Riceviamo e volentieri pubblichiamo, sperando di dare così vita a un dibattito tanto acceso quanto costruttivo
Sto seguendo un corso di aggiornamento, uno dei tanti proposti ai professori liceali. Questo, incentrato sull’insegnamento per competenze, è anche interessante ed è tenuto da formatrici che, per una volta, la scuola la conoscono, e bene, dal di dentro. Tutto a posto, allora? Per nulla. La competenza è materia complessa, difficilmente definibile, difficilmente valutabile, ancor più difficilmente riducibile a “numero”. E ormai, nelle scuole secondarie di secondo grado, la “Bibbia”, il testo-sacro cui rifarsi sempre e in ogni caso, sono le “Competenze per la vita” individuate nella famosa “Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio” del 18 dicembre 2006 (ne ricordo qualcuna: comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; imparare a imparare; consapevolezza ed espressione culturale…). Diciamo “bene”, anzi dovremmo dirlo: da latinista sono fermamente convinta che poche materie abbiano una valenza formativa più alta del latino; e che pochi esercizi siano più formativi della versione di latino. Ma, è ovvio, parlo pro domo mea. Tuttavia, mi sembra che ci sia una grossa discrasia, difficilmente conciliabile, di cui fanno le spese gli studenti (tutti gli studenti: quelli seri e quelli più distratti e fragili), tra l’astrazione onnicompresiva degli obiettivi e la necessità, molto pratica e cogente, con tempistiche spesso serrate, di valutare e assegnare un voto che riassuma, nell’obbligata sinteticità di un numero, tutta la complicata attività e i molteplici aspetti che entrano in gioco nel giudicare, nel nostro caso, una versione. Questa riflessione vuole essere dedicata, quindi, a tutti i colleghi che “provando e riprovando” si sono cimentati e si cimenteranno, con fatica e onestà intellettuale, al compito forse più gravoso per un docente: valutare.
Quando devo valutare una versione e poi assegnare un voto, devo dare allo studente la percezione netta e precisa del fatto che il suo elaborato sia stato esaminato e analizzato in tutte le componenti, e che io abbia ben chiaro, e possa chiarire a lui, in che cosa si distingue dagli altri e perché. Certo, è una gran fatica, che non sempre si svolge secondo la medesima ratio: non è raro trovare colleghi, anche colti e preparatissimi, che studiano, si tengono aggiornati, ma che, quando si tratta di valutare uno scritto di latino, all’improvviso subiscono una brusca trasformazione, un’inquietante regressione. Allora Mr. Hyde subentra al Dr. Jekyll, mostruoso l’uno, pieno di buone intenzioni l’altro: ecco ad esempio che alcuni correggono “contando le parole” e assegnando a ogni parola un valore. Ma quindi tutti i grandi discorsi che si fanno, o si dovrebbero fare, sull’analisi sintagmatica, sulle unità di senso, sul gruppo del nome e il gruppo del verbo ecc. vengono letteralmente buttati a mare proprio quando si dovrebbero invece rafforzare nella valutazione di un esercizio di traduzione da una lingua classica? Di fatto, una contraddizione grave! Il messaggio che passa è infatti scorretto e deleterio per il latino, perché equivale a dire: le acquisizioni della linguistica rendono più interessante, più articolato, più approfondito lo studio della lingua italiana e delle altre lingue moderne, e ce ne chiariscono i meccanismi; ma….tutto questo non vale per il latino, che viene ancora micragnosamente valutato “parola per parola”. Una discrasia che sfiora la dissennatezza.
In altri casi ho visto che per valutare le versioni “si scala” di un punto (o di mezzo punto, o un quarto di punto) per ogni errore, a partire dal 10, con griglie minuziosissime e costruite magari con grande acribia. Tuttavia, serpeggia sempre un interrogativo di fondo: non si dovrebbe “costruire” una valutazione in positivo, valorizzando il lavoro fatto e gli elementi presenti nel concreto di un elaborato, piuttosto che cercare di stabilire quanto questo si discosti da una presunta perfezione iperurania?
