una tomba seminascosta, e non en plein air, e un atteggiamento più vivo e meno teatrale nei diversi pastori. Questo secondo (ma cronologicamente primo) dipinto, oggi conservato a Chatsworth House, nel Derbyshire, è fatto comunemente risalire al 1627, e sembra quindi una reazione abbastanza immediata e vicina al dipinto di Guercino, specie ricordando che Poussin, trentenne, nel 1624 era venuto a Roma, ospite proprio di quel cardinale Antonio Barberini nei cui appartamenti il dipinto di Guercino probabilmente già si conservava, sebbene Panofsky abbia individuato il committente dell’opera in Giulio Respigliosi, futuro papa Clemente IX, amico e collaboratore del Barberini (e anche sebbene il dipinto non sia citato nei cataloghi di Palazzo Barberini prima del 1644).

    (Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego o I pastori arcadi, 1639, Parigi, Museo del Louvre)
    (Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego, 1627, Chatsworth House)

    Quanto al dipinto di Guercino, la scena lì è più cupa. Due pastori rinvengono un teschio, sotto il quale appare l’iscrizione che conosciamo. L’ambiente è poco propizio: le selve incombono scure, tenebrose; non c’è affabilità di paesaggio, e solo sullo sfondo si apre un’immagine di luce, in un chiarore che ha però qualcosa di pretemporalesco. Anche i due pastori, perfettamente vestiti, senza figure femminili di accompagnamento (come invece avveniva nell’uno e nell’altro dipinto di Poussin), senza pose monumentali o teatrali, drappeggi pesanti e neoclassici, atteggiamenti da numi olimpici più che da pastori reali o realistici, mostrano una serietà e una seriosità che ben si adatta al messaggio complessivo del quadro, qui sicuramente da interpretare nella direzione di una presenza della morte perfino nei territori dell’Arcadia. Il teschio è elemento ricorrente nelle nature morte del XVII secolo e nel programma iconografico che va sotto il titolo di Vanitas vanitatum, del quale si conservano in tutti i musei numerose attestazioni; sul teschio di Yorick, lo ricordiamo, pochi anni prima, nel 1602, William Shakespeare aveva fatto pronunciare ad Amleto il suo Alas, poor Yorick ! I knew him, Horatio!. 

    (Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, Et in Arcadia ego, ca. 1620, Roma, Galleria Nazionale d’arte antica, sede di Palazzo Barberini)

    Esiste però anche un’altra interpretazione dell’Arcadia, più in linea con la visione tradizionale dell’Arcadia come terra felice, di canti, amori, luminosi paesaggi, contrasti sanati. Ne offro due esempi. Il primo è un quadro del pittore russo Konstantin Makovsky, realizzato nel 1890, e oggi parte di una collezione privata. Nato a Mosca nel 1839, Makovsky è il tipico pittore ottocentesco (leggermente attardato, magari, rispetto alla tradizione dell’Europa occidentale), che si concentra prima su temi storici della Grande Patria Russa, poi su cartoline di genere, che dovrebbero cogliere l’anima folclorica e il vero spirito della suddetta Grande Patria. Arcadia felix, il quadro che ci interessa, fa un po’ eccezione nella sua produzione. L’Arcadia è vista come terra di pastori che suonano e cantano (sono ben in evidenza gli strumenti musicali: nei dipinti di Guercino e Poussin, se mancavano le greggi, mancavano però anche i ferri del mestiere di musici), che ballano e danzano, fra ninfe compiacenti e discinte, corpi giovani ed allettanti, elementi della tradizione dionisiaca (la tigre/pantera sulla destra del quadro), declinata in chiave erotico-sentimentale (a reggere le briglia dell’animale selvatico non è Bacco, ma un Amorino). Siamo davanti a una raffigurazione sincretica e simbolica dell’età dell’oro, con tanto di contrasti di Natura ormai felicemente appianati, più che a una rappresentazione dell’Arcadia, o anche solo del mondo virgiliano, o di ciò che del mondo virgiliano si poteva banalmente pensare.

    (Konstantin Makovsky, Arcadia felix, 1890, collezione privata)

    L’ultimo quadro che presento è opera del pittore americano Thomas Eakins. Nato nel 1840, Eakins, a parte un viaggio di studio in Europa, visse pressoché sempre nella nativa Filadelfia, della quale ritrasse scene e personaggi famosi (incluso il padre, insegnante di materie classiche). Arcadia, il dipinto che qui ci interessa, esiste anch’esso in due versioni. Nella prima, risalente al 1883 e oggi conservata al Metropolitan Museum di New York, la futura moglie del pittore, Susan Macdowell, il piccolo nipote Ben Crowell (figlio di una sorella) e un giovane allievo, James Laurie Wallace, tutti e tre piuttosto discinti, abitano, perdendosi in esso, un immenso paesaggio bucolico. I due giovani suonano uno strumento (rispettivamente, il flauto di Pan e la zampogna), mentre la donna, estasiata, di spalle allo spettatore, ma rivolta verso i due suonatori, ascolta, ninfa beata, il concerto a lei riservato. Nella seconda versione, ritenuto in genere un bozzetto preparatorio del quadro maggiore, appare invece solo la donna, drappeggiata in abito antico. Il quadro oggi fa parte di una collezione privata, e si data ovviamente agli stessi anni del dipinto maggiore. In vari musei americani si conservano anche diverse fotografie preparatorie, realizzate da Eakins per poter disporre nello studio di modelli adeguati, secondo una tecnica di cui proprio lui è considerato il principale inventore. Dell’Arcadia, anche qui più tradizionale che realmente virgiliana, viene sottolineato, nei dipinti, la capacità di realizzare una perfetta sintonia uomo/Natura, al punto che l’elemento umano, pur al centro del quadro, si perde nella complessità del paesaggio, che lo assume e quasi lo assorbe in sé.