Ecco allora che nel tempo ho raccolto e confrontato tra loro oltre duecento griglie di valutazione dello scritto di latino (versione), di ogni tipo e provenienza, anche per cercare di capire quale possa essere una corretta “pesatura” dell’errore, cioè una corretta individuazione di ogni errore, nelle sue diverse tipologie e nella sua incidenza sulla comprensione globale e sulla resa del testo latino nella lingua di arrivo. In alcuni casi, l’equivalenza un errore = un voto (o mezzo voto, o un quarto di voto), da sottrarre a 10, rischia di risultare non solo penalizzante, ma anche meccanica. La questione non è affatto “essere buoni” o di manica larga, magari per incrementare la popolarità del latino che, nell’ambito di un’offerta formativa sempre più diversificata, sembra aver perso il suo status di materia caratterizzante il corso di studi liceale. Anche perché, pur adottando una griglia “in positivo”, che cioè, come detto sopra, costruisca il voto valutando e sommando quanto di buono si riscontra in una versione, si può spesso ottenere comunque un voto molto basso…
E tuttavia, quella che potremmo definire una pesatura calibrata delle diverse tipologie di errore, morfosintattico e non solo, e la loro diversa incidenza sulla prova, è pur sempre necessaria là dove la verifica sia costituita dall’esercizio di traduzione, ossia dalla versione. Essa è determinante sia per le griglie in positivo, che devono sommare il numero di pericoli schivati, sia per le griglie “in negativo”: in altre parole, si valutino pure gli errori come si è sempre fatto, ma li si valutino attribuendo ad essi, suddivisi per tipologia, un diverso peso a seconda della loro incidenza sulla correttezza della traduzione. Poi, a partire dai “punti-errore”, si determinerà per sottrazione dal punteggio massimo ottenibile il voto da assegnare all’elaborato. Indispensabile per utilizzare tali griglie è allora avere una buona guida alla “Tipologia di errore”, che assegni a ciascuno di essi un valore diverso, a seconda che si tratti di un errore morfologico, sintattico o lessicale grave o isolato, che può pregiudicare o non pregiudicare la comprensione della proposizione. E in una seria griglia di valutazione va naturalmente contemplato anche l’errore ortografico italiano: esso non dovrebbe, in linea teorica, nemmeno più presentarsi nel liceo e in generale nella secondaria di secondo grado, ma la prassi e l’esperienza della didattica liceale e, talora, purtroppo anche di quella universitaria, hanno dimostrato e dimostrano in continuazione che le cose non stanno esattamente così. Una buona classificazione potrebbe allora essere elaborata, a mio parere, secondo la seguente gerarchia, realizzata nell’a.a. 2014/2015 presso il Dipartimento di Latino e Greco del Liceo “Giuseppe Peano” di Cuneo (i cui docenti me l’hanno fornita, cosa di cui li ringrazio):
- errore molto grave: errore morfologico, sintattico o lessicale che, combinato con altro o altri errori di diversa natura, pregiudica la comprensione del testo latino;
- errore grave: errore morfologico, sintattico o lessicale che non rispetta la forma del testo latino o greco, ma che non pregiudica in modo netto la comprensione del testo latino.
- errore di media gravità: errore morfologico, sintattico o lessicale che costituisce sì una mancanza di carattere “tecnico” nell’esercizio della traduzione, ma non pregiudica il sostanziale rispetto del senso del testo latino.
- errore di scarsa gravità: errore morfologico, sintattico o lessicale che costituisce una semplice imperfezione nella resa italiana del testo latino.
Ma forse è meglio una griglia “in positivo”, che scorpori cioè i diversi ambiti da valutare in una versione, individuando dei descrittori, articolati per più livelli, a ciascuno dei quali assegnare un punteggio, la cui somma vada a costituire il voto finale. Solitamente griglie di questo tipo sono articolate in tre ambiti, con denominazioni variabili, il primo dei quali riguarda le competenze morfosintattiche, il secondo la correttezza lessicale, il terzo l’organicità e la fluidità della resa italiana. Ecco ad esempio la griglia costruita secondo questa logica, ma articolata secondo quattro descrittori, dal Collegio Vescovile Sant’Alessandro di Bergamo per il biennio ginnasiale dell’a. s. 2012-2013:
- comprensione del testo punti 2,5
- competenze morfologiche punti 2,5
- competenze sintattiche punti 3,0
- interpretazione e resa in italiano punti 2,0
La distinzione fra le competenze morfologiche e quelle sintattiche è motivata, con tutta probabilità, dalla consapevolezza che la difficoltà stessa insita nell’esercizio della traduzione potrebbe avere come esito, nel caso di studenti particolarmente fragili, un punteggio insufficiente anche nel caso di una sufficiente capacità di riconoscere i singoli elementi morfologici; invece le competenze sintattiche, maggiormente valorizzate in quanto più complesse, a quel livello di studio potrebbero essere non ancora adeguatamente sviluppate. Molto significativa è la scelta di parlare di “competenza” e non solo di “conoscenza”; interessante è poi la scelta di distinguere il descrittore relativo alla “Comprensione del testo” da quello relativo alla “Interpretazione e resa in italiano”. In allegato fornisco la griglia, e poi anche la sua revisione, operata a partire dall’a.s. 2017/2018, che si articola addirittura su cinque descrittori, introducendo quello denominato “Completezza del testo”. Di entrambi i testi vado debitrice al prof. Domenico Gualandris, Dirigente Scolastico del Liceo Sant’Alessandro.