    (Thomas Eakins, Arcadia, 1883, Metropolitan Museum of New York)
    (Thomas Eakins, An Arcadian, ca. 1883, collezione privata)

    © Massimo Gioseffi, 2019

  • Laudes Marianae

    Laudes Marianae

    L’imminente festività da “ponte lungo” invita a una celebrazione musicale, che riguardi anche il latino. Naturalmente, non è la festività in sé che interessa, che tocca il personale di ciascuno. Ricordiamo solo, a titolo di cronaca, che l’Immacolata Concezione è idea oggetto di disputa per tutto il Medioevo; fatta propria dalla Controriforma; molto frequente nella pittura di ambito spagnolo e italiano del Seicento (Velázquez, Murillo, Zurbarán); elevata a dogma da Pio IX nel 1854.

    Qui vorrei proporre alcuni testi mariani, in latino, musicati da musicisti attivi in Gran Bretagna, in un ambiente quindi a maggioranza anglicana e perciò ostile al dogma, che è accolto solo dalla Chiesa Cattolica (dei compositori che citeremo, però, MacMillan è sicuramente cattolico, Howells è sicuramente anglicano). Un buon esempio, mi pare, di convivenza, se non proprio di ecumenismo, convivenza facilitata probabilmente dal latino, il veicolo in cui questi testi si esprimono,  ma anche dalla forza inerziale che il latino e la musica portano con sé, e che probabilmente spiega il perché di una maggiore conservazione di legami tra questa lingua e questa Arte, fra tutte le Arti oggi riconosciute: un tema su cui riflettere anche successivamente.

    Il primo brano che propongo viene dal cosiddetto “Novecento storico” e risale al 1916. Ne è autore Herbert Howells, 1892-1983, celebre organista prima a Salisbury, poi al St. John’s College di Cambridge. La sua composizione più importante si intitola Hymnus Paradisi, e risale al 1950. La Laus che qui presento si intitola Salve Regina, e fa parte di una raccolta di quattro Anthems in onore di Maria, cui sono stati poi dedicati anche un Magnificat del 1950 e uno Stabat Mater del 1963. Ecco prima il testo della Laus, poi la composizione che ci interessa:

    Salve, Regina, Mater misericordiae, / vita, dulcedo, et spes nostra, salve. / Ad te clamamus, exsules filii Hevae, / ad te suspiramus, gementes et flentes / in hac lacrimarum valle. / Eia ergo, advocata nostra, illos tuos / misericordes oculos ad nos converte. / Et Jesum, benedictum fructum ventris tui, / nobis, post hoc exsilium, ostende. / O clemens, O pia, O dulcis Virgo Maria.

     

    I prossimi brani sono tutti opera di compositori ancora viventi. Incomincio con due messe in musica della celebre Laus dal titolo Ave maris stella. Ne riporto il testo: 

    Ave maris stella, / Dei Mater alma / atque semper virgo / felix coeli porta. // Sumens illud ave / Gabrielis ore / funda nos in pace / mutans Evae nomen. // Solve vincla reis, / profer lumen caecis, / mala nostra pelle, / bona cuncta posce. // Monstra te esse matrem, / sumat per te preces / qui pro nobis natus / tulit esse tuus. // Virgo singularis / inter omnes mitis, / nos culpis solutos / mites fac et castos. // Vitam praesta puram, / iter para tutum / ut videntes Jesum / semper collaetemur. // Sit laus Deo Patri, / summo Christo decus, / Spiritui Sancto / tribus honor unus. // Amen.

    Autore della prima intonazione è Owain Park. Nato a Bristol nel 1993, laureato in composizione ed orchestrazione a Cambridge; già corista nella sua città natale, è autore di numerosi testi, fra i quali l’opera da camera “The Snow Child”, rappresentata al Festival di Edimburgo del 2016.

     

    Autore del secondo brano è il più celebre James MacMillan, scozzese, nato nel 1959. Dopo gli studi a Edimburgo e Durham, è divenuto famoso a partire dai primi anni Novanta. E’ autore di opere liriche, concerti, sinfonie e brani genericamente sinfonici, fra i quali spiccano Britannia! (del 1994) e il concerto per percussioni Veni, veni, Emmanuel, del 1992. Ai Proms del 2017 (i concerti estivi della BBC) è stato eseguito un suo European Requiem, appositamente commissionato per l’occasione e dedicato alle vittime dei diversi attentati degli ultimi anni. Ecco la Laus che ci interessa:

     

    Chiudo questa carrellata con Matthew Martin. Nato nel 1976, ha studiato a Oxford (dove attualmente insegna composizione al Magdalen College) e a Londra; ha vinto importanti premi; è autore di uno Stabat Mater del 2014 piuttosto eseguito, e di un ciclo di composizioni su testi di Petrarca, risalente al 2016. Qui presento il suo Magnificat, di cui riporto, come di norma, prima il testo e poi l’esecuzione:

    Magnificat / anima mea Dominum / et exultavit spiritus meus / in Deo salutari meo / quia respexit humilitatem ancillae suae, / ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes / quia fecit mihi magna, qui potens est: / et Sanctum nomen eius / et misericordia eius a progenie in progenies / timentibus eum. / Fecit potentiam in brachio suo, / dispersit superbos mente cordis sui, / deposuit potentes de sede, / et exaltavit humiles; / esurientes implevit bonis, / et divites dimisit inanes. / Suscepit Israel, puerum suum,  / recordatus misericordiae suae, / sicut locutus est ad patres nostros, /  Abraham et semini eius in saecula. / Gloria Patri et Filio / et Spiritui Sancto / sicut erat in principio et nunc et semper / et in saecula saeculorum. Amen.

  • Certamina d’Italia

    Certamina d’Italia

    Grazie alla cortesia del professor Pierluigi Reverberi, del Liceo Classico ‘Giovanni Berchet’ di Milano, e del responsabile del cloud del suddetto liceo, “Latinoamilano” è in grado di farsi tramite per l’accesso a un meraviglioso database contenente informazioni, prove, notizie utili su (quasi) tutti i certamina attivi in Italia. Riporto, per semplicità, le parole del professore Reverberi, che fanno da guida al sistema:

    “Buonasera Professore, per il sito ho riorganizzato il materiale per far sì che dalla cartella di condivisione (che si chiamerà Agones-Certamina-Olimpiadi Nazionali) risultino esclusi tutti i files specifici della nostra scuola. Sul sito, andrebbe indicato il link (che ho riporto sotto) per accedere direttamente e liberamente alla cartella con possibilità di scaricare ecc. Alla nostra scuola, al responsabile del “cloud” e a me in particolare farebbe solo piacere mettere a disposizione degli interessati questo materiale, anche per adempiere alla funzione di servizio pubblico cui siamo chiamati in quanto insegnanti. Consiglio solo di non aprire direttamente i files dalla pagina Bercloud (appaiono in un formato mal leggibile) ma di scaricarli/salvarli dai tre puntini posti a destra. Il link è il seguente:

    https://doc51.liceoberchet.edu.it/s/QHAc69c94V0w7I6

    con password “berchet“.

    La cartella è in costante aggiornamento”.

    Il mondo dei certamina è ampio e variegato, ma è indubbio che nell’ultimo decennio i certamina abbiano costituito un mezzo importante per diffondere il latino, ciò che si fa a scuola con il latino e le competenze degli studenti, ma anche per creare occasioni di incontro e conoscenza reciproca. Ringraziamo noi per primi quanti hanno lavorato a realizzare l’opera che qui si condivide.

  • Un’idea di canone II

    Un’idea di canone II

    Torno sul bel post di Isabella Canetta e sulla discussione che ha suscitato, perché mi pare che l’intervento solleciti uno dei nodi centrali dei nostri studi e dello spazio da concedere al latino e a chi insegna latino nella scuola. Chiedo scusa se farò prima un discorso musicale, il cui senso e collegamento con quanto ci interessa si spiegherà solo alla fine. A chi abbia la pazienza di leggere, chiedo, appunto, la pazienza di arrivare fino in fondo.

    Nel mese di settembre il Teatro alla Scala di Milano ha messo in scena alcune recite dell’opera Alì Babà di Luigi Maria Cherubini (1760-1842). Cherubini, fiorentino di nascita e di prima carriera, fu un cervello in fuga, attivo a Londra e a Parigi, dove si trasferì nel 1787 e dove rimase fino alla morte. Alì Babà, in realtà Ali-Baba ou les quarante voleurs, è un’opera francese, in francese, rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1833. Dal 1822 al 1842, anno della morte, Cherubini fu l’amato/odiato direttore del Conservatorio parigino; ma la sua ultima composizione operistica di peso, prima dell’Ali-Baba, risaliva al 1813, ed era stata Les abencerages, su libretto ricavato da Chateaubriand. In mezzo solo due opere comiche di poco interesse e successo. Perché insistere su questo? Chi conosca Ali-Baba, da questa edizione scaligera o dalla sua sola precedente ripresa in tempi moderni, ancora alla Scala, nel 1963 (di quello spettacolo esiste, per fortuna, una registrazione dal vivo), sa che nel 1833 un’opera del genere era fuori tempo. Ali-Baba è infatti un’opera turchesca, come si usava nella seconda metà del Settecento; priva di vere arie, o quasi, con un grande impegno verso il declamato; con cori e danze inserite direttamente nel testo; con una certa seriosa austerità, alla latina direi una certa gravitas, pur nell’argomento complessivamente comico. Volendo trovare, nella mia memoria di ascoltatore, uno spettacolo affine a quello cui ho assistito alla Scala, evocherei un’opera vista alla (defunta) Piccola Scala agli inizi degli anni Ottanta, Les pèlerins de la Mecque, opera-comique di Gluck, un musicista di cui abbiamo già avuto occasione di parlare. Ma Les pèlerins è un’opera del 1763, andata in scena (dopo una serie di peripezie che qui non ci interessano) nel 1766. Cioè, settant’anni prima dell’operazione tentata da Cherubini. In quei settant’anni si inseriscono tutta la parabola del Mozart operista; tutta la parabola della generazione di mezzo, quella degli Spontini, dei Mayr, di Cherubini stesso; tutta la parabola del genio rossiniano, la cui carriera si chiude con il Guillaume Tell del 1829. Sei anni prima dell’Ali-Baba, nel 1827, Bellini e il suo tenore di riferimento, Giovan Battista Rubini, avevano creato, con Il Pirata, la figura dell’eroe romantico. Nel 1831, pochi mesi prima della nostra opera, Bellini aveva scritto Norma; nel 1833 Donizetti aveva già scritto Anna Bolena, Elisir d’amoreLucrezia Borgia; due anni più tardi raggiungerà la sua punta massima con Lucia di Lammermoor (da Walter Scott). Insisto su Scott, come prima ho fatto per Chateaubriand, e ora faccio ricordando che le zuffe pro o contro Hernani, il drammone romantico di Victor Hugo, risalgono al 1831, proprio per segnalare questo: il Settecento di Gluck nel 1833 era un mondo tramontato, e tramontato più volte, da più stagioni culturali e generazionali. Riproporlo sulle scene dell’Opera dovette fare uno stranissimo effetto, e infatti tradizione vuole che una voce di spettatore (poi auto-identificatosi in Hector Berlioz) a ogni alzata di sipario gridasse a gran voce la propria disponibilità a pagare un prezzo sempre maggiore in nome di qualche idea musicale da rintracciare nell’opera; salvo, all’ultimo atto, affermare sconsolata di non essere abbastanza ricca per permettersi la posta che, a quel punto, era necessario mettere in palio.