Griglia Collegio Arcivescovile Sant’Alessandro 2012/13
Griglia Collegio Arcivescovile Sant’Alessandro 2017/18
Anch’io mi sono cimentata nel tentativo di strutturare una griglia di valutazione che può essere utilizzata sia per una versione liceale in corso d’anno, sia per la seconda prova dell’Esame di Stato, in quindicesimi, ma che si presta anche a una valutazione in trentesimi: naturalmente tale griglia, che può essere facilmente realizzata con uno strumento informatico che agevoli il calcolo del punteggio e il voto finale, deve essere però seguita da un’accurata classificazione dell’errore, attribuendo a ciascuno di essi un valore, come ho detto sopra, conteggiato in “punti-errore”. Una delle obiezioni che potrebbero essere mosse alla mia griglia è che un simile strumento rischia di essere fin troppo minuzioso: essa risulta infatti particolarmente utile nel triennio, quando le versioni diventano più articolate e complesse. Tale griglia è poi solo una proposta, ma presenta a mio avviso un vantaggio: fissa con chiarezza la soglia della sufficienza e definisce il numero di errori di morfosintassi e lessicali che consentono di ottenere una valutazione comunque positiva. Inoltre, ecco un’idea che, ne sono consapevole, solleverà una bella discussione: al di là del “punteggio” totalizzabile con la griglia di valutazione, che, lo ripeto, non è il voto finale, è auspicabile che i voti corrispondano a numeri interi. Il mezzo voto, e ancora più i quarti di voto, o voti come dal cinque al sei, sette meno meno, otto più più ecc. servono, oltre che a complicare una prassi già tanto complessa come la valutazione, in primis a rassicurare il docente nei rapporti con lo studente. In fondo, però, nello scrutinio i voti sono interi; nei sistemi di valutazione basati su lettere, si utilizzano A, B, C, D, e così via (anche se ormai qualcuno inizia a usare A+, B- e così via). Ma, se il processo di valutazione è chiaro e trasparente, nessuno studente contesterà mai un voto intero, che è la cosa più semplice e chiara!
Vorrei ancora ricordare, prima di concludere, una cosa che non è oziosa: spesso la valutazione e la costruzione di strumenti valutativi rappresentano un ambito su cui non ci si sofferma molto nella formazione dei docenti. Capita così che il professore di fresca nomina, o che si trasferisca da altro ordine di scuole, o da liceo a liceo, necessiti di strumenti di cui avvalersi con sicurezza, per districarsi fra i molti dubbi e le incertezze che la pratica didattica propone ogni giorno; e sarà quindi utile, almeno a livello teorico, poter fare riferimento a uno strumento valutativo che stabilisca dei parametri definiti e, per quanto possibile, numericamente stabiliti, pur nella consapevolezza che su di esso sia possibile intervenire con flessibilità a seconda delle esigenze che si manifesteranno di volta in volta.
© Silvia Stucchi, 2017
Non avendo esperienza nell’ambito dell’insegnamento, posso dare un contributo solo offrendo il punto di vista di uno studente.
Ho avuto a che fare con due tipi di valutazione al liceo, una al biennio e una al triennio. La prima era molto chiara e ne ricordo ancora oggi il meccanismo: -0.25 per ogni errore lessicale; -0.5 per ogni errore “di media gravità”; -0.75 per la mancata comprensione di una parte del discorso. La seconda era molto più articolata e complessa e, al contrario dell’altra, ancora oggi non sono riuscito ad interpretarla: sapevo solo che ad un determinato numero di errori corrispondeva un voto, ma le diverse tipologie di errore non erano specificate e avevano tutte lo stesso peso. Il risultato era l’incapacità di comprendere la gravità e la motivazione dei singoli errori. Aggiungo che la valutazione del biennio era resa ancora più efficace e intuitiva dalle note che il professore scriveva per ogni errore, di cui spiegava la natura e offriva una possibile correzione.