    Perché questa lunga tirata? Ali-Baba non è certo entrato nel canone, la sua vita è stata stentata sia nell’Ottocento, sia nel Novecento. Eppure, è opera gradevole, e il pubblico delle recite cui ho assistito è uscito da teatro soddisfatto e plaudente. Nella vacua eleganza dello spettacolo offerto dalla Scala, la serata è parsa povera di grandi contenuti, ma non priva di una sua dignità formale, premiata dagli applausi. Perché in musica non vige il concetto di canone; vige il concetto di repertorio. A un ascoltatore distratto, Ali-Baba suona come un’opera settecentesca, gradevole e ben fatta. La distanza che ci separa tanto dal Settecento quanto dall’Ottocento fa sì che non si avverta più la contraddizione in termini cronologici che aveva fatto indignare Berlioz e rendere freddi i primi ascoltatori dell’opera, determinandone la successiva sparizione. Certo, chi ragiona sulle date rimane, anche oggi, sconcertato; chi non vi ragiona, va a teatro e sente un’operina gradevole e relativamente ben rappresentata. E, badate bene, non è detto che si tratti di due persone differenti, un pubblico colto e un pubblico ignorante. La reazione, mista, può essere presente anche nell’animo di uno stesso spettatore.

    Questo è il repertorio: un grande contenitore dove chi vuole pesca ciò che gli interessa; e ne può fruire accostandolo a cose diverse, badando più a un godimento estetico che a una cognizione storica (proprio per questo, per soddisfare quanti più gusti possibili, qualsiasi teatro di buon senso, nel suo cartellone, mescola opere di epoche, gusti, generi diversi). Un canone, come ha giustamente scritto Isabella Canetta, è un’altra cosa, e necessita di almeno tre elementi: un’autorità che lo imponga; un numero ristretto di pezzi a costituirlo, sempre gli stessi, accettati da tutti; una obbligatorietà imposta dall’autorità di cui sopra e dal consenziente ossequio di chi a quella autorità si sottomette. Edward Sorel nella sua vignetta metteva in luce perfettamente tutto questo: c’è Bloom-Mosè, che si considera interprete diretto delle parole di Dio; ci sono le Tavole delle Leggi, dalle quali non si può tralignare; ci sono dodici nomi, e solo dodici, gli unici eletti in tutta la letteratura americana; e ci sono i lettori di Bloom/Ebrei in fuga verso la Terra Promessa, disposti, almeno per un poco, a sottostare a quelle leggi e a quelle tavole. Il repertorio ha struttura in parte diversa:  dipende anch’esso da autorità che lo impongono, ma è più inclusivo, ammette un numero maggiore di elementi e una loro maggiore mobilità. Non ha carattere obbligatorio: vige, per esso, la legge dell’auctoritas, ma anche quella della semplice  casualità. Mi spiego di nuovo con esempi musicali: di Ali-Baba fu nota, per anni (e una semplice verifica su youtube lo dimostra) la sola ouverture. La ragione di questo sta nell’esecuzione che di essa diede Arturo Toscanini in uno dei concerti radiofonici da lui tenuti in America. Con quei concerti Toscanini ha creato per anni un repertorio direttoriale: ciò che lui ha diretto, è stato diretto anche da altri, in molti casi presumibilmente ignari di come Ali-Baba si sviluppasse dopo l’ouverture, di che tipo di opera fosse, di che cosa trattasse. Ma non importava: importava l’ouverture in quanto tale, in quanto brano “toscaniniano”, da eseguire perché l’aveva eseguito Toscanini. Viceversa, ciò che Toscanini non ha diretto ha faticato ad entrare in repertorio: ad esempio Mahler, ad esempio Shostakovich. Un direttore del calibro di Herbert von Karajan, che pure fu a sua volta un dittatore del podio e delle scelte musicali per almeno trent’anni, diresse in tutta la sua vita una sola sinfonia di Shostakovich (la Decima) e solo quattro su dieci di Mahler (quarta, quinta, sesta e nona). Quando Claudio Abbado nel 1982 inaugurò la Filarmonica della Scala con la Terza di Mahler, fece scalpore. Solo una decina di anni più tardi, Riccardo Chailly, allora direttore dell’Orchestra Verdi di Milano, poté invece imporre senza difficoltà che ogni concerto inaugurale di quella orchestra comprendesse almeno una sinfonia di Mahler. Era la fine degli anni Novanta: fino a quella data, le sole discografie integrali di sinfonie mahleriane erano quelle di Kubelik e di Bernstein; oggi, quasi ogni direttore che si rispetti ha la sua. Identico discorso per Shostakovich. E il repertorio non varia solamente nel tempo, varia anche nello spazio: fuori d’Italia, centro del repertorio operistico è senz’altro Wagner, e non solo nei Paesi di lingua tedesca; in Italia, lo è Verdi, e quando la Scala si inaugura con un’opera wagneriana, per quanto eccelsa essa sia, si possono dare per scontati i mugugni e gli alti lai. A Torino, la sindachessa cittadina ha cacciato in malo modo un ottimo direttore, colpevole di non dirigere abbastanza Traviate e Barbieri di Siviglia ogni anno! La biografia di Joan Sutherland scritta da Norma Major insegna quante difficoltà abbia avuto la cantante a imporre, a Londra e in America, suoi territori d’elezione, opere come SonnambulaNormaPuritani e la stessa Lucia di Lammermoor che in Italia, pochi anni prima, Maria Callas aveva in normalissimo repertorio, e come lei un numero elevato di altre, meno eccelse cantanti. E questo perché i recensori degli spettacoli della Sutherland sottolineavano certo sempre la grandezza della cantatrice, ma anche l’inutile spreco di tante doti in composizioni di autori come Bellini, Donizetti, il primo Verdi, che in Italia erano considerati il fulcro del repertorio, ma in Inghilterra erano visti come dei poveri dilettanti, inesperti di armonia…