Davanti a questi metodi, come studente, mi sono posto molte volte due domande: il professore ha ben chiaro come usare la sua “griglia”? A me è chiaro il suo funzionamento? Per entrambe, la risposta è stata “Sì” nel caso del biennio e “No” in quello del triennio. A me sembra che abbia fatto, e faccia, la differenza l’atteggiamento del professore e la sua capacità comunicativa con i suoi studenti, perché da un lato ho trovato uno strumento con cui il professore si aiutava per motivare gli errori, dall’altro un mezzo a cui il professore demandava il compito di assegnare un voto piuttosto che affrontare in prima persona l’incombenza di dare un chiarimento allo studente.
Trovo che sia giusto cercare di uniformare il metodo di valutazione, ma altrettanto corretto che questo sia ben chiaro sia ai professori sia agli studenti. Questo tipo di griglia non deve essere come una scatola troppo rigida entro cui inserire le valutazioni, perché si rischia di arrivare a situazioni che ho sempre trovato discutibili. Mi riferisco a voti come il 5/6 citati sopra: ricordo come lo stesso professore di latino del triennio sia stato rigido in un tema di italiano e non ho mai dimenticato le sue parole alla consegna del compito: “Questo è un 7/8. [Dopo averlo sfogliato nuovamente] Non posso dare di più, ma neanche di meno.”. Ancora oggi mi chiedo quali fossero le costrizioni che gli impedissero di arrivare all’8.
Riguardo ai voti pieni, ricordo che ne faceva uso la professoressa di matematica e penso che sia un ottimo strumento, anche se agli occhi dello studente appare difficile comprendere su quali basi un 7.4 o un 7.8 diventino ugualmente un 7 durante lo scrutinio finale: pur usando voti interi, per fare la media, tanto cara a molti studenti e professori, non si può fuggire dalla morsa dei mezzi voti. Ma forse qui bisognerebbe aprire una discussione sulla grande dicotomia media-crescita dello studente.
Grazie davvero per le sue osservazioni, molto articolate e chiare, che sottolineano, dal punto di vista complementare e irrinunciabile di chi sta dall’altra parte della cattedra, uno dei nodi della mia riflessione: al di là della griglia, è importante che sia chiaro allo studente che cosa il professore ritenga importante, che cosa venga valutato e quale motivazione stia dietro il voto, o meglio, quale motivazione abbia indotto un docente a considerare un elaborato sufficiente e l’altro no, uno discreto e uno ottimo. Per questo penso che alla griglia, che immagino più complessa e articolata del triennio – necessaria quando si traducono testi letterari che hanno un livello di complessità anche stilistica superiore ai testi tradotti nel biennio – serva affiancare o far seguire sempre una catalogazione precisa dell’errore, quella che nella mia riflessione chiamo “PESATURA DELL’ERRORE”. Altrimenti non si capirebbe che cosa intendere per “errore grave”, “errore di media gravità” e così via. Sull’ultimo punto, cito testualmente perchè è davvero una perfetta fotografia del sentire di tanti ragazzi “agli occhi dello studente appare difficile comprendere su quali basi un 7, 4 o un 7, 8 diventino ugualmente un 7 allo scrutinio” in quanto manca spesso un passaggio fondamentale della comunicazione fra docente e discente. Intendo cioè dire che “valutare” non è “misurare”: sono due azioni distinte anche se complementari. Mi spiego: “misurare” il livello della prestazione, catalogare gli errori, secondo la tipologia e la gravità, costruire una griglia che determini un punteggio è una cosa; ma la valutazione non coincide con questo atto. La valutazione è un processo che tiene conto di tutto il percorso (e altra cosa ancora è la certificazione); e il “punteggio” che risulta dall’applicazione di una griglia non coincide, o non coincide necessariamente con il voto. Se però questo passaggio non viene chiarito alla classe, allo studente, magari nei primi mesi o settimane della scuola secondaria di II grado – e non viene chiarito per tanti motivi, perchè le classi sono affollate, perchè il tempo è poco e c’è tanto da fare, etc. etc. – allora sì che sarà sempre più chiara e più perspicua la griglia che lei citava riferita al biennio. E questa situazione si verifica anche perchè, immagino, si arriva al biennio liceale da una scuola secondaria di I grado che, spesso, utilizza, da quanto vedo nell’esperienza dei miei colleghi, scale di misurazione in centesimi per determinare i punteggi, che tendono poi a sostituirsi ai voti veri e propri (per cui si sentono frasi come: “In questo compito di grammatica ho “preso” 98/100, in quello di matematica 75/100 e così via”). Pertanto la ringrazio molto del suo intervento, perchè conferma che l’elemento sempre essenziale in una classe, nei rapporti fra docenti e studenti è sempre la comunicazione, l’estrema chiarezza prima di tutto nel chiarire la ratio con cui è costruito lo strumento di valutazione. Grazie davvero delle sue preziose osservazioni!