    Vengo a stringere il troppo lungo ragionamento. Un repertorio è più ampio; meno fisso; meno legato all’autorità che lo impone (pur essendo legato anch’esso a fenomeni di auctoritas, di cultura generale, di gusto personale), meno assertivo di un canone. Ne traggo due considerazioni. La prima, storica. Sia Isabella Canetta che Silvia Stucchi nelle loro osservazioni su Quintiliano parlano di “canone”. Io credo che quello di Quintiliano sia un “repertorio”, non un “canone”: un elenco di ciò che si può leggere, non un obbligo alla lettura, che Quintiliano voglia davvero imporre ai suoi lettori. Mancano, del canone, la misura ristretta; l’assertività assoluta e l’autorità impositiva di chi lo emana; il carattere esclusivo, anziché inclusivo, dei nomi fatti. Seconda considerazione, di interesse più pratico e immediato. La scuola italiana vive una contraddizione in materia di canone (non è la sua sola contraddizione, del resto). Da un lato, infatti, le nuove disposizioni ministeriali, che tanto nuove magari non sono più, ma che non sono mai state troppo seriamente applicate, vorrebbero un allargamento dei testi, dal canone al repertorio, nella direzione di un apprendimento della civiltà, e non della letteratura. Dall’altra parte, però, quelle stesse disposizioni stabiliscono, con formule ambigue e forse anche un po’ ipocrite, che lasciano libertà di variare, ma puniscono poi i tentativi di variazione, un canone – questo sì – di autori da privilegiare, e perfino una scaletta cronologica circa il loro approccio da parte delle classi liceali…

    Ecco allora la domanda: spostare l’accento dal canone al repertorio cosa può produrre di nuovo? quali vantaggi e quali rischi? Un rischio, lo dico subito io stesso, è l’effetto Ali-Baba, la perdita di vista, cioè, che un testo del 1833 che sembra un testo del 1763, è un testo che ha in sé qualcosa che non funziona, oppure qualcosa di provocatorio: ma perdere di vista la continuità storica vuol dire rischiare di fruire di un’opera del 1833 come se fosse un’opera del 1763, senza porsi dei problemi che invece andrebbero posti. Un vantaggio, però, sarebbe l’allargamento di testi e di possibilità di ricerca e autonoma sperimentazione, anche nelle singole classi e nelle singole scuole: in un cartellone di teatro, si sa, tutto deve convivere con tutto, se il teatro vuole sopravvivere, e sarà il pubblico a decidere a che cosa assistere e a che cosa no, scegliendo liberamente sulla base del proprio gusto; ma non può essere il teatro a scegliere per il suo pubblico, se non vuole rischiare di assottigliarlo, alienandosene ampia parte. E questo anche a scegliere ciò che tutti fanno e tutti conoscono, come una sorta di dovere imprescindibile: perché, con buona pace della sindachessa torinese (che varie volte si è espressa in questa direzione), un teatro fatto di soli Barbieri di Siviglia e di sole Traviate non è un teatro che si apre al grande repertorio popolare. E’ un teatro che si chiude, e si avvita su se stesso, e in breve muore.

    La scuola deve guardare a un livellamento sociale del sapere, e deve rispondere alle domande di chi la frequenta, e di chi valuterà un giorno chi la frequenta. Ma siamo sicuri che la metafora utilizzata per il teatro non valga anche per la scuola italiana in generale, per il canone dei testi latini in particolare? Concentrarsi sempre sugli stessi autori, gli stessi testi, leggere sempre e soltanto le poesie su Lesbia, la prima ecloga o il Carpe diem, non rischia di svilire gli autori antichi, di fornirne un’immagine parziale e dunque  errata e, nel nome di un canone da rispettare, di uccidere la libertà e l’ampiezza del repertorio? Sì, certo, a non leggere queste cose si rischia. Perché se non lo si fa, lo studente rischia che alla maturità gli venga chiesto qualcosa che non sa, rischia di non saper rispondere a domande banali, rischia di non conoscere gli autori canonici, appunto, e i passi ritenuti canonici. Ritenuti da chi? Su questo, sollecito risposte.