Visto che proposte alternative non ne sono venute, e anche le testimonianze si limitano a quella (pur importante) di Niccolò, provo a rilanciare la discussione, ricordando le scelte compiute in università. Chiaro che si tratta di un angolo di visuale limitato e limitante, con alcune prerogative non tutte esportabili alle scuole superiori.
A Milano ormai da diversi anni la traduzione è compito riservato ai soli studenti magistrali che meditino di divenire un giorno, se ciò sarà possibile, docenti a loro volta di latino. Non solo: la traduzione è parte dell’esame, preliminare necessario per l’accesso all’orale, ma non è un esame a sé stante. Questo significa che, per esempio, non ha voto, ma solo un’approvazione finale (un tratto difficilmente esportabile nei licei, per l’appunto). Mossa vincente – o almeno spero – è stata, negli ultimi anni, quella di non applicare una griglia precisa, che poi rischiava o di essere troppo rigida, o di dovere ammettere variazioni caso per caso, versione per versione, finendo quindi sostanzialmente contraddetta. Alla versione “secca”, chiamiamola così, si sono invece accompagnati alcuni esercizi di controllo della comprensione del testo (non a livello grammaticale: non si tratta cioè di sapere se un tale costrutto sia o no un ablativo assoluto, sia o no una completiva ecc.), per verificare che i punti di snodo della “vicenda” narrata (o dell’argomentazione trattata) fossero stati davvero capiti. I ragazzi hanno a volte apprezzato, a volte no. Diciamo che vantaggio di una simile prova è poter distinguere, al momento della correzione, il livello di comprensione del testo e quello di una sua resa in italiano, facendo valere, dove occorre, il primo a scapito del secondo (ma premiando il secondo quando non vada contro il primo). In generale, penserei che la traduzione accompagnata da esercizi non grammaticali (almeno al livello da triennio in su) e non genericamente culturali (esulanti cioè dal testo proposto, che diverrebbe altrimenti un mero pretesto) possa essere un salutare correttivo alle griglie poco soddisfacenti o di difficile presentazione agli studenti. Questa, almeno, la mia esperienza personale…
Sicuramente penso anch’io che sarebbe un bene diversificare, non solo all’università, ma anche al liceo, le tipologie di prova di verifica. La sola versione “secca” (e lo dico da insegnante convintissima del valore formativo dell’esercizio) rischia a volte di essere troppo ardua; anche io quindi a volte la alterno con esercizi che prevedono domande relative alla comprensione del testo, ai suoi “snodi” essenziali, e, perché no, anche del lessico: esercizi così graduati possono fare molto bene, specialmente al ginnasio, o in licei diversi dal classico.
Nella mia esperienza, poi, è proprio il lessico, e non tanto la grammatica o la morfosintassi, uno dei punti di maggiore difficoltà per gli studenti (e che succeda a studenti italiani, la dice lunga sulla sempre minore competenza dei quattordici-sedicenni nella lingua materna e sullo stato di salute dell’italiano: un ginnasiale del 1977 conosceva in media 1600 parole, oggi, è stato calcolato, circa 600…). In proposito sul blog di macaronea.it ho trovato una simpatica proposta, certo applicabile solo al biennio, per incentivare una maggiore attenzione al lessico…
Ho letto con molto interesse le riflessioni di Silvia Stucchi, che giustamente si preoccupa di far comprendere agli studenti i propri errori grammaticali, lessicali, sintattici; di concepire una o più griglie che abbiano una coerenza nel valutare; della necessità di diversificare gli esercizi e non proporre solo la versione secca. Problemi tutti che ogni insegnante serio e motivato si pone quotidianamente.