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

     

     

    Luigi Maria Cherubini – Ouverture da Ali-Baba, New York 1949, NBC Orchestra, dir. Arturo Toscanini (registrazione radiofonica di dominio pubblico)

     

     

  • Mitomania e mitomani I

    Mitomania e mitomani I

     

    Il concetto di mitomania nasce ufficialmente nel 1905, quando lo psicologo francese Ernest Dupré (1862-1921) pubblica a Parigi un saggio intitolato La Mythomanie. Étude psychologyque et medico-legale du mensonge et de la fabulation morbides. Tra gli studiosi più attivi sul tema vi è stato lo psichiatra e filosofo tedesco Karl Jaspers, che tra il 1910 e il 1919 ha dedicato vari studi al problema. Oggi il termine è un po’ in disuso, almeno in Italia, dove si preferisce parlare di “sindromi”, e dunque si usa di norma l’espressione “sindrome di Münchhausen”, dal nome del celebre personaggio di Rudolf Erich Raspe, noto per le sue spiritose e immaginifiche invenzioni. Nel titolo di Dupré sottolinerei in particolare i termini che fanno allusione alla menzogna e alla fabulazione morbosa, come quelli che meglio esprimono che cosa lo studioso intendeva per mitomania, da lui considerata una forma di isteria (in seguito si è preferito collegarla al narcisismo psicotico). Mitomane è, per Dupré, una persona che mente senza rendersene bene conto, per una forma di malattia – in effetti, il disturbo si inquadra nella classe dei cosiddetti “disturbi fittizi”; e che mente in continuazione, ma non con continuità, altrimenti si ricadrebbe nei casi di schizofrenia e bipolarismo. Il mitomane sa che le sue sono menzogne, ma non lo ammette; e quando è costretto a farlo, perché viene scoperto o teme di esserlo, semplicemente continua a negare la realtà e aggiunge dettagli al suo racconto, oppure tende a cambiare tema, passando ad altre descrizioni inverosimili (la psichiatria parla di “pseudologia fantastica”). In qualche caso, invece, il brusco smascheramento può portare a reazioni di estrema angoscia, accompagnate da intensa aggressività verso chi lo sta mettendo alle strette o verso le vittime inconsapevoli delle sue bugie. Perché mentire è per lui la condizione necessaria, così da evitare il confronto con una realtà insopportabile; non importa invece più di tanto la singola, specifica menzogna, come avviene, viceversa, allo schizofrenico. Dupré distingueva quattro tipi di mitomania:

    • Mitomania vanitosa, ossia il voler essere più belli di quello che si è realmente, per sentirsi migliori e provocare negli altri l’ammirazione; 
    • Mitomania errante, ossia il voler sfuggire sempre davanti alla realtà delle cose;
    • Mitomania maligna, che non è volutamente dannosa verso gli altri, ma è un tentativo di compensare un complesso di inferiorità (spesso la malignità viene usata contro qualcuno che si crede migliore di noi);
    • Mitomania perversa, si tratta di mentire sia a scopo pratico che economico per approfittarsi degli altri.

    Da tutte queste tipologie è possibile perfezionare ulteriormente la nostra definizione di mitomane: è tale chi sente il bisogno sistematico di distorcere la verità, elaborando scenari fittizi ai quali si abitua a credere, e ai quali cerca di convincere gli altri a credere, in una forma patologica e priva di finalità pratiche concrete, che a un certo punto lo porta, come per un cortocircuito interno, a non riconoscere più i confini del vero e del falso, e a presentare con tratti distorti la realtà che lo circonda. Sul tema della mitomania offro due articoli relativamente recenti della bibliografia medica. Come è tipico di questa letteratura (Dupré incluso), più che definizioni vi si offrono casistiche, dalle quali spetta al lettore trarre, semmai, delle affermazioni generali. Il primo è opera dello psicologo Charles C. Dike, apparso sulla rivista americana “Psychiatric Times” del 2008; il secondo è un capitolo della tesi di dottorato di Mario Touzin, L’art de la bifurcation: dichotomie, mythomanie et uchronie dans l’oeuvre d’Emmanuel Carrère, Université du Québec à Montréal, 2007. Entrambi i testi sono disponibili in open access in rete.