Io vorrei però allargare il discorso: è vero che a scuola la versione è prova di verifica delle competenze acquisite e così deve essere. Non sarebbe però utile far comprendere agli studenti che una traduzione è qualcosa di più del rendere in italiano un testo latino? A volte, non sarebbe utile discutere sul significato generale di una traduzione, sui tanti modi di tradurre (letterale o libera, come dicono gli studenti; text-oriented o target-oriented come dicono gli studiosi; traduzioni che non sono vere e proprie traduzioni, ma riscritture, etc. etc.); far presente che ci sono vari livelli linguistici in cui tradurre: noi traduciamo in fondo in una lingua che sta a metà tra quella della tradizione letteraria e quella che parliamo tutti i giorni, ma potremmo tradurre in dialetto, alla maniera di Leopardi, in modo simile alle istruzioni per l’uso…. Come tradurre puella? Fanciulla o ragazza? Un mio amico spagnolo, ricercatore a Salamanca, raccontava che, giunto in Italia per l’Erasmus e perciò con una buona conoscenza dell’italiano, rimase stupito perché non riusciva a capire la traduzione “leggiadra fanciulla” (parole per lui allora sconosciute) riferite alla Cinzia di Properzio- in effetti, chi parla così oggigiorno? Io credo che, grazie a una riflessione sul senso del tradurre – che anch’io ritengo esercizio altamente formativo – aiuterebbe gli studenti liceali e universitari a liberarsi dei vincoli talora troppo ristretti delle regole grammaticali, da un lessico troppo spesso ricavato dal dizionario, a ragionare sulla struttura tipica di ogni lingua (il latino e l’italiano nel nostro caso) e forse a vedere la traduzione non solo come una verifica delle competenze, ma anche come un esercizio in cui mettere la propria creatività e curiosità.
Non fatemi dare i numeri, please!
Ho letto con interesse i diversi interventi sul tema della valutazione, molto dibattuto non solo da pedagogisti, docenti, psicologi e genitori, ma anche da non addetti all’educazione delle giovani generazioni. In effetti, l’argomento attira l’attenzione dei molti e i molti non rinunciano a esprimere il proprio giudizio, nella costellazione dei tuttologi oggi così diffusa (ahimè!).
In quanto insegnante, mi sento di dire che un numero è un numero, semplice approssimazione di un parere che dovrebbe tener conto di molti elementi, misurabili e non misurabili oggettivamente. Nella complessità del reale, che oggi si vuol sempre più semplificare, riducendola a una sintesi superficiale e opaca, il numero ben descrive un intento pragmatico di velocizzazione e controllo, di cui la nostra epoca, per la sua debolezza, avverte un bisogno crescente (ahimè!).
Convengo pertanto sulla necessità di accompagnare i voti espressi in numeri, con cui devo pur misurarmi, con commenti di maggior respiro, finalizzati a una descrizione più puntuale di quanto si trova nelle verifiche dei miei alunni.
La valutazione dev’essere, io credo, un’occasione di confronto e di socializzazione. I ragazzi dovrebbero trarne una maggiore consapevolezza dei propri punti di forza e di debolezza. La valutazione dovrebbe essere vissuta dal docente come un’opportunità per guidare i ragazzi, per aiutarli a comprendere il percorso svolto e ancora in fieri. Incontrandosi nel momento della valutazione, l’insegnante e l’alunno possono dialogare, cioè mettere in comune le loro opinioni sul processo formativo, raggiungendo un accordo basato sul rispetto e la stima reciproca, in vista di traguardi di apprendimento e di crescita ulteriori.
Al Dr Jekyll e a Mr Hyde (non me ne vogliano!), nel momento della valutazione, preferisco senz’altro il Professor Henry Higgins, un burbero dal cuore tenero, come il latino. In questi tredici anni di insegnamento, presso le scuole secondarie di primo e di secondo grado, ho appurato personalmente quanto sia importante credere nei ragazzi, nelle loro capacità, nella loro volontà di crescere e migliorare. Non c’è studente che non si impegni di più, che non voglia raggiungere livelli di conoscenza superiori, se accompagnato con fiducia nella scoperta del mondo e di se stesso.
Grazie per l’attenzione e Buon Natale!
Carlotta Montagna