    dike – pathological lying 2008

    touzin – l’art de la bifurcation

    Dalla mitomania consegue l’abitudine a raccontare bugie più o meno elaborate, allo scopo di suscitare ammirazione per la propria persona e proteggersi dal giudizio degli altri, nella propria autostima e nella stima altrui. Nel caso della letteratura (che, se vogliamo, è tutta mitomane), diremo che mitomania è l’inattendibilità totale della narrazione, ma conscia di essere tale, da parte di un personaggio che mente senza un fine immediato e concreto; mente in continuazione; mente spudoratamente; mente perdendo il senso della realtà delle cose; ma se richiamato alla verità, ammette la propria menzogna (perché la sa per tale), salvo rispondere al richiamo alla verità con una nuova menzogna, di tipo diverso, però non di grado diverso. Il mitomane infatti è un bugiardo cronico e compulsivo, che modifica e stravolge i racconti creando una realtà alla quale finisce per credere e per voler far credere gli altri. Mentire diviene per lui un fatto patologico e le cause possono essere diverse: il desiderio di apparire diverso da come è in realtà (sarebbe una forma difensiva contro la società percepita come ostile; ma può anche essere una forma narcisistica); il desiderio di suscitare compassione e simpatia nell’animo delle altre persone; il desiderio di ricevere attenzioni e stima da parte degli altri. Cesare mente, sempre e in ogni pagina: ma non è un mitomane, è un politico. Ovidio negli Amores mente più volte, a Corinna come al lettore, e nell’Ars propugna la menzogna come tecnica di conquista. Ma non è un mitomane: è un seduttore. Un vero mitomane non deve avere interessi precisi; e deve essere convinto, almeno per tutto il tempo della finzione, della verità di quanto sta dicendo, pur sapendo nel fondo della propria coscienza che le cose non sono andate davvero così.

    Come si riconosce un mitomane? Evidentemente, appellandosi a una Verità indiscussa. Per questo occorrono, però, tre condizioni inevitabili: 1) credere in una Verità indiscussa; 2) una persona che parli di sé, in prima persona, mentendo; 3) una seconda persona che lo sbugiardi, richiamandosi a quella Verità indiscussa di cui sopra. Ora, è chiaro che per chiamare mitomane la prima persona dobbiamo essere sicuri che la seconda persona sia sincera, e che quello che ci dice essere la verità sia davvero la verità (e che esista, quindi, una Verità, come dicevo al primo punto). Questa seconda “persona”, allora, deve essere una voce esterna ed onnisciente di provata fiducia ed affidabilità, tale da assicurarci che quanto viene detto dal personaggio che parla in prima persona è fasullo. Ora, nel mondo antico (epico e lirico) si dà, nella sostanza, una sola possibilità: e cioè che un personaggio parlante di sé venga a trovarsi a contrasto con un narratore che lo sbugiarda. Il narratore è, specie – ma non solo – nell’epica, evidentemente colui che porta con sé la Verità, o al massimo che è alla ricerca di una Verità che gli venga rivelata da una voce più autorevole della sua (le Muse, di solito); il personaggio, invece, può anche essere una persona che, per effetto di un trauma, abbia perso il senso della realtà, ed esprima questa sua condizione nelle proprie parole e in quanto dice di sé. Da questo contrasto nasce ogni possibile indicazione di mitomania.

    (segue)

     

    © Massimo Gioseffi, 2018

    Ringrazio per il loro diverso aiuto, ma per me ugualmente prezioso, il Dr. Gianfranco Pittini e Stefano Bellocchi

  • Bernstein e Platone

    Bernstein e Platone

    Il 25 agosto 1918 nasceva a Lawrence, Massachussets, Leonard Bernstein. L’anniversario in Italia è stato abbastanza ignorato (niente paura: è successo anche a Debussy e Gounod, per restare nel campo della musica operistica di Otto/Novecento), non così all’estero. Difficile parlare di Bernstein: grande pianista, grandissimo direttore d’orchestra, importante divulgatore musicale, compositore sottovalutato dalla critica, ma amatissimo dal pubblico. Qui ricordo solo alcuni episodi molto personali: ragazzo, negli anni Settanta ascoltai le sinfonie di Beethoven nella loro continuità e completezza grazie alla serie di filmati realizzati da Bernstein con i Wiener Philarmoniker, il regista Humphrey Burton e l’attore Maximilan Schell, che recitava i testi introduttivi – uno spettacolo della Unitel poi commercializzato su DVD. In precedenza Bernstein – all’epoca, direttore principale della New York Philarmonic Orchestra – aveva realizzato già nei primi anni Sessanta una serie di concerti e di filmati televisivi, anch’essi poi fortunatamente raccolti in DVD, nei quali presentava e dirigeva numerosi capolavori del repertorio sinfonico, spiegandone la struttura, il linguaggio, il significato, con parole semplici ed esemplificazioni dal vivo. Una buona parte dei concerti era riservata a un pubblico di ragazzi, cui Bernstein sapeva parlare con semplicità, ma senza semplificazioni. Alla Scala aveva firmato due spettacoli entrati nella leggenda, Medea di Cherubini (1953, regia di Margherita Wallmann) e Sonnambula di Bellini (1955, regia di Luchino Visconti), entrambi con Maria Callas come protagonista: ma, ahimè, prima che io nascessi… (per fortuna di entrambi esiste la registrazione sonora). Nel periodo 1978-1990, l’anno della sua morte, a Milano venne poco: nel 1978, sull’onda del successo viennese del Fidelio da lui diretto a inizio anni Settanta e ripreso e inciso in quell’anno, con la regia di Otto Schenk, la dirigenza scaligera di allora (Paolo Grassi e Claudio Abbado) riuscì a organizzare una mini-tournée di tre serate alla Scala. Tornò per qualche concerto, spesso con orchestre “sue”, tedesche o americane, ma in un caso anche con la Filarmonica scaligera. Altri suoi spettacoli in giro per il mondo sono rimasti leggendari. Fra tutti, il concerto tenuto nel Natale del 1989 a Berlino, a Muro appena abbattuto, con dei complessi provenienti da entrambe le Germanie riunite e quattro solisti di nazionalità diversa, a rappresentare gli Stati che più avevano sofferto durante l’ultima guerra. Forse c’era un po’ di show-business nell’operazione; c’era certamente qualche elemento discutibile (nell’ode di Schiller che chiude la sinfonia, Bernstein faceva cantare a coro e solisti “Freiheit!”, “Libertà”, invece di “Freude!”, “Gioia”). Ma per chi aveva allora vent’anni o poco più, quello è rimasto nella memoria come uno dei momenti magici della propria generazione.

    Qui non voglio però rievocare l’interprete, quanto il compositore. Bernstein musicista, con Steven Sondheim paroliere e Jerome Robbins coreografo, rivoluzionò il musical, con West Side Story del 1957 (come ricordava argutamente lui: “Pensa, un musical in cui il sipario a fine atto cala sempre su un morto” [West Side Story è una rivisitazione della vicenda di Romeo e Giulietta, ambientata nella New York delle bande etniche: il primo atto si chiude sulla morte di Bernardo/Tybalt, il secondo su quella di Tony/Romeo; Giulietta sopravvive e lancia il “J’accuse” finale). West Side Story e il di poco precedente Candide (1956, libretto originale di Lillian Hellman da Voltaire; il musical però ha avuto continui rifacimenti vivente l’autore) sono stati oramai adottati anche nei circuiti “colti”: alla Scala si sono visti entrambi, West Side Story a inizio anno è andata in scena anche al Teatro Regio di Torino, Candide qualche anno fa all’Opera di Roma. Non ha scritto solo musical, però, Bernstein: un’opera o forse due (Trouble in Tahiti, atto unico del 1952, poi inglobata in A Quiet Place, 1983, come spettacolo dentro lo spettacolo); tre sinfonie; diversi concerti e suite; una raccolta di Salmi in musica (Chichester Psalms, 1965); varie Messe e cantate (una, divertentissima, derivata da un flop a Broadway del 1976, intitolata originariamente 1600 Pennsylvania Avenue e poi, dopo la morte di Bernstein, circolata anche come A White House Cantata: la Casa Bianca e i suoi primi occupanti ne sono i protagonisti, fino all’impeachment di Andrew Johnson, 1869, anticipo diversissimo di quello, all’epoca appena avvenuto, di Richard Nixon, 1974); musica da camera o per strumenti solistici; musica vocale (fra cui le quattro divertenti ricette di La Bonne Cuisine, 1948); musica da film (On the Waterfront, “Fronte del porto”, 1954, di Elia Kazan, nominato al Premio Oscar del 1955).

    Fra le varie composizioni di Bernstein figura Serenade, eseguita per la prima volta alla Fenice di Venezia, diretta dall’autore, violino solista Isaac Stern (1954). Come indica il titolo è una composizione abbastanza fluida, anche se di fatto è un concerto per violino che non mantiene la canonica divisione in tre movimenti. Infatti, è pensato come una messa in musica del Simposio di Platone. Ogni movimento rappresenta perciò uno dei momenti chiave del dialogo, i cui discorsi, com’è noto, celebrano tutti l’amore. Lo stile è assolutamente tonale e si avvertono echi di altre composizioni dell’autore, incluso qualche anticipo di West Side Story. Bernstein era un uomo colto, brillante conversatore, autore di libri e trattati (nell’autunno del 1973 fu anche protagonista delle “Norton Lectures” a Harvard, quelle che da Calvino in poi siamo abituati a chiamare “Lezioni Americane”), ma le sue matrici culturali erano l’America e l’Ebraismo, non il Greco o il Latino. I movimenti sono in tutto cinque: il primo, lento e poi allegro, è dedicato agli interventi di Fedro e Pausania; il secondo, allegretto, segue lo scoppiettante, ma in fondo anche malinconico, discorso di Aristofane; il terzo, di brevissima durata, un presto, riproduce le parole di Erissimaco, il medico; il quarto e più struggente, un adagio, è dedicato ad Agatone; l’ultimo, molto tenuto e allegro molto vivace, introduce prima Socrate e poi Alcibiade, che interviene a interrompere il banchetto con una banda di amici ubriachi, che si esprimono con qualche tocco jazz. Il tono è essenzialmente lirico, come si conviene al soggetto (l’Amore) e alla situazione descritta (i banchettanti di Platone sono amici, e per una volta tanto nel dialogo non si danno gli scontri spesso presenti in altre opere socratiche). Ogni movimento riprende, sviluppa e poi modifica una parte della musica del movimento precedente, esattamente come in Platone ogni personaggio che parla si ricollega alle parole di chi l’ha preceduto. In questo modo, la composizione avanza verso il suo finale, proprio come il testo di Platone avanza verso la verità rivelata da Socrate. Gli interpreti sono Gidon Kremer e Bernstein. La registrazione risale al 1986.

    I – Fedro e Pausania

     

    II – Aristofane

     

    III – Erissimaco

     

    IV – Agatone

     

    V – Socrate e Alcibiade

     

    Un’ulteriore descrizione della composizione (che include anche le parole con le quali Bernstein ha illustrato ogni movimento) si può trovare, fino al 25 agosto del 2019, nel sito che il “Leonard Bernstein Office” ha dedicato al centenario del compositore e alle sue musiche. Questo l’indirizzo della pagina che ci riguarda:

    https://leonardbernstein.com/works/view/23/serenade-after-platos-symposium

     

    © Massimo Gioseffi, 2018